● Pensiero politico
Questa intervista è il secondo di una serie di Dialoghi con personalità dell'accademia e della cultura che la sezione di Pensiero Politico sta realizzando nel contesto di un approfondimento del rapporto fra Liberalismo e cultura politica in Italia e in Europa.
Giovanni Giorgini è Professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Bologna. Si è laureato in Filosofia all'Università di Bologna con Nicola Matteucci e si è perfezionato all'Istituto Italiano Studi Storici di Napoli. Ha conseguito il dottorato di ricerca in storia del pensiero e delle istituzioni politiche all'Università di Torino. Giorgini ha studiato prevalentemente la filosofia greca antica, il liberalismo novecentesco e la ripresa del pensiero politico classico nella filosofia contemporanea. È autore di tre libri: La città e il tiranno. Il concetto di tirannide nella Grecia del VII-IV secolo a.C. (Giuffrè, 1993); Liberalismi eretici (Edizioni Goliardiche, 1999); I doni di Pandora. Filosofia, politica e storia nella Grecia antica (Bonomo, 2002). Ha pubblicato inoltre una traduzione, con note e introduzione, del Politico di Platone (Rizzoli, 2005), numerosi saggi in diverse lingue su riviste specialistiche, traduzioni e voci di enciclopedie. Nel 2017 ha curato (assieme a Elena Irrera) The Roots of Respect. A Historic-Philosophical Itinerary, Berlin-Boston, De Gruyter.
1) Uno degli obiettivi della riflessione che stiamo portando avanti quest’anno è comprendere quale sia il ruolo del liberalismo nella storia della cultura politica italiana. Si tratta di una tradizione notoriamente minoritaria, ma che nonostante ciò ha prodotto alcune figure di spicco negli ultimi due secoli. Quali sono a suo giudizio i momenti più significativi di questa storia e quale può essere il suo apporto al dibattito politico del Paese?
Mi fa molto piacere parlare del liberalismo. Io me ne sono occupato in passato sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista storico, e una delle cose che ho notato immediatamente - quando mi è capitato di parlare del liberalismo in contesti non italiani – è la difficoltà che facciamo a capirci, in particolare coi colleghi anglosassoni, inglesi e americani, perché la parola “liberale” ha un significato particolare in Italia, in Germania, in Francia, diverso da quello che ha in Inghilterra e ancora diverso rispetto a quello che ha negli Stati Uniti. Se io mi definisco un “liberale” in Italia la gente pensa che io sia una persona di orientamento vagamente conservatore, che crede nella difesa della proprietà privata, nella difesa dei diritti individuali e magari anche nel non intervento dello Stato in economia. Questo è più o meno valido anche in Francia o in Germania, mentre già in Inghilterra essere liberal significa avere una posizione progressista, tant’è vero che negli anni 80, quando il partito laburista voleva liberarsi dell’egemonia marxista al proprio interno, si parlava di “lib-lab” come terza via socialdemocratica, quindi essere un liberal poteva andare d’accordo con essere un labour. In America la situazione è ancora diversa perché per esempio la mia amica e collega Martha Nussbaum, che è una famosa pensatrice liberal, ha posizioni ancora più radicali rispetto ovviamente a un italiano ma anche rispetto a un inglese. Un liberal in America è qualcuno che crede naturalmente non solo nelle possibilità per le donne di avere l’aborto ma anche nei matrimoni tra coppie dello stesso sesso e nell’intervento dello Stato in economia e soprattutto nell’educazione pubblica. Quindi c’è innanzitutto questa cosa interessante che riguarda il linguaggio, il termine “liberale” stesso. In secondo luogo quello che lei ha detto è verissimo: in Italia il liberalismo è sempre stato una tradizione minoritaria, ma questo vale soprattutto se noi guardiamo al Novecento e in particolare al secondo dopoguerra, quando il liberalismo è stato schiacciato dai due grandi movimenti ideologici egemoni del cattolicesimo e del marxismo. Già se noi guardiamo all’Italia dell’Ottocento, in quel caso vediamo invece che il liberalismo, i liberali classici ottocenteschi – nomi come Cavour o come il bolognese Marco Minghetti – sono stati fondamentali per fare il Risorgimento, per fare l’unità d’Italia. È vero che questi pensatori erano anche uomini politici, uomini d’azione ed erano certamente liberali, ma erano maggiormente interessati a fare l’unità d’Italia politica e in un secondo tempo magari dal punto di vista culturale, quindi in base a valori liberali.
2) Circa vent’anni fa lei ha aperto una monografia intitolata Liberalismi eretici (1999) con un paragrafo dedicato a “cosa significa essere liberali alle soglie del 2000”, per poi prendere in esame una serie di figure (da Strauss a MacIntyre a Nussbaum) il cui rapporto con il liberalismo è notoriamente complesso e problematico. Qual era il significato che lei attribuiva all’epoca al concetto di liberalismo e quanto è ancora valido oggi?
