**Pensiero politico
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Questa intervista è il quinto di una serie di Dialoghi con personalità dell'accademia e della cultura che la sezione di Pensiero Politico sta realizzando nel contesto di un approfondimento del rapporto fra Liberalismo e cultura politica in Italia e in Europa.

Raimondo Cubeddu è Professore ordinario di Filosofia Politica presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Ha dedicato gran parte della propria produzione scientifica al pensiero liberale e libertario contemporaneo, alla metodologia delle scienze sociali e alla teoria delle istituzioni, con particolare attenzione ai protagonisti della Scuola Austriaca e a Bruno Leoni, autori di cui ha curato anche molte edizioni. Inoltre, Cubeddu è stato fra i primi studiosi italiani a occuparsi diffusamente del pensiero di Leo Strauss. Tra le numerose pubblicazioni ricordiamo almeno: Leo Strauss e la filosofia politica moderna (Edizioni Scientifiche Italiane, 1983); Il liberalismo della Scuola Austriaca: Menger, Mises, Hayek (Morano, 1992), rivisto e ampliato in una successiva edizione inglese dal titolo The Philosophy of the Austrian School (Routledge, 1993); Le istituzioni e la libertà (Liberilibri, 2007); Il tempo della politica e dei diritti (IBL Libri, 2013). Recentemente sono usciti anche volumi che raccolgono saggi brevi scritti nel corso degli anni su diversi temi: La cultura liberale in Italia (Rubbettino, 2021); Scambio dei poteri e stato delle pretese. Scritti su Bruno Leoni (IBL Libri, 2021); Il valore della differenza. Studi su Carl Menger (Salomone Belforte & C., 2021).

(1) Un tema ricorrente nei saggi che compongono il suo libro La cultura liberale in Italia (Cubeddu, 2021a) è il dibattito tra Croce ed Einaudi sulla distinzione tra liberalismo e liberismo. Quest’ultimo appare certamente come un evento importante per la sua risonanza sulla scena intellettuale, ma si rivela anche un elemento totalizzante che sembra bloccare la possibilità di un’evoluzione teorica del liberalismo italiano per farlo dialogare con le linee di ricerca che invece venivano sviluppate nel resto d’Europa e in America. Quali sono secondo lei i punti di vantaggio e i limiti metodologici e teorici del dibattito fra Croce ed Einaudi?

