Atlante

Alessandro Aresu

Laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università San Raffaele di Milano, è consigliere scientifico di “Limes” e collabora a varie riviste. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli, 2022), I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio. 1950-2050 (con Raffaele Mauro; Luiss University Press, 2022), Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina (La Nave di Teseo, 2020) e L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia (con Luca Gori; il Mulino, 2018).

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L’onda di ChatGPT e il mondo di NVIDIA

 

Negli ultimi mesi, l’intelligenza artificiale è entrata in modo sempre più consistente nel dibattito pubblico grazie a ChatGPT, il modello linguistico di apprendimento automatico lanciato da OpenAI il 30 novembre 2022. OpenAI è un’organizzazione fondata senza fini di lucro da alcuni imprenditori, tra cui Elon Musk, nel 2015, ed è guidata da Sam Altman. A gennaio OpenAI ha annunciato un accordo pluriennale e miliardario con Microsoft, che dà seguito ad alcuni investimenti precedenti, per lo sviluppo di un’intelligenza artificiale «sicura, utile e potente». Il successo di ChatGPT, in pochi mesi, ha in un certo senso messo in discussione le sue premesse. Pensiamo all’ambiguità delle dichiarazioni di Elon Musk sulla tecnologia: la sua stessa scommessa in OpenAI, come l’investimento nella start-up britannica DeepMind, trovava giustificazione nello spauracchio di uno scenario simile a Terminator, in cui le macchine si sviluppano e soggiogano l’umanità. Oggi stesso l’imprenditore garantisce che i robot umanoidi sviluppati da Tesla (i cosiddetti Tesla Bot) sono estranei a questi rischi. Allo stesso tempo, Musk oggi si interroga su quanto la missione con cui è nata OpenAI possa essere perseguita nell’ambito di un accordo con un grande attore della tecnologia, quale Microsoft, per cui l’investimento in OpenAI è un’essenziale occasione di mercato, per valorizzare i propri prodotti rispetto agli avversari e ottenere vantaggi competitivi.  

Alla dimensione di mercato, evidente sotto la patina della missione “non a scopo di lucro” o all’autocertificazione di operare per un supposto “benessere dell’umanità”, si affianca anche la competizione internazionale. ChatGPT ha accelerato un’ondata di modelli linguistici di intelligenza artificiale a cui partecipano e parteciperanno gli altri protagonisti della tecnologia degli Stati Uniti, che sia per competere con esiti ancora incerti (come nel caso di Google) che per inseguire altre strade (come nel caso di Meta o di Apple). L’aspetto “potente” dell’intelligenza artificiale sta senz’altro nella capacità di attrarre gli utenti attraverso le risposte alle loro istruzioni, visto che si stima che ChatGPT abbia raggiunto 100 milioni di utenti attivi nel gennaio 2023, a meno di due mesi dal lancio iniziale. Il fatto che si tratti di un modello linguistico pone evidenti limiti al suo sviluppo nella Repubblica Popolare Cinese: da un lato, l’applicazione è in grado di conversare in cinese ma non è disponibile in Cina; dall’altro lato, il suo successo ha già innescato una corsa a rispondere tra le aziende tecnologiche cinesi.

 

In questa competizione economica e politica, si conferma il ruolo di una grande azienda, guidata da chi ha sintetizzato gli eventi con la giusta dose di esperienza e marketing. Jensen Huang, CEO e co-fondatore di NVIDIA, ha parlato del «momento iPhone dell’intelligenza artificiale». Questo slogan ha un significato preciso: come l’iPhone ha generato enormi economie di scala, con un successo molto più vasto rispetto alle previsioni, così ChatGPT porta la discussione sull’intelligenza artificiale a una realtà di mercato con curve di crescita e potenziali guadagni con obiettivi analoghi. NVIDIA, l’azienda di Jensen Huang, si è posizionata per sfruttare al meglio quest’ondata. L’imprenditore nato a Taiwan e cresciuto negli Stati Uniti, che ama vestirsi sempre con un giubbotto in pelle, ha dato vita all’azienda negli anni Novanta, con lo scopo di migliorare la resa grafica dei videogiochi, nonostante lo scetticismo di sua madre che lo invitava a trovare un lavoro rispettabile.

