● Pensiero politico
Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale il dibattito che assorbiva le energie della maggior parte degli intellettuali dell’epoca riguardava la scelta del sistema economico e normativo che avrebbe dovuto accompagnare la ripresa e la crescita. Al tempo il contributo dato da Friedrich August von Hayek con The Constitution of Liberty (La società libera), di cui quest’anno ricorre il sessantesimo anniversario, rappresentava un’assoluta novità. In quell’opera Hayek elabora una filosofia sociale che contribuisce tutt’oggi alla comprensione che si ha delle istituzioni sociali e dell’interazione individuale, arricchendo i temi già esposti in The Road to Serfdom (La via per la schiavitù) del 1944 e affrontandone di nuovi.
La riflessione più rilevante e duratura della filosofia sociale hayekiana, sviluppata in buona parte in The Constitution of Liberty, riguarda il modo in cui la conoscenza è diffusa nella società e il ruolo che questa conoscenza ha nel comportamento degli individui (Hayek, 1937; 1945). Il fatto che non vi sia un luogo in cui la totalità di questa conoscenza è raccolta, essendo in parte di natura pratica (Polanyi, 1966), implica che gli individui sono singolarmente per lo più ignoranti se si prende in considerazione la totalità del mondo in cui agiscono.
Nondimeno, nota Hayek, questi riescono ugualmente ad orientarsi in un ambiente complesso pur non avendone una rappresentazione esaustiva. Questo è possibile grazie al fatto che in ogni loro azione non fanno affidamento esclusivamente sulla loro comprensione del mondo ma beneficiano anche della conoscenza elaborata da altri. Ciò avviene attraverso le istituzioni sociali, insiemi di regole emersi dall’interazione tra individui e dall’adattarsi delle loro aspettative. Le istituzioni guidano gli agenti verso percorsi d’azione alternativi e finiti che hanno avuto successo in passato, così permettendogli di conseguire i loro obbiettivi con un certo successo pur nella loro relativa ignoranza.
Bisogna chiedersi cosa accadrebbe se gli individui non fossero liberi di usare la propria conoscenza, di sperimentare nuovi corsi d’azione e rivedere le proprie aspettative. Ebbene, se questi fossero costretti coercitivamente a intraprendere certe azioni e a perseguire certi obiettivi non solo non avrebbero l’opportunità di usufruire della loro particolare conoscenza, ma non arricchirebbero le istituzioni di questa conoscenza, così impedendo ad altri individui di beneficiarne. La libertà è dunque la condizione necessaria perché la conoscenza incorporata nelle istituzioni vada a vantaggio di altre persone: è ciò che permette agli individui di adottare soluzioni vantaggiose ed evitare errori esperiti da altri.
Hayek si preoccupa tuttavia di mettere in guardia da alcuni modi di intendere la libertà che potrebbero essere controproducenti o pericolosi. Due esempi rilevanti sono il pensare la libertà come potere individuale o come libertà della nazione, che comporta nel primo caso l’inconveniente di identificare la libertà con la ricchezza e nel secondo il pericolo di concedere l’incondizionata opportunità ad una nazione di coartare i propri cittadini. Per queste, ed altre ragioni, Hayek preferisce definire la libertà come “indipendenza dall’arbitrario potere altrui”.
Il fatto che le azioni siano strettamente legate alla conoscenza che l’individuo possiede e di cui usufruisce attraverso le istituzioni ha, tra le tante, due implicazioni importanti. La prima è che la distribuzione della conoscenza influenza la performance economica. Al proposito è rilevante considerare che per Hayek è desiderabile che la conoscenza si diffonda rapidamente. Il catch-up tecnologico è un esempio virtuoso di questo processo.
La seconda è che la distinzione tra una libertà economica e una libertà civile e politica è forviante. Poiché l’individuo agisce sulla base delle sue credenze e aspettative, ma anche del contesto istituzionale, ai fini delle sue azioni sono rilevanti sia le condizioni economiche che il contesto normativo in cui agisce. La libertà è propriamente tale solo se è comprensiva di entrambi questi piani.