I vantaggi stento a vederli. Devo dire che nella pratica le due posizioni non erano così lontane come sono state poi ritenute. In fondo, come mostro anche in questo saggio, ancora nel ’40 Einaudi accetta che esista questa distinzione. Il limite, poi, è di carattere più generale, perché ci si convince che la distinzione tra liberalismo e liberismo, che viene caricata di altri significati, sia qualcosa di peculiare, il grande contributo italiano alla storia della cultura, come scrive Antoni. In realtà era una solenne sciocchezza. Se noi andiamo a vedere le altre opere di quel periodo sul liberalismo, questa distinzione è inconsistente, a meno che non si voglia stabilire un rapporto tra quello che pensava Keynes e questo dibattito. Tuttavia, a parte Mises, nessuno in quel periodo – tra la fine degli anni ’20 e gli anni ’30 – nega la possibilità e la necessità di interventi della politica nell’ambito dell’economia, solo che si tratta di vedere che tipo di interventi, la loro temporaneità e via di seguito (anche Keynes, alla fine degli anni ’40, si rende conto che si era andati troppo avanti). Ora, invece, Croce vuole stabilire qualcosa che non era tanto fondato empiricamente su una prassi, ma su una differenza teorica. In questo modo egli per certi versi cerca di salvare il liberalismo dalla critica molto aspra da parte del fascismo, però sostanzialmente si inventa un liberalismo che non era troppo diverso dalle sue precedenti convinzioni filosofiche. Tuttavia, l’aspetto dell’eticità dell’azione dello Stato sarebbe stato urticante per i liberali classici. Poi c’è un altro dato di fatto: questa distinzione si fondava su elementi che non avevano senso dopo la svolta marginalistica rappresentata dagli austriaci. Se noi andiamo a vedere questo dibattito alla luce di un’opera che è stata sommamente importante, che è il libro del ’22 di Mises sul socialismo (Mises, 2020), ci accorgiamo che si tratta di un dibattito del tutto vecchio e improbabile. L’azione umana è unitaria, non è possibile distinguere un’azione politica da un’azione economica caratterizzata dall’utile nel senso in cui lo definisce Croce e, purtroppo, nel senso in cui lo definiscono anche i cosiddetti liberisti italiani. Certamente i principali muoiono prima (Pareto, Pantaleoni), ma de Viti de Marco vive ancora a lungo (muore nel ’43) e non risponde. Quando Einaudi cerca di rispondere a Croce lo fa con un certo imbarazzo filosofico, perché la differenza non era così ampia e, d’altra parte, la posizione liberista non era facile da sostenere perché si fondava su una concezione dell’economia ispirata a una sorta d’utilitarismo benthamiano con forti influenze spenceriane. Quando Croce critica la loro posizione accentuando certi temi ha ragione. Quella che è anche una linea costante in questo mio libro è che questo dibattito sia una cosa autoctona che si autoriproduce: ciascuno riproduce le sue posizioni in uno scontro che, sostanzialmente, non c’è neanche stato. Però tutto questo nasce dal fatto che, sebbene forse Croce conoscesse gli austriaci (ed è un forse che sottolineo perché non ne sono sicuro), l’importanza del loro contributo non viene riconosciuta. È vero che allora si trattava unicamente di Menger, ma i fraintendimenti che si erano creati in ambito crociano e nell’ambito dei liberisti riguardo Menger sono qualcosa di eclatante e abbastanza ridicolo. Da lì si è continuato a discuterne prendendo per buona l’affermazione di Antoni che questo sia stato il grande contributo italiano alla storia delle idee, senza accorgersi che in realtà si trattava di una posizione teorica che già alla luce di Socialismo di Mises era insostenibile.

(2) Vista l’eterogeneità di prospettive degli autori che in Italia si sono soffermati sui temi del liberalismo e, più generalmente, lo scarso successo culturale di questa linea di pensiero nel nostro paese, sembra molto difficile identificare una vera e propria tradizione di liberalismo italiano dotata di continuità storica. Un’eccezione può essere forse rinvenuta in quel gruppo di “liberisti” – di cui lei si è occupato in un saggio uscito per Philosophy Kitchen (Cubeddu, 2018) - che va da Ferrara a Einaudi e che dette un notevole contributo alla scienza delle finanze. A suo parere, è possibile estrarre anche una filosofia politica coerente dai testi di questi autori? E se sì, qual è il motivo per cui essa non ha avuto seguito?

Penso che sia molto difficile trarne una filosofia politica. Sono degli economisti di un certo rilievo e forse anche pensatori politici, ma l’unico in cui ci può essere un barlume di una filosofia delle scienze sociali è Pareto e, marginalmente, Pantaleoni. Ma non siamo sicuramente nel campo della filosofia politica, perché non c’è una connotazione filosofica originale (da molti punti di vista Pareto, per dirla così, era un pasticcione). Per molti versi essi adottano una filosofia sociale che era quella benthamiana e spenceriana rivista e corretta in maniera originale, ma non c’erano grandi elementi di innovazione. Anche da un punto di vista economico le idee possono risultare molto discutibili. Non a caso, nell’unico scontro che c’è quando Böhm-Bawerk interviene su Pantaleoni per reagire alle accuse rivolte da quest’ultimo a Menger di essere un plagiaro di Bastiat (con cui Pantaleoni mostra di non averci capito sostanzialmente nulla), Böhm-Bawerk dice che nell’opera di Pantaleoni non c’è nulla di originale e quello che c’è di originale era meglio evitarlo. Non c’è una filosofia politica liberale italiana. L’unico filosofo politico in senso proprio nell’orizzonte del liberalismo italiano era Croce, che dà un’interpretazione del liberalismo coerente con i presupposti del suo pensiero. Può piacerci o meno, ma è una filosofia politica, come precedentemente lo era stata quella di Rosmini. In seguito, l’unico caso originale è stato quello di Leoni.