In questo secolo, l’uso di acceleratori di NVIDIA è divenuto fondamentale per aumentare la potenza e le prestazioni del calcolo. I principali supercomputer, compresi quelli installati in Italia, contengono hardware NVIDIA. L’addestramento dei servizi di ChatGPT necessita di questi prodotti, su cui si è già generata una corsa all’efficienza e alla personalizzazione. Il potenziale delle nuove applicazioni di intelligenza artificiale ha portato quest’anno la capitalizzazione del titolo NVIDIA al NASDAQ oltre i 600 miliardi, seppur in un ciclo molto incerto per l’industria dei semiconduttori. Allo stesso tempo, NVIDIA deve e dovrà adattare alcuni suoi prodotti per il mercato cinese per rispondere ai controlli sulle esportazioni del governo statunitense, che non vuole né vorrà che Jensen Huang, mentre si diverte ad ascoltare il karaoke per strada a Taiwan, aiuti Pechino ad avanzare nella corsa tecnologica. Perché il «momento iPhone dell’intelligenza artificiale» avviene in un mondo profondamente diverso, sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina, da quello che ha accompagnato l’esorbitante successo dei prodotti di Steve Jobs.   

 

Immagine: Primo piano del processore NVIDIA GeForce 9500 GT su scheda grafica ASUS, Chonburi, Thailandia (6 giugno 2022). Crediti: Nor Gal / Shutterstock.com

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La nuova strategia industriale europea

Da alcune settimane, il dibattito europeo è dominato dalla discussione su una nuova strategia industriale. Il 1° febbraio 2023 la Commissione europea ha annunciato le prime azioni per inserirsi nella competizione con Stati Uniti, Cina e altri Paesi sulle tecnologie verdi. Per comprendere la posta in gioco e la posizione europea, bisogna fare un passo indietro, fino al 2019 e 2020, con annuncio e presentazione del cosiddetto European Green deal (il Green deal europeo). Questo progetto, portato avanti su iniziativa soprattutto del vicepresidente responsabile Frans Timmermans, era stato paragonato – con poca modestia – allo sbarco dell’uomo sulla luna. All’inizio, le istituzioni europee (Commissione e Parlamento) hanno prestato grande attenzione ai target di neutralità climatica e alla comunicazione sull’importanza di rendere l’Europa più verde. Non è stato dato un rilievo adeguato alla corsa alla sostenibilità come competizione industriale, al suo impatto reale e potenziale sulle filiere industriali europee, al ruolo delle imprese nelle nuove filiere innescate dalla transizione ecologica. Ciò è avvenuto per un motivo comprensibile: capire per esempio la supply chain delle batterie, nella sua profondità e nelle sue evoluzioni, è difficile, mentre dire che tra qualche anno diventiamo “verdi” è più facile. Tuttavia, i progetti europei non si muovono in un vuoto.  

Come ho mostrato nel mio libro Il dominio del XXI secolo, e come illustrato da Henry Sanderson nel volume Volt Rush che sarà presto tradotto in italiano, la Cina ha visto nella sostenibilità una grande opportunità di sviluppo industriale, attraverso una strategia su più livelli. In primo luogo, Pechino domina la componentistica per i pannelli solari, come ha certificato l’Agenzia internazionale per l’energia (IEA, International Energy Agency): quindi tecnicamente i piani in questo senso, almeno fino a quando non vi saranno cambiamenti, arricchiscono l’industria cinese, che ha messo fuori mercato i concorrenti anni fa. In secondo luogo, va considerata l’articolata strategia cinese sulla mobilità elettrica. A livello minerario, si è basata non solo sulle riserve interne (a partire dalle terre rare) ma su contratti a lungo termine con Paesi produttori di litio, cobalto, nichel e altri materiali, nonché sugli investimenti di raffinazione e trattamento dei materiali in Cina. A ciò si sono aggiunti incentivi e strumenti per scalare l’uso di batterie e auto elettriche, in un mercato enorme. La Cina ha costruito e attirato grandi capacità chimiche, e nel corso dell’ultimo decennio si sono sviluppati campioni internazionali nelle batterie e nell’auto elettrica, come CATL (Contemporary Amperex Technology Contemporary Amperex Technology Co., Limited) e BYD. Nello stesso periodo, le industrie automobilistiche europee non hanno sottovalutato solo un aspetto specifico (l’auto elettrica), ma anche gli essenziali investimenti nell’elettronica.

