**Pensiero politico
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Qual è il confine dello Stato? Fino a che limite si è oggi disposti a tollerare l’intervento della collettività nella sfera individuale? E, d’altra parte, fino a che punto il potere statale deve farsi carico dell’individuo, dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni? Sono queste, oggi, domande più che mai attuali, tali da coinvolgere direttamente ogni cittadino, di qualunque d’età e in qualsiasi paese occidentale. La storia del Novecento, dalla Thatcher al blocco sovietico, ha offerto le più svariate soluzioni al problema in questione e la storia del 2000 non sembra di certo meno quieta sul tema. Risalire pertanto alla radice teorica della questione può essere un valido modo per chiarire quali siano le posizioni in campo, le rispettive premesse, le conseguenti idee sulla natura umana. Tra chi già nell’Ottocento, seppur in un contesto radicalmente differente, era intervenuto sul tema, spicca Alexis de Tocqueville con la sua strenua avversione allo statalismo, il volto istituzionalizzato del nascente socialismo.

Quando il 25 dicembre 1847 il re di Francia, Luigi Filippo, proibì in tutto il Paese la campagna dei banchetti, di certo il clima che si respirava non era sereno; eppure solo poche anime lungimiranti ebbero la capacità di prefigurare con esattezza ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi mesi. Tra questi spiriti sagaci si distinse Alexis de Tocqueville: egli, alla vigilia del 1848, vide delinearsi con chiarezza una grande lotta politico-sociale, la seconda dopo quella del 1789, qualificabile come il più grande conflitto tra i resti di un’aristocrazia ormai parzialmente, se non del tutto, decaduta e la classe media. Ora, invece, il baricentro della contesa si era spostato e i protagonisti erano diventati la classe media e il popolo: «Non sentite forse un vento di rivoluzione nell’aria?» (Tocqueville, 1969: p. 280) tuonava la sua voce alla Camera il 27 gennaio 1848 tra l’imperturbabilità e l’indifferenza generale dei suoi colleghi.

Se in passato egli aveva delineato la storia dell’umanità come una marcia comune ed irrefrenabile verso l’eguaglianza delle condizioni e l’avvento ineluttabile della democrazia, adesso, invece, le coordinate di riferimento della sua indagine sono, in parte, mutate: il tessuto che tiene uniti i pensieri di un Tocqueville ormai maturo è lo studio del carattere peculiare della o delle rivoluzioni francesi, le quali appaiono ai suoi occhi come scontri, conflitti sociali. Ciò su cui egli maggiormente si interroga è il perché l’ondata rivoluzionaria, ovunque temibile, assunse in Francia determinati tratti distintivi che non si ravvisarono in nessun altro paese. La risposta a un simile quesito si trova, per il liberale francese, nell’originale struttura politica della Francia, ovverosia nell’antico centralismo – la riconduzione di ogni aspetto della gestione statale al potere centrale - che era stato funzione e prerogativa dello Stato assoluto.

Lo Stato assoluto, infatti,  – impersonato nel migliore dei modi da Luigi XIV – volle distruggere gli organi di autogoverno della società e, con l’obiettivo di impedire che la nazione «rimondasse le sue libertà», fu costretto a sorvegliare senza posa «affinchè le classi rimanessero divise, non potessero concertare una resistenza concorde, e il governo avesse a trovarsi di fronte, ogni volta, soltanto un piccolo numero d’uomini, separati da tutti gli altri» (Tocqueville, 1969: p. 702). Il centralismo fu, allora, la causa della totale inettitudine dei francesi all’autogoverno locale e alla libertà politica, ragion per cui, al momento fatidico della transizione da un assetto sociale aristocratico a uno democratico, essi arrivarono profondamente impreparati e, incapaci di riorganizzarsi autonomamente, invocarono a gran voce un aiuto esterno; estenuati dall’instabilità del cambiamento, preferirono annegare nelle pastoie di una quiete dispotica.

La creatura partorita dalla struttura centralistica dell’Ancien Régime fu una società mostruosa del tutto incapace di una “sopravvivenza politica” autonoma: ne risultarono o uomini servili, dediti unicamente alla ricerca di una posizione congrua a tenerli addentro ai meccanismi amministrativi della grande macchina del governo, o ribelli, inclini esclusivamente alla contestazione della realtà presente e dotati di fervida fantasia, tutti tesi a tratteggiare con la riga e con la squadra una società completamente nuova, ma completamente immaginaria, come quella profilata dagli «economisti del 1750» o dai socialisti del 1848.

