Atlante

Marco Accordi Rickards

Nato a Roma il 2 maggio 1974, giornalista e critico videoludico, insegna presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” e l’Accademia di Belle Arti di Roma, oltre a essere il coordinatore del Corso di Laurea in Comunicazione digitale con indirizzo Videogiochi presso VIGAMUS Academy – Università degli Studi di Roma “Link Campus”. Fondatore e direttore di VIGAMUS, il Museo del Videogioco di Roma, è anche direttore editoriale di Idra Editing Srl e Editor-in-Chief di GamesVillage.it. Ha scritto saggi sulle opere interattive tra cui “Il Videogioco. Mercato, giochi e giocatori” (Mondadori), “Storia del Videogioco. Dagli anni Cinquanta a oggi” (Carocci), “David Cage. Esperienze interattive oltre l'avventura” (Ludologica, Unicopli) e “Videogiochi e propaganda” (Conscious Gaming, UniversItalia).

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Gaming: un’esperienza di libertà

 

Quando, in piena emergenza Covid-19, l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che il videogioco fosse da considerarsi un’attività ricreativa positiva, in quanto modalità di socializzazione sicura e al tempo stesso coinvolgente, non si è potuto trattenere un fugace sussulto di soddisfazione. Fino a non molto tempo addietro, infatti, il medesimo organismo transnazionale si occupava con zelo di inserire il gaming disorder tra le patologie da abuso e dipendenza presenti nell’ICD (International Classification of Diseases), la classificazione internazionale delle malattie. A prescindere dalla correttezza di tale scelta e dall’opportunità di individuare come malattia una specifica “dipendenza da videogiochi” (le basi scientifiche restano piuttosto deboli), il problema centrale restava quello che in fondo ha sempre afflitto il videogioco: la sua percezione sociale.

 

Il videogioco, infatti, sembra avere da sempre tutte le caratteristiche perfette per farsi erroneamente definire, specialmente da coloro che non sono avvezzi a praticarlo, finendo per incutere timore e diffidenza. Lo chiamiamo “videogioco” e il termine ci rimanda all’infanzia, eppure il medium tratta anche tematiche adulte, talora raccontando e rappresentando situazioni violente o magari (molto più di rado) di natura erotico-sessuale. Essendo interattivo, ci mette nei panni dei protagonisti, facendoci compiere azioni in prima persona, e se il nostro alter ego non è proprio uno stinco di santo, ciò genera ulteriore allarme. Infine, il videogioco è multisensoriale, estremamente coinvolgente e sempre più immersivo: che ci isoli dalla realtà? Nel momento in cui osserviamo un giocatore indossare un visore per la realtà virtuale, la paura si addensa.

 

Il videogioco, insomma, ha sempre destato scandalo e preoccupazione, bersaglio perfetto per benpensanti e passatisti che, chiusi nelle loro torri d’avorio, hanno sempre preferito trincerarsi dietro un comodo pregiudizio piuttosto che informarsi e sperimentare qualcosa di nuovo. Un grave errore, perché avrebbero scoperto ciò che, oggi più di ieri, intere generazioni stanno vivendo: che il gaming è una delle più rivoluzionarie e innovative espressioni di libertà.

 

Tanto per cominciare, i videogiochi non sono soltanto giochi; anzi, talvolta non lo sono proprio! Il videogioco è infatti un’opera interattiva, che sa utilizzare la forza espressiva di tutti i linguaggi, arricchendola inoltre con l’elemento dell’interattività. Rispetto ai media tradizionali, che ci vedono fruitori passivi, il videogioco (ora sappiamo cosa significa questa parola) ci costringe ad agire. Pensate a tutti coloro che temono l’effetto di indottrinamento scatenato dalla televisione: il gaming scardina il paradigma, perché l’utente è attivo. Se desidera andare avanti, deve destarsi dal torpore, capire che cosa sta accadendo e poi compiere un’azione. Un messaggio di libertà: non limitiamoci ad ascoltare e subire, ma combattiamo per raggiungere degli obiettivi. C’è molto di più. Il videogioco promuove sin dall’inizio la partecipazione e la socialità: nato come sfida multigiocatore già nelle sue prime iterazioni (Tennis for Two, 1958; Spacewar!, 1962; Pong, 1972), ha in realtà sempre promosso l’esperienza condivisa. Decidere insieme la mossa tattica da compiere, alternarsi nel cercare di superare un livello, lambiccarsi con gli amici per venire a capo di un enigma… sono solo esempi di qualcosa di classico. Il videogioco si vive spesso insieme.

 

Con l’evolversi della tecnologia, poi, le possibilità si sono moltiplicate: il cosiddetto sport elettronico (eSport) ha creato nuovi spazi di competizione e di socialità sportiva, per non parlare di inaspettate frontiere imprenditoriali e occupazionali; le modalità di gioco on-line cooperative, poi, hanno generato infinite possibilità di tessere amicizie e nuovi rapporti tra persone di tutte le parti del mondo. Il gaming libera dalle restrizioni geografiche, ma, in gran parte, anche dalla sperequazione sociale: con tecnologie sempre più abbordabili, posso raggiungere ogni angolo della Terra e gareggiare o fare squadra con persone che posso conoscere e apprezzare a prescindere dal loro aspetto fisico, dalla loro etnia, dal loro sesso o da qualsiasi altra caratteristica fisica o intellettuale: un ritorno alla comunanza di anime, dove, nell’atto dell’esperienza interattiva, due o più spiriti affini possono conoscersi e imparare ad apprezzarsi. Anche ad amarsi, a volte. La libertà è ridotta per l’esigenza di  un costoso hardware come personal computer o console da gioco di nuova generazione? Sempre meno, perché il cloud gaming ci permette di giocare con soltanto un collegamento alla rete, un joypad e uno schermo. Infine, l’esperienza interattiva, ancor più se immersiva in realtà virtuale, può a volte liberarci, almeno in parte, dei nostri limiti fisici, permettendo ad esempio a un disabile di esplorare luoghi altrimenti preclusi, quasi come si trovasse lì. Con molti limiti, questo è certo, ma che sono destinati a ridursi sempre più.

 

Con un fatturato annuo che nel 2020 toccherà i 160 miliardi di dollari, aumentando ulteriormente del 10%, l’industria dei videogiochi non accenna a frenare. Anzi, durante la pandemia, nel tremendo mese di marzo, sotto lockdown, ha registrato numeri record, muovendosi in controtendenza. Se la ragione apparente sembra ovvia (rinchiusi in casa, ci si dedica ai videogiochi in mancanza di alternativa), credo si debba però andare alla ricerca di un significato più profondo, che parte dalla constatazione che i trend record erano già consolidati ben prima dell’incubo Coronavirus. Il fatto è che, nel nostro mondo, dove la tecnologia e le connessioni sono ormai così sviluppate, il virtuale è sempre più reale. Sempre più spesso e in sempre più circostanze, incontrarsi “virtualmente” non è meno reale di incontrarsi “fisicamente”. Pensiamo al lavoro: nascono aziende prive di ufficio, ottimizzate, a impatto ambientale zero. Pensiamo alla didattica: oggi l’on-line è un obbligo a tratti doloroso, domani sarà una fondamentale modalità educativa parallela e complementare. Si potrebbe continuare per tutti gli aspetti, primari e non, della nostra società, ma la verità è che il gaming contiene in sé questo germe di rivoluzionaria liberazione da schemi, limiti e vincoli. Una libertà nuova e reiterata che esplode dai pixel dei nostri videogame, dai poligoni dei nostri avatar tridimensionali, per investire una società che era fin troppo statica, bloccata. Nella sua drammaticità, la pandemia ha quantomeno liberato delle energie. Starà a noi trattenerne gli effetti benefici, perché, quando avremo finalmente riconquistato la nostra quotidiana normalità, potremmo trovarci nella invidiabile condizione di avere conquistato un mondo migliore.

Chi lo avrebbe mai detto, negli anni Settanta, di fronte a un semplice giochino elettronico?

 

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Il Capitale Interattivo: industria dei videogiochi e alta cultura nel sistema economico globale

Intervista a Fabio Belsanti

Il videogioco, oltre a essere il segmento di gran lunga più ricco e proficuo dell’industria dell’intrattenimento (da anni non tengono il passo né il cinema e le serie TV, né la musica), è anche un mezzo espressivo d’avanguardia, unico nel suo genere e caratterizzato da quel fattore, l’interattività, che lo rende al tempo stesso intelligente, spiazzante ma anche sovversivo, destabilizzante. Come fa il videogioco a essere così fortemente prodotto di massa e a non perdere la sua connotazione artistico-culturale? Di questa e altre suggestioni abbiamo parlato con Fabio Belsanti, storico game developer italiano (PM Studios) che, a Bari, insieme ai colleghi Elisa Di Lorenzo (Untold Games) e Roberto Talamo, ha di recente tenuto un convegno dedicato al rapporto tra il gaming e la cultura tradizionale all’interno del sistema capitalistico.

 
 

Qualcuno ancora dubita che il videogioco, in quanto opera interattiva, appartenga alla sfera culturale? E se sì, perché?

Semplificando al massimo, in modo erroneo, potrei rispondere che, sì, sono ancora in molti a dubitare che i videogiochi abbiano a che fare con ciò che comunemente è definito, o percepito, all’interno della “sfera culturale”. Restando sulla stessa linea, mettendomi sulla difensiva, parteggiando apertamente per il settore videoludico per ovvi motivi professionali, potrei genericamente dire che un’idea così antiquata è alimentata da una diffusa ignoranza, mista a pregiudizio, radicata sorprendentemente anche tra coloro che hanno avuto accesso a un’istruzione di alto livello. In realtà, questa domanda, solo in apparenza semplice, comporta più risposte, piuttosto ampie e complesse, che portano necessariamente ad altri interrogativi non lineari.

In generale, va constatato che i maggiori dubbi, in particolare di una parte del mondo intellettuale, riguardano l’appartenenza del videogioco all’alta cultura e credo anche che questi dubbi, in vari casi, siano legittimi. Mentre altre forme d’arte sono già state “legittimate” dagli studi accademici, i game studies, la ludologia, pur potendo vantare studi pluriennali di rilievo, non sono ancora riusciti a creare un’opinione diffusa circa la “nobiltà artistica” dei videogame (anche a causa dell’evidente rapporto col mercato e gli aspetti di “seduzione” del pubblico che questa forma intrattiene).

I videogame, ultimi esponenti tecnologici dell’universo dei giochi, sono per ovvi, acclarati motivi, parte integrante della cultura umana, come lo sono i giochi con le carte, gli scacchi o il calcio. È quasi banale dire che chiunque oggi pensi di poter escludere i giochi dalla storia della cultura, per un qualsiasi motivo o “cavillo”, dovrebbe solo rimettersi a studiare.

La grande provocazione, o intuizione geniale (dipende dai punti di vista), che Johan Huizinga lanciò con Homo ludens, poco prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale, è che il gioco precede la cultura. Personalmente credo che la visione di Huizinga fosse esatta e possa essere oggi ulteriormente estesa e approfondita per analizzare tutte le nuove forme ludiche in continua evoluzione. Nonostante le contraddizioni e le debolezze presenti in un lavoro della prima metà del secolo scorso, debolezze e contraddizioni magistralmente evidenziate dal saggio introduttivo di Umberto Eco nell’edizione italiana del testo (Einaudi), Homo ludens è un’opera da cui non si può prescindere se si vuole sviluppare una seria riflessione su giochi e videogiochi contemporanei. Partendo da questa base teorica, appare abbastanza chiaro che, in considerazione del fatto che l’umanità ha dato senso al mondo e alla vita mediante la creazione di giochi che hanno costruito strutture ludiche alla base dell’invenzione della cultura, i videogame, forti anche del loro indiscutibile, pervasivo successo, sono uno straordinario strumento culturale, non solo di diffusione della cultura esistente, ma soprattutto di creazione di nuove forme culturali ancora inesplorate. Un buon numero di sviluppatori di videogiochi, artisti e intellettuali è consapevole di tutto questo, ma il grande pubblico e buona parte delle istituzioni ancora no (andrebbe poi fatta una netta distinzione tra il livello nazionale italiano e quello estero, in particolare anglosassone, dove la ricerca ludologica e lo sviluppo “indipendente” sono a uno stadio molto più avanzato, ma richiederebbe davvero troppo tempo parlare adeguatamente anche di questo).

L’interattività, specifica caratteristica dei videogiochi, mette in parte in crisi le consolidate forme artistiche della narrazione, e sembrerebbe un problema nuovo, se non fosse vero che tutti i giochi ricadono nella sfera dell’azione (sebbene nei videogiochi in genere simulata) e non della contemplazione o del pensiero astratto “puro”, ma questa problematica, molto interessante, irrisolta e da approfondire, non implica l’esclusione dei videogame dalla succitata sfera della cultura, ma può tuttavia ingenerare quel generico stigma secondo cui questo medium interattivo dovrebbe essere relegato nello scintillante parco infantile dell’intrattenimento leggero, divertente, spensierato, senza avere, o poter ambire di esprimere, alcuna valenza culturale, alta o bassa che sia.

 

Come collocherebbe il videogioco rispetto a media dalla storia ben più lunga come il cinema o la letteratura?

Riprendendo quanto in parte già detto, non possiamo non notare come la differenza col cinema e con la letteratura sia notevole, perché nei primi due casi contempliamo il lavoro altrui, mentre nel videogioco agiamo in modo fittizio all’interno del lavoro altrui. Il lettore e lo spettatore non possono essere assimilati del tutto al giocatore. Se volessimo cercare un genere di confine, potremmo pensare alla commedia dell’arte, dove non c’era un testo forte ma un canovaccio di riferimento, e gli attori potevano improvvisare sulla base di quel canovaccio. Nel videogioco con caratteristiche narrative, gli autori producono il canovaccio, e il giocatore si trova al posto dell’attore (non dello spettatore) e non è chiaro se ci sia o meno il ruolo dello spettatore.

Nonostante l’annosa questione dell’interazione, ai videogiochi è comunque generalmente riconosciuto lo status di pop art, ma non è così scontato riuscire a definirli, elevarli e collocarli, in modo chiaro e definitivo, accanto ad altri media, come letteratura e cinema, nell’Olimpo dell’alta cultura e delle arti con la “a” maiuscola.

I videogame devono inoltre fare i conti con vari paradossi e crisi di una modernità in cui le scienze umane “soft”, strettamente connesse alle arti espressive, soffrono in genere di una sorta di complesso di inferiorità rispetto alle scienze sperimentali “hard”.

Con i miei colleghi fondatori del progetto, il teorico della letteratura Roberto Talamo e la fondatrice di Untold Games Elisa Di Lorenzo, siamo convinti che vi siano almeno due generazioni di giocatori adulti pronte ad accogliere a braccia aperte produzioni videoludiche con contenuti e dinamiche sempre più complessi capaci di attivare riflessioni e discussioni sociali, economiche, politiche ed esistenziali. Ma, mentre in passato vi erano autorità, canoni e istituzioni riconosciuti con il potere intellettuale di “certificare” lo status artistico di singole opere o interi settori della cultura, oggi viviamo in un’epoca in cui l’intero edificio culturale è sempre più indefinibile e in crisi dall’interno e dall’esterno delle sue mura costruite da società caratterizzate da spinte centrifughe incredibilmente potenti.

Nella moderna e dominante cultura liberale, dopo la famosa Fontana di Duchamp, oggi più che mai “la bellezza è nell’occhio di chi guarda”, e quindi l’universo dei videogame, proprio nel momento in cui potrebbe, in parte vorrebbe, e ‒ a mio avviso ‒ per certo meriterebbe, conquistare il suo posto tra i grandi dell’alta cultura, non trova un “sacro” giudice che possa dargli tale accesso, perché paradossalmente è l’intero Olimpo a rischiare di collassare e perdersi nel buio dell’indefinito.

In sintesi, mettendo per un attimo da parte il difficile contesto storico e buona parte delle questioni teorico-filosofiche appena accennate, a livello personale, collocherei il videogioco sin da ora nel (seppur decadente) Olimpo dell’alta cultura, non solo per quello che è stato fin qui, ma anche per quello che potrebbe essere, ma credo anche che questa elevazione potrà avvenire, in modo ampio ed evidente, quando vi saranno più opere riconosciute di grande valore artistico e culturale da parte di un nuovo, autorevole ceto intellettuale in grado di valutare le molteplici peculiarità di questo mezzo espressivo. Del resto va notato come importanti musei quali lo Smithsonian American Art Museum  abbiano già dato vita a mostre riguardanti Arte e Videogiochi, e come in Italia, nonostante le tante arretratezze e le molteplici contraddizioni, esista sin dal 2012 il VIGAMUS, uno dei primissimi musei dedicati alla recente, ma non trascurabile, storia dei videogiochi.

 

Inserire la parola “capitalismo” tra “videogiochi” e “alta cultura” suona piuttosto provocatorio...

Credo che molte parole di queste prime due edizioni del progetto siano state quantomeno non usuali per il settore di cui ci stiamo interessando con modalità multidisciplinari. Svariate, illustri, categorie e definizioni del secolo scorso sono cadute in disgrazia e sembra esserci grande cautela, o addirittura timore, a utilizzarle in modalità nuove. Onestamente, quanti oggi osano parlare apertamente di “alta cultura” o del ruolo, e delle influenze, a tutti i livelli, delle strutture, materiali e immateriali, del capitalismo nell’arte e nella comunicazione? Ovvio, vi sono ancora studiosi e intellettuali di spicco che mettono in dubbio la vittoria del sistema capitalistico dopo il crollo del muro di Berlino, ma di sicuro sono pochi coloro che, come sottolineato dalla domanda, mettono in relazione il mondo dei videogame con queste critiche e riflessioni. Il paradosso è che il potere politico reale, nelle principali aree strategiche del mondo, sembra essersi accorto prima degli sviluppatori di videogame, di buona parte degli intellettuali e della società in senso lato, dell’assoluta importanza e centralità di questo medium interattivo nella storia contemporanea. Se quanto appena affermato non fosse vero, la CIA, in linea con lo storico legame con Hollywood, non si sarebbe interessata alle sceneggiature degli Avengers e il Partito comunista cinese non si sarebbe occupato di Peppa Pig, dei contenuti narrativi nei videogame per promuovere i “corretti valori cinesi” e della regolamentazione degli eSports.

Consci di questi paradossi e criticità abbiamo in effetti deciso di utilizzare le parole “Alta Cultura” e “Capitalismo” in modo provocatorio, in un periodo in cui autori, docenti, competenze, autorità, autorevolezza, storia, storie, notizie, tentativi di ricerca della verità, sono tutti diventati temi, parole, immagini, concetti sconnessi travolti da un turbine caotico di frammentate informazioni che viaggiano rabbiosamente nei sistemi di comunicazione contemporanei, sistemi in teoria sociali che per configurazione e interfacce assomigliano sempre più a giganteschi videogame fondati sulle infowar gestite da miriadi di soggetti con scopi e assetti variabili. 

Grafici e sistemi finanziari sono in qualche modo assimilabili ai giochi di strategia, giocare in borsa, oggi più che mai, significa video-giocare in borsa. Le valute virtuali, nate per regolare gli scambi di eroi digitali alla ricerca di avventure immaginarie tra foreste, sotterranei e interi continenti fantastici, sono in qualche modo diventate reali, mettendo in crisi la realtà stessa dei paper money degli Stati.