Gli Stati Uniti non stanno mai fermi. Nemmeno in questo caso. E vogliono recuperare terreno nelle filiere estrattive, chimiche e industriali dominate dalla Cina. Sono aspetti che gli USA hanno chiari almeno dal 2021, quando l’amministrazione Biden ha pubblicato un’analisi sulle supply chain dei semiconduttori, delle batterie, dei minerali e materiali critici, della farmaceutica. L’Inflation Reduction Act dell’estate 2022 è la legge che cerca di disarticolare la capacità industriale cinese e portare gli Stati Uniti e il Nord America al centro della corsa mondiale su queste tecnologie, sfruttando anche la competitività col costo dell’energia. Sono già arrivati i primi accordi tra attori minerari e aziende automobilistiche. Come sempre, qualora necessario, gli Stati Uniti faranno ampio uso di sanzioni e controlli sulle esportazioni.  

Lo scenario attuale, e il suo intreccio con la guerra e la crisi energetica, ha così imposto la consapevolezza mancata agli europei pochi anni fa: la cosiddetta transizione ecologica è una competizione industriale che presenta rischi e opportunità, ma va considerata come tale, per evitare i velleitarismi. Dopo un approccio sbagliato perché ha colpevolmente sottovalutato la dimensione industriale, è ora di cambiare prospettiva. Occorre un’analisi delle filiere europee, del loro ruolo attuale e potenziale, come la Commissione europea ha saputo fare sui semiconduttori. E le aziende europee, a partire da quelle chimiche, dovranno essere parte di un lavoro che identifichi rischi, potenzialità e opportunità nella catena del valore, invece di sentirsi disorientate per via di programmi generici o troppo lenti e decisioni poco meditate.

L’Europa dovrà fare un lavoro profondo se vorrà incidere sul serio in questa competizione tecnologica. È una prospettiva forse meno accattivante degli slogan del 2019-20 ma più seria e responsabile verso i cittadini. Solo dopo aver compreso l’entità della sfida industriale si potranno affrontare gli spinosi problemi politici che la nuova strategia pone nell’equilibrio europeo.

 

Immagine: Pannelli solari di un impianto tra la foresta mediterranea nella catena montuosa della Sierra de San Pedro della provincia di Caceres nella Comunità autonoma dell’Estremadura, Spagna. Crediti: Juan Carlos Munoz / Shutterstock.com

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Geopolitica di Elon Musk

I due uomini più ricchi del pianeta, Jeff Bezos ed Elon Musk, si sfidano su quello che c’è oltre il nostro pianeta, nella “corsa allo spazio” tra la più collaudata SpaceX e Blue Origin del fondatore di Amazon, che Musk una volta ha deriso rispondendo a un intervistatore «Jeff chi?».

«Fare dell’umanità una specie multiplanetaria» è la promessa di Elon Musk, attraverso la sua principale società non quotata, SpaceX. A lungo derisa, ha contribuito ad abbassare i costi di lancio in modo significativo e ha costruito un rapporto solido con la NASA, grazie soprattutto al grande lavoro della presidente Gwynne Shotwell. Nel 2020 SpaceX ha consentito agli Stati Uniti di riportare gli astronauti sulla Stazione spaziale internazionale, dopo un lungo periodo di utilizzo a pagamento del veicolo russo Soyuz. In questo decennio, Elon Musk prevede di portare l’uomo su Marte.     

Cambiare radicalmente il mercato automobilistico è l’altra promessa dell’imprenditore nato in Sudafrica, attraverso la sua principale società quotata, Tesla. Il 2020 sarà ricordato anche come l’anno in cui Tesla è diventata la maggiore impresa automobilistica al mondo per capitalizzazione. Sebbene i ricavi di Tesla siano molto lontani da quelli di altri giganti, l’auto elettrica è una realtà e i mercati scommettono sulla possibilità che l’azienda di Musk ne domini la filiera in futuro. Tesla a fine 2019 aveva quasi 50.000 dipendenti. 

Elon Musk rappresenta l’America capace di costruire. Pensatori/investitori della Silicon Valley come Peter Thiel (2016) e Marc Andreessen (2020) hanno usato spesso l’immagine della costruzione per descrivere la loro prospettiva sul futuro e i loro obiettivi politici. In Italia si fa molta ironia sul termine “costruttori”, dopo che il suo uso da parte del presidente Mattarella nel discorso di fine anno ha portato, per usare un eufemismo, a una certa inflazione. Eppure, per gli Stati Uniti essere “costruttori” è qualcosa di esistenziale. Si tratta di conquistare un territorio, di connetterlo attraverso le infrastrutture ferroviarie ed energetiche, di modellare le grandi città da parte degli architetti del potere come Robert Moses a New York. La frontiera, mito del modo di stare al mondo degli Stati Uniti, è la costruzione continua contro l’ignavia.   

