**Pensiero politico
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Claudio Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, ed è uno specialista di letteratura medievale (La poesia italiana nell’età di Dante, Il Mulino 1998; Due saggi sulla tenzone, Antenore 2002; Versi a un destinatario, Il Mulino 2002; Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Il Mulino 2005). Tra i suoi ultimi libri: i manuali di letteratura per le scuole superiori Lettere al futuro e Lo specchio e la porta (DeAgostini Garzanti Scuola 2018-21), i saggi E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (Il Mulino 2017), Come non scrivere (Utet 2018), Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (Il Mulino 2020), il reportage dalla Russia Togliatti. La fabbrica della Fiat (Humboldt 2020). Collabora regolarmente al Sole 24 ore, al Foglio e a Internazionale. È condirettore della Nuova rivista di letteratura italiana.

L’intervista prende le mosse dalla curatela da parte del prof. Giunta di una nuova edizione del Diario politico di Adriano Tilgher: Tilgher, A. (2021), Diario politico, Pisa: Edizioni della Normale (https://edizioni.sns.it/prodotto/diario-politico/).

La figura di Adriano Tilgher non è normalmente inserita nel novero dei pensatori politici italiani del Novecento. Da dove nasce dunque questo Diario politico e cosa ci rivela della sua figura?

Direi che Tilgher non figura, o quasi, in nessuna delle genealogie culturali italiane: non in quella della storia della critica letteraria (dove dovrebbe invece avere un posto eminente, soprattutto, ma non solo, per i bellissimi saggi su Pirandello e Leopardi), non in quella della storia della filosofia, non in quello della storia delle idee politiche. Il fatto è che nell’entre-deux-guerres, che è stata l’epoca in cui ha scritto le sue cose più importanti e note, Tilgher è stato soprattutto un saggista ‘libero’, cioè non legato all’università, e un commentatore da quotidiano o da periodico. E questa sua posizione diciamo periferica ha fatto sì che l’università lo dimenticasse, o non riconoscesse il valore delle sue opere. Il Diario politico è l’ultimo dei suoi libri, uscito postumo, nel 1946, quando Tilgher era già morto da cinque anni. Non è un libro-libro, ma una somma di appunti che Tilgher comincia a scrivere nel 1937; gli ultimi datano a un paio di settimane prima della morte. Certo, Tilgher si augurava che queste note prima o poi prendessero forma di libro, che venissero pubblicate: ma senz’altro non avrebbero potuto esserlo nell’Italia ancora fascista, perché tutte le note del Diario sono ispirate da un sentimento profondamente antitotalitario, liberale, anche se il discorso è quasi sempre tenuto sul piano della teoria, dei princìpi, e di ‘fascismo’ e di ‘Mussolini’ non si parla che in numerati casi. Quanto a ciò che il Diario rivela di Tilgher, è presto detto: si tratta della riflessione, di una serie di riflessioni, di un cinquantenne che – come molti intellettuali italiani di quell’epoca – ha avuto un atteggiamento ondivago nei confronti del fascismo, e ora ne ha ben chiaro il carattere antidemocratico, illiberale, violento, e da questa constatazione ricava un piccolo, asistematico trattato di dottrina politica.

Il testo si configura come una peculiare riflessione liberale nell’ora più buia dei totalitarismi del Novecento. Quali sono i tratti di fondo del liberalismo tilgheriano?

Giusta domanda, ma troppo difficile per me: io non sono in grado di collocare Tilgher in una lignée di pensiero liberale perché non sono uno specialista di storia delle dottrine politiche. L’interesse per il libro è nato in me dall’ammirazione che provavo per il Tilgher critico letterario e polemista; ho constatato che questo suo libro postumo era molto interessante, e in certe pagine molto bello, ma pubblicato coi piedi, cioè pieno di refusi, errori, tagli, integrazioni arbitrarie. Allora ho pensato che era il caso di rifare l’edizione (non è difficile, l’autografo è alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma), quindi diciamo che il primo interesse, il primo movente era filologico. Poi naturalmente mi è parso necessario scrivere un’introduzione che permettesse al lettore di collocare il testo nella sua epoca, e nella storia intellettuale di Tilgher: ma l’intenzione era ed è riportare alla luce un testo dimenticato perché gli specialisti possano leggerlo e giudicare, tra l’altro, della grana del liberalismo di Tilgher. Quanto a me, mi è venuto spontaneo paragonarlo da un lato a pensatori che in quel torno di tempo riflettevano su problemi analoghi, come Orwell, Huizinga, Zweig, Popper, dall’altro a scrittori-moralisti italiani che sembrano condividere, con Tilgher, un set di opinioni e valori, oggi forse si direbbe una postura intellettuale, che nel nostro Paese non sono mai stati particolarmente coltivati: Savinio, Brancati, Flaiano. Come vede, non ricostruisco alcuna trafila intellettuale, non indico nessun rapporto diretto, mi limito a descrivere molto superficialmente un’aria di famiglia. E forse è giusto così, nel senso che le idee liberali, o diciamo il nucleo delle idee liberali fa appello a una common decency che non ha bisogno di cauzioni filosofiche. Ma gli specialisti riusciranno forse ad essere più precisi.

Uno degli aspetti più peculiari del Diario politico è la sua attenzione ai temi del nazionalismo e dell’amore di patria, che raramente compaiono nel pensiero liberale del Novecento: come li declina Tilgher all’interno di un paradigma liberale?