(3) In Italia il cattolicesimo è stato storicamente un interlocutore importante per il pensiero liberale, anche se il dialogo è stato spesso conflittuale e non senza incomprensioni. Tra le figure intellettuali cattoliche più vicine alle istanze liberali spicca sicuramente quella di Antonio Rosmini, di cui recentemente Cantagalli ha pubblicato un compendio della Filosofia della politica con una sua introduzione (Rosmini, 2021). Quali sono, secondo lei, i punti di contatto più stretti con il liberalismo nel pensiero di Rosmini e dove, invece, le due strade necessariamente si separano?

Innanzitutto bisogna dire che Rosmini era un filosofo, e che la parte sulla filosofia politica, così come quella sulla filosofia del diritto, era qualcosa di coerente e integrato con il suo sistema. Sul tema di quanto questa parte sia vicina al liberalismo del suo tempo (siamo nella prima metà dell’800) possiamo dire due cose. In primo luogo, Rosmini aveva una conoscenza dettagliata – basti pensare alle sue citazioni di Tocqueville – di quella che era la produzione filosofico-politica liberale in quel periodo e del pericolo rappresentato, da un lato dalla trasformazione della maggioranza in tirannide (qui Rosmini riprende l’espressione di Tocqueville) e, dall’altro, quello ugualmente evidente che veniva dalle idee di Rousseau. Non so quanto Rosmini fosse liberale, ma sicuramente conosceva molti autori per averli letti direttamente (basta scorrere l’indice dei nomi). In secondo luogo, tuttavia, in Rosmini si riflettono le posizioni tradizionali della Chiesa nei confronti del socialismo, della democrazia e della proprietà privata, però manca l’assunto fondamentale del liberalismo. L’assunto fondamentale del liberalismo, come ben dice Hayek, è l’idea, ripresa da Hume (pensatore che non poteva andare a genio a Rosmini), secondo cui la società può reggersi anche senza la benevolenza. Secondo Rosmini questo non è possibile e se avesse detto una cosa del genere non sarebbe stato più neanche un pensatore, un teologo o un filosofo cristiano. C’è sempre, in Rosmini, questa mano provvidenziale che non interviene costantemente, ma è lì come punto di riferimento fisso, è qualcosa di buono legato alla Rivelazione che nei momenti di crisi può servire come via d’uscita. Ora, certamente in Rosmini ci sono tanti temi vicini al liberalismo, ma sono questioni di pensiero politico. Nel campo della filosofia politica le cose sono ben diverse, Rosmini non era un liberale. Se noi pensassimo alla filosofia politica liberale come qualcosa che fonda il miglior regime politico sulla benevolenza divina, allora il grande contributo del liberalismo verrebbe a sminuirsi. C’è un duplice pericolo: la trasformazione del liberalismo in una secolarizzazione del Cattolicesimo o del Cristianesimo con una maggiore apertura alla carità e, all’inverso, la caratterizzazione della posizione della Chiesa come fautrice di un mercato eticizzato. Da questo punto di vista avremmo la tradizione che va da Rosmini a Michael Novak in contrapposizione all’economia politica marxista della teologia della liberazione. Rimane comunque il fatto che Rosmini è uno dei grandi esponenti della tradizione filosofico-politica italiana con grandi innovatori come Machiavelli (rispetto a cui Rosmini rappresenta un ritorno del Cattolicesimo nell’ambito della riflessione filosofico-politica), Gentile, Gramsci (che però non sono propenso a considerare un filosofo politico, quanto un grande pensatore politico) e Leoni (in cui c’è una teoria dell’origine della politica e del potere paragonabile per certi versi a quella di Machiavelli, seppur diversa nei contenuti).

