** Scenari internazionali
**

Il Global Risk Report 2021, pubblicato dal World Economic Forum, afferma: “climate continues to be a looming risk as global cooperation weakens.” A questo dato se ne aggiunge un altro, parimenti serio: “climate action failure is the most impactful and second most likely long-term risk identified.” In effetti, l’analisi classifica il cambiamento climatico come “minaccia esistenziale”, collocandolo in un orizzonte temporale compreso tra i cinque e i dieci anni. Per gli scettici, una precisazione: lo stesso Rapporto, nel 2006, aveva lanciato l’allarme sulle pandemie e altri rischi legati alla salute. Per tutti, una constatazione: solo una risposta multilaterale e immediata è in grado di invertire la rotta qui sopra tracciata.

Che le posizioni di Biden in ambito ambientale differissero da quelle del predecessore era evidente ancor prima che essi ne facessero motivo di confronto in campagna elettorale. Per chi avesse dubbi, qualche data: il 4 novembre 2020, gli Stati Uniti hanno receduto dall’Accordo di Parigi al termine del processo di denuncia avviato tre anni prima; il 20 gennaio 2021, il presidente Biden firma, nello stesso giorno del suo insediamento, un ordine esecutivo per il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo; infine, il 19 febbraio 2021, gli Stati Uniti tornano ufficialmente a essere parte dell’Accordo, sottoponendosi al rispetto degli obblighi in esso contenuti. La speranza è che la risolutezza del neo-eletto presidente catalizzi l’ambizione degli Stati a ridurre significativamente le proprie emissioni o, volendo ricorrere alla terminologia corretta, a incrementare i contributi di riduzione determinati a livello nazionale (c.d. Nationally Determined Contributions - NDCs). Invero, sono di conforto le parole pronunciate da John Kerry, che il presidente ha scelto come inviato speciale per il clima, all’ultima Conferenza di Monaco sulla sicurezza: “failure is really not an option if we expect to pass the Earth on in the shape it needs to be to future generations”.

Una data va però aggiunta a quelle sopra elencate: 26 marzo 2021. Quel giorno infatti un comunicato ufficiale della Casa Bianca invitava ufficialmente quaranta capi di stato e di governo delle maggiori economie a un Leaders Summit on Climate, da tenersi – simbolicamente – il 22 aprile, la Giornata Mondiale della Terra. La finalità dell’incontro – virtuale, s’intende – era duplice: i) riconoscere l’urgenza, e i benefici economici, di un’azione più risoluta contro la crisi climatica; ii) sfruttare l’incontro come opportunità per accertare la volontà degli Stati a una maggiore ambizione in materia. Un terzo aspetto va poi aggiunto alle due considerazioni appena fatte: il carattere preparatorio dell’incontro. La comunità internazionale infatti, attraverso gli interventi dei quaranta governanti, si è sottoposta a una grande prova generale, in vista della ventiseiesima Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, prevista per il prossimo novembre a Glasgow. La COP26, già rimandata a causa della pandemia, è in realtà improrogabile, essa costituendo l’ultima chiamata per dare contenuto alle parole o, altrimenti detto, per salvare l’Accordo di Parigi. In effetti, il lavoro che le Parti, sotto la guida della presidenza britannica, si propongono è oneroso; in particolare, la finalizzazione del cosiddetto “libro delle regole” di Parigi contenente, come si potrà intuire, gli aspetti tecnici essenziali per la concreta esecuzione delle disposizioni dell’Accordo stesso. Un obiettivo importante rispetto al quale gli Stati non dovranno mostrare timidezza riguarda l’aggiornamento dei propri NDCs, ferma restando l’ormai prossima scadenza del 2030: di fatto, non si può che condividere la drasticità della presidenza quando afferma “we need to do what is necessary to keep 1,5°C within reach, at our last best chance of doing so.”

Prima di formulare qualche osservazione riguardo al recente Summit statunitense, sembra opportuno, per pregio di chiarezza, fornire qualche dato sull’attuale situazione climatica, così da poter meglio comprendere l’entità della sfida cui la COP26 deve rispondere. L’analisi, recentemente pubblicata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, traccia i contorni di quello che verrà. I risultati possono essere qui evidenziati attorno a quattro tasselli: i) l’andamento vaccinale in molte grandi economie e le risposte fiscali alla crisi aprono a prospettive di crescita, che genererebbe una ripresa della domanda di energia nel 2021 (+4,6%, superiore alla contrazione del 4% del 2020); ii) circa il 70% atteso della domanda globale di energia si localizza nei mercati emergenti e nelle economie in via di sviluppo; di contro, il consumo di energia nelle economie avanzate è previsto essere del 3% inferiore ai livelli pre-Covid; iii) è prevista una crescita significativa nella domanda di combustibili fossili per l’anno corrente: in particolare, l’incremento delle emissioni è stimato al 5%, ciò invertendo l’80% del calo realizzatosi nel 2020; iv) la domanda di carbone è stimata aumentare del 4,5% nel 2021, di cui più dell’80% in Asia – la Cina, da sola, raggiungerebbe più del 50% della crescita totale. La chiarezza dei dati percentuali è d’ausilio per comprendere la portata di quanto affermato al Summit contro il cambiamento climatico.