Devo dire che secondo me il titolo che gli diedi – che tra l’altro non fu opera mia ma del mio vecchio maestro (come si dice in Italia e io uso con piacere questo termine riferendomi a lui; – in Gran Bretagna sono meno formali e si dice former teacher) Nicola Matteucci, che era bravissimo a scegliere i titoli dei libri, oltre a essere stato uno dei più grandi liberali del Novecento – è volutamente provocatorio, perché Matteucci – e io la penso come lui su questo – riteneva che il liberalismo non fosse una dottrina fissa ma una sintassi, un insieme di artifici istituzionali e costituzionali che i pensatori liberali avevano dispiegato nelle varie epoche per rispondere alle sfide dell’epoca. Così inteso, è ovvio che non c’è una dottrina liberale quindi non ci può essere nessun eretico, e il titolo è volutamente provocatorio. Quindi “liberalismi eretici” perché cercavo in quell’opera di mostrare come interpretando così il liberalismo – appunto come una sintassi, un insieme di concetti, istituzioni dispiegati per rispondere alle sfide dell’epoca – autori che solitamente noi non consideriamo liberali come appunto Leo Strauss, che si definiva un “liberale all’antica” (ha scritto un libro intitolato Liberalismo antico e moderno) o come Michael Oakeshott – peraltro apparirà questa settimana[1] in traduzione italiana per la prima volta la sua opera principale, Razionalismo in politica e altri saggi, grazie a questo think-tank liberale, uno dei pochissimi che abbiamo in Italia se non l’unico che è l’Istituto Bruno Leoni di Milano. Io cercavo di mostrare come il liberalismo debba essere inteso come una risposta alle sfide dell’epoca, in questo devo dire riprendendo molto quella intuizione di Nicola Matteucci. Essere liberali quindi nel 2020 secondo me significa utilizzare questa sintassi del liberalismo – una sintassi che è ad un tempo un insieme di idee, istituzioni e artifici costituzionali – per cercare di rispondere alle sfide del 2020, che io ad esempio oggi – diversamente da quello che facevo nel 1999 quando scrissi Liberalismi eretici – individuo maggiormente in una globalizzazione che si è concentrata sugli aspetti economici ma non ha saputo globalizzare i valori liberali. Questo secondo me è un punto importante, perché il più grosso pensatore liberale americano del 900 (o al massimo ci metterei a fianco John Dewey), cioè John Rawls – che ha avuto il grandissimo merito di far rinascere non solo la teoria liberale nel 1971 con la sua opera Una teoria della giustizia ma la nozione stessa di filosofia politica normativa – definisce il liberalismo come una dottrina neutra rispetto ai valori, e questo secondo me è una idea molto problematica. Il fatto che al liberalismo – come Rawls ripete nella sua grande opera, Liberalismo politico – non importi la parola “verità” in politica perché “verità” è una parola divisiva: questo secondo me è molto problematico perché quando ci troviamo di fronte a quelle che oggi tutti chiamano le finte verità o le post-verità o le fake news – per usare il termine inglese – è molto problematico se noi abbiamo una visione del liberalismo che è neutrale rispetto ai valori e non vuole usare il termine “libertà”. Quindi io trovo che il liberalismo debba affrontare questo problema della globalizzazione, del fondamento e della giustificazione dei propri valori; vi è poi un problema teorico-ideologico, la questione del cosiddetto “politicamente corretto”, che mi pare stia diventando la nuova frontiera del relativismo, e cioè in nome di questa ideologia del politicamente corretto noi operiamo delle censure sull’espressione. Quello che voglio dire naturalmente non è che ci dovrebbe essere libertà di insultare gli altri – per quello dovrebbe bastare già l’educazione e le leggi che ci sono –, non si deve fare la censura del pensiero.
3) In un recente articolo (Giorgini, 2018) lei ha caratterizzato anche il suo maestro, Nicola Matteucci, come un “liberale eretico”: qual è il ruolo della figura di Matteucci nel liberalismo ma più in generale nella cultura politica italiana del secondo Novecento?