(4) Nel panorama intellettuale del liberalismo italiano del Novecento, la riflessione di Bruno Leoni (il cui capolavoro, La libertà e la legge, celebra nel 2021 il sessantesimo anniversario) è una delle più originali. La teoria del diritto come pretesa individuale, che traduce in campo giuridico la concezione del mercato elaborata dalla Scuola Austriaca, costituisce persino un’anticipazione delle pagine filosofico-politiche di Hayek in merito alla natura evolutiva delle istituzioni (le quali risentono molto della lettura di Leoni). Leoni, inoltre, si è spinto fino a sottolineare alcuni limiti e aporie della teoria politica del liberalismo classico, soprattutto riguardo alla natura delle decisioni politiche e della rappresentanza. In un momento come questo in cui si torna a parlare molto del conflitto tra libertà e democrazia, quale contributo può dare la riflessione di Leoni in merito?

Da questo punto di vista direi due cose, un po’ riprendendo ciò che ho detto prima. In Leoni abbiamo una teoria originale, perché viene espressa negli anni ’50, sul potere come scambio a fondamento della società e della politica. Per certi versi abbiamo in questo senso una ripresa di temi mengeriani, anche se non sempre citati, però si tratta di un contributo originale che avrà poi anche una certa influenza nell’ambito della riflessione sul liberalismo. D’altra parte in Leoni c’è un’altra cosa fondamentale, che è la consapevolezza dei limiti del liberalismo classico. Ossia, pur non essendo un libertario o un anarco-capitalista (termini che ancora non esistevano al momento della sua morte), Leoni si pone il problema della possibilità di un’associazione politica senza scelte collettive, che è il grande tema della filosofia politica, non solo di quella liberale; o anche, il problema di come ridurle senza giustificarle (le scelte collettive rimangono comunque ingiustificabili). Leoni mostra come le scelte collettive non siano affatto democratiche, per quanto siano la caratterizzazione della democrazia e per quanto si sia sostenuto che, in fondo, la democrazia sia un tentativo di conciliare l’interesse generale e quello particolare. Leoni mostra che questa conciliazione è impossibile e che bisogna cercare altre vie, che egli immagina nella propria critica alla rappresentanza, e mettere in discussione tutto ciò. Ora, il problema di Leoni è duplice. Da una parte, La libertà e la legge (Leoni, 1994) è un’opera che non affronta questi temi, ma si concentra sull’origine del diritto e su altri problemi. La cosa più importante di Leoni sono i saggi che scrive dal ’57 fino alla sua morte, che sono però saggi sparsi che non sono stati raccolti in un insieme organico. Tuttavia, se li mettiamo insieme, viene fuori una teoria dell’azione umana e dell’origine delle istituzioni che per certi versi si richiama a quella degli austriaci ma non è esattamente la stessa cosa e che sicuramente può essere considerata uno sviluppo originale. In ogni caso, Leoni non ha messo insieme quei saggi, e la sua morte prematura ha comportato che non siano stati adeguatamente considerati. Nella prefazione della raccolta di miei studi su Leoni, Scambio dei poteri e stato delle pretese (Cubeddu, 2021b), ho messo in luce questi temi di originalità di Leoni dicendo che a vederli assieme costituiscono un’importante opera di filosofia politica perché riguardano il potere e il fatto che, emblematicamente, siccome la società nasce dallo scambio di poteri, del potere non si può fare a meno. Solo che bisogna elaborare un sistema politico in cui le posizioni di potere non si ripetano e rimangano sempre aperte. Per certi versi è un po’ un’anticipazione di quello che avrebbe detto poi Foucault, che però non conosceva Leoni.

