● Economia e innovazione
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È di pochi mesi fa la lettera inviata dai big four europei (Francia, Germania, Italia e Polonia) alla vice-presidentessa esecutiva della Commissione europea Margrethe Vestager, per chiedere nuovamente una riforma delle regole comunitarie in materia di concorrenza.
La lettera, non la prima del suo genere e certamente non l’ultima, vede il suo principale elemento di novità non tanto nella natura delle richieste avanzate dai quattro Stati Membri, quanto nella presenza dell’Italia e del suo Ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli come co-firmatario. Dopo il flirt con Beijing dell’anno scorso, sembra quindi che anche l’Italia abbia cambiato approccio, fatto gruppo con gli alleati franco-tedeschi e che intenda puntare tutto sulla creazione di campioni europei che possano rivaleggiare, in casa e fuori, proprio con gli stessi giganti cinesi (e nord-americani) ai quali per anni si è lasciato portare a termine acquisizioni mirate di imprese europee e aggressive strategie di penetrazione del mercato interno in maniera quasi indisturbata.
Non è dunque un caso che il primo e più urgente dei cinque punti chiave riportati nel documento e sui quali si chiede alla Commissione di intervenire repentinamente sia proprio la richiesta di una revisione delle regole sulle fusioni orizzontali (horizontal mergers). Si cita non solo la necessità di difendersi da attori extra-europei, che nella maggior parte dei casi ricevono costante supporto da parte di stati terzi (come la Cina), ma si chiede anche di riflettere sulla possibilità di includere nel processo di valutazione condotto dalla Commissione le possibili, seppur tuttora non ben definite, ‘efficienze’ di mercato risultanti dalla fusione stessa.
A parte un paio di cenni sul ruolo delle piattaforme digitali e la necessità di trovare soluzioni per gestire gli effetti negativi dell’eccessivo accumulo di dati nelle mani di pochi player di mercato, l’intero dibattito sulla politica industriale europea sembra quindi arenarsi ancora una volta sull’idea di regole più permissive per la fusione di grandi gruppi industriali e la conseguente creazione di giganti privati a cui affidare le sorti della rinascita economica dell’Europa.
Gli Stati europei si sono ormai da tempo convinti di poter battere i rivali cinesi e americani adottando i loro stessi modelli e mix di politiche economico-industriali, dimenticandosi al contempo di due elementi fondamentali. Da un lato sembrano non voler vedere quello a cui hanno portato anni di mancato enforcement delle regole di antitrust negli Stati Uniti. Quelle stesse regole che furono di ispirazione per la formazione dell’antitrust europeo e che servirono più di un secolo fa a proteggere l’economia (se non la democrazia) statunitense dai colossi industriali del tempo (Wu, 2018). Dall’altro sembrano aver dimenticato la natura stessa dell’Unione di cui fanno parte, fatta di governi democratici in piena crisi d’identità e spesso diffidenti l’uno dell’altro. Governi che poco o niente hanno in comune con regimi autoritari come la Cina, dove giganti privati si trovano a dialogare con un gigante governativo.
In un momento in cui il dibattito internazionale si concentra su come tassare i big tech statunitensi che, divenuti troppo grandi e borderless, sembrano sfuggire ad ogni tipo di controllo da parte delle autorità nazionali, la domanda che nessuno Stato Membro sembra porsi è se, qualora anche in Europa si riesca a creare colossi industriali in grado di competere e vincere sui mercati globali, i governi europei saranno in grado di gestire una tale concentrazione di potere economico (e non solo) in mani private, o se finiranno per esser loro stessi ‘dominati’ da quest’ultimo.
Con queste premesse non sorprende quindi come passi completamente in secondo piano il ruolo giocato dagli aiuti di Stato (e dalle regole comunitarie sugli aiuti di stato), relegate ad un piccolo paragrafo di sei righe nella lettera indirizzata al vertice dell’antitrust europeo.
Sebbene il dibattito sulla politica industriale europea sia infatti monopolizzato dalle richieste e pressioni degli Stati Membri volte ad allentare le regole sul ‘merger control’, le riforme in materia di aiuti di Stato avevano già provato più di cinque anni fa a rispondere a questa problematica. L’IPCEI Communication del 2014, parte della più ampia strategia di modernizzazione degli aiuti di Stato (State Aid Modernisation – SAM), risponde alla necessità di creare un'industria europea più integrata attraverso l'uso coordinato delle risorse di aiuti di Stato da parte di diversi Stati membri. Ancora più importante, offre alla Commissione europea e agli Stati membri uno strumento realmente condiviso per promuovere lo sviluppo di intere filiere di produzione in settori chiave dell'economia (in prospettiva europea), rafforzando il tessuto economico dell'UE e rendendo le sue imprese collettivamente meglio attrezzate per competere in un’economia fortemente globalizzata e tendente al gigantismo.
