● Istituzioni
Nella prima parte dell’articolo, si è analizzato il quadro dei principi costituzionali in materia di legge elettorale, contestualizzando le recenti pronunce da parte della Consulta. Entriamo ora in dettaglio nell’esame delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte relative ai singoli istituti e meccanismi caratterizzanti le leggi elettorali, così da valutare quale margine di autonomia abbia il legislatore nella loro selezione.
Per quanto riguarda i collegi uninominali first-past-the-post, ovvero assegnati direttamente al candidato con il maggior numero di voti indipendentemente dai risultati degli altri, non pare sussistere alcuna previsione costituzionale esplicitamente ostativa, anche se qualche dubbio potrebbe sorgere. Infatti, soprattutto qualora essi fossero lo strumento preminente (se non unico) di assegnazione dei seggi, potrebbero sussistere perplessità in ordine alla limitazione della possibilità di formulare il proprio voto in modo personale. Difatti, non è materialmente possibile esprimere preferenze per i candidati, che sono previamente individuati dalle forze politiche di riferimento, anche se le liste sono composte da un numero ridotto (quattro) di nomi, così da non impedirne la conoscibilità. Inoltre, non lascia esenti da preoccupazioni la circostanza che un sistema così congegnato potrebbe limitare di fatto il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale ex art. 49 Cost., dal momento che la possibilità per le forze minoritarie di ottenere un’adeguata rappresentazione non è così elevata. Tale rischio appare più concreto considerando che con la legge costituzionale n. 1 del 2020 i componenti di Camera e Senato sono stati ridotti rispettivamente da 630 e 315 a 400 a 200[1]. Considerando anche la giurisprudenza della Corte, tuttavia, si può propendere per la loro compatibilità con il dettato costituzionale, al di là delle valutazioni di natura politologica che si potrebbero operare sull’eventuale incentivo alle forze politiche a coalizzarsi e sulla funzionalità ai fini della stabilità delle maggioranze di governo. Infatti, anche volendo ignorare le differenze a livello ordinamentale, sembra assai arduo immaginare in Italia un sistema non solo bipolare, ma addirittura sostanzialmente bipartitico come negli Stati Uniti d’America.
I sistemi misti quali la legge n. 165/2017 (c.d. legge Rosato o Rosatellum), al di là della persistente inefficacia nel contrastare l’instabilità degli esecutivi, non sembrano porre particolari problematiche in linea generale: anzi, potrebbero rappresentare un’efficace sintesi del bilanciamento tra le varie istanze e soprattutto tra i principi costituzionali in gioco. Starà a politici e politologi congegnare i rimedi più efficienti ai fini di garantire la formazione di maggioranze coese, senza dubbio non potrà venir meno il compito dei giuristi di rilevare i possibili profili di incostituzionalità.
Passando ai singoli istituti, il premio di maggioranza, censurato in ambedue le pronunce citate, è uno strumento di indubbia funzionalità alla persecuzione dell’obiettivo della stabilità degli esecutivi; tuttavia, proprio questa sua notevole potenzialità non può non essere controbilanciata dalla tutela del principio dell’eguaglianza del voto. Non risulta opportuno, all’interno di una democrazia rappresentativa, tollerare l’esistenza di sproporzionate differenze nel valore effettivo del singolo voto, permettendo a liste o coalizioni dotate di una maggioranza anche assai esigua di ottenere più della metà dei seggi disponibili. Tuttavia, pare smentita la tesi secondo la quale il premio di maggioranza, in qualunque modo si articoli, non sia compatibile pienamente con la Costituzione[2].
Relativamente al ballottaggio, oggetto di una censura, seppur parziale e indiretta, con la sentenza n. 35 del 2017, il punto fondamentale che la Corte reputa incostituzionale risulta l’assegnazione alla lista o alla coalizione vincitrice del premio di maggioranza senza alcun ancoraggio a una soglia minima di voti, numerica o percentuale. Ciò non esclude in nuce la configurabilità del ballottaggio; tuttavia, la Consulta sembra tracciare una netta linea di distinzione tra la legge elettorale per le Camere e quella per i Comuni, che riguarda sia una carica monocratica quale quella del sindaco, votato direttamente dai cittadini, sia una collegiale quale il Consiglio comunale. In linea generale, appare poco compatibile con la nostra forma di governo parlamentare un doppio turno di ballottaggio “alla francese”, seppur riservato alle liste o coalizioni e non ai candidati alla Presidenza della Repubblica. Con questo sistema, si andrebbe a creare un’indebita ed eccessiva personalizzazione dell’elezione nella contrapposizione delle figure dei leader politici di riferimento, oltre a predeterminare alle urne il momento genetico del rapporto di fiducia che lega le Camere al Presidente del Consiglio. In sintesi, se si vogliono inserire elementi presidenziali o semipresidenziali nell’ordinamento costituzionale, appare decisamente più opportuno non operare una modifica sottotraccia e seguire la procedura dell’art. 138 Cost., che prevede l'approvazione da ambedue le Camere con due successive deliberazioni a distanza di almeno tre mesi (delle quali le seconde a maggioranza assoluta dei componenti).
