15 aprile 2020

Stato d'eccezione: usi e abusi di un concetto filosofico

● Pensiero politico

 

Dal punto di vista di chi si occupa di filosofia politica, uno dei fenomeni più interessanti a cui la situazione attuale di crisi, generata dalla pandemia di Covid-19, dà modo di assistere è la varietà dei modi in cui i differenti sistemi politici si muovono sul piano temporale della decisione, di quell’indeterminatezza puntuale che rappresenta l’altra faccia dell’ articolazione ordinaria della dimensione giurisdizionale. In particolare, l’uso massiccio della decretazione d’emergenza è percepito come fattore problematico soprattutto nel contesto democratico occidentale, dove si fa più evidente la tensione a cui è sottoposto il corpo dei diritti fondamentali che ne costituisce la base. Un termine che ricorre frequentemente nel dibattito, molto acceso, delle ultime settimane al fine di inquadrare e valutare la situazione è “stato d’eccezione”, lemma che ha avuto grande fortuna nella riflessione filosofica novecentesca, soprattutto grazie a due autori: Carl Schmitt e Giorgio Agamben (quest’ultimo, in alcuni recenti interventi sul proprio blog, ha mosso aspre critiche, a partire dal concetto di eccezione, verso le misure prese dal governo italiano al fine di contrastare la pandemia). Come tutti i concetti radicali e liminali, anche quello di stato d’eccezione presenta sicuramente dei vantaggi, ma anche limiti teorici, a maggior ragione se inserito in contesti di pensiero fortemente orientati come quello dei due autori succitati.

 

Il saggio del 1922 Teologia politica è il locus classico della teoria schmittiana dello stato d’eccezione. A questo sintagma Schmitt attribuisce un valore che rompe i confini della semplice situazione d’emergenza (ad esempio, lo stato d’assedio) pensandolo invece come elemento fondamentale della dottrina dello Stato a dispetto, o piuttosto in forza, del suo essere un concetto limite: l’eccezione diventa, infatti, il momento in cui si manifesta la sovranità nel suo carattere operativo di decisione. La decisione e l’eccezione in senso fondamentale riguardano per Schmitt la vita e la morte dell’ordine politico e giuridico: il diritto non è un’idea in grado di autorealizzarsi e funzionare solo tramite i propri meccanismi logici (come pensava il positivismo giuridico di Kelsen, per Schmitt incarnazione dell’ingenuità dello stato liberale borghese), ma richiede un’azione ordinatrice sovrana che tenti di risolvere la sconnessione originaria tra idea del diritto e realtà effettuale del politico, terreno instabile e anomico d’esistenza dell’edificio del diritto. Lo stato d’eccezione non è prevedibile o integrabile nella normalità delle procedure giuridiche, ma è una condizione di assoluta indeterminazione, gestibile in modo esclusivamente extralegale da un’autorità sovrana che si mostra come tale solo nel momento in cui manifesta il proprio potere decisionale (non circoscrivibile) dichiarando l’eccezione e in tal modo sospendendo l’ordine al fine di conservarlo oppure di costituirne uno diverso: in altre parole «sovrano è chi decide sul caso d’eccezione» (Schmitt, 1972: p. 33), cioè chi è capace di aprire una finestra sull’origine nichilistica dell’ordine in modo da riorientarlo. L’intima connessione tra eccezione, decisione, sovranità e ordine porta Schmitt a sostenere la necessità, per ogni struttura costituzionale, quantomeno di tenere in considerazione la possibilità dell’eccezione, attraverso un potenziamento verticistico dell’esecutivo e la possibilità per quest’ultimo di acquisire pieni poteri in caso di emergenza (in questo senso Schmitt rilancia la riflessione sui concetti di dittatura commissaria e dittatura sovrana).

 

Questa relazione ‘topologica’ tracciata da Schmitt tra ordine ed eccezione - indistinzione e determinazione - ha ricevuto un’elaborazione sostanziale, benché ribaltata di segno, da parte di Agamben, elaborazione mediata dalla riflessione di Walter Benjamin sulla progressiva normalizzazione dell’eccezione nel contesto della crisi politica di inizio ‘900 e dei regimi totalitari, nonché dalla categoria foucaultiana di biopolitica come strumento privilegiato di lettura della dimensione ‘governamentale’ della politica moderna (e in particolare del cosiddetto ‘neoliberalismo’), ossia il controllo intimo della vita umana, privata della propria dimesione naturale e manipolata dalla sovranità in qualità di nuda vita, materia sempre spendibile e plasmabile nel quadro del dispositivo di sicurezza dell’ordine giuridico. Agamben si serve di questo strumentario filosofico per dare una lettura radicale ed escatologica dell’evoluzione dello stato moderno, che sarebbe lanciata verso un punto di convergenza tra totalitarismo e democrazia, in cui si realizzerebbe un paradigma simile a quello del campo di concentramento come stato permanente d’eccezione: un ordine con una facciata di legittimità apparente, anche a fronte delle aspettative di sicurezza e benessere che genera, ma che in realtà si fonda su una spersonalizzazione radicale dei soggetti, elementi perennemente sospesi in uno stato di indeterminazione giuridica e sui quali, pertanto, il potere (sempre più esclusivamente esecutivo) è sempre pronto a esercitare un dominio de facto di carattere illimitato. Per Agamben è da questa prospettiva che si possono comprendere, ad esempio, provvedimenti come le leggi antiterrorismo americane del 2001 che permettevano di trattare i cittadini come terroristi potenziali o - nel nostro caso - i decreti speciali del governo italiano contro la pandemia, che trasformerebbero gli individui in potenziali contagiati. Il potere, per Agamben, tenderebbe a fare un uso strumentale e amplificato delle emergenze, in un processo di creazione continua di un clima di tensione, paura e domanda di azione politica autoritaria e disumanizzante.

 

Non è difficile comprendere il successo di queste architetture teoriche, che vorrebbero offrire uno sguardo vertiginoso sul fondamento nascosto della sovranità. Tuttavia, la difficoltà più grande dei suddetti paradigmi risiede proprio nella tendenza ad assolutizzare il caso estremo, trattato come elemento in grado, da solo, di rendere conto di tutta la parabola della ragione politica moderna, la cui polisemia è ridotta a semplice epifenomeno o maschera di una radice nichilistica - la decisione sul caso d’eccezione, appunto. Sorge allora spontanea la domanda se, per esempio, una posizione ipercritica come quella di Agamben non sia viziata da un genealogismo riduzionistico che porta a considerare uno dei modi in cui si dà l’agire politico come verità della politica, rispetto a cui il solo giudizio possibile è di condanna. Valutare la normalità a partire dall’eccezione, per quanto affascinante, può condurre a ribaltare il rapporto logico fra analisi e critica, facendo di quest’ultima un affondo appassionato, ma cieco, nei confronti dell’esistente.

 

Immagine: Police State. Credits: Flickr. Immagine di dominio pubblico.

 

Bibliografia

- Agamben, G. (2003), Stato di eccezione, Bollati Boringhieri: Torino.

- Benjamin, W. (1995), Angelus Novus, Einaudi: Torino.

- Foucault, M. (2015), Nascita della biopolitica, Feltrinelli: Milano.

- Schmitt, C. (1972), Le categorie del ‘politico’ , Il Mulino: Bologna.

- Schmitt, C. (1975), La dittatura, Laterza: Roma-Bari.

 

 

 

 

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