Il nesso tra arte e potere, arte e denaro è storicamente evidente. Durante il recente convegno di Bari, il collega Roberto Talamo citò, per ovvi motivi, Mecenate e l’apice della cultura romana in epoca classica. È chiaro che il rapporto odierno, post-rivoluzione industriale e informatica, tra cultura, arte e denaro è molto diverso rispetto a quello esistente nell’Antichità o nel Rinascimento, ma la relazione tra le svariate manifestazioni culturali di una società in continua trasformazione, le strutture e i protagonisti del potere economico-politico, i mezzi e i creatori di nuove forme espressive e di comunicazione (il videogioco è oggi parte di tutto questo, ovviamente) non può essere trascurata e va, a nostro avviso, continuamente analizzata per provare a comprenderla in tutte le sue sfaccettature e implicazioni, nonché, forse, per riuscire a governarla per provare a capire chi siamo e se stiamo davvero realizzando ciò che vogliamo nel grande flusso della/e nostra/e storia/e.

 

Che cosa frena lo sviluppo culturale del videogioco? E che cosa invece lo agevola?

Anche in questo caso, gli elementi da prendere in considerazione sono molteplici, ed esiste una netta distinzione tra Italia e resto del mondo, con tutta una serie di peculiarità macro-regionali che in molti casi, a onor del vero, non sono ancora riuscito a studiare. Banalmente, la situazione in Cina, dove c’è un potere centrale molto forte che, nel bene e nel male, ha deciso di governare questo settore, è molto differente da quella in Europa o negli Stati Uniti, dove ci sono poteri e interessi concorrenti più complessi che agiscono con modalità spesso contraddittorie e nicchie di libertà più o meno evidenti che riescono a produrre opere indipendenti non del tutto allineate al cosiddetto mercato mainstream.

Restringendo lo sguardo all’essenziale, sono convinto che ci siano due ostacoli principali allo sviluppo culturale del videogioco: infantilismo e capitalismo puro. Giocatori e sviluppatori di videogiochi sono, da sempre, molto legati al primitivo concetto che i giochi debbano essere primariamente divertenti per darci la possibilità di tornare a essere bambini, innocenti, spensierati, rassicurati e in qualche modo al centro dell’Universo. Gran parte dell’estetica e dei contenuti videoludici sono indubitabilmente permeati da questo gusto infantilistico che conquista spesso giocatori di tutte le fasce d’età, dal bambino, all’adolescente, all’ultraquarantenne. D’altro canto, anche in videogiochi narrativi con grafica o storie più realistiche, resta quasi sempre, ad esempio, un confortante, immaturo, rapporto con la morte. Uccidere o essere uccisi, violenza a parte, è un classico rituale videoludico che conduce, nel peggiore dei casi, a un circolo infinito di rinascite che può essere attivato per raggiungere un esito sperabilmente migliore del precedente (la resurrezione, di uno o più personaggi, è nel codice: dolore e sconfitta possono essere cancellati).

Affrontare in un videogioco temi universali come il senso della vita e della morte, in modalità non necessariamente consolatorie, non è, per ovvi motivi, considerato un affare con grandi possibilità di successo finanziario da parte degli editori, grandi o piccoli che siano. Ma, dato che viviamo in una società capitalista, gli sviluppatori necessitano di capitali (spesso ingenti) per produrre videogiochi all’altezza di temi come quelli sopraccennati. I videogiochi, purtroppo o per fortuna, tranne rare eccezioni, necessitano di team piuttosto vasti e sono soggetti al cosiddetto loop del trial and error.  Per la loro natura legata al gameplay, che deve essere analizzato più e più volte e che può risultare non adeguato per un illimitato numero di test, i videogiochi differiscono molto, ad esempio, dalla letteratura, dove la responsabilità, i costi e i tempi sono concentrati su un singolo autore. È ovvio quindi che gli editori che finanziano i videogiochi del mercato mainstream, che sono arrivati a costare oltre cento milioni di dollari, non abbiano alcuna intenzione di sperimentare nuove forme complesse culturali, che aumenterebbero solo il rischio di insuccesso.

All’interno di questo scenario, in teoria in stallo, esistono però svariate, coraggiose produzioni indipendenti, che stanno riuscendo a esprimere al meglio il loro libero desiderio artistico realizzando opere di grande spessore culturale (penso al pluripremiato Disco Elysium, ad esempio). Questo fuoco creativo degli sviluppatori indipendenti, adulti e consapevoli dell’impatto artistico e sociale delle loro opere, è sicuramente un grande elemento a favore dell’evoluzione culturale del videogioco.

Altro aspetto molto importante, spesso trascurato e in parte snobbato dagli sviluppatori, per la maturazione culturale del settore videoludico sarebbe la diffusione dei videogames definiti educational che sono purtroppo in molti casi finanziati in modo non adeguato, in particolare dalle istituzioni, e che dovrebbero invece essere uno strumento integrato di supporto all’educazione “tradizionale” nelle scuole. Davvero quasi superfluo affermare la centralità di una moderna, efficiente scuola nell’educazione delle nuove generazioni, anche e forse soprattutto, per fornire agli studenti gli strumenti e le conoscenze di base per affrontare consapevolmente il gigantesco universo dell’intrattenimento interattivo che non è solo un mercato del divertimento virtuale, ma è un grande contenitore di storie e modelli estetico-culturali capaci di influenzare, e in parte plasmare, le nostre vite reali.

 

Le istituzioni fanno abbastanza per il videogioco?

Per l’ennesima volta, la distinzione tra Italia e resto del mondo è doverosa... e alquanto avvilente. Non voglio fare una lista dei Paesi, come il Canada, dove i finanziamenti allo sviluppo di videogame hanno fatto crescere un fiorente settore dell’economia nazionale, ma è indubbio che nella nostra penisola, a voler essere ottimisti, siamo ancora solo all’inizio di un lungo percorso di consapevolezza istituzionale circa le immense potenzialità del videogioco. La crisi strutturale dell’economia italiana in questo nuovo millennio, dopo gli shock finanziari internazionali del 2001 e del 2008, ovviamente aumenta le difficoltà per la nostra, piccola, industria dei videogame. Da un punto di vista politico, ci vorrebbe molto coraggio e lungimiranza per decidere di utilizzare risorse limitate su settori nuovi piuttosto che affrontare altre emergenze su settori magari morenti, ma che impiegano già molti lavoratori non più giovani con gravi difficoltà di ricollocamento.

Certo se, come sopraccennato, nelle istituzioni vi fosse una classe dirigente più colta e consapevole, non solo delle innegabili criticità (da governare), ma anche e soprattutto delle poliedriche opportunità legate a questo mezzo di comunicazione, sarebbe possibile dar vita a un piano strategico nazionale per costruire un tessuto imprenditoriale e professionale molto più ampio e solido di quello attuale. La speranza è che nelle presenti e future classi dirigenti vi siano sempre più videogiocatori adulti con il desiderio di supportare e ampliare le applicazioni e le sperimentazioni videoludiche nella società. Va detto, comunque, che, sebbene non siano la maggioranza, esistono già dirigenti illuminati che pur non essendo videogiocatori hanno compreso le potenzialità di questo strumento. Dal 2001 esiste anche l’associazione di categoria AESVI che, tra mille difficoltà, si batte per migliorare questa situazione.

 

Può fare un ritratto del videogiocatore di oggi?

Esistono miriadi di “categorie” di videogiocatori, molte delle quali, sarò sincero, mi sono alquanto ignote. Genericamente una classica suddivisione avviene tra hardcore e casual gamer, ma credo che oggi questa netta separazione sia sempre meno evidente.

Si stima che vi siano più di due miliardi di videogiocatori nel mondo, e che nelle future generazioni tutti, a qualche livello, saranno videogiocatori. Vi sono nazioni dove si studiano (nuovi) sistemi informatici di gamification delle strutture sociali. In questo scenario, la questione semantica di cosa sia un videogioco credo sia e sarà centrale se vorremo cercare di gestire, non solo da un punto di vista economico-gerarchico-utilitaristico, questo fenomeno.

Ho letto degli studi che riportano in auge il caro vecchio Marx anche per leggere le “classi” dei videogiocatori. È molto triste, ma alcuni professori negli Stati Uniti che hanno provato a utilizzare a scuola alcuni noti videogame commerciali come Civilization di Sid Meier hanno dovuto constatare l’impossibilità di farlo negli istituti collocati in aree svantaggiate a livello socioeconomico e culturale. I ragazzi delle classi meno abbienti, nella stragrande maggioranza dei casi, non riuscivano a comprendere le dinamiche simulative di gameplay di un gioco strategico a sfondo storico di media difficoltà, e comunque non provavano alcun fascino verso opere di questo genere.

Sono certo che l’economia politica ci potrebbe aiutare a ricostruire un quadro più realistico del videogiocatore moderno, che credo siamo soliti guardare solo in base alle logiche del marketing o dell’informazione specialistica di settore (oppure in base a pregiudizi negativi).

Un’ultima riflessione su questo argomento che mi sta a cuore esprimere riguarda gli sviluppatori di videogame, videogiocatori esemplari per passione e professione. Pur non volendo generalizzare troppo, non posso non notare, dopo vent’anni d’esperienza nel settore, come esista tra gli sviluppatori di videogame una grande intelligenza tecnico-creativa, molto spesso scevra di fondamenti culturali storico-classici. Credo che gli sviluppatori di videogame, i programmatori in particolare, rappresentino molto bene l’anima inquieta del nuovo millennio: hanno grandissime doti, un desiderio illimitato di fare, ma vivono in un presente perennemente proiettato nel futuro che non guarda mai al passato, non storicizza nulla e tende a perdersi nel labirinto del narcisismo tecnologico.

 

Infine, ha già un’idea dell’aspetto che vorrebbe affrontare il prossimo anno con il suo convegno?

Dopo il successo delle prime due edizioni, stiamo lavorando, a stretto contatto con la Apulia Film Commission, al concept della prossima edizione e ai possibili spin-off che precederanno la tavola rotonda di dicembre 2020. Dopo le prime riunioni, anche se la decisione non è ancora ufficiale, siamo molto propensi a dar vita a un incontro internazionale di grande rilievo dal titolo: Videogames, Cinema e Alta Cultura.

 

Crediti immagine: Per gentile concessione di P.M. Studios Srl

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Death Stranding: quel figlio ribelle che guarda al cinema e ispira il videogioco

Death Stranding, la nuova e ambiziosa opera videoludica di Hideo Kojima (Metal Gear Solid), ha fatto parlare di sé per infiniti e ovvi motivi fin dal suo primissimo annuncio. Tacciato di tracotanza e snobismo da parte di alcuni detrattori, al contrario la gran parte dei fan del creatore di Solid Snake ha già acclamato Death Stranding come l’opera potenzialmente più importante su cui egli abbia mai lavorato. L’idea che un videogioco riceva i crismi del capolavoro ancora prima che sia effettivamente uscito, senza neanche passare per la canonizzazione della critica videoludica, restituisce d’altronde benissimo l’entità del fenomeno che vi si è creato intorno, frutto sicuramente di un’attenta campagna marketing, ma ancor più di idee che guardano al di fuori del recinto del gaming e dunque di una volontà da parte dell’autore di legarsi al mondo del cinema, medium considerato culturalmente alto laddove il videogioco, come tutti sappiamo, fatica ancora a trovare il suo adeguato riconoscimento all’interno dell’accademia.

Il Maestro Kojima non ha mai nascosto le sue aspirazioni cinematografiche, dichiarando che il suo corpo è composto «al 70% di film» e ancor più disseminando le sue esperienze interattive di momenti che esulavano totalmente dall’interattività, come i famosi intermezzi non giocabili (le cosiddette cutscene) la cui durata, in Metal Gear Solid 4. Guns of the Patriots, conclusione ideale della serie, superava tranquillamente l’ora abbondante, con buona pace di tutti coloro che tacciavano Kojima-san di aver ripiegato sulla creazione di videogiochi in quanto “regista fallito”.

In Death Stranding tali ambizioni sono state ulteriormente esasperate, complice il coinvolgimento di innumerevoli attori provenienti dal mondo del cinema e delle serie TV. Il protagonista, Sam, è quindi interpretato da Norman Reedus, già volto di The Walking Dead, mentre la sua probabile nemesi ha il volto inconfondibile di Mads Mikkelsen, interprete dell’Hannibal televisivo nonché maschera tragica in Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn. Lo stesso Refn è presente nel gioco, o perlomeno le sue fattezze e la sua voce: Kojima sembra aver voluto dare spazio nella produzione a tutte le personalità che in qualche modo hanno plasmato la sua visione di autore, da cui anche la scelta di includere il regista Guillermo del Toro, già apparso nel secondo trailer di Death Stranding. Già dalla scelta dei personaggi coinvolti si evince la volontà di Kojima Productions di evitare gli errori del passato commessi da altri studi, usando Reedus e Mikkelsen non come semplici “cavalli di Troia” per lanciarsi nel mainstream, ma piuttosto come volti intensi capaci di raccontare con forza prorompente il tipo di storia che sarà alla base di Death Stranding.

Sono lontani i tempi, dunque, in cui Capcom coinvolse Jean Reno nella produzione di Onimusha 3, affinché si prestasse alla motion capture del gioco (la nota tecnologia che richiede di indossare le tutine con i sensori rotondi per catturare i movimenti dell’attore). Reno avrebbe definito in seguito quell’esperienza attoriale «la peggiore della sua intera carriera». David Cage, per il suo Beyond. Due anime, si avvalse invece della collaborazione di Ellen Page e Willem Dafoe; in quel caso non ci furono lamentele ufficiali da parte dei due celebri attori, ma di certo la tiepida reazione della critica nei confronti del gioco, soprattutto sul fronte dello storytelling, tarpò le ali alla possibilità per Beyond. Due anime di spiccare il volo nella cultura alta anche solo grazie alla partecipazione di Defoe, attore che ha lavorato nella sua carriera con registi del calibro di Lars von Trier.

Entrambe le esperienze ci raccontano, a loro modo, una verità: il semplice coinvolgimento di maestranze tecnologiche e personalità dal mondo del cinema non è sufficiente per elevare il videogioco dalla sua condizione subalterna rispetto all’arte ufficialmente riconosciuta. Non solo, la partecipazione di personaggi universalmente noti, come la Page e Jean Reno, provoca solo l’effetto di catalizzare tutta l’attenzione sulla celebrity, oltre a far concentrare media e critici esclusivamente sui loro ruoli, inevitabilmente sacrificati rispetto a film classici in cui possa emergere in maniera prorompente la loro personalità attoriale. L’errore più profondo, in questi casi, è stato probabilmente l’intenzione suicida da parte dei creatori del gioco di non indossare più le vesti di game designer, provando piuttosto a improvvisarsi registi senza tuttavia avere a disposizione le competenze tecniche e tecnologiche necessarie per superare quel gap che porta dall’amatorialità alla sacralità del grande schermo. Cage rimediò in gran parte a questo piccolo “flop” con il suo gioco successivo, Detroit. Become Human, che come Death Stranding affronta tematiche importanti offrendo un profondo commento sociale tramite il filtro della fantascienza videoludica. La visione di Quantic Dream, tuttavia, è diametralmente opposta a quella di Kojima, e si inserisce piuttosto nel solco della “neoavventura grafica”, ossia titoli che recuperano molto vagamente l’esperienza di classici come The Secret of Monkey Island, ponendo tuttavia l’accento sulle possibilità di scelta fornite al giocatore e sull’immersione ottenuta tramite l’impatto visivo e scenografico della produzione. Non sarebbe nemmeno così azzardato definire Detroit. Become Human, dopotutto, come una visual novel 3D: del resto, quando si parla di giochi narrativi, gli episodi della Sindrome di Asteroids sono destinati a moltiplicarsi in maniera drammatica.

Al contrario, Death Stranding sembra essersi collocato in una nuova dimensione del crocevia in cui cinema e videogioco si incontrano, dove il primo funge da ispirazione per ricchezza delle tematiche e profondità della storia, e il secondo è sempre e comunque in maniera assoluta il medium di riferimento su cui si lavora. Il problema insito nell’idea di “videogioco cinematografico” affonda le radici in tempi lontani, quando in seguito allo straripante successo delle avventure grafiche (The Secret of Monkey Island su tutte), vennero lanciati sul mercato degli esperimenti basati su filmati cinematografici, i cosiddetti FMV (Full Motion Video). Titoli come Phantasmagoria, nonostante le loro velleità autoriali, rimangono tuttavia dei bizzarri esperimenti, su cui spesso viene anche fatta facile ironia principalmente perché le performance degli attori coinvolti, spesso signori sconosciuti, lasciavano veramente a desiderare e con loro la qualità generale dello storytelling.

Negli anni, l’FMV si è evoluto leggermente come linguaggio, trovando la sua massima espressione nella serie Wing Commander, che vide la partecipazione di Mark Hamill (Luke Skywalker in Star Wars) e Malcom McDowell, interprete di Alex DeLarge in Arancia meccanica. Se un personaggio come Chris Roberts, creatore di Wing Commander, è riuscito a coinvolgere un attore che ha lavorato con Stanley Kubrick, è solo perché la storia che proponeva, i personaggi e il mondo che abitano, era interessante e ben scritta, nonché accompagnata da un gioco di enorme valore. Null’altro avrebbe potuto convincere Hamill o McDowell, che per giunta si sarebbero trovati a recitare su di un set al massimo equiparabile a quello di una serie TV anni Novanta di modesto successo.

Allo stesso modo, Death Stranding a livello di puro storytelling sicuramente ha da offrire qualcosa di elevatissimo ed entusiasmante, da cui il coinvolgimento sincero di Reedus e Mikkelsen. Ma laddove Wing Commander teneva ben separati gli elementi filmici e ludici, Death Stranding punta a una sintesi unica in grado di rivoluzionare il medium videoludico e il rapporto tra opere interattive e opere cinematografiche. Fin dal momento in cui Kojima-san ha cominciato a parlare di Death Stranding, infatti, l’autore ha messo bene in chiaro il tema del gioco, con un manifesto in cui viene sottolineata l’importanza di cambiare l’idea dei “bastoni”, del conflitto insomma, così radicata nell’uomo da portarsela dietro dai tempi delle caverne fino ai videogiochi contemporanei. Al contrario, Kojima ha offerto una nuova visione di videogioco, basata sulla necessità di mettere gli “strand”, i fili, al centro del gameplay, dando vita a qualcosa che sia in grado per la prima volta di creare connessioni, rifuggendo il concetto di divisione e crisi che è invece insito nell’interattività fin dai tempi di Super Mario Bros. Da qui nasce anche la scelta di Kojima di proporre, come ha sempre fatto, anche un livello di difficoltà bassissimo, selezionabile esclusivamente da chi lo desidera: una visione totalmente contrapposta a quella di Hidetaka Miyazaki, creatore di Dark Souls, che riconosce nella difficoltà la purezza integrale della sua opera. Al contrario, Kojima vuole che chiunque sia in grado di sperimentare la sua bizzarra vicenda umana fatta di fili e collegamenti soprannaturali, e coglierne il significato. Unire, dunque, passa anche per incentivare l’inclusività di ogni tipo di giocatore, rifuggendo così la chiusura mentale dell’hardcore gamer e guardando al conscious gamer.
Kojima ha peraltro scelto di affrontare questo tema in un momento storico cruciale, in cui i fili vengono recisi e, al contrario, vengono eretti pericolosi muri concettuali e fisici: il rifiuto della narrativa trumpiana e la decisione di sublimarla attraverso l’arte, si colloca d’altronde perfettamente nella volontà da parte del game designer di avvicinarsi a Hollywood, complici tutte le personalità che ha coinvolto, nella consapevolezza forse che i videogiochi per essere davvero significativi hanno bisogno di affrancarsi da palcoscenici che talora ne sviliscono il potenziale culturale, riconducendoli allo status umiliante di mero prodotto. In quest’ottica, è fondamentale riconoscere la precisa scelta da parte di Kojima di non rifuggire la natura interattiva della sua opera: al contrario, ogni tematica che dà forma a Death Stranding, e in primo luogo gli strand, è raccontata attraverso il game design, ovvero le meccaniche di gioco, ciò che l’utente compie all’interno dell’ambientazione tridimensionale. Paradossalmente, Death Stranding rischia di essere molto più vicino a Super Mario Odyssey che a Detroit. Become Human; tuttavia, se chiaramente il salto di Super Mario è espressione di gioia fanciullesca, ogni azione ludica e interattiva di Death Stranding sembra già da adesso essere foriera di significanti importanti per la società, ma soprattutto per noi stessi, gli esseri umani, veri protagonisti di tutta la poetica di Kojima e che ancora una volta saranno raccontati in Death Stranding in tutta loro fragilità, complessità e straordinarietà.