Gli Stati Uniti sono chiari e risoluti: ridurre le emissioni del 50% entro il 2030 rispetto al livello raggiunto nel 2005. I fallimenti della COP25 hanno però dimostrato che questa sfida si vince insieme o, per meglio dire, con un sincero sforzo multilaterale. Pertanto, occorre volgere lo sguardo a quanto dichiarato da quelli che, nell’ambito della questione climatica, chiamerei gli indispensabili 5: l’Unione europea, la Cina, l’India, il Brasile e la Russia. L’Unione appare determinata, gli Stati membri avendo – lo scorso aprile – raggiunto un accordo politico provvisorio volto a convertire in legge l’impegno a ridurre del 55% le emissioni entro il 2030 e a raggiungere la neutralità climatica nel 2050. La Cina rende noto, più genericamente, che il picco di emissioni sarà raggiunto entro il 2030, mentre la neutralità climatica prima del (lontano) 2060. L’India, che insieme al gigante cinese tocca il 35% delle emissioni globali, annuncia la US-India 2030 Climate and Clean Energy Agenda 2030 Partnership. Il Brasile si pone la neutralità climatica entro il 2050 (dieci anni prima rispetto a quanto in precedenza dichiarato), ma chiede anche 1 miliardo di dollari per frenare del 40% la deforestazione. Infine, la Russia ribadisce “the importance of carbon capture and storage from all sources, as well as atmospheric carbon removals.”

Prima di concludere, è opportuno avvicinare lo sguardo alla Cina, alla luce del contesto internazionale attuale. È ormai evidente come Xi Jiping abbia raccolto, e proseguito, la crescita mirabile già avviata da Deng Xiaoping, imprimendo al contempo un cambiamento nel modello di sviluppo cinese. Infatti, lo sviluppo industriale audace, le cui contraddizioni sono tuttora evidenti, pare essere stato modulato a favore di investimenti verso l’innovazione e, appunto, la lotta al cambiamento climatico. L’obiettivo d’innovazione tecnologica e progresso costituisce il fattore chiave della competizione aperta tra Cina e Stati Uniti nel ventunesimo secolo. L’avvento di Biden alla presidenza non muta i termini di questa questione, ma certamente li stempera: la stessa partecipazione di Xi Jiping al Summit sembra sancire la reciproca volontà di cooperare in materia climatica, rimasta ibernata nei quattro anni di presidenza Trump. È allora opportuno sondare qualche dato, per individuare le basi reali su cui tale cooperazione si fonda. Come è stato notato, la Cina ha orientato la politica energetica recente verso le tecnologie digitali, nonché l’elettricità e il gas naturale; inoltre, il 14° piano quinquennale 2021-2025 evidenzia due dati: i) condurre l’intensità di CO2 e l’intensità energetica entro il 18% e 13,5%, rispettivamente; ii) aumentare la quota di energia non fossile rispetto al consumo energetico totale a circa il 20% entro il 2025. Ciò nonostante, come rilevato dalla US Energy Information Administration, “coal supplied most (about 58%) of China’s total energy consumption in 2019”. Il quadro generale impone pertanto un’analisi cauta, e aiuta a comprendere alcune posizioni maggiormente critiche. Un recente articolo di Foreign Affairs afferma infatti che “a cooperation-first approach in which Beijing sets fundamental terms is doomed to fail”, poiché “countries seeking cooperation with China are supplicants and, under a best-case scenario, will be forced to make concessions first, after which Beijing might finally deign to engage”. L’articolo suggerisce quindi, proprio in vista della COP-26, di formare “a coalition of like-minded partners […] to pressure China into sourcing its energy supplies more sustainably”.

Non resta che attendere qualche mese per determinare se e in che modo la tensione tra crescita e protezione del clima sarà di attrito alle negoziazioni, non più rimandabili. Per ora, basti uno sguardo d’insieme. E un appello: come ha notato Guterres, “we have six months until COP-26, we must make them count”.

Crediti immagine: Nick Humphries, Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#USA#emissioni#COP26#clima