Per aiuto di Stato si intendono tutti i finanziamenti e sussidi imputabili direttamente ad uno Stato Membro, che vadano a beneficio di soggetti che svolgono attività di natura economica e che possono avere effetti distorsivi sulla concorrenza di mercato e sul commercio tra Stati Membri. Sebbene questo tipo di intervento pubblico sia formalmente proibito nell’Unione (Articolo 107, 108, 109 del TFUE), una serie di tipologie di supporto statale sono state dichiarate negli anni esenti da tale proibizione. La materia è altamente disciplinata e lo scrutinio delle misure più distorsive viene condotto dalla Commissione Europea tramite la Direzione Generale per la concorrenza (DG COMP), alla quale ogni misura di aiuto definita dagli Stati Membri deve esser prima notificata e poi approvata con parere vincolante, pena l’illegalità o incompatibilità della stessa.1
All’interno di queste regole, il framework IPCEI regola per la prima volta in maniera dettagliata e permette a diversi Stati Membri di finanziare congiuntamente, tra le altre, attività ad alto contenuto di innovazione tecnologica che vengono intraprese da aziende di ogni paese operanti lungo un’intera filiera di produzione di interesse strategico nazionale ed europeo. Ogni Stato organizza un proprio bando e ha ampia libertà di scelta circa il budget da allocare alla misura di aiuto. La misura opera come ‘ombrello’ all’interno del quale i vari progetti delle singole imprese vengono definiti e finanziati. Ogni Stato Membro funge quindi da intermediario tra le aziende partecipanti, gli altri Stati Membri e la Commissione Europea. Tra i paesi partecipanti viene scelto un coordinatore, che ha il compito di organizzare l'intero lavoro del gruppo e di redigere e presentare alla Commissione un documento di sintesi che presenti l'intero progetto. Questo include lo scopo e gli obiettivi della misura, le società e gli Stati Membri partecipanti, le aree di lavoro (work streams) lungo l'intera catena di produzione e una descrizione dei singoli progetti secondo una logica organicista dove ogni parte (progetto) serve per il tutto.
La Commissione Europea si trova quindi a svolgere una duplice funzione. Accanto al ruolo più tradizionale di supervisore atto a verificare la compatibilità della misura con le regole del mercato unito, lavora in primo piano a fianco degli Stati Membri e delle loro aziende nella costruzione stessa del progetto. Con l’IPCEI, la Commissione ha infatti il compito di valutare i singoli progetti presentati da ogni azienda partecipante da un punto di vista economico-finanziario (funding gap analysis), atto a fare in modo che solo le aziende che necessitano davvero del supporto statale lo ricevano. Nel contempo, il lavoro di coordinamento si assicura la coerenza dai vari progetti con la finalità generale della misura, tramite un’azione costante e protratta di dialogo con i rappresentanti degli Stati Membri, generalmente nell’arco di 4/5 mesi massimo. L’intero lavoro si focalizza infine sull’assicurare che i progetti avviati contribuiscano al raggiungimento degli obbiettivi della strategia Europa 2020 attraverso la definizione di chiare e misurabili strategie definite dalle imprese stesse, che dedichino particolare attenzione alla disseminazione dei risultati in maniera quanto più capillare possibile, incluso al di fuori dal gruppo di imprese riceventi l’aiuto.
Ad oggi la Commissione ha già avviato con successo due grossi progetti di IPCEI: l’IPCEI on microelectronics, il primo vero e proprio crash-test per la DG COMP, seguito dall’IPCEI on batteries e per il quale si sta pensando di avviare un secondo progetto che estenda ulteriormente il numero di aziende e di Stati Membri partecipanti rispetto il primo.
I due progetti fino ad ora avviati non sono solo ambiziosi nelle finalità, ma mostrano anche nei numeri la portata delle iniziative. L’IPCEI on microelectronics vede 4 Stati Membri partecipanti (Francia, Germania, Italia e Regno Unito che allora era ancora membro) per un totale di fondi pubblici allocati pari a 1,75 miliardi di euro, che dovrebbero generare un indotto aggiuntivo di 6 miliardi di finanziamenti privati. Il secondo IPCEI on batteries vede invece partecipare 7 Stati Membri (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Polonia e Svezia), per un totale di fondi pubblici di 3,2 miliardi di euro, a cui si dovrebbero aggiungere 5 miliardi di fondi privati, da 17 imprese diverse.
L’IPCEI può quindi aiutare i paesi europei a mobilitare congiuntamente ingenti risorse finanziare seguendo una strategia integrata atta a sviluppare intere filiere di produzione e, come provato dall’IPCEI on batteries, utile a promuovere lo sviluppo di un’economia circolare basata su un’alta interdipendenza tra fornitori di materie prime, produttori, utilizzatori della tecnologia sviluppata, fino agli operatori per il suo smaltimento e riciclo. Tutto questo è reso possibile dal ruolo di supervisione, mediazione e coordinamento tra le parti giocato dalle istituzioni europee, che facilitano il superamento di frizioni nazionali e permettono un approccio d’insieme.
Sulla scia positiva dei primi due IPCEI la Commissione Europea ha già identificato 6 nuovi settori strategici per lo sviluppo economico europeo, alcuni dei quali potrebbero esser finanziati all’interno di nuovi progetti IPCEI: sistemi e tecnologie dell'idrogeno, sanità intelligente, Internet industriale delle cose (IoT), industria a basse emissioni di CO2 e Cyber-sicurezza.
É ancora presto per dire se l’IPCEI sia l’approccio migliore per perseguire una politica industriale a livello europeo. Sebbene i primi risultati sembrino indicare come questa possa esser la strada giusta da percorrere, ciò che è certo è che servirà un costante impegno da parte di tutti gli attori coinvolti, imprese e governi, che dovranno accettare come lo sviluppo di una vera industria integrata europea passi per il necessario superamento, o quanto meno l’attenuamento, delle logiche di potenza e delle reciproche diffidenze.
Sta quindi ancora una volta agli Stati Membri decidere se affidarsi a questo nuovo promettente strumento o se concentrare piuttosto i loro sforzi su una revisione delle regole comunitarie che affidi la crescita dell’economia europea a giganti privati il cui impatto economico e sociale potrebbe rivelarsi tutt’altro che positivo.
2 Gli Stati Membri hanno sempre la possibilità di fare appello contro la decisione della Commissione presso la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (CGUE).
Immagine: Alt-n-Anela / CC BY (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)
Bibliografia
Wu, Tim (2018). The Curse of Bigness: Antitrust in the New Gilded Age, Columbia Global Reports.