È sempre difficile essere obiettivi riguardo a una persona verso la quale si ha un grande debito intellettuale, ma Nietzsche diceva che non si è buoni allievi se si rimane sempre allievi. Obiettivamente, io penso che Matteucci sia stato assieme a Benedetto Croce il più importante teorico liberale del Novecento. Quindi è interessante vedere come il liberalismo italiano del Novecento sia pervaso da correnti molto diverse: lo sappiamo bene, Croce di formazione era un idealista, un hegeliano, e quindi è interessante vedere come un hegeliano possa diventare liberale. E infatti il liberalismo di Croce è un liberalismo molto particolare, come noi sappiamo. Croce è responsabile di quella interessante distinzione tra liberalismo inteso come teoria etica e liberismo inteso come teoria economica. Croce sosteneva da buon hegeliano che il libero mercato, il liberismo, debba essere categorialmente distinto dall’etica, dal liberalismo come concezione etica. Come ben sappiamo, un grande economista come Luigi Einaudi ha criticato fortemente questa distinzione sostenendo – a mio parere correttamente – che non si può essere liberali senza credere anche nel libero mercato. Matteucci si era laureato a Bologna ma poi era andato giovanissimo a studiare a Napoli proprio sotto Benedetto Croce in questo neonato Istituto Italiano per gli Studi Storici, ospitato a casa di Croce (è stato lì due anni), e nella quale aveva avuto proprio Benedetto Croce come maestro. Quindi Matteucci ha assorbito da Croce quest’idea del liberalismo anche come teoria etica. Negli anni Cinquanta però ha studiato i grandi costituzionalisti inglesi e americani, e da lì ha assorbito l’idea del costituzionalismo come – per usare proprio la sua espressione – “tecnica della libertà”: il fatto che la costituzione e i dispositivi costituzionali vengano utilizzati per proteggere i diritti individuali delle persone, perché Matteucci ha sempre creduto in quest’immagine lockiana. Il liberalismo è un’ideologia, intendendola in senso non marxiano naturalmente, nel vecchio senso: un sistema coerente di idee fondato sull’immagine dell’uomo come portatore per natura di certi diritti. Quindi negli anni 70 Matteucci ha cominciato a elaborare in maniera originale secondo me queste idee liberali, e la sua visione era appunto quella che lui mette per iscritto nell’opera del ’72 Il liberalismo in un mondo in trasformazione, un libro molto interessante perché la prima metà è tutta dedicata a fare i conti con Croce. Matteucci risolve il suo debito intellettuale con Croce, mostra come bisogna andare oltre Croce, che era ancora la grande presenza liberale in Italia, e invece, facendo vedere la propria originalità, Matteucci parla del liberalismo come risposta alle sfide dell’epoca. Da un punto di vista storico sosteneva che il liberalismo nasce per rispondere alla sfida – e mi sembra un’idea corretta – delle guerre civili di religione e poi dell’assolutismo regio. Nell’800 deve rispondere alla sfida dell’affacciarsi delle masse sulla scena politica e quindi vediamo autori come Tocqueville, grande amore di Matteucci, e John Stuart Mill, mostrare che il nuovo pericolo per la libertà non è un pericolo dal punto di vista politico (il sovrano assoluto), bensì dal punto di vista sociale, la tirannide della maggioranza, il conformismo di massa. Nel 900 naturalmente il pericolo è stato quello dello stato totalitario, sia nella versione fascista-nazista sia nella versione comunista. E quando Matteucci scrive nel ’72 per fortuna il pericolo totalitario è svanito, in gran parte soprattutto nell’Europa occidentale, e Matteucci vede i nuovi pericoli in due temi secondo me ancora oggi assolutamente validi dopo cinquant’anni: da un lato nel conformismo di massa – quella che Tocqueville chiamava la tirannia della maggioranza, cioè la tirannide dell’opinione unica o prevalente; questo per Matteucci era ancora nel 1972 uno dei problemi fondamentali e io trovo che oggi sia lo stesso, tanto è vero che a me piace parlare di educazione liberale come di educazione al libero pensiero, cioè a diventare pensatori critici. Il secondo pericolo che Matteucci individuava (siamo nel ’72) era quella che lui chiamava l’insorgenza populistica. Oggi in tanti parlano di populismo. Se uno legge la New York Review of Books o il Times Literary Supplement c’è sempre recensito in ogni edizione un nuovo libro sul populismo: è il nuovo tema di moda. Trump negli Stati Uniti, in Europa altri paesi come l’Ungheria o la Polonia hanno fatto rinascere l’interesse per il populismo. Matteucci già negli anni 70 individuava perfettamente qual era l’essenza del populismo: una rivolta contro le élites, una rivolta contro quella che potremmo chiamare l’expertise, contro i tecnici, contro quelli che hanno una expertise particolare, in nome di questa politica diretta, non mediata e che parte dal basso.
[1] Questa intervista è stata realizzata nel mese di dicembre 2020.
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Bibliografia
Giorgini, G. (1999), Liberalismi eretici, Trieste: Edizioni Goliardiche.
Giorgini, G. (2018), Nicola Matteucci. Un liberale eretico, in Philosophy Kitchen, VIII, pp. 133-144.