Elon Musk ha un’idea non banale dello spazio dell’impresa e dell’innovazione. L’enorme sfida dello spazio orbitale, certo. Ma anche lo spazio interno dell’America, in cui costruire le Gigafactory: la prima, per produrre soprattutto batterie al litio e prodotti di stoccaggio energetico, è stata aperta nel 2016 in Nevada. Elon Musk è un prodotto della Silicon Valley, dove si è trasferito per fare l’imprenditore dopo i suoi studi in Canada, ma non parla solo agli Stati Uniti delle coste, perché pensa che quella mentalità non sia in grado di affrontare la sfida con grandi nazioni manifatturiere, come la Germania e la Cina in cui ha investito. In Germania ha tra l’altro effettuato la più importante acquisizione di Tesla, per migliorare le capacità di automazione. Dopo aver aperto una Gigafactory a Shanghai, punta fortemente al mercato cinese, anche attraverso un’aggressiva politica dei prezzi. L’ossessione della costruzione di Musk, alimentata da frasi struggenti come «deciderò di andare su Marte solo se sarò sicuro che la mia azienda potrà fare a meno di me», risponde anche a una visione del mondo e dei rapporti di forza.    

C’è una potenza strategica in Elon Musk. I suoi interventi pubblici, in cui convivono i summit istituzionali e le chiacchiere con Joe Rogan fumando una canna, e i suoi tweet spesso paradossali o sfasati (come quello sul supporto ai colpi di Stato in Bolivia), hanno generato un culto. Un movimento diverso da quello di Steve Jobs, anche perché con i social media nell’ultimo decennio può rivolgersi a un pubblico molto più ampio. Anche in termini di marketing la promessa del culto di Elon Musk non è solo l’oggetto, l’auto in sé, ma la destinazione, il futuro con un valore sociale in cui l’imprenditore propone di traghettare i fan, gli utenti, il pianeta intero. 

I suoi più grandi fan, ovviamente, sono i risparmiatori diventati milionari attraverso Tesla, quelli che hanno creduto prima degli altri nella grande scommessa. Per avere un milione di dollari a dicembre 2020, bastava comprare 9.000 dollari di azioni 9 anni prima. È una bolla destinata a scoppiare? Difficile dirlo. Ma esiste già una catena del valore elettrica che sta cambiando il mondo, a prescindere dalle simpatie verso Musk, ed è difficile che il processo si areni. Il primato di Musk, visto dagli investitori, avrà conseguenze di sistema. Segnala la potenza del cambiamento delle principali filiere industriali, che vediamo già nei rapporti di forza dell’energia, nella corsa alle batterie in cui la Cina ha un ruolo di primo piano, nella paura e nei primi investimenti degli operatori automobilistici giapponesi ed europei.  

 


Immagine: Elon Musk, California City, Stati Uniti (5 gennaio 2021). Crediti: vasilis asvestas / Shutterstock.com

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Il mondo di Macron e i suoi limiti

 

Emmanuel Macron ha realizzato una lunga discussione con i giovani ricercatori di Le Grand Continent, in cui espone la sua “Dottrina”. Il presidente francese propone di riparare le fratture di una “economia sociale di mercato” divenuta sempre più aperta e sempre meno sociale, e non più in grado di affrontare le sfide del nostro tempo. A partire dal cambiamento climatico, dalle disuguaglianze, dalla condizione economica e psicologica della classe media occidentale. La risposta, per Macron, passa per la sostituzione del Washington Consensus con un Consenso di Parigi. Vasto programma, si potrebbe dire, citando Charles de Gaulle, di cui nel 2020 l’Eliseo ha celebrato il cinquantennale della morte.

