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Carlo Favaretto

Specializzatosi in diritto dell'Unione Europea e internazionale a Pisa e a Bruges, appassionato di politiche pubbliche, Carlo Favaretto vive a Bruxelles, dove si occupa di concorrenza, commercio e investimenti per diventare un policy maker consapevole.

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Italiano è meglio? Per un golden power equilibrato

 

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In Italia i poteri speciali che il governo può esercitare sugli investimenti in settori strategici al fine di tutelare l’interesse nazionale sono noti con l’evocativo nome di golden power. Il golden power, introdotto nel 2012, ha sostituito la precedente golden share, che attribuiva allo Stato speciali prerogative sulle decisioni delle aziende in alcuni settori strategici o nelle quali deteneva azioni. Mentre golden share è un’espressione nata nella stagione britannica delle privatizzazioni e universalmente utilizzata, golden power è un anglicismo proprio del sistema italiano. Negli altri Paesi si parla di foreign investment control oppure screening, controllo sugli investimenti esteri. Questa differenza terminologica ha in realtà una ragione sostanziale: il golden power italiano, nei limiti di quanto permesso dalla libera circolazione dei capitali all’interno dell’Unione Europea, tutelava gli asset strategici in sé, indipendentemente dal fatto che l’investitore fosse italiano o estero.   

 

L’impostazione originaria è però cambiata perché nel periodo di emergenza Coronavirus il golden power è stato ridefinito per tutelare la produzione e gli approvvigionamenti nazionali da possibili acquisizioni predatorie da parte di investitori esteri. Anche su impulso del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) e di nuove linee guida della Commissione europea, il Decreto Liquidità ha infatti esteso notevolmente gli ambiti produttivi che possono essere soggetti a golden power.

 

Dall’originaria tutela degli asset strategici nel campo della difesa, dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni, a cui già erano state aggiunte le reti 5G, si è passati ora a una tutela generalizzata del fabbisogno produttivo nazionale e delle sue catene di valore. I nuovi ambiti includono, tra gli altri, il settore finanziario e assicurativo, quello sanitario, la robotica, l’intelligenza artificiale, gli approvvigionamenti di farmaci e materiale medico, la sicurezza alimentare, la tutela dei dati personali e i mezzi di comunicazione. Fino al 31 dicembre 2020, gli investimenti in società attive nei nuovi settori ricadono nell’ambito del golden power se effettuati da investitori esteri UE che acquisiscano il controllo della società oppure da investitori extra-UE che acquistino almeno il 10% della società, se il valore dell’investimento supera il milione di euro, o comunque dal 15% in poi.

 

In concreto, questo significa che, prima del perfezionamento delle operazioni su società attive negli ambiti inclusi nella normativa golden power, dev’essere effettuata una notifica alla Presidenza del Consiglio per la valutazione dei rischi dell’operazione per l’interesse nazionale. Il meccanismo del golden power si basa quindi su un dialogo tra l’amministrazione e il mondo produttivo, che permette una continua mappatura dei cambi di proprietà e controllo degli asset strategici. Il rispetto della normativa è affidato a sanzioni amministrative di notevole entità e, inizialmente assicurato dalla collaborazione offerta dalle aziende italiane e dagli investitori esteri, è ora presidiato dalla possibilità per il governo di aprire procedimenti golden power anche d’ufficio.    

 

Dopo molti appelli, il golden power è stato quindi esteso, coprendo moltissimi settori produttivi. E ora? Come utilizzarlo al meglio? Negli ultimi tempi, in occasione di ogni acquisizione di rilievo, si sollevano diverse voci che invocano l’utilizzo del golden power da parte del governo, talvolta in casi che non ne integrano i presupposti.

 

Nei fatti, il golden power non costituisce però la soluzione a tutti i problemi di “emigrazione” delle aziende strategiche italiane. Non è infatti solo con il golden power, uno strumento per sua natura difensivo, che si può costruire una politica industriale di rafforzamento del tessuto produttivo. Il controllo degli investimenti esteri è una delle componenti di una politica industriale, ma interviene per sopperire alla debolezza di un sistema produttivo nazionale che non ha le risorse per valorizzare, e quindi “trattenere”, le aziende strategiche.

