● Economia e innovazione

Negli ultimi decenni, le pensioni hanno rappresentato, insieme al reddito da affitti e rendite e da capitale, una quota crescente del reddito aggregato in Italia, a scapito dei redditi da lavoro[i]. Lo Stato italiano ogni anno spende in pensioni oltre due e quattro volte, rispettivamente, ciò che spende per la sanità e per l’istruzione. Nell’anno in corso la spesa pubblica per le pensioni salirà a 321 miliardi di euro, contro i 286 del 2021 e i 297 del 2022, e secondo le previsioni del Governo è destinata a crescere ancora a 345 miliardi nel 2024 e a 355 miliardi nel 2025. Questo significherebbe passare in tre anni dal 15,6% al 16,5% di spesa in rapporto al PIL, un aumento di quasi un punto percentuale[ii].

Cifre simili non hanno eguali in Europa: solo la Grecia, nel 2019, spendeva in pensioni relativamente più dell’Italia. I dati citati non sarebbero così allarmanti, se vi fosse una sostenuta crescita economica, che al momento invece rimane un’incognita.  Il principale – ma non unico – motivo per cui il sistema non è sostenibile è legato all’invecchiamento demografico. Semplificando: il progressivo calo della forza lavoro[iii] implica un minor numero di contribuenti e quindi entrate più basse per pagare le pensioni di chi vi ha maturato diritto. Per questo, dopo l’introduzione del metodo contributivo nel 1995, si sono susseguite importanti riforme volte al contenimento della spesa tramite l’innalzamento dei requisiti minimi di età e contribuzione, l’incentivo alla previdenza integrativa, il taglio delle rivalutazioni. Tra le più significative, la riforma Maroni del 2004 e la tanto contestata riforma Fornero del 2011.

Pare che, a partire dall’introduzione della riforma nota come “Quota 100” nel 2018, questa tendenza si sia interrotta e, al contrario, si sia cercato di venire incontro a pensionati e pensionandi destinando all’abbassamento dei requisiti le (poche) risorse disponibili. Stando alla sua prima legge di bilancio, sembra che anche il Governo in carica intenda mantenere un simile indirizzo.

Cosa prevede la legge di bilancio 2023

Nella nuova legge di bilancio sono state introdotte due principali misure, vale a dire “Quota 103” e una modifica ai criteri di rivalutazione. Il primo è un provvedimento transitorio, in vigore solo per il 2023, e prevede il pensionamento con almeno 41 anni di contributi e 62 di età. Per contenere la spesa, chi sceglierà questa opzione potrà percepire fino a 67 anni un assegno massimo pari a cinque volte il trattamento minimo (TM), una soglia definita per legge, che nel 2023 ammonta a 525,38 euro. Tuttavia, rimangono valide le alternative previste dalla riforma Fornero, cioè pensione di vecchiaia a 67 anni con almeno 20 di contributi e pensione anticipata con 42 anni (41 per le donne) e 10 mesi di contributi.

Il provvedimento che modifica i criteri di rivalutazione delle pensioni sembrerebbe, invece, avere un forte carattere redistributivo: gli assegni superiori a quattro volte il TM cresceranno in modo meno che proporzionale al tasso di inflazione osservato nel 2022, mentre le pensioni al TM saranno rivalutate del 120% e di queste in misura più generosa quelle degli over 75, portate a 600 euro. In realtà, la mancata spesa a beneficio dei pensionati (relativamente) più benestanti, pari a 10,2 miliardi nel 2023-25, è destinata in larga parte a contenere (del 17,5%, secondo i calcoli del Sole 24 Ore[iv]) il notevole aumento della spesa previdenziale complessiva, mentre appena 480 milioni vengono riservati alla iper-rivalutazione delle pensioni al minimo. L’effetto ultimo è la copertura di parte della manovra attraverso l’erosione del reddito reale dei tre milioni di pensionati che percepiscono un assegno elevato in virtù dei contributi versati.

Da una parte, quindi, si trascina la stagione delle “quote” espandendo la spesa, dall’altra si sostengono i redditi più bassi enfatizzando il segno sociale dell’intervento; la prima operazione è però molto più costosa della seconda. Per inquadrare meglio questi provvedimenti e capire le determinanti dell’aumento di spesa, è necessario analizzare più nel dettaglio il sistema pensionistico italiano e ad alcuni scenari futuri.