Il centralismo è, allora, il peccato originale della Francia e gli stessi teorici del socialismo non ne sono immuni: «Centralismo e socialismo sono frutto dello stesso terreno; comparativamente fra essi, sono ciò che il frutto coltivato è rispetto alla bacca silvestre» (Tocqueville, 1969: p. 754). Il socialismo ha una veste gattopardiana: si propone di cambiare tutto affinchè nulla muti realmente. Le dottrine socialiste di Owen, Saint-Simon, Fourier, alcuni dei protagonisti principali del dibattito del tempo, diventeranno, per tale ragione, sia nelle ferventi pagine dei Ricordi, sia in molti dei discorsi tenuti in Camera dal deputato Tocqueville, sia in alcuni punti chiave de L’Antico Regime e la Rivoluzione, le nemiche giurate del nobile normanno.

La colpa principale del socialismo, quella che secondo Tocqueville maggiormente lo avvicina ad un assetto dispotico in cui seppellire le speranze della democrazia, è di ritenere non solo auspicabile, ma addirittura necessaria la presenza di un enorme centro di controllo in grado di dirigere ogni attività e di organizzare la società. Esso avverte il bisogno di impadronirsi del braccio centrale del potere, dei gusci d’acciaio della burocrazia, forte della legittimazione derivatagli dall’utopistica volontà di eliminare le classi e con esse la miseria dalla faccia della terra. In altre parole, secondo Tocqueville, il socialismo non è altro che l’Antico Regime che si ammanta della questione sociale, che non lascia spazio all’autogoverno e che sopprime la libertà considerandola una scomoda variante nelle sue rigide teorizzazioni: «L’antico regime, infatti, professava l’opinione secondo la quale l’unica saggezza è nello Stato, i sudditi sono degli esseri infermi e deboli che bisogna sempre tener per mano, per tema che non cadano o non si facciano male: l’opinione che è bene molestare, contrariare, comprimere senza posa le libertà individuali; che è necessario regolamentare l’industria, assicurare la bontà dei prodotti, impedire la libera concorrenza. Su questo punto l’antico regime la pensava esattamente come i socialisti di oggi» (Tocqueville, 1969: p. 286). Lo scetticismo dei socialisti per l’umana libertà li conduce ad eternizzare lo stato di minorità degli individui. Se l’uomo non è in grado di badare a se stesso, è necessario che sia qualcun altro ad incaricarsene: lo Stato deve necessariamente estendere le sue prerogative per poter garantire ad ognuno, indipendentemente dal valore proprio del singolo, un adeguato livello di benessere economico in nome di una fantomatica giustizia sociale.

Ciò cui mirano le dottrine socialistiche è una società immobile in cui il momento della lotta e della competizione, ritenuto da Tocqueville un correttivo indispensabile per i cittadini delle democrazie che non volevano demandare ad altri la loro stessa libertà d’azione, è totalmente assente perché asfaltato dal più bieco statalismo. Essi ripongono fiducia non nel dinamico e ambizioso individuo, ma nella statica e abulica umanità: se il singolo con le sue manchevolezze, i suoi vizi o semplicemente con l’uso del suo arbitrio può turbare la comunità, il genere umano, affratellandosi, si completa: non ci sono più vizi, ma solo una generalissima virtù. Che significato assuma “virtù”, in questo frangente, è però da chiarire: è virtuoso solo colui che è in grado di trascendere sé stesso, di fare della propria persona uno strumento utile all’avanzamento di tutta l’umanità; è virtuoso colui che abdica alla propria volontà, ai propri interessi in nome di un presunto ordine teleologico da seguire. «Non si dirà più per lungo tempo: “Che cosa è più vantaggioso per ME?”, senza tener conto della famiglia umana, di cui l’individuo deve essere sempre soltanto un’unità; ma si dirà sempre: “Che cosa è più vantaggioso per la razza umana?”, poiché tutti avranno chiaramente capito che ciò ch’è più vantaggioso per la famiglia dell’uomo dev’essere tale per ogni individuo di questa famiglia» (Bravo, 1966: p. 220) - così Robert Owen conformava il paradigma della virtù all’idea madre non della libertà di tutti, ma della felicità dei molti.