In maniera non particolarmente originale o profonda, mi pare: vale a dire che ricorre a un’opposizione abbastanza consueta, tra patriottismo buono e nazionalismo cattivo. Al fondo del patriottismo c’è un moto d’amore per il luogo in cui si è nati, per la famiglia, per il proprio popolo; al contrario, il nazionalismo è fatto «di orgoglio e di volontà di potenza trasposti dall’io al corpo collettivo»; l’uno protegge, l’altro aggredisce; l’uno lavora per la conservazione della pace, l’altro prospera nella guerra, la cerca. Come tanti altri hanno detto, il nazionalismo è una forma di soddisfazione vicaria: nascendo dal risentimento, offre «un risarcimento immaginario ai vinti della vita che sono l’enorme maggioranza, quindi è un sentimento per essenza plebeo, di massa, di folla. Chi non ha successo nella vita si consola con quelli della sua nazione» (Tilgher, 2021: 108). Più interessante e originale è forse il fatto che questa distinzione tra amor di patria come libertà e amor di patria come volontà di potenza Tilgher la verifichi sul piano storico. Il nazionalismo anteriore al 1848 è «un corollario dell’idea di libertà» (Tilgher, 2021: 168), vale a dire che si batte in vista dell’autodeterminazione, ma appunto per questo riconosce il medesimo diritto agli altri popoli: «Ripassin l’Alpi, e tornerem fratelli», è il motto dei patrioti italiani. Il nazionalismo successivo al 1848 cade invece nel dominio della forza, e il popolo che ne è vittima non si accontenta di essere padrone a casa propria, vuole dominare su quante più nazioni straniere è possibile: «Il nazionalismo prequarantottesco odia il padrone straniero in quanto padrone, non in quanto straniero – l’altro lo odia perché straniero, non perché padrone (tanto vero che ammette benissimo il padrone in casa purché gli dia la potenza o l’illusione della potenza)» (Tilgher, 2021: 168). Sul piano dell’etica individuale, il nazionalismo diseduca, perché la medesima logica della sopraffazione e dell’inganno che gli Stati nazionalisti fanno valere nel rapporto con gli altri Stati verrà fatta valere dai cittadini nel rapporto reciproco e in quello con le istituzioni: «È nell’interesse stesso dello Stato che esso agisca nei rapporti con gli altri Stati in modo da dare al cittadino l’impressione che esso si regola secondo onore giustizia onestà, che esso non calpesta sotto i piedi la legge morale ecc. La moralità dello Stato confermerà la morale del privato cittadino» (Tilgher, 2021: 98). Sul piano della vita associata, il nazionalismo produce, da parte dello Stato, una continua ingerenza che adopera come suoi strumenti la scuola e la propaganda. Tilgher guarda con preoccupazione a questo estendersi del potere statale ad ambiti della vita che stanno al di fuori della sfera della politica: «L’ideale dello Stato al massimo della tensione – scrive – è un popolo che pensi, creda, senta, ami, odi, come e quello che gli dice lo Stato e sol perché glielo dice lo Stato […]. Chiamiamo questa forma di Stato lo stato integrale» (Tilgher, 2021: 100-1), ovvero – benché Tilgher non usi mai in relazione all’Italia questo aggettivo, già allora corrente nelle definizioni del fascismo – totalitario.

L’introduzione a questa nuova edizione esplora con particolare attenzione il rapporto di Tilgher con il fascismo, che è stato in passato spesso frainteso: come può essere valutato ora, alla luce della riscoperta di questo testo?

Tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, Tilgher – firmatario tra l’altro del manifesto degli intellettuali antifascisti – si era avvicinato al fascismo, difficile dire se per opportunismo, paura, bisogno, o per intima convinzione: aveva stroncato la Storia d’Italia di Croce, aveva scritto lettere servili al capo dell’ufficio stampa di Mussolini Giovanni Capasso-Torre e allo stesso Mussolini, si era proposto come direttore di un giornale ‘afascista’, aveva forse sperato in un seggio al Senato. Ma nel corso degli anni Trenta – lo provano non tanto i suoi scritti o le sue dichiarazioni pubbliche quanto le informative della polizia politica che si trovano nel suo fascicolo all’Archivio Centrale dello Stato – Tilgher cambia strada, e di nuovo non so dire quanto in questo cambiamento abbiano pesato la diffidenza dei gerarchi, che probabilmente dubitavano della buona fede di questo ex-antifascista, e quanto invece una reale resipiscenza. Sta di fatto che nel 1937 Tilgher è, anche per la questura, un acceso antifascista, in rapporto con membri di «Giustizia e Libertà»: e le note, rimaste segrete fino al 1946, del Diario politico lo confermano. La valutazione del profilo ideologico e – non è una parola abusiva – morale di Tilgher deve tener conto di questo percorso sinuoso, in parte sotterraneo, e naturalmente dei tempi, delle circostanze in cui Tilgher si è trovato a vivere. Anche in questo caso lascerei agli esperti la responsabilità di un giudizio più fondato; a me pare che i compromessi che ha fatto non siano molto diversi da quelli che hanno dovuto fare tanti altri intellettuali a cui è toccato attraversare il fascismo. Ma questi altri hanno avuto la fortuna di non morire nel 1941, di poter cambiare idea, e di spiegare le proprie ragioni – anche i propri errori e le proprie viltà se si vuole. Lui no.