(5) Lei si è occupato a lungo di Carl Menger, il fondatore della Scuola Austriaca, sottolineando spesso il carattere rivoluzionario del suo pensiero e il ruolo di spartiacque nella storia del liberalismo. In particolare, lei ha messo in luce come questo cambio di paradigma che coinvolge pensiero economico e teoria delle istituzioni avvenga in fondamentale opposizione alla riflessione di Adam Smith. Quali sono gli elementi chiave della differenza fra queste due grandi costruzioni teoriche?

Per certi versi questa distinzione è qualcosa che si tende a evitare, anche sulla scia di Hayek. Hayek sostanzialmente voleva rilanciare il liberalismo, e non poteva farlo in Inghilterra alla fine degli anni ’30 fondandolo su uno sconosciuto e non tradotto pensatore austriaco. Aveva la necessità di stabilire un contatto fra la tradizione anglosassone, da lui interpretata e rimodellata, e Menger. Questa continuità in realtà non esiste, se non nella forma delle critiche costanti che Carl Menger, fin dalla sua prima opera, i Grundsätze (Menger, 2001), composta quando aveva trent’anni, rivolge ad Adam Smith. Sostanzialmente Menger dice che in Smith era tutto sbagliato e che bisognava ricominciare. Era un trentenne che sosteneva fosse necessario ripartire da ciò che aveva detto lui: sicuramente è un azzardo che mostra grande consapevolezza delle proprie capacità. Perché questo contrasto? Perché Menger si rende conto che la teoria del valore lavoro di Smith, una teoria oggettivistica del valore, non è sostenibile scientificamente. E questo significa che tutto il sistema di Adam Smith, fondato sulla naturalità dello scambio, non è sostenibile. Più in generale (ma questo verrà fuori con Mises più chiaramente), legare il liberalismo alla teoria del valore oggettivo significava trasformarlo nell’ideologia della classe agiata, della borghesia. Quello che pensava Menger era invece più rivoluzionario: il valore non è dato dal lavoro, non è dato dalla produzione, ma dall’attribuzione di un valore soggettivo da parte di un consumatore. Chiaramente il valore è soggettivo soltanto sotto un certo aspetto, perché l’economia deve sempre aver presente la riproducibilità di quello che viene consumato. Quindi si tratta di un problema di durata nel tempo del soddisfacimento dei bisogni, da cui nasce tutta la valutazione dei beni e delle cose. Da questo punto di vista Menger fonda tutto sulla possibilità dello scambio, ma critica l’idea che Smith aveva (a suo parere) della naturalità dello scambio. Quest’ultima era una ripresa, per certi versi e in altra forma, della teoria di Aristotele per cui l’uomo è un animale naturalmente portato alla vita politica, ossia al vivere in società tramite scelte collettive. Menger mette in discussione tutto questo: lo scambio è una possibilità. La storia che abbiamo alle spalle ci racconta solo degli scambi che hanno funzionato, ma non ci dice nulla di quelli che non hanno funzionato. Tuttavia, possiamo pensare che questi ultimi esistano. Quindi, l’ordine è una possibilità che si fonda sullo scambio e sull’imitazione di sistemi e di regole che hanno funzionato. Non è niente di naturale e non tende a nessun fine, ma può essere modellato tenendo presente, come dice Menger, l’esperienza della riproducibilità di quanto viene consumato. Di qui anche l’accusa di Menger per cui le idee di Smith portano al socialismo. E aveva ragione: come mostrerà in maniera lampante Böhm-Bawerk in Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale del 1884 (Böhm-Bawerk, 1995), c’è una continuità ormai acclarata tra la teoria del valore lavoro di Smith e quella di Marx.

(6) Un altro riferimento di grande importanza nella sua produzione intellettuale è Leo Strauss. Sebbene la sensibilità filosofica di Strauss sia molto lontana da quella degli austriaci e dal liberalismo in generale, egli ha posto domande rilevanti sulla natura della filosofia politica moderna e sulle diverse modalità di pensare (ed eventualmente risolvere) quel problema teologico-politico che è uno dei motivi di grande vitalità della cultura occidentale. Recentemente, nel libro Individualismo e religione nella Scuola Austriaca (Cubeddu, 2019), lei ha usato le categorie di Strauss per interrogare virtualmente gli esponenti della Scuola Austriaca proprio sul problema della relazione tra religione, politica e filosofia. Lei pensa che la risposta austriaca possa rappresentare una via alternativa, seppur interna alla modernità, alle derive del razionalismo e del costruttivismo che Strauss preconizzava?