 

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Il Giappone del gaming rialza la testa

Strana fiera, il Tokyo Game Show. Al visitatore smaliziato, già sedotto dalle sirene dell’E3 di Los Angeles e della Gamescom di Colonia, le dimensioni del TGS potrebbero risultare fin troppo contenute, persino intimiste. Ma le luci, i colori, i suoni quasi ossessivi, ci ricordano che sì, siamo inequivocabilmente in Giappone, la terra che ha dato i natali a capolavori come Pac-Man e Super Mario e che, seppur erroneamente, viene considerata la patria del medium stesso. Lo show rappresenta per giunta un ottimo spaccato della situazione del game development giapponese, che, se da una parte fatica a mantenere il ritmo di due decadi fa, sembra essere comunque riuscito a ritagliarsi una sua identità e un suo carattere. L’energia e l’ottimismo che si respira tra i padiglioni fanno intendere che gli sviluppatori che lavorano nel Paese del Sol Levante sono pronti a rialzare la testa e far vedere al mondo di che cosa sono capaci. Di nuovo.

La sensibilità culturale, in quel di Tokyo, è chiaramente molto diversa rispetto a quella occidentale: del resto stiamo parlando di una fiera dove è normale trovare un “videogioco” in realtà virtuale in cui lo scopo è semplicemente interagire con una giovane ragazza (Summer Lesson), mentre da un’altra parte due folkloristiche cosplayer su di un palco si spogliano rimanendo in costume. Paese che vai, usanze che trovi: con buona pace dei commentatori statunitensi, che hanno usato Twitter per esprimere la loro profonda indignazione nei confronti di un fenomeno, quello delle booth babes (le standiste), che in Occidente è ormai del tutto scomparso proprio a causa di tali critiche. Al di là di queste sfumature, il Giappone dei videogiochi è globalizzato almeno quanto lo è la sua società, ed è così che anche un Call of Duty: WWII, gioco di Activision ambientato nella Seconda guerra mondiale, riesce a fare breccia sui giocatori in fiera nonostante la tradizionale avversione di questo popolo per gli sparatutto in prima persona. Certo, è un Giappone molto aperto di mente quello che ormai riesce ad accettare un gioco su di una guerra che li ha visti pesantemente sconfitti. Ma del resto è solo un video game... o forse no?

Più che a un’invasione, tuttavia, si assiste a una contaminazione, destinata a condurre verso una sintesi a livello di game design tra cifre stilistiche occidentali e orientali. Ni no Kuni II: Il destino di un regno, colossale produzione di Bandai Namco (la compagnia fondata da Masaya Nakamura, scomparso di recente), è un ottimo esempio di questa tendenza. Il gioco, che rispetto al primo capitolo ora è orfano dello Studio Ghibli di Hayao Miyazaki, riprende la tradizione dei JRPG, i giochi di ruolo alla giapponese, introducendo tuttavia battaglie in tempo reale e dialoghi a scelta multipla come nella space-opera Mass Effect di BioWare. Nella nostra chiacchierata con gli sviluppatori di Level-5, creatori del gioco, è emersa non a caso questa volontà di creare un prodotto di rottura, senza tuttavia tradire le proprie origini, cosa che invece  ̶  e ce lo dicono sottovoce  ̶  ha fatto Final Fantasy XV.

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Il giocatore di videogame, oltre gli stereotipi

Storicamente, il target tipico dei videogiochi, almeno nello stereotipo, è stato da sempre il “maschio adolescente bianco”. Un assioma che in realtà negli ultimi anni è crollato, con tantissimi tipi di esperienze che hanno coinvolto fasce d’età trasversali che fino ad allora il videogioco neanche sapevano cosa fosse, in Italia come nel resto del mondo.

Proprio in questi giorni si è consumata in Italia una discussione scaturita da un articolo de Il fatto quotidiano, sulle cui pagine on-line una giornalista si è dichiarata allarmata per i possibili effetti negativi di Fortnite sull’utenza infantile. Un articolo scritto da una voce esterna al gaming, che si poneva in maniera informata e coerente un legittimo dubbio, e che tuttavia è stata non troppo sorprendentemente invasa dai commenti dei gamer, preoccupati di assistere all’ennesimo esempio di disinformazione. Incidentalmente, molte delle persone che hanno risposto alla giornalista non erano, ovviamente, i bambini interessati, e neanche gli adolescenti, ma bensì coloro che con giochi come Doom, The Legend of Zelda e Final Fantasy 7 sono cresciuti. L’adolescente maschio bianco, dunque, non si è mai estinto, ma semplicemente... non è più adolescente! Ed è anche cambiato parecchio, in meglio, almeno negli Stati Uniti.

Questo è quanto afferma, dati alla mano, una nuova ricerca condotta dall’ESA, ovvero Entertainment Software Association, l’associazione che rappresenta l’industria videoludica negli Stati Uniti. Secondo tale ricerca, il 65% degli adulti americani si diverte con i videogiochi, il che equivale a dire che negli Stati Uniti 164 milioni di persone adulte sperimentano regolarmente questa forma di intrattenimento, e che i tre quarti di tutto il popolo americano (!) ha una macchina per giocare in casa (che, come sappiamo, oggigiorno può anche essere uno smartphone). Parallelamente, l’ESA annuncia anche un nuovo record per il mercato, che nel 2018 ha toccato i 43,4 miliardi di ricavi.

L’ESA ha sicuramente tanti buoni motivi per gongolare, perché questa ricerca ripulisce definitivamente la fedina del videogioco: l’America che gioca non è più composta solo di bambini che si cibano di energy drink e Doritos, fino a pochi anni fa vero e proprio componente essenziale dello zeitgeist del popolo dei gamer americani. Al contrario, dice l’ESA, gli americani che giocano sono persone «varie, attive, coinvolte nelle loro comunità, e vedono i videogiochi come una forza positiva nella società». Del resto, se anche Thor, il dio del tuono di Avengers, nell’ultimo film della serie gioca a Fornite, qualcosa vorrà pur dire, no?

La ricerca afferma che il 79% delle persone intervistate è convinta che il videogioco fornisca loro «uno stimolo mentale», mentre il 78% sostiene che sia capace di «offrire relax e sollievo dallo stress». Cadono così le accuse più tipiche rivolte al videogioco, reo secondo alcuni di distrarre i bambini dal contatto con la natura e l’aria aperta, e ancor peggio di allontanarli dallo studio. L’ESA ribatte a quest’ultima accusa in particolare con un dato: il 52% degli intervistati ha ricevuto un’educazione universitaria. In realtà, anche dire che il videogiocatore stia chiuso tutto il giorno invece di rotolare sull’erba è abbastanza anacronistica come affermazione, dal momento che molti degli intervistati hanno hobby e interessi che esulano dal videogioco, e il 56% dei gamer si diletta a disegnare, cantare o scrivere; in realtà, chi segue i “fandom” sa bene quanta creatività in ambito artistico e letterario possa scaturire dalla passione per una serie di videogiochi.

Videogioco solo per persone sole? Anche a questa accusa, l’ESA ha qualcosa da dire in merito. In effetti, il 63% degli intervistati gioca assieme ad altri, sia on-line che di persona. Considerata la pervasività di Internet, nonché la rilevanza che gli spazi digitali hanno acquisito nelle nostre vite, cade anche l’accusa del gaming on-line come alienante e isolante, dal momento che giochi come Ultima Online, World of Warcraft, ma anche Fortnite, hanno favorito l’aggregazione e la creazione di legami destinati a svilupparsi anche al di fuori della rete.

Qualche altro “bullet point” riportato direttamente dallo studio dell’ESA illustrerà ulteriormente la positività dell’ingresso del gaming nelle nostre vite: chi gioca ai videogiochi è più incline a osservare uno stile di vita più salutare; in media, i gamer dormono 7 ore a notte, e il 32% medita regolarmente. Il 90% dei genitori presta attenzione ai giochi sperimentati dai propri figli, e il 57% si diverte a giocare ai videogiochi con loro almeno una volta a settimana; il 74% crede che i videogiochi possano essere educativi per i propri figli; infine, l’84% è consapevole delle classificazioni dei videogiochi (in Italia redatte dal Pan European Game Information, PEGI, ndr). Il 46% dei giocatori di videogiochi è donna.

L’Italia è rinomatamente un Paese dove le rivoluzioni tecnologiche avvengono con un certo ritardo, sia dal punto di vista dell’infrastruttura (vedi alla voce “connessioni Internet”), sia dal punto di vista culturale. Tuttavia, lo studio dell’ESA squarcia il velo e ci apre una finestra sul futuro, su quello che inevitabilmente succederà nei prossimi anni. Il popolo dei gamer si è stufato di soffrire discriminazioni, e che al tempo stesso è consapevole di tutti i contro-argomenti da sfoderare quando il videogioco come medium viene insidiato nella sua legittimità. Il “modello americano” dell’industria videoludica può sembrare lontano, ma in realtà è inevitabilmente destinato ad arrivare, con la stessa latenza che intercorre tra l’avvento di Pong negli Stati Uniti e il successivo contagio della “mania del videogioco” nel resto del mondo.

Culturalmente, la velocità con cui circolano le informazioni in rete potrà agevolare un processo inevitabile che finalmente spingerà i media e le persone a vedere i videogiochi per quello che sono: la forma d’intrattenimento, arricchimento e cultura più interessante del nostro secolo. Lo studio ESA d’altronde dipinge un bellissimo affresco, un affresco dove genitori e figli vivono insieme le proprie vite videoludiche, e dove scenari pericolosi, come la possibilità che un gioco come Grand Theft Auto V finisca in mano ai bambini (target a cui il gioco non è ovviamente rivolto, allo stesso modo di film che trattano analoghe tematiche), vengono scongiurati grazie all’informazione e all’osservazione. Un affresco dal quale nessuno è escluso e nel quale anche le donne possono sentirsi correttamente rappresentate grazie a eroine dotate di carisma, intelletto e forza di volontà. Parallelamente, l’ESA racconta anche di una realtà produttiva in forma smagliante: in America, il videogioco è uno dei settori economici caratterizzati dalla crescita più veloce, e attualmente fornisce più di 220.000 posti di lavoro in 50 Stati. 520 college e università in 46 Stati offrono la possibilità di studiare i videogiochi e collocarsi in aziende destinate a un futuro glorioso. Questa è la bellezza del videogioco. Oggi negli States, domani in Italia... ma tante cose si stanno già muovendo.

Problemi come la supposta “dipendenza da Fortnite” non si combattono quindi con il richiamo al primitivismo e al ritorno dei giochi sull’erba (che, com’è ovvio, possono inserirsi tranquillamente in uno stile di vita che include anche un uso rilevante dei videogiochi). Al contrario, il cyberbullismo e il rischio di dipendenza possono essere sconfitti parlando insieme ai nostri figli, ma soprattutto giocando e non vedendo più le esperienze interattive come un nemico, bensì come una presenza costante delle nostre vite. Che come ogni strumento deve essere usato con consapevolezza (“conscious gaming”), ma al tempo stesso può fornire grandi spunti di arricchimento e crescita personale. Educare i propri figli al videogioco è possibile, ma sarà ancora più importante educarli con il videogioco.

 

Immagine: Un ragazzo che gioca a Fortnite. Crediti: Jennie Book /Shutterstock.com

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Identikit del videogioco

Quando a fine ottobre il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha aperto al riconoscimento del videogioco come sport e, di conseguenza, alla sua possibile futura inclusione nei giochi olimpici, si è subito scatenato un acceso dibattito. È corretto qualificare il videogioco come sport? Il CIO ha ovviamente puntualizzato che è necessario che siano rispettati i valori olimpici, che dovranno essere messi a punto sistemi di tutela dal doping e che ci si dovrà battere contro le scommesse, ma ha anche sottolineato che i cyber-atleti si allenano con un’intensità paragonabile a quella degli sportivi tradizionali. A prescindere dall’importanza di questo storico riconoscimento, seppur in itinere, il dibattito si è ovviamente esteso alla definizione di sport. Se il videogioco è dentro, perché tenere fuori gli scacchi? Se invece è fuori, perché non escludere anche la carabina? Punti di vista, parti di un dialogare critico che, in ultima analisi, è sempre benefico. Il punto, però, credo sia un altro. Tornare a interrogarsi sull’identità del videogioco, questione oscura che da decenni tormenta le menti di chi, a diverso titolo, si interessa di questo settore.

Il videogioco, che affonda le sue origini tra la fine degli anni Cinquanta (Tennis For Two, 1958) e gli anni Sessanta (Spacewar!, 1962), nasce come semplice esperimento, come creazione rivoluzionaria che coniuga conoscenze tecniche informatiche con idee, spunti creativi e, talora, embrionali proto-storie. Da qui la primissima riflessione: non è dato un videogioco senza che ci sia un computer a consentirne l’esecuzione, poiché un electronic game vede nel codice informatico i mattoncini del suo DNA. Si faccia attenzione, però: questo fa forse del videogioco un oggetto di tecnologia? Niente affatto: vorrebbe dire scambiare il contenuto per il contenitore, quasi come se il film fosse la pellicola sulla quale è impresso (oggi non è neppure necessario, con il cinema ormai passato al digitale) o il romanzo fosse la carta vergata con l’inchiostro sulla quale è scritto (stesso discorso: gli ebook dimostrano il contrario). Ebbene sì, il videogioco attiene alla sfera umanistica: idee veicolate da codice, come l’arte di uno scultore usa il marmo per prendere forma. Quando un autore ha qualcosa nel suo animo che vuole esprimere, sceglie il mezzo più adatto, che sente a sé più vicino. Ebbene, ormai tra questi mezzi c’è anche il videogioco, usato per dar vita a forme interattive astratte, prive di un elemento narrativo (pensiamo agli incastri geometrici di un Tetris) o a veri e propri racconti, che possono essere semplici, infantili o fiabeschi, ma anche adulti, complessi e dolorosi. Una coppia di genitori, ad esempio, ha scelto il videogioco come modalità espressiva per condividere con il mondo, in maniera interattiva, la drammatica esperienza della perdita del loro bambino, malato di cancro (That Dragon, Cancer).

Questo ci porta a una nuova imprescindibile riflessione. Se il videogioco tratta tematiche di questo genere, forse non è necessariamente un “gioco”. Non si gioca con un bambino malato terminale, né si potrebbe “giocare” nel rivivere i grandi drammi della Storia. Diciamo che piuttosto si vivono in modo interattivo delle storie, che possono essere profonde, drammatiche, disperatamente tragiche, oltre che fantastiche, spassose o di pura evasione. Non è insolito. In letteratura è lo stesso, come nel cinema o in ogni altra manifestazione artistica. Che la letteratura sia arte è indiscusso, ma ciò non significa che ogni saggio o romanzo sia un’opera d’arte: ci sono i capolavori, le pietre miliari e i grandi testi, come la letteratura spazzatura. Il videogioco non differisce, ma è fondamentale rendersi conto del superamento semantico del termine: ciò che è nato come esperimento e che poi è diventato un prodotto di intrattenimento, un giocattolo elettronico (pensiamo alle primissime console Magnavox Odyssey o Atari), è presto evoluto in un medium, un linguaggio, una nuova forma di veicolazione culturale e artistica del pensiero umano. Il videogioco, insomma, si è reso un’opera multimediale interattiva o, se preferite, un’esperienza interattiva, che a tutti gli effetti si è conquistata il titolo di arte e che a buon diritto è entrata nelle università, nelle biblioteche, nei musei e in tutti gli altri templi della cultura.

Il fenomeno dello sport elettronico, comunemente detto eSport, ha però impresso una sterzata verso territori totalmente differenti, dove il videogioco si dissocia dalle stesse ambientazioni che mostra e dalle storie che (eventualmente) narra per diventare un mero campo sportivo competitivo dove ciò che conta è l’esecuzione del gesto atletico impiegato per vincere, da soli o in squadra, la sfida agonistica del momento. Allenarsi duramente per affinare l’astuzia e le proprie strategie, per potenziare i propri riflessi ed essere più rapidi, più precisi, più efficaci. Rendere, in ultima analisi, il videogioco un vero sport, anche da Olimpiadi. Premesso che trovo tutto ciò giustissimo e inevitabile (non si può fermare il progresso, e chiunque abbia cercato di farlo è sempre stato travolto dall’ineluttabilità della Storia, ridotto a un neo-luddista condannato al fallimento), la confusione aumenta. Che cos'è, dunque, il videogioco? Se non è più e non è solo una forma di intrattenimento, è cultura e arte oppure è sport? Perché, oggettivamente, sembrano identità difficilmente coniugabili; la reductio ad unum appare in effetti un artificio forzato e deviante, che avrebbe come unico risultato la creazione di un Frankenstein dalla personalità multipla, un ibrido non credibile né accettabile.

In conclusione, il rischio è che, a fronte di questo scontro ideologico, si torni a rivendicare la mera natura di svago del mezzo “videogioco”, quasi a ritrarsi in una condizione di primigenia e fanciullesca innocenza, uno snobismo di ritorno che, in realtà, rischierebbe di far compiere molti passi indietro al videogioco nel suo lungo e impervio cammino di legittimazione. Quel che invece dovremmo rivendicare è che il videogioco è un termine ombrello che ormai ricopre troppi “oggetti” dall’identità totalmente diversa tra loro. È quella che chiamo la Sindrome di Asteroids. In Asteroids un’astronave colpiva dei meteoriti, e nel farlo li spezzava in rocce più piccole, che sfuggivano rapide in direzioni diverse. Ecco, oggi il videogioco è un asteroide colpito troppe volte per poter essere sempre riconducibile a un’identità comune. Il problema è di sistematica e non è eludibile ancora a lungo, perché alcuni videogiochi sono semplice svago commerciale, altri sono simulatori, altri sono espressione artistica, altri ancora potranno essere sport olimpici. Videogioco sic et simpliciter, ora e sempre? Troppo semplicistico, anzi: errato. Prima ce ne renderemo conto, prima troveremo una soluzione, anche perché il mondo va avanti, a grande velocità, quali che siano le nostre inclinazioni.

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Google Stadia, il videogioco liquido che trascende la fisicità

Uno degli assiomi del mondo videoludico più duri a distruggersi è l’associazione tra il contenitore fisico e l’effettivo contenuto di un’esperienza interattiva. Del resto, la figura del collezionista è sempre stata una folta “sottoclasse” del videogiocatore, appassionato di gaming che conserva e custodisce edizioni fisiche dei videogiochi. Il mondo del videogioco è, in realtà, in netta controtendenza con il resto dell’entertainment, dove da tempo dispositivi come lettori blu-ray e decoder satellitari hanno cominciato a raccogliere polvere in cantina, assieme alle videocassette e, ormai, ai DVD. La presenza di grosse scatole per giocare, come PlayStation e Xbox, quindi, risulta per giunta essere piuttosto anacronistica rispetto a realtà ormai enormemente consolidate come Netflix e Spotify.