 

A conferma di questa dinamica, ogni volta che giungono sul mercato asset strategici sui quali il governo potrebbe esercitare il golden power - si tratti di società con tecnologie avanzate, impianti di stoccaggio del gas, gestione di infrastrutture o reti di telecomunicazioni, che proprio perché strategici sono spesso molto remunerativi - i potenziali acquirenti sono sempre di due tipologie: fondi di investimento stranieri oppure grandi aziende partecipate. Sono assenti, salvo rare eccezioni, gruppi industriali privati o fondi di private equity nazionali capaci di fare da catalizzatore per le realtà più piccole. Gli unici compratori italiani senza partecipazione pubblica sono gli istituti di credito, ma spesso non a fini di sviluppo industriale. 

 

L’estensione del golden power italiano non è un caso isolato nel panorama mondiale segnato dal Coronavirus, dalla Francia all’Australia. Tuttavia, se questo è l’indirizzo del momento storico, nel caso italiano gli strumenti di controllo degli investimenti vanno ben calibrati proprio per la struttura del sistema produttivo. Il golden power non interviene in maniera neutra sul sistema. Il rischio è disincentivare gli investimenti esteri di cui c’è bisogno nel momento della ripresa economica dopo l’emergenza. E il golden power, anche se proprio nei periodi di crisi risulta più importante, non è uno strumento emergenziale. Al contrario, è uno strumento ordinario, la cui disciplina dev’essere il più possibile stabile per assicurare la certezza e la prevedibilità dei risultati degli investimenti, non solo stranieri, ma delle stesse aziende italiane. Se un controllo degli investimenti esteri più rigoroso interviene su un sistema interno dove già Cassa Depositi e Prestiti e le grandi partecipate giocano un ruolo importante, in un periodo in cui gli aiuti di Stato aumentano grazie alla maggiore flessibilità assicurata temporaneamente dalla Commissione europea, la competitività interna può soffrirne. 

 

Bisogna considerare infine che l’italianità dell’asset strategico non è necessariamente garanzia del suo utilizzo corrispondente all’interesse nazionale, né del suo sviluppo efficiente. In altre parole, il depauperamento del tessuto produttivo e del capitale di competenze nazionali può avvenire anche senza un ruolo degli investimenti esteri. Anzi, in un periodo di crisi economica è più facile che avvenga proprio in assenza di investimenti esteri. Neppure il trasferimento delle sedi legali e fiscali delle società italiane all’estero e il conseguente trasferimento di ricchezza si risolve con la sola azione nazionale. Inoltre, all’italianità non si accompagna nessun vantaggio dal punto di vista dell’enforcement del diritto, perché regole e controlli si applicano anche a soggetti esteri operanti in Italia, specialmente se operatori di mercato UE. Semmai,  l’unica differenza risiede nella capacità di influenza e direzionamento politico da parte dello Stato, intendendo per questo non solo un’accezione deteriore di condizionamento, ma anche la capacità di coordinare le politiche insieme agli operatori del mercato. Per quest’ultimo scopo, il golden power è quindi uno strumento, non il fine.

 

In conclusione, il rafforzamento del golden power trova un fondamento nella frammentazione del tessuto produttivo italiano. Tuttavia, esso non agisce in isolamento rispetto agli altri interventi pubblici nell’economia. Per questo motivo, il golden power non dev’essere un alibi per l’assenza di politiche pubbliche volte al rafforzamento del sistema produttivo ma anzi, deve servire lo sviluppo di queste stesse politiche, che non possono limitarsi alla conservazione dell’italianità degli asset strategici.

 

Immagine: Protezione degli Investimenti, Crediti: mohamed mahmoud hasan (publicdomainpictures.net) CC BY 2.0

 

Bibliografia

 

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