L’espressione “Consenso di Parigi” (Consensus de Paris) non è nuova, ma, nella storia intellettuale, ha un significato opposto. Nei suoi studi sull’organizzazione economica internazionale, Rawi Abdelal della Harvard Business School parla di “consenso di Parigi” per descrivere l’influenza nei funzionari internazionali francesi nel sostegno alla globalizzazione dei mercati finanziari e alla riduzione dei vincoli alla mobilità dei capitali. In termini storici, la cosiddetta “svolta del rigore” di Mitterrand nel 1983, dopo i fallimentari progetti dell’inizio del suo mandato presidenziale, si trasferisce nel contesto globale. Questo processo avviene con una fondamentale impronta francese, attraverso l’azione di Jacques Delors nella Commissione europea, Henri Chavranski nell’OCSE e Michel Camdessus nel Fondo monetario internazionale. L’adesione dei socialisti francesi al liberismo è un contesto culturale in cui si muove il giovane Emmanuel Macron, prima del ripensamento odierno, che mostra l’evoluzione del suo pensiero.   

Oggi, difficilmente la crisi del Consenso di Washington (formula comunque caduta in disuso), porterà all’ascesa del Consenso di Parigi. Allora perché non Seoul, o Tokyo, o Hanoi? Allora perché non Berlino? In effetti, l’esposizione di Macron può essere letta soprattutto con occhiali statunitensi e tedeschi, perché è a Washington e a Berlino che sono dedicati i messaggi più forti. Verso gli Stati Uniti, perché Macron rivendica la capacità di aver coinvolto la Cina in ambito multilaterale, soprattutto in riferimento al clima. E perché verso la Cina Macron ha un linguaggio più cauto rispetto a quello della competizione e della rivalità, adottato a livello europeo. Il presidente francese esprime una certa invidia per il progetto cinese delle Vie della Seta, nel suo significato simbolico legge la vitalità di un popolo, da cui gli europei debbono imparare. Quando illustra l’idea di una “autonomia strategica” europea, Macron considera gli Stati Uniti e la Cina sostanzialmente equidistanti: anzi, è proprio per il legame in termini di sicurezza e di valori con gli Stati Uniti che porta a marcare una “dichiarazione di indipendenza”. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno un avversario: la Cina. Mentre agli europei Macron propone una “rivoluzione positiva”, dove non c’è un nemico geopolitico o ideologico. A suo avviso, gli europei non devono avere un singolo obiettivo, bensì la presunzione di essere leader nel mondo allo stesso tempo su quattro temi fondamentali (istruzione, sanità, ecologia, digitale).

La ricerca di una leadership su queste quattro aree sarebbe stata eccessiva anche per l’America di Franklin Delano Roosevelt, che si limitava a quattro libertà più generiche (e aveva Norman Rockwell per dipingerle). Ma il punto è: a partire da quali risorse e da quale coesione interna sono realizzabili questi progetti? Una domanda che ci porta al confronto con la Germania. Macron, secondo una tradizionale posizione francese, in cui inserisce il suo impulso da politico-intellettuale in grado di discutere agilmente di sovranità westfaliana, ha un’idea dell’Europa come spazio in cui la Germania paga per realizzare progetti industriali e tecnologici francesi. Da un lato il portafoglio, dall’altro la testa, o se vogliamo l’impeto. In quest’ottica, la visione di Macron ‒ e del commissario Breton ‒ è effettivamente emersa: le loro idee di aggregazione industriale (a guida francese, mentre ai progetti a guida italiana si applica la “concorrenza”) rispondono meglio al contesto Covid-19 e a un certo ripensamento dell’industria tedesca ad alta tecnologia dei rapporti con la Cina. Ma la mappa della politica estera, dell’idea di difesa e dei rapporti con i vicini continua a essere molto diversa per la Germania. Con la ministra della Difesa (e meteorica leader CDU), Annegret Kramp-Karrenbauer, che ha attaccato l’autonomia strategica, per poi essere redarguita dallo stesso Macron che evoca Angela Merkel. E con un’idea delle minacce e dei rivali molto diversa: basti pensare alla Turchia, potenza curiosamente quasi assente nell’esposizione della Dottrina Macron, a dispetto delle forti tensioni degli ultimi mesi.

 

Immagine: Emmanuel Macron ( 23 luglio 2020). Crediti: Frederic Legrand - COMEO / Shutterstock.com

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Joe Biden e l’intelligence

 

Ted Kaufman, impegnato nel transition team del presidente eletto, è l’uomo più vicino a Joe Biden. Suo capo dello staff dagli anni Settanta al 1995, ha sostituito lo stesso Biden nel 2009 come senatore del Delaware prima dell’elezione di Chris Coons nel 2010. Secondo Kaufman, chi accusa Biden di essere un gaffeur non considera abbastanza l’esperienza decennale del presidente eletto degli Stati Uniti nel comitato del Senato sull’intelligence. Guarda caso, in quei dieci anni, ricorda Kaufman, Biden non ha detto nulla di inappropriato su ciò che conta veramente, sul cuore della superpotenza.  

