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La libertà di stampa rappresenta uno dei capisaldi delle democrazie liberali contemporanee. Tra i fattori che determinano il grado di tale libertà vi è quello della riservatezza delle fonti giornalistiche, che viene disciplinato, dalle normative e dalla giurisprudenza, con modalità diverse a seconda dei Paesi e dei contesti storici di riferimento. In Italia, un recente sviluppo in materia è avvenuto con la sentenza N. 07333/2021 del Tar Lazio, pubblicata il 18 giugno 2021, in cui si condanna la redazione della trasmissione “Report” a rivelare le proprie fonti. La sentenza è stata accolta da numerosi osservatori con preoccupazione, in quanto, come ha sostenuto la Federazione Europea dei Giornalisti, si è trattato di “una palese violazione della riservatezza delle fonti giornalistiche”.

Il caso “Report”

“Report”, programma d’inchiesta giornalistica trasmesso dalla Rai, ha realizzato una puntata dal titolo ‘Vassalli, valvassori e valvassini’, andata in onda il 26 ottobre 2020. L’avvocato Andrea Mascetti ha proposto in un primo momento istanza di accesso civico semplice e generalizzato alla Rai, ai sensi dell’articolo 5, comma 1 e 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, che definisce gli obblighi di trasparenza e pubblicità delle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni,  poiché nel contesto del suddetto servizio sarebbero state riportate notizie false e fuorvianti che avrebbero caratterizzato in maniera negativa il legale. Di conseguenza il ricorrente aveva richiesto l’ostensione del materiale informativo necessario per promuovere iniziative a tutela del suo buon nome. Ma la Rai aveva opposto un diniego integrale all’istanza di accesso avanzata.

Mascetti allora ha proposto ricorso al Tar chiedendo l’annullamento del diniego opposto dalla Rai con conseguente accertamento del diritto di accesso e la condanna dell’Ente all’ostensione dei documenti e dei dati richiesti.

La Rai, costituitasi in giudizio, ha sostenuto la propria linea difensiva deducendo in primo luogo l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse di Mascetti. Secondo l’amministrazione resistente non sussisterebbe il nesso di strumentalità tra quanto richiesto nell’istanza di accesso e lo scopo difensivo dichiarato dal ricorrente, sostenendo che quasi la totalità dei documenti richiesti risulterebbe irrilevante ai fini di un’eventuale azione risarcitoria e che sarebbe pertinente alla finalità difensiva soltanto il servizio mandato in onda, disponibile sul sito della Rai.

In secondo luogo, la Rai ha contestato la riconduzione dell’attività editoriale e giornalistica alla sfera dell’attività di pubblico servizio, oggetto del regime di accesso. L’Ente, in qualità di concessionario del pubblico servizio, non potrebbe ricomprendere gli aspetti inerenti all’espletamento della prestazione resa dal giornalista nell’elaborazione dei contenuti del singolo servizio, in quanto profili attinenti alla libera esplicazione dell’opera creativa e intellettuale del giornalista incaricato, nel cui ambito rientrerebbero la raccolta, l’elaborazione ovvero il commento delle notizie riportate.

E infine ha riscontrato la parte resistente, nel caso di specie, una causa di esclusione del diritto di accesso rappresentata dal segreto professionale di cui all’articolo 2, comma 3, della legge 3 febbraio 1963, n. 69, connesso alla libertà di stampa – quale circostanza invocata nel diniego oggetto di gravame – assumendo in particolare che la “fonte” giornalistica non sarebbe unicamente chi racconta un fatto, ma ogni realtà in grado di documentarne l’accadimento in modo quanto più diretto possibile (nel cui novero rientrerebbe la documentazione richiesta da parte ricorrente).

Il Tar ha ritenuto non sufficiente, come invece sostenuto dalla Rai, il filmato andato in onda ai fini delle esigenze difensive rivendicate dal ricorrente e di non poter accogliere l’eccezione di inammissibilità dedotta dalla parte resistente sull’estraneità dell’attività giornalistica all’ambito del servizio pubblico gestito dalla Rai.