La difesa della libertà non è per Hayek fondata sull’assunzione di certi principi ma ha una giustificazione soprattutto pragmatica, evitando l’atteggiamento dogmatico che caratterizza una parte non trascurabile della tradizione liberale. Non permettere agli individui di fare liberamente uso della propria conoscenza vuol dire rinunciare a beneficiare di questa conoscenza collettivamente e a buone soluzioni che non emergerebbero in un ambiente coercitivo. In questo senso il costo più rilevante della coercizione è il costo opportunità (il costo che risulta dal non aver adottato possibili soluzioni potenzialmente migliori rispetto a quella adottata) derivante da un mancato cambiamento istituzionale desiderabile per tutti gli individui. Inoltre, questo costo non è suscettibile di calcolo, il che porta Hayek ad essere scettico verso le opportunità di un approccio utilitarista. Poiché la conoscenza è diffusa e una rappresentazione esaustiva del tessuto sociale è cognitivamente impossibile, il filosofo o lo scienziato sociale non occupano sempre una posizione privilegiata nella comprensione dei fenomeni sociali se non a posteriori. La riflessione di Hayek invita ad assumere un atteggiamento epistemologicamente umile nei confronti di fenomeni che sono più complessi di quanto spesso piaccia ammettere.
Hayek è forse il più noto individualista del XX secolo. In quanto tale gli viene rimproverata una concezione atomistica e riduzionista del sociale. Questo è di per sé curioso poiché il suo interesse per il contesto istituzionale ed il modo in cui le norme sociali emergono dalle interazioni tra individui e contribuiscono al coordinamento delle loro azioni si costituisce come diretta critica all’idea secondo cui la società è la mera somma dei suoi componenti (Di Iorio, 2016). Inoltre Hayek attribuisce fondamentale importanza alla capacità degli attori di costituire organizzazioni attraverso le quali perseguono i propri fini nel contesto istituzionale in modo coordinato. In particolare considera di tale rilevanza le dinamiche di gruppo per il cambiamento delle istituzioni e la diffusione della conoscenza da aver suscitato dubbi sulla natura individualistica della sua prospettiva (Vanberg, 1986; Whitman, 2005).
Hayek viene inoltre associato al darwinismo sociale. Una lettura veloce potrebbe dare quest’impressione, ma in realtà sarebbe una fondamentale incomprensione. Lo stesso Hayek scrive che espressioni come “selezione naturale”, “lotta per la sopravvivenza” e “sopravvivenza del più forte” sono espressioni inadatte a descrivere i fenomeni sociali. Nell’evoluzione culturale “il fattore decisivo non è la selezione di caratteri individuali fisici ed ereditari ma la selezione per imitazione delle istituzioni e delle abitudini che hanno avuto successo” (Hayek, 1960: p. 118). L’evoluzione non è qui il risultato di un tasso di riproduzione, ma della facoltà di apprendere degli individui, in conseguenza della quale modificano il loro comportamento. Nella prospettiva di Hayek ad evolvere sono dunque le regole ed i comportamenti e non gli organismi.
Ma l’accostamento di gran lunga più comune a cui è soggetto Hayek è sicuramente quello con il laissez-faire. Espressione che ha ricevuto un rinnovato interesse, in senso comprensibilmente dispregiativo, con La Fine del Laissez-Faire di Lord Keynes pubblicato nel 1926. È sentimento comune che una visione generalmente positiva di questo concetto sia trasversale alla tradizione liberale. A sorpresa di molti è invece incompatibile con buona parte di essa. Esaminare il perché fa luce su un aspetto fondamentale della posizione filosofica di Hayek.