Non comportano particolari problematiche le soglie di sbarramento, almeno per le Camere, laddove è innegabile che sussista un rapporto di fiducia. Ammesso che non siano eccessivamente elevate (e ad oggi non pare che vi siano proposte paragonabili al 10% previsto nella legge elettorale turca oggetto della sentenza della Corte di Strasburgo n. 10226/2003 Yumak e Sadak vs Turchia), esse non paiono comprimere eccessivamente il diritto di voto sotto il profilo della sua libertà, dal punto di vista sia attivo sia passivo. Certo è che una specifica attenzione deve essere sempre rivolta alla garanzia della possibilità di ottenere seggi per i partiti che rappresentano minoranze etnolinguistiche riconosciute.
In tema di preferenze e di liste bloccate, appare chiaro che il sistema configurato dalla legge n. 270/2005 (c.d. legge Calderoli o Porcellum, caratterizzata da liste assai lunghe senza possibilità di esprimere voti individuali ai singoli candidati, nonché da metodi di assegnazione dei seggi con premio di maggioranza su scala nazionale alla Camera e regionale al Senato) non sia assolutamente compatibile con i principi costituzionali in materia elettorale. Certo, la dottrina è divisa sulla possibilità di introdurre o meno un ordine predefinito delle candidature; la Consulta, da parte sua, con la sentenza n. 35 del 2017 ha dichiarato la legittimità del solo capolista predeterminato, ma appare inequivocabile che la conoscibilità dei potenziali eletti non possa essere compromessa. Listini bloccati ma brevi (sul modello della legge vigente) possono essere accettabili, in quanto i candidati non ammontano a un numero tale da risultare difficilmente conoscibili agli elettori; tale considerazione può estendersi anche ai collegi uninominali. La possibilità di essere eletti in più circoscrizioni, inoltre, non è di per sé censurabile, ma deve essere controbilanciata da un meccanismo che non renda arbitraria la selezione del seggio, altrimenti si rischierebbe di minare il principio di personalità e di direzione del voto.
Nonostante la sentenza n. 422 del 1995 - che dichiarava incostituzionali per violazione del principio di uguaglianza le quote di genere nelle liste e che può considerarsi ampiamente superata nel contenuto - ormai appare ineludibile che, a prescindere dalla formula adottata, sia garantita una rappresentanza paritaria tra donne e uomini ex dell’art. 51, comma 1, Cost., almeno per quanto riguarda le condizioni di accesso alla competizione elettorale.
In ultimo, non si può non formulare un auspicio relativo al recepimento, anche mediante modifica del dettato costituzionale, delle previsioni del Codice di buona condotta in materia elettorale elaborato dalla Commissione di Venezia[3], specificamente per quanto riguarda il divieto di modificare il sistema nell’anno antecedente al termine della legislatura. Così facendo, si potrebbe da una parte evitare che siano approvate riforme “a colpi di maggioranza” e con il solo scopo di avvantaggiarsi o di penalizzare le altre forze politiche in occasione delle imminenti consultazioni, dall’altra permettere alla Consulta di vagliare eventuali questioni di legittimità costituzionale e, in caso di accoglimento, di consentire al legislatore di adeguare la normativa di risulta e di assicurarne la funzionalità.
[1] Funditus, E. Rossi (a cura di), Meno parlamentari, più democrazia?, Pisa University Press, Pisa, 2020.
[2] M. Villone, Rappresentatività, voto eguale, governabilità: quando una irragionevolezza diviene manifesta?, in Giurisprudenza Costituzionale, 1, 2017, pp. 2-3.
[3] La Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto, detta Commissione di Venezia, è un organo consultivo del Consiglio d’Europa composto da esperti indipendenti di diritto costituzionale provenienti da vari Stati e volto alla diffusione del patrimonio costituzionale europeo. Tra i vari ambiti di attività vi è anche il supporto e il monitoraggio rispetto agli Stati membri in relazione ad elezioni e referendum e cooperazione con le Corti costituzionali.