Tutto questo è destinato a cambiare nel mondo dei videogiochi con Google Stadia, nuovo “dispositivo liquido” realizzato dal colosso dei motori di ricerca, rivelato durante l’ultima Game Developers Conference, il più grande raduno annuale di sviluppatori di videogiochi. Google Stadia rappresenta per i videogiochi quello che Netflix ha rappresentato per il cinema, ovvero il definitivo affrancamento dal supporto fisico, storicamente incarnato dalla cartuccia prima e dal disco ottico poi. In molti ci avevano provato prima di oggi (Nvidia su tutti), ma probabilmente solo Google Stadia, forte del brand e della monumentale struttura tecnologica alle sue spalle, ha il peso specifico sufficiente per imporre questa innovazione capillarmente e a livello globale.

L’idea alla base di Google Stadia è tanto semplice da spiegare, quanto fenomenale dal punto di vista dell’implementazione. Il sistema consiste, detta in parole povere, in una piattaforma centralizzata che svolge, all’interno dei quartier generali di Google, lo stesso lavoro compiuto dalle nostre PlayStation nel salotto di casa, ossia far funzionare un gioco. Tale gioco, tramite un servizio di streaming attraverso Internet, sarà poi trasmesso su qualunque device in nostro possesso, in maniera del tutto agnostica. Tutto questo, in ultima analisi, ci libererà della necessità di avere in casa una macchina fisica, nonché dal vincolo di avere a disposizione una console e una macchina per giocare. Sarà possibile, per quanto possa suonare paradossale ai giocatori del 2019, usare una piattaforma Google per giocare su un dispositivo Apple, come un tablet o uno smartphone, a un prodotto realizzato, per esempio, da id Software, i leggendari creatori di Doom. Una scelta che, come le leve del judo, sfrutta la potenza degli avversari a proprio vantaggio: con Stadia, Google avrà a disposizione potenzialmente la base installata più grande al mondo, rappresentata da ogni tipo di dispositivo, di ogni forma e grandezza. È la convergenza delle piattaforme, nonché il nostro futuro più immediato e plausibile. E, tutto questo, sarà disponibile in ogni luogo e in ogni momento.

Parlare troppo a lungo delle specifiche tecniche di Stadia sarebbe alquanto riduttivo per quella che si preannuncia una rivoluzione, anche perché giocoforza le potenzialità della piattaforma saranno soggette a fluidità nel tempo, molto più di quanto avviene oggi con le console fisiche, laddove una macchina come PlayStation 4 attraversa un fisiologico ciclo vitale di circa cinque anni. Cruciale tuttavia considerare la scelta di mantenere il pad, unica, vera interfaccia per il gaming, mai veramente sostituita dal touch screen (e la marginalità contenutistica del mercato mobile è lì a dimostrarlo, almeno in ambito gaming). Esisterà un pad ufficiale Stadia, ma saranno compatibili tutti i pad in grado di accedere a wi-fi e bluetooth. Il judo, appunto.

Stadia si appoggia inevitabilmente a una piattaforma cloud incredibilmente potente, nata da una collaborazione fra Google e un altro colosso, AMD, già ampiamente supportata dai principali motori grafici, ossia i software che creano i videogiochi. Stadia, al lancio, potrà garantire a ogni utente una potenza di calcolo di 10,7 Teraflops. Termini misteriosi, forse, ma per chiarire le proporzioni basterà dire che Xbox One X, attualmente la macchina gaming più performante sul mercato, arriva a 6. Con una connessione adeguata, la console liquida supporterà il massimo standard visivo raggiungibile dalle attuali console, oltre a essere già in grado di superarlo. Una piattaforma pensata per la sharing generation, che potrà trasmettere la propria partita su YouTube, grazie al particolare funzionamento del flusso video di Stadia, che prima di arrivare al proprio schermo passa, inevitabilmente, per i server Google che ospitano anche la piattaforma video per eccellenza.

Vale la pena fugare qualche dubbio. Innanzitutto, la line-up, ossia i giochi che usciranno su Google Stadia. La responsabile dei contenuti della piattaforma, infatti, altro non è che Jade Raymond, una delle donne più straordinarie dell’industria videoludica, colei che ha reso Assassin’s Creed il fenomeno amato da milioni di giocatori in tutto il mondo. Al timone anche Phil Harrison, veterano Microsoft e Sony a bordo: è lui l’uomo che ha lanciato la PlayStation 2, la console più venduta di tutti i tempi. Tra le altre perplessità spesso sollevate dai critici, anche quella legata alle connessioni, soprattutto per quanto riguarda l’ingresso del pargolo Google nel nostro Paese. Timori che probabilmente non tengono conto di quanto la situazione, persino nella nostra Italia, sia sensibilmente migliorata rispetto a dieci anni fa, e che inevitabilmente lo sviluppo tecnologico, e il prossimo approdo del 5G, spianerà il terreno a Google Stadia esattamente come già avvenuto con Netflix. Life finds a way, per dirla con Jurassic Park.

Google Stadia ci libererà da molte cose. Innanzitutto, a livello di impatto ambientale, è evidente anche per il più distratto degli osservatori che non produrre migliaia di scatole di plastica con circuiti elettrici avrà inevitabilmente un risvolto positivo dal punto di vista ecologico. Solo per questo motivo, bisognerebbe provare simpatia per l’imminente rivoluzione made in Google. Più imprevedibili invece le conseguenze sul mondo dei videogiochi, che è sempre stato incentrato sulla fisicità, e solo negli ultimi dieci anni si è lasciato tentare dalle sirene del digital only. Con buona pace dei collezionisti. L’idea, quasi feticistica, di comprare un videogioco dentro una scatola ed esporlo all’interno di uno scaffale è verosimilmente destinata a tramontare, probabilmente a prescindere dal fatto che Google Stadia abbia o meno successo. È interessante anche notare che, nel momento in cui Alexa ci mostra una realtà fatta di Internet delle Cose, dove gli oggetti di tutti i giorni vengono connessi alla rete, paradossalmente gli oggetti tecnologici per eccellenza, i videogiochi, smettono di essere “cose”. O, perlomeno, cose fisiche.

Il concetto di un’entità che trascende il fisico ed espande la sua essenza, d’altronde, è squisitamente cyberpunk e transumanista, come insegnano Neuromante e Ghost in the Shell. Con una venatura di saggezza quasi zen. Per quanto possa sembrare spaventoso per i luddisti più conservatori, Google Stadia è l’inevitabile conseguenza di un mondo dove la fisicità non è più importante, né nella conoscenza, tanto meno nell’intrattenimento. Oggi, come direbbe Elon Musk, lo smartphone è un’estensione del nostro corpo, un’infinita fonte di sapere da cui attingere in ogni momento, in ogni istante. Non ce ne siamo quasi resi conto, ma abbiamo reso liquidi tantissimi concetti, a partire innanzitutto quello di “sapere”.  Cosa ci sarebbe di strano, quindi, se anche il divertimento elettronico seguisse tale tendenza? Autori come il romanziere americano Jonathan Franzen si sono scagliati contro il soppiantamento del libro cartaceo a opera degli e-book (processo, in realtà, mai veramente compiutosi), e con ottime ragioni. Tuttavia, bisogna pur sempre considerare che alla morte del supporto fisico corrisponderà una resurrezione nel “cloud”, il nuovo mondo delle idee di platonica memoria, di cui Google Stadia rappresenta a tutti gli effetti la declinazione videoludica. Come possiamo pensare di consegnare ai posteri la cultura del nostro tempo, di cui i videogiochi fanno parte a tutti gli effetti, se contiamo di affidarla a supporti inevitabilmente destinati alla finitezza, fatti di plastica e silicio? Abbandonare il fisico, forse in maniera un po’ iconoclasta, non significa forse riscoprire la centralità del contenuto e dell’intenzione artistica dell’autore, che si sviluppa nella fisicità, senz’altro, ma nasce dapprima nell’astrazione di un cervello umano? Del resto, di Kafka ricorderemo quello che ha pensato, ma mai la carta e l’inchiostro che ci hanno permesso di interfacciarci con quel pensiero.

Un’industria dominata dalla fisicità come quella videoludica incontrerà inevitabili resistenze. Equilibri cambieranno. Colossi cadranno. Altri ne nasceranno. La vittoria? Per una volta tanto, spetterà al contenuto.

 

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Storie interattive: l’era del videogioco convergente

L’ingresso del videogioco nelle dinamiche quotidiane dei giocatori occasionali (possiamo ancora chiamarli così?) è sotto gli occhi di tutti, ormai da tempi non sospetti. Ma c’è un’influenza più sottile che il gaming sta esercitando sulle nostre vite, una rivoluzione che passa attraverso linguaggi mediatici convergenti che, volenti o nolenti, si trovano a recuperare un’estetica squisitamente videoludica. Le ragioni alla base di queste influenze sono molteplici: da una parte, abbiamo la pervasività del digital storytelling, fatto ormai notorio e suffragato da recenti notizie, come il superamento in Inghilterra del mercato musicale e cinematografico a opera della Games Industry*. D’altro canto, si assiste di continuo a un incontro di maestranze artistico-tecnologiche tra il mondo del cinema e quello del videogioco, con concept artist e modellatori 3D che si trovano a lavorare su entrambi i fronti, spesso attingendo dall’immaginario interattivo per dare nuova linfa vitale alle visioni cinematografiche. Un processo che coincide in parte con lo straordinario successo del Marvel Cinematic Universe e che continua a manifestarsi giorno per giorno, trovando il suo compimento nel recente Spider-Man: Un nuovo universo (o Into the Spider-Verse, se volessimo mantenere l’azzeccatissimo titolo originale). Film non semplicemente ispirato visivamente e dialetticamente al videogioco, ma la cui stessa essenza si basa sulle dinamiche dell’interattività.

L’incontro tra Spider-Man di diversi universi non è un’idea nuova nei fumetti, né tanto meno nei videogiochi: nel 2010, infatti, uscì nei negozi Spider-Man: Shattered Dimensions, discreta trasposizione digitale delle avventure di Peter Parker, o meglio, dei Peter Parker provenienti da diversi universi. Il concetto è di per sé molto videoludico, laddove la possibilità di interpretare diversi alter ego è da sempre caratterizzante del medium, fin dai tempi in cui la stessa avventura di Super Mario Bros. 2 poteva essere affrontata con Mario, il fratello Luigi, la Principessa Peach o il funghetto Toad, ognuno dotato di peculiari caratteristiche e modalità di interazione, proprio come Peter Paker, l’afroamericano Miles Morales o la strong female lead Spider-Gwen. L’idea stessa di multiverso, che ha precise risonanze persino nella scienza contemporanea nonché nella filosofia, ricorda da vicino il videogioco, e d’altronde il concetto di poter accedere a diverse dimensioni a partire da un singolo hub è storicamente strumentale in tantissime avventure del mondo interattivo. Abbastanza rivelatorio scoprire quindi che, agli occhi dello spettatore contemporaneo, il concetto di “universo parallelo” non è più alieno, né tanto meno difficile da comprendere. Anche grazie al gaming.

Una simile dinamica viene sfruttata persino dalla serie Netflix originale Maniac, seppure solo a livello concettuale: i protagonisti, sottoposti a una cura sperimentale, vengono trasportati in dimensioni alternative generate dalla loro mente; in una delle puntate, possiamo vedere Emma Stone vestita da elfo, impegnata in un’avventura che potrebbe tranquillamente essere scambiata per un qualunque The Elder Scrolls… o per Hellblade: Senua’s Sacrifice. E, in un gioco intellettuale di citazioni, forse involontarie, e significativi sincronismi, Hellblade è proprio un titolo fantasy ambientato nella mente di una persona affetta da disturbi psicologici.

Nel suo passare senza soluzione di continuità tra staticità da graphic novel e sinestetica iperattività, Spider-Man: Un nuovo universo è stato definito, a ragione, un fumetto in movimento, ma in realtà intrattiene un serratissimo dialogo con l’estetica videoludica, attraverso un uso dinamico e sincopato delle telecamere, particolarmente evidente nelle scene d’azione che d’altronde abbondano nella pellicola. Lo spettatore, grazie a un impiego magistralmente fluido e immersivo della camera 3D, viene trasportato direttamente all’interno della scena, con continui cambi di angolazione e prospettiva che enfatizzano il movimento dei protagonisti e l’intensità dell’azione, in un funambolico balletto gravitazionale dove le regole della fisica vengono sovvertite. È una telecamera liberale, diegetica e dirompente: proprio come quella di un videogioco. Assistere a una scena d’azione di Spider-Man. Un nuovo universo, quindi, non è poi tanto dissimile dallo sperimentare una sessione di gioco di un qualunque Uncharted o Tomb Raider, e tale è il coinvolgimento all’interno della messinscena, da chiederci in più di un momento perché siamo stati privati del controllo dell’azione. La frammentazione della visuale, quasi autoreferenziale, è talmente esasperata da rendere obsolete e tremendamente limitanti persino le visioni del recentissimo Avengers: Infinity War, un film già di suo fortemente “ludicizzato”; Aquaman di James Wan, d’altronde, ha una struttura ritmica a livelli che è pesantemente influenzata dall’ambito dei games. Ma l’estetica dello “Spider-Verse” si fonda sulle spalle dei giganti, recuperando l’identità visiva, compositiva e cromatica plasmata dalle avanguardie videoludiche indipendenti, fertile humus per la sperimentazione che negli ultimi anni ha osato molto di più rispetto al settore dell’animazione pura, forse intimorita dallo strapotere dello stile Disney e delle voci più standardizzate provenienti dallo storico CalArts. La freschezza di Spider-Man: Un nuovo universo è fortemente debitrice, quindi, di giochi indie come Guacamelee!, Transistor, Limbo, persino Monument Valley, nella ricerca di un’architettura visiva impossibile. Senza questi prodotti, probabilmente la rivoluzione stilistica avvenuta con Spider-Verse non sarebbe stata possibile.

Parlare di influenze tra cinema e videogioco oggi è immediato, alla luce del successo (forse un po’ gonfiato) di Bandersnatch, l’episodio speciale interattivo di Black Mirror, ma oggi il carisma del videogioco si insinua molto più sottilmente nelle opere di intrattenimento, a tratti in maniera persino surrettizia, tanto che il confine tra ciò che nasce come esperienza interattiva o lineare, è sempre più difficile da tracciare: è per questo che oggi parliamo di convergenza dell’entertainment, e certo la rivoluzione silenziosa della realtà virtuale, mettendo al bando ogni sensazionalismo, potrebbe portare nelle nostre case un modo di fruire un’opera molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati, mettendo nelle mani dello spettatore aspetti tradizionalmente deputati all’autorialità, come la telecamera e la volontà di soffermarsi o meno su di un determinato aspetto della messinscena. Non è da escludere che per il momento tutto quello che rimarrà della “bolla VR” (solo sgonfiata: mai esplosa) sarà proprio la cosiddetta animazione immersiva, un campo in cui Disney sta agendo in prima linea, realizzando il corto animato Cycles, destinato a essere proiettato nei prossimi mesi. In questo senso, Spider-Man: Un nuovo universo sembra proprio essere una prova tecnica di un nuovo cinema immersivo e interattivo, lo stesso che veniva preconizzato da James Cameron con il suo Avatar, a tutt’oggi l’esempio di messinscena 3D più profondo mai realizzato nella storia del cinema.

La distruzione della regia a favore dell’interattività fa eco alla distruzione dell’autorità e della verità, che viene raccontata magistralmente da Alessandro Baricco nel suo saggio The Game. Baricco fa un passo ulteriore rispetto alla teoria convergente da noi avanzata, arrivando a promulgare l’idea che tutto quello che oggi sperimentiamo sia figlio di un’interattività strumentale, che pervade ogni molecola del nostro essere, influenzando abitudini e creando nuovi correnti di pensiero. Oggi, l’idea di un contenuto dogmaticamente proveniente dall’alto viene rapidamente sconfessata dalla possibilità per l’utente di interagire con esso, e alterarlo a proprio piacimento, superando la cosiddetta remix culture e sfociando piuttosto in un rinascimento dell’industria creativa, dove, per quanto possa sembrare spaventoso per chiunque sia nato prima dei Millennial, il creativo non è più una divinità eletta, ma un agente che opera in concerto con la massa. Se Baricco ne fa una questione sociologica, le sue idee possono tranquillamente essere applicate all’entertainment, di qualunque natura esso sia. È sicuramente emblematico che, oggi, la figura dello showman risulti essere sempre più vicina a quella del content creator, come, Ninja, streamer che ha costruito la sua fama proprio sulla possibilità di plasmare egli stesso il corso della narrazione, libero da autori e vincoli restrittivi e, almeno apparentemente, vicino al popolo e all’uomo della strada. Oggi contribuiamo collettivamente alla costruzione dell’egregora, agendo in prima persona sulla mitopoiesi, proprio come avviene in un videogioco. Sarà interessante notare quello che succederà dopo la mancata estensione dei termini sul copyright, dimostrazione che oggi il popolo della Rete e della cultura open source prerogativa dei content creator, è molto più forte di quanto non lo fosse nel 1998, quando Disney, nel tentativo di proteggere le property legate a Mickey Mouse, modificò la legge sul diritto d’autore, causando tra le altre cose l’effetto collaterale di ritardare l’ingresso delle opere di Joyce nel territorio royalty-free. Che il prossimo Walt Disney sia destinato a nascere su YouTube?

 

 * https://www.bbc.com/news/technology-46746593

 

 

Crediti immagine: chingyunsong / Shutterstock.com

 

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David Cage: “I videogiochi imitano la vita”

Intervista a David Cage

Nel corso di Gamerome, conferenza romana dedicata agli sviluppatori di videogiochi tenutasi dal 21 al 23 novembre nella Capitale, abbiamo intervistato David Cage, uno dei più grandi sostenitori dell’idea del videogioco quale strumento narrativo capace di veicolare messaggi profondi e significati dal portato rivoluzionario. Nella sua ultima opera interattiva, Detroit. Become Human, Cage affronta uno degli interrogativi più profondi con cui da sempre l’arte si confronta, ossia il significato dell’essere umani, trattando attraverso la metafora dell’androide argomenti scomodi come la segregazione razziale e facendo risuonare l’eco di immani tragedie, in primis la Shoah. Ispirandosi persino a un capolavoro tutto italiano: La vita è bella di Roberto Benigni.  

 

Qual è lo spirito che da sempre anima la tua ricerca artistica, permettendole di raggiungere le vette liriche di videogiochi come Detroit. Become Human?

Devo dire che quando abbiamo iniziato con videogiochi come Omikron. The Nomad Soul la gente pensava che fossimo impazziti. I nostri giochi erano molto diversi da quelli in voga all’epoca, non si guidava e non si sparava, ma si era semplicemente dei comuni esseri umani che vivevano la loro vita in un mondo digitale. Nessuno avrebbe pensato che quei giochi avrebbero funzionato dal punto di vista commerciale. Oggi, fortunatamente, la situazione è molto cambiata, e la maggior parte delle persone accetta che sia possibile trattare le emozioni umane anche all’interno di un videogioco. In realtà penso che ci sia ancora molta strada da fare, soprattutto quando si tratta di conferire un significato alla narrazione interattiva. È proprio il significato il fine ultimo della mia ricerca artistica, ovvero trovare il modo in cui il videogioco possa toccare le vite delle persone, anche a livelli più profondi, influenzando la collettività stessa.

 

Quali sono state le tue ispirazioni nella creazione di un’opera profonda come Detroit. Become Human?