“La rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica non può configurarsi come attività distinta da quella di ‘informazione pubblica’ riconducibile nell’ambito della nozione di servizio pubblico radiotelevisivo”.

Il Collegio ha dunque accolto parzialmente il ricorso proposto da Andrea Mascetti e ha condannato la Rai a consentire al ricorrente l’accesso agli atti e ai documenti individuati dal Tar, in particolare, quelli rientranti nell’interlocuzione intercorsa tra la redazione di Report e gli enti di natura pubblica che avrebbero fornito informazioni sul ricorrente.

Gli esiti per la libertà di stampa

Al di là del “Caso Report”, la sentenza in questione ha sollevato alcune perplessità che meritano di essere approfondite poiché di interesse generale, essendo la libertà di stampa una garanzia per la democrazia.

In primo luogo**, l’attività giornalistica sarebbe stata assimilata a quella di un pubblico funzionario**. Bisognerebbe distinguere infatti il ruolo di concessionario pubblico della Rai da quello dei giornalisti che ci lavorano. La Rai, in quanto gestore di un servizio pubblico, è sottoposta alla legge 7 agosto 1990, n. 241, in materia di procedimento amministrativo e di accesso documentale. Ma l’attività giornalistica esercitata dalla redazione di Report è tutelata da altre norme. Sostenere che l’attività giornalistica, in quanto svolta nell’ambito del servizio pubblico, sia sottoposta anch’essa alla legge sul procedimento amministrativo vuol dire ritenere che l’attività giornalistica sia un’attività amministrativa. L’articolo 1 della legge 241/1990 sancisce che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario”.

La tutela della segretezza delle fonti giornalistiche è invece regolata da altre norme, non solo dall’articolo 2 della legge 69/1963 (“Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie”) ma anche dall’articolo 13 della legge 31 dicembre 1996, n. 675, in materia di privacy, e dall’articolo 200 del codice di procedura penale, in materia di segreto professionale.

L’origine delle perplessità suscitate dalla sentenza risiede pertanto nel fatto che lo spirito dell’attività giornalistica difficilmente ricade nelle maglie definitorie della legge sul procedimento amministrativo in quanto non persegue i medesimi scopi della pubblica amministrazione e, tanto meno, è regolata dai suddetti criteri previsti dall’articolo 1 della legge 241/1990.

Dato che non è presente nel nostro ordinamento una definizione positiva di “attività giornalistica”, che consenta di includere anche la fattispecie specifica dei giornalisti dipendenti della Rai, nel corso degli anni la giurisprudenza ha colmato tale lacuna, pronunciandosi più volte a favore della libertà di stampa e della segretezza delle fonti.

“Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione. Il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso […], differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la loro novità, della dovuta attenzione e considerazione” (Cass. Civ., sez. lav., 20 febbraio 1995, n. 1827).

“La Costituzione, all'articolo 21, riconosce e garantisce a tutti la libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione e che tale libertà ricomprende tanto il diritto di informare, quanto il diritto di essere informati (si vedano, ad esempio, le sentenze numero 202 del 1976148 del 1981826 del 1988). L'articolo 21, come la Corte ha avuto modo di precisare, colloca la predetta libertà tra i valori primari, assistiti dalla clausola dell'inviolabilità (articolo 2 della Costituzione), i quali, in ragione del loro contenuto, in linea generale si traducono direttamente e immediatamente in diritti soggettivi dell'individuo, di carattere assoluto” (Corte cost., 26 marzo 1993, n.112).

“Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il "diritto all'informazione" garantito dall'articolo 21 sia qualificato e caratterizzato: a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - che comporta, fra l'altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l'accesso nel sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse - in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti; b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti; c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata; d) dal rispetto della dignità umana, dell' ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori” (Corte cost., 26 marzo 1993, n.112).