Un passo indietro

Esistono diverse tipologie di pensioni. Le prestazioni previdenziali in senso stretto vengono erogate in funzione del versamento di contributi per un certo periodo di tempo e in base a specifici requisiti. Sono indicate con l’acronimo IVS, cioè pensioni di invalidità (più propriamente, un trattamento corrisposto prima dell’età pensionabile nel caso in cui il richiedente sia considerato invalido al lavoro), di vecchiaia (comprese le pensioni anticipate) e per i superstiti. Di diversa natura sono le prestazioni assistenziali, come i trasferimenti che integrano l’importo della pensione qualora questo sia inferiore a una soglia minima.  Queste comprendono anche le pensioni di invalidità civile e gli assegni sociali, e sono finanziate dalla fiscalità generale; in tal caso rappresentano a tutti gli effetti una misura dello stato sociale, poiché in loro assenza non sarebbe garantito un tenore di vita dignitoso. Vi sono, infine, prestazioni pensionistiche indennitarie, riconosciute in caso di infortuni o morte sul lavoro.

Nel 2021, le prestazioni IVS sono state 16,8 milioni, quelle assistenziali circa 4 milioni. Considerando la spesa pensionistica complessiva, la ripartizione tra le tipologie descritte è rappresentata nella Figura 1[v]. Come si nota, il peso dei trasferimenti assistenziali è relativamente contenuto e apparentemente adeguato, a condizione di concordare sul fatto che la garanzia per un pensionato di un tenore di vita equiparabile a quello degli anni lavorativi debba poggiarsi non sul primo, bensì sul secondo e soprattutto sul terzo pilastro previdenziale (cioè, rispettivamente, i fondi pensione di categoria a cui destinare le quote di TFR e i piani individuali di previdenza, o polizze assicurative). In altre parole, lo Stato corrisponde un certo reddito in funzione dei contributi versati (in realtà finanziato dagli attuali contribuenti, secondo il noto meccanismo pay-as-you-go) e assicura a (quasi) tutti un sostegno assistenziale fino a una soglia minima definita per legge, ma non può e non deve farsi carico della diversa capacità di spesa di un cittadino prima e dopo la pensione: questo è lasciato alla individuale propensione al risparmio (investimento).

pensioni23_1pensioni23_1 Figura 1. Spesa pensionistica complessiva 2021, per categoria. Elaborazione dell’autore su dati Istat.

Un problema, però, rimane, come accennato sopra. Di norma i contributi versati dagli attuali lavoratori non sono sufficienti nemmeno a coprire le pensioni di chi li ha versati in passato. Nel 2019, per esempio, i contributi raccolti ammontavano al 10,7% del PIL, mentre la spesa previdenziale raggiungeva il 15,4%[vi]. Trattandosi di un capitolo di spesa age-related, va considerato più nel dettaglio lo stretto legame con la demografia che lo caratterizza.

Scenari

Vi sono numerosi indicatori che restituiscono l’immagine di una popolazione che invecchia e non cresce. In primis, il tasso di fertilità, pari a 1,25 nel 2021, un valore molto al di sotto della soglia di rimpiazzo (2,1). Si tratta di un problema comune a tutte le società europee, con la notevole eccezione della Francia, che vi si avvicina. È utile anche osservare la dinamica del tasso di dipendenza degli anziani, ovvero il rapporto tra la popolazione over 65 e quella in età 15-64 anni, pari al 37% nel 2021.

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Figura 2. Spesa previdenziale in % del PIL, scenario base. Elaborazione dell’autore su dati Nadef 2022 (2018-25) e Commissione Europea (2030-2070).

Il rapporto tra spesa previdenziale e il PIL risente di questa parte della storia. Il grafico che rappresenta la sua evoluzione nel tempo e la previsione dell’andamento futuro è detto comunemente “gobba delle pensioni” (Figura 2). In base ai calcoli della Commissione Europea nel suo Ageing report triennale, la fase crescente durerà fino al 2035-40, cioè finché la dinamica demografica si tradurrà in un effetto dell’aumento del numero di pensionati superiore all’effetto positivo di graduale estensione del metodo contributivo sull’intera vita lavorativa[vii], [viii]. Una decisa diminuzione si prevede, infatti, a partire dalla metà degli anni Quaranta, quando si osserverà la scomparsa della numerosa coorte di baby boomers che, insieme all’adeguamento dei requisiti di età pensionabile in base all’aspettativa di vita (attualmente previsto ogni tre anni dalla riforma Fornero), permetterà un’inversione della tendenza del citato rapporto di dipendenza. Secondo il report, proprio quest’ultimo fattore (il peso relativo della popolazione anziana) spiega ampia parte dell’evoluzione della gobba nel suo tratto crescente.