Lanciando di continuo appelli energici alle passioni materiali dell’uomo, le diverse scuole socialistiche – contrariamente a quanto professano – introducono la grettezza nell’animo degli uomini e tradiscono l’originale e nobile intento della Rivoluzione dell’89. L’obiettivo delle grandi anime della prima ora rivoluzionaria era quello di fondare la libertà, di emancipare l’individuo dal potere assoluto e di rendere alla libertà dei singoli tutto ciò che era stato loro sottratto illegittimamente: «Cosa ha rotto tutte le pastoie che da ogni parte arrestavano il libero movimento delle persone, dei beni, delle idee? Cosa ha restituito all’uomo la sua grandezza individuale, la sua vera grandezza, cosa? La Rivoluzione francese stessa. È la Rivoluzione francese che ha abolito tutte queste pastoie, che ha rotto tutte queste catene che, sotto diverso nome, voi vorreste ristabilire» (Tocqueville, 1969: p. 287).

La parentesi gloriosa della Rivoluzione, da collocare per Tocqueville tra l’89 e il ’93, si era conclusa, però, nell’esatto momento in cui Robespierre aveva cominciato a trasformare «i diritti dell’uomo nei diritti dei Sanculotti» (Arendt, 2006: p. 61). Questa alterazione causò il deperimento degli ideali rivoluzionari. Il medesimo baratto viene riproposto, secondo il deputato normanno, nel 1848: il socialismo mira a vendere i diritti politici degli uomini civili in cambio dei diritti della miseria del proletariato tradendo lo spirito originale della Rivoluzione. Giacobinismo e socialismo rappresentano, entrambi nella stessa misura, l’apostasia dell’89.

La condanna ai cosiddetti “socialisti utopisti” non potrebbe, in conclusione, risultare più netta: Tocqueville vede il socialismo come il boia della libertà che fa breccia nel cuore degli uomini promettendo loro un’ardita felicità al prezzo del completo asservimento allo Stato. La linfa vitale è data a tale dottrina da spiriti che ignorano abbastanza la realtà da poter nutrire una fede tanto ostinata quanto intollerante; essa rappresenta l’ideologia dietro cui celare un esecrabile Stato paterno, quintessenza del dispotismo.

Democrazia liberale e socialismo statalistico si trovano, quindi, in una posizione di radicale antitesi; hanno in comune una sola parola: l’eguaglianza. Ma «la democrazia vuole l’eguaglianza nella libertà e il socialismo vuole l’eguaglianza nella servitù» (Tocqueville, 1969: p. 289).

In conclusione, quindi, ciò che emerge dalle pagine di Tocqueville – uno dei più grandi liberali dell’Ottocento – è la strenua difesa dell’individuo e della sua libertà, anche a prezzo dell’insicurezza e incertezza personale, contro un’immagine di Stato sempre più paternalistica e soffocante. Uno scontro, quello che il pensatore francese prospettava, che avrebbe visto nel Novecento la sua più grande arena di battaglia e che, in particolar modo oggi, in un’epoca di discussione e ridefinizione delle democrazie liberali, appare quanto mai attuale.

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Bibliografia

Arendt, H. (2006), Sulla Rivoluzione, Einaudi: Torino.

Bobbio, N. (2009), Libertà ed eguaglianza, in Id. Etica e Politica. Scritti di impegno civile, Mondadori: Milano, pp. 831-950.

Bracco, F. (1983), Louis Blanc. Dalla democrazia politica alla democrazia sociale (1830-1840), Centro Editoriale Toscano: Firenze.

Bravo, G.M. (1966), Il socialismo prima di Marx - antologia di scritti di riformatori, socialisti, utopisti, comunisti e rivoluzionari premarxisti, Editori Riuniti: Roma.

Tocqueville, A. (2013), La democrazia in America, a cura di Matteucci N., Utet: Torino.

Tocqueville, A. (1969), La rivoluzione democratica in Francia, a cura di Matteucci N., Utet: Torino.

Tocqueville, A. (1987), L’Amicizia e la democrazia. Lettere scelte 1824-1859, Edizioni Lavoro: Roma.

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