Per esempio, c’è una scena in cui è possibile tradire una bambina, e di fatto abbandonarla. Non è obbligatorio prendere quella scelta, ma è possibile. E questa scena è stata ispirata proprio da un film italiano, La vita è bella. È un film che mi ha lasciato dentro moltissimo, e quando l’ho visto mi ha fatto interrogare su come sia possibile andare avanti nella vita dopo l’esperienza del campo di concentramento. A livello interattivo una dinamica del genere funziona moltissimo quando si tratta di comunicare un’emozione, e ci permette di costruire un’empatia tra giocatore e personaggio. Se, raggiunta la scena della bambina, semplicemente al giocatore del suo destino non importa niente, vuol dire che abbiamo fallito. In realtà, molti giocatori hanno provato forti emozioni in quel momento; con il personaggio della piccola Alice abbiamo dimostrato che si possono provare delle emozioni nei confronti di un essere sintetico… come un androide o il personaggio di un videogioco.

 

Il tuo gioco, Detroit. Become Human, oltre ad avere un messaggio sull’umanità sembra averne anche uno più specifico, politico. Come ti poni a questo riguardo?

Con Detroit volevo creare un’esperienza significativa, un’esperienza interattiva. Per questo ho deciso di parlare del mondo che ci circonda, e del modo in cui funziona la nostra società. Da un certo punto di vista quindi sì, è una denuncia di alcuni lati bui del nostro mondo, soprattutto del modo in cui vengono affrontate determinate tematiche, che francamente mi preoccupa. L’umanità si evolve, ma non sempre questa evoluzione è positiva, soprattutto quando le scelte vengono calate nella quotidianità, che è il momento in cui le persone compiono il maggior numero di sbagli. Questo è l’argomento al centro di Detroit. Become Human, la cui essenza è quella di monito nei confronti della tecnologia e del suo rapporto con l’uomo, soprattutto alla luce delle rivoluzioni che avverranno nei prossimi anni e che potrebbero spingere l’uomo ad agire in maniera egoista. Non volevamo raccontare tuttavia una storia pessimista, bensì lanciare un messaggio fondato sul senso di quello che significa essere umani.

 

Nella tua storia gli androidi imitano la vita, arrivando al punto di guadagnare un’autocoscienza. E l’imitazione, la mìmesis, è stata anche l’argomento al centro del tuo speech a Gamerome. Per te, l’imitazione può essere definita “vita” essa stessa?

La cosa che mi affascina di più del narrare storie, è che esse si avvicinano pericolosamente alla vita vera propria. Le scelte sono alla base del vivere, e in nome di esse possiamo sperimentare conseguenze anche molto dure, nel videogioco così come nella vita reale. Con questo non voglio dire che quest’ultima non sia molto più complicata di ogni raffigurazione che potremmo avere sullo schermo, almeno nella nostra epoca. Nelle mie opere affronto spesso tematiche filosofiche, e la mìmesis è una delle mie ossessioni ricorrenti. L’imitazione della vita, d’altronde, porta al concetto classico di catarsi, che è collegato all’idea che i personaggi in scena compiano delle scelte e ne vivano le implicazioni che ne conseguono, raggiungendo la purificazione spirituale. È un concetto che riprendiamo dalla classicità, ed è interessante notare che, in fondo, quello che raccontiamo non è mai davvero cambiato. Tuttavia, lo storytelling interattivo, anche dopo diversi decenni, è un linguaggio che ha ancora un enorme potenziale inespresso.

 

Sempre parlando di arte che imita la vita, ci sono state persone che si sono ritrovate in quello che hai raccontato all’interno del tuo gioco?

All’interno di Detroit mostriamo una scena di violenza domestica, il che ci ha attirato molte critiche da parte di alcuni detrattori, persone che pensano che il videogioco non sia in grado di affrontare determinati argomenti. Tuttavia, ci sono persone che hanno subito questo tipo di abusi, e che hanno avuto modo di provare Detroit. Become Human, rivivendo all’interno del “gioco” la stessa situazione che avevano vissuto. Siamo stati inondati di messaggi di persone che ci hanno ringraziato per aver affrontato questi argomenti, di cui in generale si parla davvero poco, e non mi riferisco soltanto ai videogiochi. Le reazioni negative, d’altro canto, mi hanno stupito e scioccato.

 

Detroit. Become Human è per certi versi un gioco scomodo. Ti ha creato problemi affrontare certi temi all’interno di un contesto interattivo?

Qualcosa del genere è avvenuto con una delle scene iniziali, quella in cui l’androide Markus si siede in un posto sull’autobus riservato agli umani e viene cacciato. Secondo alcune persone, non avevo nessun diritto anche solo ad accennare all’apartheid all’interno della mia opera. È ovvio che si tratta di un argomento serio, ma proprio per questo bisogna parlarne. Anche perché ci sono tantissime persone che hanno familiarità con l’argomento, ma ce ne sono altrettante che non ne sanno nulla, e tramite un’esperienza interattiva possiamo dirgli che esistono differenze etniche o legate all’orientamento sessuale… e questo è perfettamente normale. Dobbiamo accettarlo, e non negare agli altri il diritto di essere umani. È stato davvero bizzarro assistere a reazioni così difensive, in certi casi, secondo me, non erano neanche poi troppo limpide nelle loro intenzioni...

 

Probabilmente la cosa che crea più confusione, quando si parla di tematiche delicate in un videogioco, è proprio la parola gioco…

Esattamente. Come succede a ogni medium, si inizia creando intrattenimento, poi, però, con il crescere delle potenzialità espressive gli autori iniziano a sentire il bisogno di comunicare qualcosa alle persone, qualcosa che per loro abbia un significato. Il passaggio successivo è usare il medium per esprimere qualcosa di importante agli occhi della collettività. E questa è la strada per essere definiti arte. Ovviamente, non è detto che tutti i videogiochi debbano seguire questo percorso, ma sicuramente alcuni di essi hanno il potere di dire qualcosa di profondo. È un compito impegnativo, principalmente perché si tratta di territori del tutto inesplorati, ma fin dalla prima volta in cui dissi che era possibile fare un videogioco sul razzismo, lo intendevo davvero. Ho iniziato ad affrontare le emozioni con Heavy Rain e, 8 anni dopo, questo concetto è ampiamente accettato tanto dai designer che dai giocatori. Il che è molto curioso, perché quando creai Heavy Rain la gente non capiva quello che stessimo facendo, e oggi invece tante persone sono concordi nel parlare di libertà espressiva del videogioco. Sono sicuro che ci saranno tanti altri videogiochi che seguiranno la strada che abbiamo seguito anche noi.

 

Sembra che ci troviamo di fronte a un problema culturale e percettivo. Come reagisce l’industria di fronte alla tua idea di giochi dalla narrazione dirompente?

Esiste una fetta della stampa e del pubblico che ha delle posizioni ancora molto conservative, e vuole vedere sempre gli stessi videogiochi, magari realizzati con delle tecnologie più performanti. Dal loro punto di vista, non vogliono osservare un’evoluzione del medium, non vogliono che si parli di temi diversi e si affrontino linguaggi innovativi. Ma come autori, il nostro compito è di osare e, se serve, fare il contrario di quello che ci viene detto, anticipando le tendenze. La stampa, in realtà, dovrebbe supportarci in quello che facciamo.

 

Secondo te, qual è la grande sfida a cui siete chiamati voi creatori di videogiochi?

Mi piacerebbe che i videogiochi avessero più coraggio. Più coraggio nello sfidare le convenzioni e andare alla ricerca di nuove direzioni narrative. In realtà, il lavoro da fare è ancora moltissimo, e questo è allo stesso tempo il lato più affascinante dell’interattività, ossia il fatto che è ancora una frontiera tutta da scoprire. Non mi esaltano i giochi che ripetono sempre gli stessi stilemi, sia a livello di meccaniche che di narrazioni, sebbene riconosca che esiste un mercato anche per quei prodotti. I grandi publisher, tuttavia, dovrebbero avere più lungimiranza. Essere pronti a investire anche una piccola porzione di denaro per creare il videogioco del futuro, alimentando nuove idee e istanze innovative. Per vedere quello che giocheremo domani, non dobbiamo necessariamente fermarci a quello che abbiamo giocato ieri.

 

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Trump Invaders: creare videogiochi nell’era di The Donald

Da quando Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America, ogni artista a livello globale ha dovuto fare i conti con una distopia che era diventata, a conti fatti, una realtà concreta ed inquietante. Il regista Spike Lee con il suo Blackkklansman, attualmente nelle sale, si è scagliato contro un presidente di cui non vuole nemmeno fare il nome nelle interviste, mentre la quarta stagione di BoJack Horseman, l’uomo-cavallo depresso di Netflix, faceva apertamente satira nel 2016 su quello che succede quando un personaggio del tutto inadatto a ricoprire cariche politiche si ritrova a diventare un capo di Stato. E i videogiochi? L’arte interattiva ha da pochi anni scoperto una coscienza politica, quasi accidentalmente, in seguito alle polemiche legate allo scandalo #Gamergate, un’isteria collettiva che ha tuttavia prodotto un effetto positivo, ossia rendere i game developer consapevoli che quello che creano ha delle precise risonanze sociopolitiche, ancor più in virtù della sua natura interattiva. Alcuni designer c’erano già arrivati tanti anni fa, come nel caso di BlackSite. Area 51 di Harvey Smith o Spec Ops. The Line di Yager, ma probabilmente c’era bisogno di una doccia veramente gelida per spingere i creatori di videogiochi a interrogarsi sull’importanza della loro professione.

Avendo enorme dimestichezza con la distopia, vissuta in innumerevoli opere interattive da Fallout in giù, probabilmente tanto i gamer quanto gli sviluppatori hanno visto incarnata in Trump una violenza repressiva e discriminatoria che un creativo di qualunque genere, includendo quindi anche i game designer, vive come una minaccia alla propria libertà di espressione. In questo senso, il fatto che Trump abbia parlato apertamente di videogiochi violenti come causa delle sparatorie nelle scuole, arrivando a convocare un meeting al riguardo, è stato semplicemente ulteriore sale buttato su una ferita già aperta e purulenta. L’associazione Games for Change, che si batte per promuovere il potenziale positivo e inspirational dei videogiochi, in risposta a Trump ha creato un video che condensa tutto quello che può esprimere bellezza in un videogioco, sconfessando ogni isterismo su una visione del gaming quale portatore di morte e orrore.

Oggi il dissenso passa, ovviamente, attraverso i social network, e l’atmosfera che si è respirata sui Twitter dei game designer, in quel fatidico 8 novembre 2016, giorno in cui Trump è stato eletto presidente, era quella della catastrofe imminente. Gli sviluppatori di videogiochi, d’altronde, vivono molto da vicino lo scontro con l’alt-right, la destra alternativa che ha visto in siti come 4chan e Reddit dei formidabili incubatori alimentati a forza di meme e approssimazioni. Incidentalmente, 4chan è anche una delle community gaming più visitate del web. Un cortocircuito che si è tradotto all’atto pratico in un inevitabile scontro tra l’alt-right e gli sviluppatori di videogiochi; oggi, quindi, la narrativa costruita e alimentata dall’alt-right propone una collisione manichea tra gli autori di videogiochi, accusati di essere SJW (Social Justice Warriors, espressione dispregiativa usata per indicare chi propugna idee di stampo progressista), quando non addirittura esecutori di una precisa agenda dettata da chissà quale “potere forte”, e le schiere dei sostenitori di Trump. Sviluppare un videogioco oggi, quindi, è diventato un’impresa ancora più difficile che in passato, poiché tutto quello che viene prodotto passerà le forche caudine di un’ampia fetta di pubblico politicizzato, quando non addirittura in piena paranoia cospirazionista. Il tutto a discapito della libertà narrativa. Ma del resto sono proprio le epoche di diffusa oppressione le più feconde per la ricerca artistica, come ci insegnano del resto i capolavori musicali di Giuseppe Verdi.

Il nuovo Life is Strange è un perfetto esempio di questa tendenza, e rappresenta talmente da vicino la vita personale degli sviluppatori da replicare nel gioco un dialogo on-line dove uno dei personaggi si domanda: «Non vincerà, vero?», la stessa conversazione che coinvolgeva più o meno ogni sviluppatore, critico o giocatore in quell’8 novembre. Non a caso, il gioco è ambientato a ottobre 2016. Il primo Life is Strange era piuttosto edulcorato nei contenuti politici, figlio sicuramente di un’altra epoca, più serena senza dubbio. In Life is Strange 2, tuttavia, gli sviluppatori sembrano essersi resi conto dell’importanza sociale delle loro opere. Ed è così che il gioco, un’avventura grafica di stampo moderno, propone il racconto dei Diaz, una famiglia di origini messicane devastata da un incidente di stampo soprannaturale, nel quale sono rimasti uccisi il padre e un ufficiale di polizia. La storia è incentrata quindi sul viaggio di formazione dei suoi figli, Sean e il fratello minore Daniel, che si mettono in macchina nel tentativo di raggiungere il Messico, lo stesso Messico che, nel nostro mondo, rischia di essere separato e isolato da un gigantesco muro. È interessante notare che il sottotesto dell’emarginazione razziale è solo una parte del gioco, e non il suo fulcro. Ma è presente, e importante, perché descrive anche nelle più piccole azioni il modo in cui le altre persone vedono un ragazzo di colore e, cosa ancora più interessante, nessuna delle scelte proposte (il gioco si basa infatti sulla libertà d’azione da parte del giocatore) è utile per scrollarsi di dosso tale stigma.

L’epoca Trump forse ha prodotto qualcosa di positivo, in fondo, spingendo gli sviluppatori a rendere la loro arte più significativa e profonda, o incentivando alcuni designer a esprimere in maniera ancora più manifesta la propria posizione politica all’interno dei giochi che creano. Un autore del calibro di David Cage, creatore di giochi come Heavy Rain, porta avanti ormai da molti anni la sua battaglia per creare videogiochi portatori di un messaggio e con la sua ultima opera, Detroit. Become Human, ha assestato un duro colpo alla narrativa pro-Trump, proponendo un racconto dove gli androidi fungono da metafora per il diverso. In Detroit, il giocatore è portato a tracciare un parallelo con il nostro mondo, un mondo dove l’oppressione delle leggi razziali ai tempi del nazismo ci ha spinto a privare persone come noi della dignità di esseri umani. Cage annulla così le differenze tra essere umano e androide, spingendoci attraverso lo storytelling a provare compassione e amore nei confronti del personaggio di un videogioco e facendoci capire che la differenza tra chi consideriamo umano o non umano passa inevitabilmente per la nostra cultura ed empatia. La situazione dei migranti, privati di ogni dignità, rispecchia molto da vicino quella degli androidi di Detroit e, sebbene Cage non lo abbia mai dichiarato esplicitamente, le sue origini europee e la vicinanza dell’uscita del gioco alle recenti polemiche circa le migrazioni lasciano intendere che probabilmente questi argomenti hanno influito non poco sulla sua sensibilità di autore. 

Se finora abbiamo affrontato solo giochi di natura story-driven, non è necessariamente solo attraverso questi che passa la reazione a Trump e ai populismi, ma si tratta piuttosto di un moto che serpeggia tra tutti gli addetti alla produzione di un videogioco, dagli artist ai programmatori, passando per i game designer. La diversità e l’inclusività sono temi centrali nel mondo del game development, e un gioco come Overwatch lo testimonia in maniera inequivocabile, assestando un gancio deciso e doloroso alle politiche trumpiane. Overwatch è uscito a maggio del 2016, a circa un anno dall’inizio della campagna elettorale di Trump e a pochi mesi dalla sua vittoria nelle primarie. All’epoca, la presidenza Trump era ancora un seppur realistico spauracchio, ma si sentiva già il bisogno in Activision Blizzard di creare un gioco dove tutti potessero riconoscersi. Overwatch è uno sparatutto in terza persona on-line, dove ogni giocatore può interpretare un personaggio dotato di diverse abilità e caratteristiche. Consapevole che Overwatch avrebbe attirato milioni di giocatori (Blizzard è del resto dietro produzioni colossali come Diablo, StarCraft e World of Warcraft), la compagnia ha avvertito la responsabilità di dare un’impronta multiculturale ai propri avatar, che rispecchiano quindi una varietà ampissima di etnie, orientamenti sessuali e persino body type. Abbiamo quindi una delle eroine del gioco, Tracer, che è apertamente lesbica, come dimostrato da un fumetto uscito a Natale 2016 dove si bacia con un’altra ragazza. Mei, una climatologa di origini asiatiche, sembra essere stata creata per parlare ai giocatori che non possiedono un corpo conforme agli standard di bellezza mainstream, e magari sono caduti vittima del degradante body shaming. Symmetra è invece una bellissima architetta indiana e, come suggerisce il nome, è incredibilmente attratta dalla simmetria e all’ordine, al limite da essere considerata “ossessivo compulsiva”. Per diversi mesi i fan hanno azzardato la teoria che fosse affetta da una sindrome dello spettro autistico, al punto che in una lettera ufficiale Blizzard ha confermato che sì, Symmetra ne è in effetti colpita. «Lei è uno dei nostri eroi più amati e pensiamo che rappresenti in maniera grandiosa quanto possa essere fantastica una persona affetta da autismo». Sono molto lontani, quindi, i tempi in cui un game designer poteva dichiarare: «Se devo guardare il retro di un personaggio per ore, perlomeno che sia un bel fondoschiena». Si badi, non si tratta di un atteggiamento politicamente corretto fine a se stesso: è, piuttosto, una forma di ribellione all’idea di società cui si ispira la destra trumpiana, nonché un modo responsabile di fare design ed entertainment. In un’industria come quella dei videogiochi, storicamente rivolta al “maschio bianco adolescente”, l’approccio di Blizzard ha del rivoluzionario.

E in Italia? Qui siamo ancora fermi a un’epoca piuttosto lontana, più vicina ai tempi dei giochi in Flash contro Osama Bin Laden che alla consapevolezza di Life is Strange 2. Esperimenti come Call of Salveenee, Ruspa League o Rise of Trump sono una simpatica boutade nei confronti del populismo, che tuttavia non fanno pieno uso delle potenzialità del medium, e non sfruttano le meccaniche per raccontare una storia interessante e trasmettere un messaggio. Esisterà mai un videogioco ambientato nell’Italia dei sovranisti?

 

Crediti: l’immagine è un fotogramma tratto dal video Donald Trump: Fired Up! (The Videogame), (www.youtube.com)

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La fotografia del “videogioco sociale”

Nel corso degli anni, ci si è spesso stupiti di fronte alla crescita inarrestabile del videogioco in Italia, genuinamente emozionati di fronte alla possibilità che la games industry attecchisse anche in un Paese dove l’avanguardia tecnologica rischia, talora, di essere travolta sotto il peso di un’eredità culturale imponente. E, anche se fortunatamente non si può dire che quello stupore sia oggi svanito, le rassegne di dati più che positivi sono diventate una consuetudine familiare. (Video)giocare oggi è un’attività sociale, da condividere e aggregativa, e viene percepita come tale anche dalla collettività.

Si può leggere in quest’ottica anche il rapporto annuale sull’industria italiana diffuso da AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani), l’associazione di categoria del settore videoludico in Italia. Adottando una nuova metodologia, AESVI ha calcolato che il fatturato del videogioco in Italia ammonta a 1,477 milioni di euro, ripartiti in hardware (428 milioni di euro), e software (1,049 milioni di euro), i videogiochi veri e propri insomma.

Che siamo un popolo di videogiocatori ormai è un fatto assodato, ma il gaming è men che mai appannaggio della minoranza dei teen white males rinchiusi nella cameretta, una visione anacronistica che non viene infatti più rispecchiata nella straordinaria varietà che emerge dai dati. Quella che scaturisce dai dati di AESVI è infatti una visione, realistica, di un videogioco per tutti, a prescindere dall’età e dal genere. Grazie a un sondaggio online, AESVI ha infatti determinato che il 57% della popolazione italiana tra i 16 e i 64 anni ha giocato ai videogiochi negli ultimi 12 mesi; il 59% di questi è uomo, il 41% donna.