Questo è sicuramente vero. È un’alternativa non riducibile o assimilabile alle altre espressioni della modernità. Sicuramente Strauss poneva a fondamento di tutto questo cosiddetto problema teologico-politico, ossia l’ineliminabilità del problema della religione (che, secondo Strauss, sarebbe bene non si provasse nemmeno a eradicare). Ora, gli austriaci non erano religiosi. Nel loro mondo, nella loro cosmologia e nella loro filosofia non compare Dio. Tuttavia, non è che negassero la religione, poiché sapevano che la credenza religiosa può essere una delle tante componenti che spingono l’uomo ad agire. Detto questo, non pensavano che il comportamento ispirato a motivazioni religiose avesse un minor numero di conseguenze inintenzionali (grande cardine della loro filosofia politica), o che le motivazioni religiose potessero dar vita a società più buone, migliori o preferibili. È tutto un altro universo, che non è una secolarizzazione di nulla. È un pensiero che si sviluppa attraverso vie, sicuramente abbastanza misteriose, in relazione all’epicureismo, alla teoria lucreziana dell’origine delle istituzioni sociali, che però negli austriaci non assume una componente antireligiosa (se non nel caso di Mises, ma anche in quel caso la critica è rivolta più alla Chiesa). Però tutti erano consapevoli che anche seguire le motivazioni religiose possono dar vita a conseguenze non intenzionali particolarmente negative. Detto questo, diversamente da tanti altri pensatori liberali della modernità – da Adam Smith a John Rawls – non pensavano affatto che fosse opportuno o necessario regolare il rapporto tra la religione e la politica. Strauss per altri versi aiuta a vedere queste cose. Strauss è un pensatore molto distante dalla Scuola Austriaca, ma ci consente di guardare la vita sociale e le cose politiche sotto una luce originale. La stessa cosa si può dire degli austriaci, anche se non è la stessa luce, non è la stessa prospettiva. Tuttavia, come ho mostrato in L’ombra della tirannide (Cubeddu, 2014), per quanto riguarda la critica dello storicismo, del totalitarismo e dello scientismo, le posizioni di Strauss e quelle di Hayek possono essere avvicinate e anche di molto. Entrambi pensavano che i grandi mali della modernità fossero dovuti al successo dello storicismo e dello scientismo, anche senza richiami reciproci.

Friedrich August von Hayek e Bruno Leoni. Licenza Wikimedia Commons. Immagine di dominio pubblico.

Bibliografia

Böhm-Bawerk, E. von (1995), Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale, Roma: Archivio Guido Izzi.

Cubeddu, R. (2014), L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss, Soveria Mannelli: Rubbettino.

Cubeddu, R. (2018), “I liberisti nella cultura politica italiana”, in Philosophy Kitchen, VIII, pp. 67-102.

Cubeddu, R. (2019), Individualismo e religione nella Scuola Austriaca, Pisa: ETS.

Cubeddu, R. (2021a), La cultura liberale in Italia, Soveria Mannelli: Rubbettino.

Cubeddu, R. (2021b), Scambio dei poteri e stato delle pretese, Torino: IBL Libri.

Leoni, B. (1994), La libertà e la legge, Macerata: Liberilibri.

Menger, C. (2001), Principi fondamentali di economia, Soveria Mannelli: Rubbettino.

Mises, L. von (2020), Socialismo. Analisi economica e sociologica, Soveria Mannelli: Rubbettino.

Rosmini, A. (2021), Filosofia della politica, Siena: Cantagalli.

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