Quello appena descritto è lo scenario base, a legislazione vigente, considerato il quadro macroeconomico più realistico. Tuttavia, risulta interessante anche ipotizzare scenari differenti e studiare la distanza delle previsioni dal riferimento di base (Figura 3). Un consistente aumento del saldo migratorio o una crescita della produttività (TFP) genererebbero un effetto positivo, cioè una diminuzione del rapporto, più marcata con il passare del tempo. Al contrario, un saldo migratorio ridotto, un rallentamento della produttività o un ulteriore calo della fertilità avrebbero un effetto avverso, gonfiando la gobba. Lo stesso tipo di effetto si verificherebbe qualora l’età del pensionamento rimanesse invariata e non fosse periodicamente parametrata all’aspettativa di vita.

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Figura 3. Scenari di spesa previdenziale in % del pil, in deviazione dallo scenario base. Elaborazione dell’autore su dati della Commissione Europea.

Passi avanti?

Quali sono, dunque, le possibili linee d’azione? Dall’argomentazione precedente segue che, in generale, una crescita sostenuta del reddito e un aumento della natalità o un saldo migratorio molto favorevole mitigherebbero il problema dell’elevata spesa e contribuirebbero alla sostenibilità del sistema previdenziale. La concreta garanzia del diritto al lavoro e l’inversione della tendenza per cui sono più le persone inattive di quelle ufficialmente parte della forza lavoro (il tasso di attività è 49,8% per la popolazione ultra-quindicenne) produrrebbero effetti analoghi. Questi ultimi, si dirà, sono obiettivi da porsi nel medio-lungo periodo, non a portata di (decreto) legge. Tuttavia, il legislatore dispone di alcune alternative: modificare età e requisiti per il pensionamento; raffinare i criteri per il calcolo degli assegni; correggere la distribuzione delle fasce o degli scaglioni di rivalutazione, aspetti effettivamente toccati dalla manovra. Parallelamente, si potrebbe incentivare la previdenza complementare, dal momento che nel 2020 appena la metà dei pensionati era iscritto a fondi collettivi o aveva sottoscritto piani individuali[ix].

All’esecutivo spetterebbe, inoltre, il più ambizioso compito di potenziare il sistema di welfare nel suo complesso e rendere universali tutti quei servizi per i pensionati più e meno anziani, dai servizi di cura alla medicina di prossimità e al trasporto pubblico (obiettivi peraltro cristallizzati nel PNRR). A quel punto sarebbe forse accettabile un sacrificio in termini di reddito disponibile; si potrebbe, cioè, pensare di trasferire risorse dalla spesa previdenziale in senso tradizionale a quella per i servizi. Sarebbe, questa, una valida alternativa all’incremento complessivo della spesa assistenziale, già previsto dalle forze di maggioranza, che hanno anche promesso l’aumento delle pensioni minime a mille euro entro la fine dell’attuale legislatura.

Da ultimo, si può decidere di non compiere sostanziali passi in avanti, abbandonare di anno in anno le proprie utopie (come il superamento della riforma Fornero, ancora in vigore) una volta compresa la loro insostenibilità politica e finanziaria e limitarsi ad adottare misure transitorie in serie per fini elettorali. Tutto questo, nell’attesa che si raggiunga il plateau della gobba e il debito cresca abbastanza da badare a sé stesso.

[i] Si veda il grafico del Forum Disuguaglianze e Diversità: https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/e-diminuito-il-peso-del-lavoro/

[ii] Mef. (2022, novembre). Nota di aggiornamento. https://www.dt.mef.gov.it/it/news/2022/nadef_rev_nov.html .

[iii] Finizio, M. (2022, 19 luglio). Perché nel 2030 ci saranno quasi 2 milioni di lavoratori in meno. Il Sole 24 Ore. https://24plus.ilsole24ore.com/art/nel-2030-italia-19-milioni-potenziali-lavoratori-meno-AEW833lB .

[iv] Rogari, M. e Trovati, G. (2022, 30 novembre). Rivalutazioni tagliate per 3 milioni di pensionati. Il Sole 24 Ore, (330), p.5.

[v] Istat. (2022). Condizioni di vita dei pensionati. Anni 2020-2021. https://www.istat.it/it/archivio/278584.

[vi] European Commission (2021, maggio). The 2021 Ageing report. Economic and Budgetary Projections for the EU Member States (2019-2070). https://economy-finance.ec.europa.eu/publications/2021-ageing-report-economic-and-budgetary-projections-eu-member-states-2019-2070_en.

[vii] European Commission, cit.

[viii] Le previsioni del Mef sono qualitativamente molto simili, ma si discostano leggermente da quelle della Commissione. Per una trattazione esaustiva anche della metodologia, si veda Mef. (2021). Le tendenze di medio lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario. https://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/attivita_istituzionali/monitoraggio/spesa_pensionistica/ .

[ix] Itinerari previdenziali. (2022). Il Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano. Anno 2020. https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/ricerche/rapporto-sul-bilancio-del-sistema-previdenziale-italiano.html.

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