È chiaro che il videogioco ha dovuto allargare i suoi confini semantici per arrivare a ricomprendere una fascia demografica così ampia. Oggi, infatti, il videogioco è un oggetto dalle innumerevoli sfaccettature, frammentato in dozzine di schermi diversi. Se questo significa che la sua definizione è oltremodo sfuggente, d’altronde è aumentato drammaticamente il numero di contesti in cui le persone possono fruirne.

La profezia di molti guru del settore, già azzardata una decina di anni fa, si è finalmente realizzata: oggi, non si gioca più solo di fronte allo schermo del computer, ma il contenuto di gioco vive nella nuvola e si sposta di contenitore in contenitore, con una divisione in piattaforme che ormai rischia di diventare irrilevante. A dominare, infatti, è il fatturato delle app, con 385 milioni di euro: non c’è da stupirsi, se del resto una casa come Epic ha deciso di portare il fenomeno Fortnite anche su smartphone. Le vendite del software fisico, pur essendo minori, vedono una flessione positiva del 7% e ammontano a 370 milioni di euro. Ma il digital, in questo caso riferito ai videogiochi console e PC venduti sui marketplace online (per esempio, PlayStation Store) ha ormai raggiunto un fatturato di 294 milioni di euro: è il segno dei tempi, nonché la dimostrazione che il videogioco sta evadendo dai suoi limiti fisici, con lo scopo di diventare un bene che può essere fruito in ogni momento e in ogni situazione. Magari insieme ad altre persone. Un dato particolarmente importante emerso nel rapporto di AESVI, infatti, è il 67% di genitori che gioca ai videogiochi con i propri figli, con varie motivazioni, come passare del tempo con loro o persino sfruttarne i benefici educativi; questo avviene in modo particolare nel caso di figli sotto ai 15 anni. Con un processo silenzioso ma costante, il pubblico italiano si è abituato al gaming, che ha fatto il suo ingresso nella sua vita e nelle abitudini di tutti i giorni.

Lo dimostrano iniziative come Rome Video Game Lab organizzato all’interno degli Studios di Cinecittà, dove abbiamo potuto riscontrare con i nostri occhi la puntualità dei dati offerti nella panoramica di AESVI. Il retroterra culturale italiano, è bello notarlo, non ha mai remato contro il videogioco, ma vi ha trovato un giovane e vivace interlocutore, prima da osservare, poi da coinvolgere proattivamente. Va da sé che roccaforti della cultura, come Cinecittà, si aprano quindi a questa forma d’intrattenimento moderna, che recupera la tradizione del cinema, cambiandola nel profondo. Rome Video Game Lab è stata proprio l’occasione per assistere a un contesto in cui il videogioco ha espresso il suo pieno potenziale di catalizzatore per cultura, formazione e innovazione, permettendo di comprendere l’entità e l’importanza dei fenomeni che gravitano nell’orbita del pianeta gaming.

Tenutosi dal 4 al 6 maggio, Rome Video Game Lab ha ospitato diverse iniziative per sensibilizzare il pubblico sul tema del gaming e favorire l’apprendimento, con partner istituzionali come il CNR, il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e AESVI. Tante le attività che hanno caratterizzato l’evento, che ha coniugato in sé diverse anime. Come l’eSport, con il lancio della nuova stagione di University eSport Series, ossia il torneo di sport elettronico rivolto alle università, iniziativa che avvicina il mondo dell’accademia a quello del gaming competitivo. Sul palco dell’evento si sono infatti sfidate le realtà sportive e accademiche più importanti, a dimostrazione del potenziale del videogioco in qualità di forza trainante, promotore di valori positivi e costruttore di nuovi legami sociali.

L’evento ha visto la partecipazione di un pubblico eterogeneo, e soprattutto di molte famiglie, prova concreta che il videogioco, come vedevamo in apertura con i dati di AESVI, non è più un passatempo da svolgere in solitaria, ma un’occasione per crescere e migliorarsi insieme. L’evento offriva anche lezioni frontali e workshop, come quelli organizzati da Accademia italiana videogiochi con Level Up, dedicati ad aree tecniche del game development; per i più piccoli, sono stati invece offerti laboratori di Minecraft, il fenomenale building game di Microsoft, dove i giovanissimi ospiti sono stati sfidati a realizzare all’interno del gioco i monumenti caratteristici degli Studios di Cinecittà: il videogioco oggi è anche didattica, preservazione del proprio patrimonio artistico e promozione del territorio. Non a caso, alcuni degli studi di sviluppo portati in loco da AESVI, offrivano proprio applicazioni pensate per esplorare monumenti in 3D.

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Alla Milan Games Week trionfa l’Unione Sovietica

Qualora qualcuno nutrisse ancora dei dubbi circa la rilevanza e la salute dell’industria del videogioco in Italia, la scorsa edizione della Milan Games Week, tenutasi presso il polo fieristico di Milano Rho, ha decisamente dato una risposta forte e chiara, totalizzando non solo quasi 150.000 visitatori nei tre giorni della manifestazione (da venerdì 29 settembre a domenica 1 ottobre), ma mettendo in mostra le eccellenze della produzione italiana, che, con oltre 50 opere in prova libera, ha dimostrato di essere molto cresciuta e sempre più competitiva rispetto alle produzioni delle altre nazioni. Come dire, il divario rimane ma si riduce di anno in anno e questo è un ottimo segnale.

Tra i tanti videogiochi italiani visti e provati, tuttavia, ce n’è uno che ha decisamente svettato nella personalissima classifica di chi scrive, un titolo che, per intelligenza, finezza, stile grafico e genialità, ha saputo esprimere al massimo lo spirito indipendente e trasgressivo del gaming libero da qualsivoglia condizionamento di mercato o commerciale. Il suo nome? Laika 2.0, e curiosamente stiamo parlando di un titolo ambientato in piena guerra fredda, che ci vede vestire i panni di un addestratissimo agente segreto del KGB, al servizio dell’URSS. In effetti, l’espressione “vestire i panni” non è affatto appropriata, poiché il nostro alter ego digitale, in Laika 2.0, altri non è che uno scimpanzé, seconda generazione dell’esperimento nel quale i sovietici spedirono con lo Sputnik 2 il cane Laika nello spazio nel novembre 1957. Forte del suo pollice opponibile e di un’intelligenza decisamente umana, Laika 2.0 è protagonista di 10 missioni segrete, tutte estremamente avventurose, rischiose e ispirate a situazioni reali o quantomeno verosimili rispetto all’ambientazione storica del gioco. Questo espediente narrativo, che fa ampio uso di ironia e sdrammatizza un’epoca certamente difficile, permette ai giovanissimi ragazzi di Studio Albatros (Alessio Ambrosj, Alberto Arosio, Samuele Gaudio, Salvatore Liotta, Pietro Loreta, Luca Negri, Matteo Pozzi, Elisa Ragazzini e Carlo Raso), un team nato a Milano in ambito universitario nel POLIMI Game Collective, di ricordare con sensibilità e intelligenza un segmento delicato e rilevante della nostra storia contemporanea, peraltro già affrontato da alcuni antichi videogiochi come Missile Command (Atari, 1980) e Crisis in the Kremlin (Spectrum HoloByte/MicroProse, 1991).

Ma i pregi di Laika 2.0 non si limitano certamente alla scelta della trama o dell’ambientazione: il team autore dell’opera, infatti, ha saputo brillantemente coniugare uno stile grafico fortemente espressivo, originale e di impatto con una struttura di gioco accattivante e ottimamente strutturata. Ma vediamo di esaminare meglio questa piccola gemma del made in Italy videoludico.

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La parola videogioco? Ormai è vecchia

Intervista a Massimo Guarini

Massimo Guarini non è il classico creatore di videogiochi. Di recente, assieme al suo team Ovosonico, ha fatto commuovere i giocatori con Last day of June, una storia di amore e perdita realizzata in collaborazione con il musicista prog rock Steven Wilson. In un’industria dove l’azione frenetica e incessante la fa ancora da padrona, Guarini ha avuto il coraggio di raccontare una storia diversa, di dire addio a dinamiche collaudate come il salto e lo sparo, preferendo piuttosto puntare sull’emotività e sulla poesia, sempre assicurandosi che fossero veicolate dalle meccaniche. Abbiamo intervistato Guarini in occasione dell’edizione 2018 di Cartoons on the Bay, il festival dell’animazione cross-mediale e della TV dei ragazzi diretto da Roberto Genovesi e collocato nello splendido Museo del Risorgimento di Torino. L’autore di Last day of June si è soffermato su tematiche quanto mai importanti per la games industry, condividendo con noi i suoi ragionamenti sul potenziale espressivo ancora inesplorato del videogioco, una parola che in realtà, come scopriremo, rischia di non ricomprendere la complessità contenutistica del medium.

 

Pensi che i videogiochi possano davvero essere un medium efficace per narrare storie adulte e profonde?

Sì, assolutamente, anzi, a parer mio il videogioco è uno degli strumenti di comunicazione più efficaci e più forti in assoluto, proprio perché presuppone qualcosa che negli altri media è completamente assente: l’interazione attiva dell’utente. Cinema, musica e letteratura possono generare emozioni molto forti a livello primordiale (la musica in particolare) e suscitare una vera e propria “vibrazione” nella nostra anima. Il videogioco aggiunge a tutto ciò la possibilità di compiere delle scelte e, attraverso un sistema di regole ben precise, arrivare a un risultato finale. Questo permette di instaurare con chi gioca un rapporto esclusivo e molto potente, basato anche e soprattutto sulle emozioni. In passato il discorso si riduceva spesso a mettere insieme un’ammucchiata di meccaniche e regole, con qualche scena coreografica totalmente slegata dalle scene d’azione, inserita più che altro per spezzare il ritmo e realizzata prendendo in prestito il “dizionario” del cinema, senza una vera e propria contestualizzazione a livello emozionale. Produzioni più recenti hanno invece dimostrato che possono essere le meccaniche stesse, le azioni e le interazioni compiute dal giocatore, a suscitare delle emozioni, e questo è stato anche il nostro obiettivo con Last day of June. Abbiamo voluto creare un nostro dizionario, insomma.

 

Per quanto riguarda le tematiche, invece, pensi si possa fare ancora di più? Quali sono le prossime frontiere e i prossimi muri e da abbattere, le sfide da superare?

Penso che il videogioco sia un medium in grado di esplorare qualsiasi tema e mi auguro che inizi a farlo il prima possibile. Ci sono stati timidi tentativi di sdoganare completamente il mercato, fra i quali vorrei ricordare That Dragon, Cancer, che parlava di un tema tristemente attuale, molto potente e intenso. Il motivo per cui oggi non ci si sente ancora totalmente liberi da questo punto di vista è da ravvisare in una barriera tecnologica che ancora separa il videogioco dalla televisione o dal cinema. Questo, unito al fatto che solo chi conosce i videogiochi può davvero comprenderli, rende ancora difficoltoso per il nostro medium poter arrivare davvero a tutti come invece fanno altri media. Prendiamo ad esempio Netflix, che offre tantissime serie TV a portata di dito: il videogioco non è ancora in grado di fare una cosa simile, ma potrà farlo in futuro con l’avvento del cloud gaming e la sempre maggiore ottimizzazione dei costi e miniaturizzazione dei processori: fra qualche anno, ad esempio, per Sony non sarà così impossibile inserire un chip che permetta di giocare alla PlayStation all’interno dei propri televisori. Per fare un altro paragone, allo stato attuale i videogiochi sono com’erano i lettori MP3 prima dell’avvento dell’iPod: meno semplici e immediati di altri media, ma con un enorme potenziale ancora inespresso.

 

E se i videogiochi trattassero anche temi ritenuti “tabù”? Pensi sarebbero in grado di reggere un simile impatto? Ad esempio, qui al Cartoons on the Bay c’è una mostra che parla delle leggi razziali

Certo che sì, è solo questione di tempo. Non c’è nulla che vieti o impedisca a un game designer di trattare un tema specifico, ma bisogna prima che il videogioco sviluppi un’audience “orizzontale” e non verticale come oggi, diventando in grado di rivolgersi a chiunque e con assoluta immediatezza. Questi, però, sono anche gli anni dei primi ricambi generazionali nell’industria: al giorno d’oggi esistono game designer che hanno anche 60 o più anni o che sono già andati in pensione da molto tempo. A età come queste è normale, per qualcuno, avvertire il desiderio di trattare altre tematiche rispetto a quando si era sviluppatori in erba e poco più che ventenni. Quella del videogioco resta comunque un’industria incredibilmente giovane, la cui età media, fra addetti ai lavori e appassionati, si aggira intorno ai 35 anni, ed è forse anche per questo che ora siamo qui seduti a chiederci se in futuro verranno mai sviluppati titoli in grado di trattare con disinvoltura tematiche complesse come quella dell’odio razziale.

 

I videogiochi hanno paura anche di parlare di quanto c’è più di naturale al mondo, come l’amore. Cosa può dare il videogioco a queste tematiche?

L’amore è uno dei temi più comuni e più legati alla nostra vita di tutti i giorni, pertanto il suo utilizzo nei videogiochi può spaziare pressoché ovunque. Noi persone comuni di solito tendiamo a stupirci quando vediamo compiere, sul grande o sul piccolo schermo, azioni fuori dall’ordinario come una passeggiata spaziale o una corsa per sfuggire a un tirannosauro, eppure ci emozioniamo come bambini quando nei videogiochi viviamo e interagiamo con situazioni tipiche di tutti i giorni. Peraltro tematiche come l’amore, la perdita, la morte e via dicendo, anche a fini sociali e non solo di intrattenimento, possono interessare anche un pubblico più adulto e verso cui il videogioco può veicolare un messaggio più profondo. Il mercato indie è già pieno di esempi simili, ma anche fra gli AAA comincia a spuntarne qualcuno. Il videogioco sta pian piano aprendo le porte a un nuovo modo di trattare le emozioni, al fatto di inserire temi umani anche all’interno di storie supereroistiche: l’esempio più recente di un simile trend è God of War, che mi auguro sia solo il primo di una lunga serie. Il giorno (non lontano) in cui l’abbattimento di tutte le barriere tecnologiche ci permetterà di parlare anche a un target meno adolescenziale sarà quello in cui il videogioco si aprirà davvero a tutti.

 

Prima hai detto che i videogiochi avrebbero bisogno di nuove terminologie per indicare il medium stesso e i generi di riferimento. Quali parole suggeriresti per definire e per presentare all’esterno un’industria sempre più complessa come la nostra? Quanto pensi sia importante affrancarsi dalla parola “videogioco”?

Secondo me è un passo fondamentale, da fare il prima possibile. La parola videogioco è ormai vecchia, e deriva dai primi esperimenti fatti quasi per caso da ricercatori annoiati dietro polverose scrivanie. Lo stesso concetto di video, che negli anni Sessanta era qualcosa di inedito, è ormai superato insieme a quello di televisione, dato che ormai siamo letteralmente circondati da informazioni visivo-digitali, sul telefono, in macchina, sugli schermi di casa. Oggi videogiocare è un termine vintage, un retaggio del passato, anche negativo in un certo senso, se consideriamo che comunemente si vede in questa parola qualcosa di legato al mondo adolescenziale e al semplice gingillo tecnologico. Dobbiamo ripudiare queste definizioni e far capire al mondo che siamo un’industria di intrattenimento, come lo sono quelle del cinema e della musica. Non a caso il videogioco è fatto da musica, da immagini in movimento, da interazione, da un insieme di arti che ritroviamo anche in altre forme espressive, e si è già affrancato non solo dal video (inteso come TV del salotto: oggi il videogioco è ovunque), ma anche dal gioco: la componente più propriamente ludica ha pian piano fatto spazio anche a quella esperienziale. Il gameplay è la somma di entrambe, non è saltare o sparare o compiere tante azioni contemporaneamente senza un contesto, ma è innanzitutto interazione, che porta il giocatore ad avere libertà di scelta per poter avere delle risposte. Non esiste un gameplay di serie A e uno di serie B: se voglio divertirmi in un certo modo gioco a Fifa, se invece preferisco qualcos’altro mi dedico a Journey o a Dear Esther. È importante che anche il pubblico capisca questa differenza, magari facilitato dall’abbattimento delle barriere tecnologiche e dalla maggiore esposizione mediatica del medium: solo così la maturazione del videogioco sarà completa, e chissà, magari chi ne scriverà fra trent’anni utilizzerà termini completamente diversi.*

 

* Si ringrazia Guglielmo De Gregori per l’aiuto nella preparazione dell’intervista

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Videogiochi made in Italy: le nuove frontiere della creatività

In un’industria come quella del videogioco, saldamente al vertice dell’intrattenimento con un fatturato annuo mondiale che, nel 2016, ha toccato quota 99,6 miliardi di dollari segnando un +8,5% rispetto al 2015 (dati Newzoo, 21 aprile 2016), l’Italia rappresenta ormai da molti anni un mercato di rilievo, che nel 2015 ha chiuso a quota 952.172.036 euro (dati AESVI, 5 aprile 2016). A fronte di quasi un miliardo generato dalle vendite di hardware e software, tuttavia, l’Italia è sempre rimasta indietro, rispetto ad altre nazioni, in quanto a effettiva produzione di videogiochi, subendo una forte egemonia culturale straniera. Per farci un’idea del panorama attuale, immaginiamo di entrare in una libreria italiana e, a fianco dei bestseller internazionali come J. K. Rowling o Stephen King, non trovare nessun Umberto Eco o Andrea Camilleri: ecco, la situazione reale del videogioco in Italia, tradizionalmente, è purtroppo molto simile a questo ipotetico e apocalittico scenario.

La situazione, tuttavia, non è statica, e forti segnali di ripresa mostrano un panorama dello sviluppo di videogiochi nazionale che, ben lungi dall’essere esente da problemi, è in fermento. Proprio AESVI, l’associazione di categoria presieduta da Paolo Chisari che, parte di Confindustria Cultura, rappresenta il settore del videogioco in Italia, ha presentato il 22 novembre 2016 il suo terzo censimento dei game developer italiani, commissionato all’Università degli Studi di Milano e realizzato interpellando oltre 120 studi di sviluppo. I risultati? Incoraggianti, sebbene l’Italia, da questo punto di vista, abbia davanti un cammino ancora molto lungo e impervio per arrivare ad accostarsi alla situazione di altre nazioni dalla forte tradizione in fatto di realizzazione di opere interattive quali gli USA, il Canada, il Giappone, la Francia, il Regno Unito, la Germania, i paesi scandinavi o alcuni dell’est europeo come la Polonia.

Il quadro che emerge è quello di una nazione dove la voglia di entrare nel settore ed emergere è molta (sono circa 1.000 coloro che lavorano in una azienda di sviluppo di videogiochi, età media 33 anni), con tante piccole realtà che nascono e cercano di affacciarsi su un mercato globale senza dubbio arduo e competitivo come quello del videogioco: basti pensare che il 47% degli studi tricolore ha una struttura più che esile, con un organico che oscilla tra uno e cinque collaboratori. Le difficoltà che il settore si trova ancora ad affrontare sono evidenti: il fatturato complessivo del videogioco made in Italy si aggira intorno ai 40 milioni di euro annui (percentuale esigua se rapportata alle vendite di videogiochi tout court in Italia), il 35% degli studi si colloca nella scia tra lo zero e i 1.000 euro di fatturato annuo, si sviluppa poco su console (14% del campione), il segmento più arduo dell’industria, e il 56% degli sviluppatori si autofinanziano. Ciò nondimeno, la Games Industry nazionale cresce, prova evidente che il settore dei videogiochi suscita un interesse sempre maggiore, specialmente nei giovani, e che il programma AESVI 4 Developers, con il quale l’Associazione Editori e Sviluppatori di Videogiochi Italiana sostiene e promuove il game development nel nostro Paese, sta dando buoni frutti.