Con "laissez-faire" si fa riferimento all’idea per cui gli individui che perseguono il proprio benessere senza impedimenti normativi da parte di terzi producono anche il maggior benessere sociale. La validità di questa formula riposerebbe su una qualche armonia naturale o sulla secolarizzazione della nozione di provvidenza. Per Hayek assumere l’esistenza di una “armonia naturale degli interessi” è quantomeno ingenuo. A far si che gli sforzi individuali producano conseguenze socialmente desiderabili “non è una sorta di magia ma l’evoluzione di istituzioni ben operanti” (Hayek, 1960: p. 120), così come la libertà produce conseguenze desiderabili rispetto alla diffusione della conoscenza. Questo vuol dire in primo luogo che esistono anche istituzioni dannose, ed in secondo luogo che gli individui non operano mai in un vuoto normativo. L’alternativa all’intervento dello stato, a meno di non voler seriamente proporre la riduzione di ogni piano normativo a quello legislativo, non è dunque la totale assenza di regole, ma l’osservanza di quelle norme che sono emerse lentamente da un processo evolutivo “spontaneo” di apprendimento e di cambiamento delle istituzioni sociali. L’espressione “laissez-faire”, come il più recente termine “deregolamentazione”, non indica qualcosa di desiderabile per Hayek, ma una costruzione intellettuale che per uno studioso delle istituzioni sociali è per lo più fuorviante, non cogliendo il rapporto complesso che intercorre tra la legislazione positiva e istituzioni sociali informali.
La scelta tra queste alternative, che non si configura quasi mai come un aut-aut, è comunque oggetto di valutazione. Hayek, generalmente, preferisce la seconda opzione sulla base del fatto che anche la conoscenza del legislatore è imperfetta e che un suo errore ha costi alti e diffusi. Questo dovrebbe operare solo promulgando leggi applicabili in modo omogeneo evitando discriminazioni e prescrizioni coercitive ove possibile. Tuttavia è indicativo dello spirito pragmatico dell’autore il fatto che consideri desiderabile un certo intervento statale in settori come la sanità e l’istruzione, oltre ad immaginare un reddito minimo come meccanismo di assicurazione per tutti i cittadini di un paese.
Il contributo di Hayek è ancora fondamentale se si vuole comprendere il modo in cui si è sviluppata la tradizione liberale contemporanea. La formulazione che Hayek ne offre non si fonda più su principi astratti, bensì sulle esigenze di una società estesa e complessa in cui il coordinamento delle azioni individuali non è più possibile attraverso un’organizzazione solamente gerarchica. Infine, se si vuol ragionare di liberalismo o neoliberalismo, ripercorrere i testi di quest’autore è essenziale per evitare di incorrere nelle eccessive semplificazioni che popolano il dibattito pubblico.
Immagine: Friedrich Hayek, Gothenburg, Sweden, 1981. Credits: Flickr.com. Immagine di dominio pubblico.
Bibliografia
Di Iorio, F. (2016), "Introduction: Methodological Individualism, Structural Constraints, and Social Complexity", in COSMOS + TAXIS, Vol 3, Double issue 2 + 3. pp. 1-8
Hayek, F.A. (1937). “Economics and Knowledge”, in Hayek, F.A. (1949), Individualism and Economic Order, Routledge & Kegan Paul: London, pp. 33-56.
Hayek, F.A. (1944), The Road to Serfdom, University of Chicago Press: Chicago.
Hayek, F.A. (1945), "The Use of Knowledge in Society", in Hayek, F.A. (1949), Individualism and Economic Order, Routledge & Kegan Paul: London, pp. 77-91.
Hayek, F.A. (1960), The Constitution of Liberty, University of Chicago Press: Chicago.
Keynes, J.M. (1991), La fine del laissez-faire ed altri scritti economico-politici, Bollati e Boringhieri: Torino.
Vanberg, V. (1986), "Spontaneous Market Order and Social Rules: A Critical Examination of F. A. Hayek's Theory of Cultural Evolution", in Economics and Philosophy, 2(1), pp. 75-100.
Whitman, D.G. (2005), "GROUP SELECTION AND METHODOLOGICAL INDIVIDUALISM: COMPATIBLE AND COMPLEMENTARY", in Roger Koppl (ed.), Evolutionary Psychology and Economic Theory (Advances in Austrian Economics, Volume 7), Emerald Group Publishing Limited, pp.221-249