La sentenza del Tar del Lazio si pone quindi in discontinuità con la giurisprudenza consolidata nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che, la suscettibilità di ostensione della documentazione che deriverebbe dalla sentenza metterebbe a rischio la tutela delle fonti giornalistiche.

Il rispetto della segretezza della fonte giornalistica non è solo riconosciuto nel nostro ordinamento interno. Se già nel leading case Goodwin c. Regno Unito del 1996 la Corte di Strasburgo aveva salvaguardato il segreto professionale dei giornalisti, anche nel più recente caso Jecker c. Svizzera la Corte EDU ha accolto il ricorso di una giornalista stabilendo che l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che assicura la libertà di espressione, compresa quindi la libertà di stampa, include anche la protezione del giornalista in ogni fase della sua attività e degli strumenti che servono a garantire l’effettivo esercizio della libertà di stampa, come la tutela della segretezza delle fonti.

E alla luce di un quadro normativo così complesso si possono comprendere le dichiarazioni sul “Caso Report” di Giuseppe Giulietti, Presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana secondo cui “equiparare la Rai ad una qualunque altra amministrazione pubblica per aggirare la tutela delle fonti dei giornalisti ed il relativo segreto professionale rappresenta una palese violazione delle sentenze della Cedu e della nostra Costituzione”.

Infine, sarebbe stato leso il principio di non discriminazione. La sentenza in questione infatti darebbe vita a trattamenti differenziati a seconda che l’editore sia un soggetto pubblico o privato. Di conseguenza nel primo caso, gli atti utilizzati sarebbero da considerare ostensibili, mentre non lo sarebbero nel secondo, non essendo la legge 241/90 applicabile al settore privato.

L’intervista

All’interno del festival “Giornalisti del Mediterraneo”, kermesse otrantina dedicata alle voci giornalistiche che hanno raccontato i fatti del Mediterraneo, l’autrice del presente contributo ha avuto la possibilità di poter rivolgere alcune domande al conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, per poter sapere la sua sul contenuto della sentenza trattata e poter misurare la temperatura della libertà di stampa in Italia.

Dott. Ranucci, la sentenza del Tar Lazio rappresenterebbe una minaccia alla libertà di informazione. La Rai ha annunciato che farà ricorso al Consiglio di Stato. Cosa si aspetta in secondo grado?

Mi aspetto che questa vicenda venga letta in modo più lucido e sono convinto del fatto che lo Stato abbia degli anticorpi, al suo interno, per reagire agli errori commessi dallo Stato stesso. Chi è stato mortificato da quella sentenza non è solo Report ma il giornalismo del servizio pubblico in generale. È inaccettabile che l’attività giornalistica venga equiparata a quella dei funzionari del catasto, che con tutto il rispetto per questi ultimi, svolgono un lavoro differente.

Stando al rapporto Rsf sulla libertà di stampa, l’Italia risulta al 41° posto. La Fnsi sostiene che sul posizionamento abbiano influito le riforme in fase di stallo e la precarietà che caratterizza il settore. L’Italia è un Paese per giornalisti?

Penso ancora che lo sia. Se non lo pensassi dovrei cercare un altro lavoro! A parte gli scherzi, credo che ora più che mai proprio in Italia serva un giornalismo serio, indipendente e che presidi il web, il luogo dove ormai la gente si informa.

Roberto Morrione, il suo Maestro, sosteneva che la notizia dovesse far riflettere, non solo essere consumata. È ancora attuale questa lezione, tenendo in considerazione l’immediatezza che caratterizza il giornalismo digitale?

Assolutamente sì, una notizia che non è contestualizzata è una notizia che non tiene “viva la memoria”. Roberto parlava di “notizia orfana” quando si riferiva a una notizia non contestualizzata, una notizia “senza genitori”. C’è necessità di un giornalismo, secondo me, preparato. E bisogna farlo senza prendere scorciatoie. Il giornalista d’inchiesta è un discesista libero, non deve fare lo slalom.

Immagine: TAR Lazio, Crediti: ilquotidianodellapa.it (flickr.com) CC BY-NC-SA 2.0

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