Molto, ad esempio, è l’interesse dimostrato dagli studi italiani per la realtà virtuale, con il 42% delle aziende impegnate nella realizzazione di opere che supportano la VR (virtual reality), un trend non esente da rischi, trattandosi di un mercato ancora acerbo e in gran parte inesplorato, ma che denota coraggio e spirito imprenditoriale. Dato significativo è poi quello relativo alle produzioni, con ben il 44% del campione che è riuscito a immettere sul mercato da uno a cinque prodotti negli ultimi tre anni, segnale chiaro di concretezza che non può che far ben sperare nella crescita futura di questo settore. Del resto, se è vero che ci sono molte realtà minime e dallo scarso livello di redditività, è altrettanto vero e importante segnalare che il 30% dei team fattura tra i 10.000 e i 100.000 euro, il 15% tra i 100.000 e i 250.000 euro, e il 6% tra 250.000 e il milione di euro. Non sorprende, infine, la distribuzione delle aziende di sviluppo di videogiochi sul piano nazionale, con il 61% di esse situato al Nord (22% solo a Milano, già polo nazionale degli editori del settore), il 22% al Centro (Roma vale il 12%) e il 16% al Sud e nelle isole.

In conclusione, questo studio mostra un’Italia del videogioco reattiva e in fermento, con tutte le premesse per una crescita costante nei prossimi anni. Aziende storiche come Milestone (indiscusso colosso nazionale del Videogioco con sede a Milano, specializzato in titoli di corse), Artematica, SpinVector e Raylight Games  sono state affiancate da nuove realtà già strutturate e forti quali Ovosonico, Kunos Simulazioni e Storm in a Teacup, e da molte altre assai interessanti e ben proiettate verso traguardi di rilievo tra le quali LKA, 101%, Digital Tales, Elf Games Works, Untold Games, Mixed Bag, Studio Evil, Gamera Interactive, Invader Studios e Caracal Games.

Ciò che realmente occorrerebbe a questa Italia del videogioco, ad ogni modo, è più di ogni altra cosa un prodotto di successo a livello planetario, un videogioco ad alto budget e dalle vendite plurimilionarie in grado di mostrare chiaramente a tutto il sistema Paese le reali potenzialità della Games Industry, esattamente come è successo in Polonia, dove lo studio di sviluppo CD Projekt RED, con il gioco di ruolo fantasy The Witcher e i suoi due seguiti, ha scalato le classifiche di vendita globali conquistando allo stesso tempo l’unanime favore della critica a livello planetario, trascinando con sé in una spirale virtuosa l’intero segmento del gaming polacco.

 

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Matteo Strukul: l’Italia raccontata dai videogiochi

Intervista a Matteo Strukul

Matteo Strukul è una delle figure attualmente più in vista della scena letteraria italiana. Sua è la serie di romanzi storici dedicata alla famiglia Medici, edita da Newton Compton. Capace di vendere oltre 200.000 copie in Italia, è stata poi tradotta in tutto il mondo, baciata da analogo successo. Apprezzato dalla critica e protagonista con i suoi romanzi delle classifiche di vendita italiane, la sua saga gli è valsa la vittoria nel 2017 del prestigioso Premio Bancarella.

Il punto di forza di Strukul è senza dubbio il suo stile, graffiante e sincopato, fatto di colpi di scena fulminanti e di un linguaggio dal ritmo serratissimo. Con una scrittura così vicina alla sensibilità dei videogiochi, non è un caso che Strukul sia un appassionato e un attento osservatore di questa forma d’intrattenimento contemporanea, capace di vedere in giochi come The Walking Dead di Telltale e The Witcher 3: Wild Hunt di CD Projekt RED il futuro del racconto interattivo. Un settore che lo vede coinvolto in prima linea: in VIGAMUS Academy / Link Campus University Strukul tiene infatti il corso di narrazione interattiva, dove insegna agli studenti a rendere avvincenti le storie dei loro videogiochi. Abbiamo avuto il piacere di intervistare Strukul, e gli abbiamo chiesto di individuare quali sono i punti di contatto tra questi due mondi, apparentemente così distanti ma che, in realtà, hanno così tanto da imparare l’uno dall’altro.

 

Da autore di romanzi di successo, ma anche amante di videogiochi, quale pensi che sia attualmente lo stato dell’arte per quanto riguarda i videogiochi e la narrazione?

In passato, ho avuto la percezione che i giochi fossero diventati sempre più performanti perlopiù da un punto di vista grafico, delle animazioni ecc. Ma, allo stesso tempo, mi sembra che recentemente ci sia stato un ritorno a una narrazione importante, da una parte attraverso tutta l’esperienza dei titoli Telltale (come The Walking Dead e tutto quello che è arrivato dopo), dall’altra andando a pescare con intelligenza e lungimiranza dai romanzi, come insegna l’esperienza di The Witcher e il modello produttivo di CD Projekt RED. In quel caso si parte da un universo narrativo comunque appartenente all’autore dell’opera letteraria, Sapkowski, sebbene l’esperienza interattiva viva un suo mondo parallelo con una propria autonomia. Tutto questo mi sembra che riporti la narrazione al centro dell’universo videoludico. O, quanto meno, la riporta in un ruolo più importante rispetto a quanto era avvenuto in un passato meno recente. Mi pare che ci sia un riavvicinamento tra questi due mondi. Piacciono e funzionano molto bene i giochi che hanno una forte struttura narrativa, che hanno un importante universo di riferimento. Un po’ come avviene nel mondo del cinema, per cui alcuni dei più bei film che abbiamo visto quest’anno arrivano comunque da un’esperienza letteraria, e quindi da un romanzo.

 

A livello di linguaggi, pensi che la letteratura abbia preso in prestito qualche elemento dall’immaginario e dalla grammatica narrativa dei videogiochi?

Di certo, se questo è avvenuto, non mi pare che sia ancora avvenuto in Italia. A proposito di rapporto tra letteratura e videogioco, mi viene in mente un gioco come Metro 2033, che proviene dal romanzo di Gluchovskij. Ci sono esempi molto stretti, quindi, di connessione tra letteratura e videogiochi. Al di là di questo, credo che sia vero che la letteratura ha preso in prestito dai game, soprattutto per gli autori che hanno il coraggio e la voglia di raccontare storie che si rivolgono ai lettori del 2018, pur recuperando modelli molto classici. Penso sia inevitabile, in tal caso, fare riferimento a un’esperienza videoludica, con tempi di reazione e un ritmo narrativo che inevitabilmente non possono prescindere da una dimensione più rapida, più concentrata, soprattutto ora che la soglia di attenzione si è abbassata così tanto.

 

Queste contaminazioni sono qualcosa che si può riscontrare anche nei tuoi romanzi?

Io ovviamente parlo della mia esperienza: nei miei romanzi cerco proprio di lavorare su un’idea di ritmo narrativo molto serrato, di avere capitoli brevi che possano essere letti con un grado di attenzione importante ma per un tempo più concentrato, proprio perché credo che qualsiasi narratore debba comunque tenere conto del tempo in cui vive. E siccome io (ma penso che valga per molti romanzieri, soprattutto esteri) vorrei che le mie storie raggiungessero il pubblico più vasto possibile, finanche intergenerazionale, penso sia importante questo tipo di attenzione, questa modalità di costruzione della storia. Il tentativo di usare la penna un po’ come una telecamera e giocare con le inquadrature, le sequenze d’azione, le scelte che fanno i personaggi, le loro motivazioni... mi sembrano elementi che anche se non fossero stati presi direttamente dai videogiochi rivelano certamente una contaminazione tra questi due linguaggi. E quindi vale anche al contrario. Motivo per cui alcuni editori hanno cominciato a specializzarsi in romanzi ambientati nei mondi videoludici, penso per esempio alla saga di Dragon Age. Multiplayer, per esempio, ha pubblicato Darksiders. Ci sono tanti esempi di narrazione che nascono nel videogioco e arrivano a diventare libro, coinvolgendo anche firme importanti del romanzo fantasy e sci-fi angloamericano. Per cui, credo che questa contaminazione sia in qualche modo una corrispondenza biunivoca.

 

Potresti identificare invece qual è un limite dei videogiochi, e se può in qualche modo diventare un’opportunità?

Il motivo per cui ho trovato particolarmente affascinante The Witcher, è il grande riferimento non soltanto alla tradizione letteraria, ma anche al costume, al lore, con rimandi alla tradizione e alla mitologia. Ecco, penso che, soprattutto in Italia, il videogioco abbia il limite di non essere riuscito ancora a interpretare, con un titolo degno di questo nome, una tradizione così grande di letteratura e arte, che potrebbe essere messa assolutamente a disposizione di un linguaggio così coinvolgente. Per cui, il limite oggi è l’incapacità di cogliere quello che ci riguarda più da vicino, e cioè l’Italia.

Me ne sono accorto anche quando ho scritto i romanzi sui Medici, constatando di avere una grandissima opportunità legata alla storia che abbiamo alle spalle, e che ciononostante tutto questo non fosse stato ancora tradotto in un videogioco di successo. Non so se è un limite del videogioco in sé o degli sviluppatori, o altro, fatto sta che The Witcher ci ha insegnato qualcosa, superando tale limite. La localizzazione, intesa come particolarità di un universo legata a un certo tipo di narrazione, di tradizione letteraria, di costume, leggende e favole, potrebbe essere messa a disposizione del gaming. Ciò varrebbe in modo particolare per noi italiani, che avremmo in questo modo un plus rispetto a tutto quello che si vede in giro.

In questo senso, secondo me dovremmo superare suddetto limite avvicinando ancora di più la letteratura al videogioco, valorizzando le specificità. Penso che il videogioco vince quando il produttore valorizza la propria storia e cultura, che è uno dei segreti di The Witcher. Anche gli americani fanno così, andando a sfruttare una serie di property giustamente legate a universi narrativi costruiti in casa, come Batman o i comics di Kirkman. Stiamo sempre parlando di prodotti narrativi fortemente legati alla loro tradizione, il fumetto a stelle strisce, che è una delle cose che li caratterizza di più (basti vedere il boom dei cinecomic). Dovremmo provare a fare qualcosa di diverso anche noi. Non so se possano nascere giochi dai fumetti Bonelli, in passato ci provarono. Dal mio punto di vista, dovremmo sfruttare quello che abbiamo, guardando quello che è rimasto nelle nostre città.

 

Tutto il discorso ci conduce inevitabilmente a questa domanda: la tua ricerca artistica includerà prima o poi un videogioco? Cosa pensi che potresti dare a questa area dell’intrattenimento così popolare?

Il mio apporto va proprio in questa direzione. Assieme a un team di specialisti di multiforme competenza, intendo andare a recuperare tutte le suggestioni legate a un certo tipo di Rinascimento, a un mondo che si è nutrito e che è stato la culla della cultura, dell’arte e della bellezza. Tenteremo di trasferirla in una storia avvincente, che possa avere come protagonista l’epoca dei capitani di ventura, dei condottieri, di un mondo rinascimentale permeato di fascino. La ricerca mi ha condotto anche al recupero di testi e fonti storiografiche, permettendomi di spaziare nei rapporti tra l’Italia e, per esempio, Costantinopoli, o la Transilvania. Questo tipo di mondo dovrebbe poter trovare una collocazione videoludica, andando a lavorare proprio su quello che dicevamo, cioè su suggestioni letterarie fortemente legate a quella che è una grande eredità culturale del nostro Paese, l’Italia, e portando questo tipo di specificità nel videogioco.

 

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Pokémon GO: quando la realtà (aumentata) supera la fantasia

Che il franchise Pokémon fosse sinonimo di successo lo si comprese bene sin dalla metà degli anni Novanta, quando il 27 febbraio 1996, in Giappone, debuttarono sul mercato Pocket Monsters Red e Pocket Monsters Green, i primi due giochi di ruolo della serie Pokémon creati da Satoshi Tajiri (Tokyo, 28 agosto 1965) di Game Freak e pubblicati per la console portatile Game Boy dal colosso del videogioco nipponico Nintendo, editore leader mondiale di settore grazie a serie quali Super Mario, Metroid e The Legend of Zelda. Le due opere in questione, sofisticati giochi di ruolo adatti tanto ai giovanissimi quanto ai ragazzi più grandi grazie a meccaniche semplici da comprendere ma dotate di una notevole profondità tattica e strategica, ebbero un impatto devastante sul mercato, bissando il successo anche quando sbarcarono, due anni dopo, in Occidente, con i nomi di Pokémon Red e Pokémon Blue. Ma i capostipiti interattivi della saga non erano altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno, presto ribattezzato dai mass media “Pokémon mania”, destinato a proliferare non solo nel campo del videogioco, ma anche in moltissimi altri, tra cui in particolare quelli dei fumetti, dei cartoni animati, del cinema, dei giochi di carte collezionabili e del merchandise più disparato. Un fenomeno industriale oltre che sociale, Pokémon, in grado di generare nel 2015, solo dalla vendita di gadget su licenza, un fatturato globale di 2,1 miliardi di dollari.
Dal suo esplosivo debutto, il marchio Pokémon non è mai tramontato, consolidandosi saldamente nell’immaginario collettivo, con Pikachu, il topo elettrico simbolo dei Pocket Monsters, capace persino di insidiare Topolino a livello di notorietà e riconoscibilità tra le fasce di bambini e ragazzi. Dopo vent'anni di stabile successo, la saga è tuttavia nuovamente esplosa nel luglio 2016, quando, prima in USA e poi nel resto del mondo, ha debuttato sugli store digitali Pokémon GO, un videogioco per dispositivi Android e iOS sviluppato per Nintendo da Niantic, Inc. (sviluppatore californiano specializzato in applicazioni in realtà aumentata e già messosi in luce con la app Ingress), che permette al giocatore di applicare il classico schema di gioco di Pokémon, cioè vagare per il mondo alla ricerca di creature da catturare e allenare, ai luoghi della vita reale. Grazie al meccanismo della realtà aumentata, che consente di applicare immagini digitali al luogo nel quale ci troviamo, possiamo esplorare strade e piazze che ci circondano alla ricerca dei primi 151 Pokémon presenti per adesso in Pokémon GO. Per “acchiapparli tutti” (questo il celeberrimo slogan della serie Pokémon), il giocatore si servirà del GPS e della telecamera del suo smartphone. Le creature si vedranno quindi comparire sovrapposte all’ambiente circostante, come se facessero parte del mondo reale. Una volta individuati, i Pokémon potranno essere catturati mediante una Sfera Poké, prendendo la mira e spostando il dito sul touchscreen dello smartphone per simulare il lancio dell’iconico oggetto in cui la creatura verrà auspicabilmente rinchiusa. La app porta il giocatore a esplorare i dintorni del luogo in cui si trova, camminando in cerca di Pokémon, per aumentare la collezione di creature, farne evolvere gli esemplari e unirsi a una delle tre squadre disponibili nel gioco, per allearsi e sfidarsi con altri giocatori reali e con le loro creature virtuali.  
Pokémon GO è il primo vero videogioco Nintendo lanciato sul mercato degli smartphone (la app Miitomo non è propriamente un gioco) e il suo successo è stato travolgente, superando ogni più azzardata e ottimistica previsione. I numeri del gioco sviluppato da Niantic sono impressionanti.
La mania collettiva globale scatenata da Pokémon GO ha messo le ali alle azioni di Nintendo, che nel giro di sole sette sedute alla Borsa di Tokyo, dal momento del lancio della app in USA, Australia e Nuova Zelanda, ha visto schizzare il titolo alle stelle, con un incremento del 93,2%, che ha significato un effettivo raddoppio del valore delle azioni del colosso nipponico a una sola settimana dall’uscita del prodotto. In termini di capitalizzazione, nello stesso periodo di sette giorni, Nintendo è passata da 23 a 30 miliardi di dollari.
Ma non è tutto. Nella prima settimana di lancio negli Stati Uniti, la app è stata scaricata da 65 milioni di persone, registrando più utenti attivi al giorno di qualsiasi altro gioco per piattaforma mobile (con picchi di 21 milioni di giocatori attivi, più del precedente record ottenuto dal puzzle game mobile Candy Crush Saga, nel 2013), superando gli utenti attivi giornalieri della nota app di appuntamenti galanti Tinder e arrivando sempre più vicino al numero di quelli di Twitter su Android. Questo lo ha reso anche il titolo più remunerativo mai uscito per Android e iOS, oltre a quello che ha raggiunto tale risultato nel minor tempo di sempre: 4 giorni su iOS, e appena 13 ore su Android).
Record anche nel tempo medio d’uso della app: negli Stati Uniti, si sono registrate medie di 43 minuti giornalieri per utente, polverizzando i tempi di utilizzo di app del calibro di WhatsApp (30 minuti) e di Instagram (25 minuti), ma anche di social network come Facebook (22 minuti) e Snapchat (18 minuti). Secondo l’analista dell’Ace Research Institute di Tokyo Hideki Yasuda, Pokémon GO è il primo gioco per smartphone divenuto un fenomeno sociale.
Le ragioni di questo delirio collettivo, in realtà, sono estremamente semplici da individuare e comprendere. I creatori del gioco hanno infatti utilizzato la realtà aumentata per trasferire la geniale meccanica di gioco tradizionale di Pokémon all’oggetto centrale della vita della stragrande maggioranza degli uomini nella società contemporanea: lo smartphone, status symbol, ossessione e inseparabile compagno della quotidianità di tutti noi. Se il protagonista della storia di Pokémon è sempre un ragazzo che esplora il mondo alla ricerca di mostriciattoli da fare propri e con i quali battersi per diventare il più grande degli allenatori, anche il possessore dei videogiochi per console tascabili ricalcava le sue orme, giocando ovunque si trovasse e potendo sfidare altri colleghi allenatori. Con Pokémon GO accade lo stesso, soltanto su ben più larga scala, trattandosi di una app gratuita (sono consentite le micro-transazioni all’interno del gioco) e per tutti i principali smartphone.
Il rinnovato successo della formula Pokémon si è rivelato talmente devastante da non riguardare solo l’economia, ma finendo per investire la sfera sociale e dei costumi. Il videogiocatore, tradizionalmente considerato un soggetto pigro e sedentario, pertanto reputato a rischio perenne di finire vittima di sovrappeso, isolamento e scarsa socialità, si scopre ora desideroso non solo di uscire di casa, mosso dalla voglia di catturare i mostri tascabili Nintendo, ma persino di scoprire i luoghi di interesse vicini e lontani, essendo questi i luoghi di gioco con particolari caratteristiche dove rifornirsi di oggetti preziosi o battersi per affermare la propria abilità e potenza. Alcuni meccanismi di gioco, peraltro, impongono al giocatore di camminare, dovendo percorrere anche fino a 10 Km per veder schiudere delle particolari uova di Pokémon (il dispositivo si accorge se l’utente è su un mezzo motorizzato, pertanto tale escamotage non è valido allo scopo di non camminare). La grande massa di giocatori in perenne esplorazione alla ricerca di Pokémon nei luoghi di interesse del mondo reale ha inoltre determinato un incremento esponenziale nel tasso di incontri tra utenti di Pokémon GO, spingendo per una volta i giocatori a socializzare tra loro senza il bisogno di ricorrere alla Rete.
Tutto ciò ha anche generato una serie di situazioni bizzarre, in alcuni casi positive (individuazione di attività criminali, incremento degli affari di diversi locali commerciali), in altri negative (incidenti stradali causati da guidatori distratti dalla ricerca di Pokémon), ma che non fanno che sottolineare con forza l’entità del fenomeno, rafforzato anche dalla cosiddetta Millennial nostalgia, quel sentimento provato da coloro che, negli anni Novanta, giocarono con i titoli Pokémon per il primo Game Boy di Nintendo.
Un successo così improvviso e imponente ha indotto molti commentatori a chiedersi se il fenomeno potrà rivelarsi duraturo o meno; secondo Michael Pachter, analista di mercato per Wedbush Securities, Pokémon GO non avrà più di quattro mesi di reale popolarità. In realtà, è assai improbabile che Pokémon GO possa davvero rivelarsi una semplice bolla passeggera di mercato, per almeno due ragioni. In primo luogo, lo schema di gioco classico di Pokémon, altamente competitivo, è molto profondo e richiede una lunga pratica per rafforzare la propria schiera di creature e raggiungere risultati di rilievo. Inoltre, è imminente l’uscita dell’accessorio Pokémon GO Plus, un braccialetto che si connette ai dispositivi dei giocatori tramite Bluetooth e che serve a segnalare eventi di gioco nelle vicinanze anche quando non si è attivamente impegnati a partecipare all’azione. Ciò spingerà la community di giocatori a essere ancora più coinvolta e partecipativa. Va infine notato che Pokémon GO, essendo un titolo in realtà aumentata, spinge l’utenza a sfruttare in modo massiccio la fotocamera digitale per scattare foto di gioco da condividere e rendere virali attraverso i social network: tale meccanismo, estremamente pervasivo e connaturato alle abitudini contemporanee dell’utente digitale medio, aumenta ulteriormente l’engagement di Pokémon GO, stabilizzandolo nella vita quotidiana del giocatore. Il tutto senza considerare gli inevitabili e costanti aggiornamenti: va infatti ricordato che al momento sono disponibili in Pokémon GO solo 151 su un totale attuale che supera i 720 esemplari e che è comunque in costante aumento.

 

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Nintendo Switch: videogiochi senza frontiere

Ci sono missioni che, apparentemente, possono sembrare impossibili. Una di queste è ciò che la nuova console Nintendo Switch, in arrivo sul mercato mondiale il 3 marzo 2017, si propone di portare a termine: superare il paradigma universale della divisione tra videogiochi da casa e portatili, dando vita a un sistema di intrattenimento interattivo senza frontiere che, unico, possa essere usato nel salotto di casa o in qualsiasi altro ambiente, senza dover mai interrompere la partita in corso. Impossibile? Certamente molto difficile, ma forse no, non impossibile, soprattutto per un colosso del videogioco come Nintendo che, da sempre, ha fatto dell’innovazione e della sperimentazione la sua filosofia di azione. La casa di Kyoto, attualmente guidata dal nuovo presidente Tatsumi Kimishima, non è infatti nuova a grandi rivoluzioni e imprese titaniche: nel 1983, con il suo NES, Nintendo Entertainment System (noto in Giappone come Famicom, family computer), salvò letteralmente il Videogioco dalla grande crisi che aveva spazzato via Atari e gran parte dell’industria dell’epoca; nella metà degli Anni Novanta, introdusse con il suo N64 la grafica 3D all’interno delle opere interattive, dando ai videogiochi una profondità prima inimmaginabile. Per non parlare della creazione con il Game Boy della prima console portatile con cartucce intercambiabili di successo a livello planetario, della conquista di un nuovo pubblico casual con il Wii o, infine, della recente incursione da record operata nel campo della realtà aumentata con Pokémon GO.

Nintendo Switch, a prima vista, appare come un tablet con schermo da 6,2 pollici multi-touch dotato ai due lati di controlli tradizionali da console (pulsanti e levette analogiche) e di una base che consente di appoggiarlo comodamente sui qualsiasi ripiano. Dietro l’apparente normalità, però, si celano le sue caratteristiche ibride che, almeno nei piani di Nintendo, dovrebbero determinarne il successo. Lo Switch, infatti, è anche dotato di un connettore HDMI per interfacciare la console alla televisione di casa e passare l’immagine, a piacimento del giocatore, dallo schermo grande a quello piccolo, il che consentirà di iniziare una partita in salotto e poi proseguirla anche in viaggio o in qualunque altro luogo successivamente raggiunto. Ma non è tutto. I due moduli di controllo tradizionali posizionati ai lati della macchina e denominati Joy-Con, possono infatti essere sganciati dal corpo centrale dello Switch, quello per intenderci dotato di schermo, e, a scelta, utilizzati separatamente oppure collegati insieme a formare un pad tradizionale somigliante a quello delle console rivali da casa Xbox One di Microsoft o PlayStation 4 di Sony. Entrambi i Joy-Con sono peraltro dotati di accelerometro e sensori di movimento, potendo quindi replicare le funzionalità dei Wiimote, i controller resi celebri dal Wii, la macchina che per la prima volta ha dimostrato come il videogioco non sia per forza un passatempo sedentario per utenti tendenzialmente pigri.

Nintendo Switch, in più, offrirà un tasto per condividere le immagini di gioco sui social network, una telecamera IR e un sistema di vibrazione di nuova generazione in grado di trasmettere al fruitore sensazioni tattili molto realistiche. Cosa ancor più importante è che, questa volta, Nintendo sembra aver deciso di prendere sul serio il multiplayer, anche online: non solo, quindi, si potrà giocare in otto persone wireless, ma ci si potrà connettere tramite Wi-Fi a un vero e proprio servizio centralizzato gestito dalla casa di Kyoto per l’online gaming. Tale servizio, che debutterà gratuitamente al lancio della nuova console, passerà in abbonamento dal prossimo autunno, ma il prezzo non è stato ancora comunicato. Non mancherà neppure una cosiddetta companion app, cioè un’applicazione dedicata per dispositivi mobili che, in uscita questa estate, permetterà agli utenti di invitare amici a giocare, fissare appuntamenti e chattare in tempo reale attraverso il proprio telefonino durante il gioco online.

Nintendo Switch, che utilizzerà cartucce simili a quelle del 3DS, sarà in vendita dal 3 marzo al prezzo di 329 euro, fortunatamente privo di blocchi territoriali, il che significa che il giocatore potrà acquistare e utilizzare titoli in qualsiasi parte del mondo. Sarà inoltre disponibile in una seriosa tonalità grigia o in una decisamente più colorata e vivace rossa e blu. Tra i videogiochi di lancio 1-2-Switch, un party game pensato apposta per valorizzare tutte le nuove caratteristiche della console, e l’attesissimo The Legend of Zelda: Breath of the Wild, nuova avventura della popolare e apprezzata saga fantasy Nintendo. Per il nuovo e apparentemente rivoluzionario Mario, denominato questa volta Super Mario Odyssey, dovremo invece attendere la fine del 2017.

Una cosa è certa: creare un sistema che goda di enorme popolarità sia come console da casa che come dispositivo mobile è davvero arduo, e molto dipenderà dal supporto che Nintendo stessa saprà dare alla sua macchina da gioco e da quanto le terze parti, cioè gli altri editori di videogiochi, salteranno a bordo della nuova piattaforma, tuttavia le premesse per un ottimo lancio, almeno sulla carta, ci sono. Non resta che attendere l’avvento di Switch, ormai decisamente imminente.

 

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Microsoft Xbox e il pungiglione di Scorpio

Tra i falsi miti relativi al videogioco e alla sua industria, uno particolarmente diffuso è quello che vuole le opere interattive originarie del Giappone, dato che invece risulta storicamente errato. Non solo i precursori del videogioco sono tutti nati in Occidente (pensiamo al Tennis for Two realizzato nel 1958 dal fisico statunitense William Higinbotham o a Spacewar!, anno 1962, creato dallo studente americano del MIT Steve Russell), ma è l’industria stessa a essere sbocciata negli Stati Uniti con i suoi due padri (e rivali) Ralph Baer e Nolan Bushnell, quest’ultimo fondatore della ormai leggendaria Atari. Ebbene, nonostante ciò, è innegabile il ruolo centrale svolto dal Giappone nello sviluppo e nell’evoluzione del videogioco, specialmente su console. Se grandi aziende del settore come Nintendo e SEGA hanno segnato la storia di questo medium dagli anni Ottanta in poi, dalla metà degli anni Novanta la PlayStation di Sony ha contribuito con forza a una ridefinizione del ruolo industriale, mediatico e sociale, ma anche culturale e artistico, del videogioco. Non è quindi azzardato affermare che, negli ultimi venti anni dello scorso millennio, il Giappone ha rappresentato il motore principale della spinta propulsiva dell’industria del videogioco.
Tra la fine del 2001 e i primi mesi del 2002, tuttavia, accadeva qualcosa che avrebbe cambiato per sempre gli scenari globali del settore: sul mercato faceva il suo debutto Xbox, la prima console da casa dell’azienda più grande del mondo, quella Microsoft fondata da Bill Gates che era indiscussa leader nel campo del software per personal computer. Sebbene non fosse mancato lo scetticismo e nonostante i dati finali di vendita di questa nuova macchina da intrattenimento elettronico non fossero stati paragonabili a quelli della diretta rivale nipponica, la PlayStation 2, Xbox rivoluzionò il videogioco grazie a importanti innovazioni tecnologiche (la presenza di un hard disk all’interno della macchina), di servizio (il lancio di Xbox Live segnò il reale ed esplosivo avvento dell’on line su console) e contenutistiche (Halo di Bungie fu opera seminale per il progresso del medium videoludico).
Opinioni a parte, un dato è certo: da quel momento in avanti, Xbox è rimasto uno dei tre marchi simbolo del videogioco su console, al fianco di PlayStation e Nintendo, con lo scenario odierno che vede in competizione PlayStation 4, Nintendo Switch e Xbox One. Ma è proprio qui che il “gioco” comincia a farsi interessante. Dopo molti anni segnati da un modello industriale ed economico abbastanza uguale a sé stesso, caratterizzato da cicli quinquennali di prodotto (le cosiddette “generazioni”), oggi è in atto un vero e proprio terremoto nella entertainment industry mondiale. Se da un lato Nintendo sta cercando di fondere insieme il gioco da casa con quello portatile (la strategia perseguita con Switch), dall’altro i due arcirivali Sony e Microsoft stanno visibilmente accorciando il ciclo di vita classico dei loro prodotti per inseguire, apparentemente, il modello di affari di settori come la telefonia.
Ecco quindi che, in gran parte per sfruttare i nuovi televisori con risoluzione 4K ultra HD, Microsoft ha lanciato sul mercato Xbox One S e Sony la sua PlayStation 4 Pro, dotata anche di un accessorio, acquistabile a parte, per giocare in realtà virtuale (il PlayStation VR). Al momento, tale ultima macchina rappresenta la console più potente sul mercato. Game over? Niente affatto. Microsoft, infatti, con una corsa agli armamenti che ricorda le politiche statunitensi e sovietiche durante la Guerra Fredda, ha già annunciato che per la fine di quest’anno farà il suo ingresso nelle nostre case una nuova portentosa Xbox One, denominata in codice Project Scorpio, le cui specifiche tecniche saranno svelate a Los Angeles domenica 11 giugno durante una speciale conferenza stampa (che sarà possibile seguire in streaming alle 23:00 ora italiana).
Quel che è noto sin d’ora è che Scorpio sarà la console più potente mai uscita, che supporterà i dispositivi per la realtà virtuale e la risoluzione 4K nativa e che i suoi giochi, almeno inizialmente, saranno comuni a quelli per gli altri modelli precedenti di Xbox One, beneficiando però di performance notevolmente potenziate. Quest’ultimo punto è decisamente importante, perché compone la strategia del Play Anywhere (gioca ovunque) adottata dalla casa di Redmond, che consentirà di avere un ecosistema di gioco molto ampio che spazia dall’ambiente PC Windows a tutti i modelli di Xbox, Scorpio incluso. Paolo Bagnoli, direttore della divisione Xbox Italia di Microsoft, è molto chiaro, al riguardo: «Quello che facciamo da sempre è proteggere gli investimenti degli utenti», ha dichiarato, «poiché chi ha creduto in noi deve poter continuare a giocare al titolo che più lo ha appassionato anche sulle nuove console in modo totalmente gratuito. Siamo gli unici, in questo momento, a farlo. I giochi Xbox One S saranno compatibili con Scorpio, come il controller, passando anche per PC grazie alla connettività Bluetooth e facendo sì che si possa vivere appieno l’esperienza del Play Anywhere. Inoltre chi comprerà i giochi in digitale, con un acquisto solo avrà il doppio titolo sia per console che per Windows 10».
In definitiva, la misteriosa Scorpio sembra consolidare un trend globale che vede le console da gioco inseguire, sotto diversi aspetti, i dispositivi mobili come smartphone e tablet, anche a livello di ciclo di produzione. E se l’azzardo di Nintendo con Switch sembra ammiccare a una ancor più marcata politica di convergenza (non dimentichiamo che la Casa di Kyoto ha di recente fatto debuttare alcuni dei suoi marchi storici su dispositivi iOS e Android: Pokémon GO, Super Mario Run e Fire Emblem Heroes), Microsoft Xbox preme sull’acceleratore della potenza tecnologica, inseguendo il sogno dell’assoluto fotorealismo, che da sempre alberga nel cuore di molti videogiocatori.
Quindi cosa dovremo aspettarci per il futuro? Difficile dirlo. Il noto analista di mercato Michael Pachter, intanto, immagina un mondo dove ogni tre anni (al massimo) potrebbe essere lanciata una nuova console, un sogno per i patiti della tecnologia ma anche un potenziale incubo per il portafoglio di milioni di videogiocatori.

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Il 2018 dei videogiochi

Dopo un 2017 che è stato graziato dall’arrivo di giochi letteralmente memorabili, le aspettative per il 2018 videoludico non possono che essere altissime. Non si può pretendere di avere un Mario o uno Zelda ogni anno, ma fortunatamente anche l’anno da poco iniziato vede all’orizzonte titoli da attendere con impazienza. Con un tasso di crescita tecnologica e contenutistica che non accenna ad arrestarsi, si aprono quindi nuovi, eccitanti scenari per i gamer. Vediamo quindi insieme quali sono i dieci titoli che promettono di conquistare, meravigliare e soprattutto emozionare i gamer di tutto il mondo.

 

Detroit. Become Human

Data d’uscita: primavera 2018

Sviluppatore: Quantic Dream

Publisher: Sony Interactive Entertainment

 

 

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L’Italia dei videogiochi: nel 2016, mercato oltre il miliardo

Dopo alcuni anni non semplici, a causa della crisi economica, il mercato dei videogiochi in Italia torna a rialzare la testa, con una crescita importante che fa ben sperare per il futuro. A decretarlo sono i dati dell’analisi di mercato condotta da AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani), con il Gruppo GfK. Il primo dato è ovviamente quello relativo al fatturato: durante il 2016, gli italiani hanno speso in videogiochi ben 1.029.928.287 euro, segnando una crescita dell’8,2% rispetto all’anno precedente; tale dato include le vendite di console (+2,3%), di giochi (+11,9%) e di accessori (+3,7%).

Andando a esaminare il dato più da vicino, emerge che a fare la parte del leone sono giustamente i videogiochi (decisamente riduttivo continuare a definire “software” delle opere d’ingegno facenti parte del nostro substrato culturale), che totalizzano 636.908.554 euro di fatturato e che ormai non si acquistano più soltanto in versione fisica e pacchettizzata presso i negozi, ma anche in versione digitale, con i download legali dai vari store; tale categoria, inoltre, include l’acquisto di abbonamenti legati al gioco online e le cosiddette microtransazioni, cioè gli acquisti di oggetti virtuali all’interno di un gioco. Ma se mercato fisico e quello digitale si spartiscono la fetta di torta quasi in modo paritario, con il primo a costituire il 54,36% e il digitale il 45,64% del fatturato dei videogiochi, è interessante constatare che il fisico perde l’1,1% rispetto al 2015, mentre il digitale registra un incremento impressionante del 32,8%.

Gli italiani, insomma, sterzano verso gli acquisti online, lasciando prevedere un andamento del mercato che andrà nella direzione già intrapresa dal Regno Unito, dove il digitale è nettamente più forte e sviluppato. Le grandi catene di negozi legate al gaming dovranno inevitabilmente prendere atto del trend e calibrare correttamente le loro strategie, se vorranno continuare a essere competitive da qui a 5 o 10 anni (case history come quella del crollo di Blockbuster, vecchio colosso dell’home video, insegnano che nulla è intoccabile in economia di mercato).

Videogiochi a parte, 307.252.746 euro vengono dalla vendita di console da gioco, mentre 85.766.987 da quella di accessori, tra i quali svettano per importanza i pad, cioè i controller con i quali il giocatore utilizza il suo alter ego virtuale all’interno del gioco.

Una volta stabilito, sulla base di questi dati di mercato, che anche noi italiani siamo ormai senza ombra di dubbio un popolo di videogiocatori, la domanda che nasce spontanea è duplice: quanti siamo, rispetto alla popolazione del nostro Paese? E come è costituita, al suo interno, questa grande “famiglia”? Innanzitutto, i videogiocatori in Italia sono 25 milioni, il 50,2% degli over 14 anni, e se pensate che si tratti di teenager o comunque giovanissimi, è il caso di ricredersi, perché il 62% di costoro ha un’età che varia tra i 25 e i 55 anni. Per la precisione, il 18,4% rientra nel segmento 25-34 anni, il 22,4% in quello 35-44 e il 20,6% tra quello più maturo dei 45-54 anni. Ancor più sorprendente è che i “nonni videogiocatori”, cioè gli over 65 anni, superano in numero gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni, rappresentando il 7,9 contro solo il 7,2 della popolazione di gamer italiani.

Lo studio vorrebbe anche sfatare un altro mito, secondo il quale il videogioco sarebbe qualcosa prettamente per uomini: dal rilevamento 2016, infatti, emerge una assoluta parità di genere, con il popolo maschile e quello femminile al 50% esatto. Tale dato, tuttavia, va ancora preso con le pinze, perché riferito alla totalità dei giochi, includendo quindi anche le più semplici applicazioni ludiche per dispositivi mobili quali tablet e smartphone, generalmente non proprio assimilate in tutto e per tutto ai videogiochi più impegnativi, complessi e costosi per PC o console. Resta il fatto che il dato è estremamente significativo: il gaming diventa ogni anno un fenomeno più universale, che coinvolge la popolazione senza sostanziali differenze, né di genere né di età. Anche la distribuzione geografica è abbastanza equilibrata: il Nord Italia si colloca al primo posto con il 44% dei videogiocatori, seguito da Sud e Isole con il 33,8% e infine dal Centro con il 22%.

Un altro dato degno di essere esaminato è quello dei videogiochi più venduti rispetto alle fasce di rating, che in Italia sono attribuite con il sistema europeo PEGI (Pan-European Game Information), costruito e strutturato dall’industria stessa del videogioco nel 2003 per autoregolamentarsi. I giochi più venduti sono quelli classificati PEGI 3, adatti cioè a chiunque abbia almeno 3 anni, in sostanza i giochi per tutti, che rappresentano il 33% dei titoli venduti nel 2016. Seguono i giochi più adulti, quelli cioè adatti solo a un pubblico di maggiorenni, con il 30%. A seguire il PEGI 7 con il 16%, i PEGI 16 con il 13% e i PEGI 12 con l’8%.

Per chiudere, è doveroso uno sguardo alla classifica dei bestseller del 2016, dominata ancora una volta dal simulatore calcistico di Electronic Arts FIFA, giunto all’edizione 2017. Al secondo posto si colloca il bellissimo crime-action di Rockstar Grand Theft Auto V, mentre la medaglia di bronzo va all’avventura d’azione di stampo hollywoodiano Uncharted IV: Fine di un ladro, sviluppata dallo studio Naughty Dog per Sony Interactive Entertainment. A seguire, in top ten e in ordine di piazzamento: Call of Duty: Infinite Warfare, FIFA 16, Battlefield 1, Minecraft, Pokémon Sole, Watch Dogs 2 e Call of Duty: Black Ops III.