Nel rapporto annuale al Senato del comitato sull’intelligence del 1977, Biden scriveva di aver passato “centinaia di ore” in incontri sulle vulnerabilità del Paese e sulle attività del KGB. Da vicepresidente degli Stati Uniti, ogni mattina Joe Biden andava nello Studio ovale e si sedeva vicino a Barack Obama per ascoltare i briefing sull’intelligence e sull’economia. Sempre nel 1977, Biden scriveva che è un dovere del popolo, attraverso i suoi rappresentanti eletti, dire alla comunità dell’intelligence ciò che può fare e ciò che non può fare, per mantenere l’equilibrio tra l’efficacia dei servizi e le garanzie democratiche.

Questo equilibrio si è chiaramente spezzato con Donald Trump. Negli Stati Uniti non esiste un Deep State (Stato profondo) omogeneo, ma esiste senz’altro un insieme di apparati di sicurezza nazionale, difesa e intelligence che hanno spesso interessi contrastanti. Questo vale anche per le 16 entità che compongono la comunità dell’intelligence. Chi opera nell’ombra (e chi deve farlo per natura, muovendosi in un sistema classificato e segreto), infatti, deve andare in qualche modo alla luce per chiedere i soldi del bilancio federale che consentono di esistere. I vari apparati statunitensi garantiscono la continuità della superpotenza, ma possono differire nella visione del mondo, anche su temi essenziali: per esempio, al di là del vertice di riferimento, tradizionalmente le posizioni del Dipartimento di Stato, di quello del Tesoro e del Pentagono sulla Cina presentano forti differenze.

La politicizzazione dell’intelligence è un fatto fisiologico delle democrazie, ma richiede una consapevolezza reciproca dei limiti. Nell’amministrazione Trump i limiti sono stati valicati. Trump ha unito l’indifferenza per le regole dell’intelligence e degli apparati, a partire dalla segretezza, a una politicizzazione molto forte, che ha generato un’accesa opposizione all’interno di una comunità che dall’inizio non lo ha certo visto di buon occhio. Così, dopo una serie interminabile di conflitti, i “National Security Leaders for Biden” si sono schierati apertamente per l’ex vicepresidente, mettendo insieme diverse sensibilità politiche. Biden, candidato preferito dalla comunità di intelligence e sicurezza nazionale, comincerà il suo mandato con molte, forse troppe aspettative. Come ha osservato l’ex direttore della CIA (Central Intelligence Agency) e della NSA (National Security Agency), Michael Hayden, diversi fedeli nominati da Trump probabilmente saranno sostituiti già nei primi passi della nuova amministrazione. A partire da John Ratcliffe, politico giunto al vertice della National intelligence con poca esperienza in materia e protagonista di mosse politicizzate in favore di Trump. Anche Gina Haspel, prima donna a capo della CIA, dovrà probabilmente lasciare, sempre che rimanga fino a gennaio. Tuttavia, le nomine di Biden dovranno passare per il Senato, quindi dovranno essere in grado di creare consenso, alla luce degli equilibri politici della Camera alta.

In un discorso del 2009 a Langley, in occasione del giuramento di Leon Panetta come direttore della CIA, Joe Biden si definiva «uno dei principali clienti» dell’intelligence, ricordando la sua lunghissima esperienza in materia. Dovrà riuscire a sfruttarla al meglio nei prossimi mesi e nei prossimi anni, perché le sfide della comunità dell’intelligence degli Stati Uniti sono soprattutto sul piano interno. Al di là delle specifiche decisioni, questa ricostruzione di un tessuto di fiducia sarà determinante per affrontare l’aspetto esterno. Dove c’è la necessità di riposizionare la comunità di intelligence per uno scopo essenziale: capire il contesto interno della Cina e le reali capacità e intenzioni di Pechino nel breve e nel medio termine.  

 

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Immagine: Joe Biden. Crediti: YASAMIN JAFARI TEHRANI / Shutterstock.com

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La strategia nazionale USA per le tecnologie critiche ed emergenti

 

La recente pubblicazione da parte dell’amministrazione statunitense di una Strategia nazionale per le tecnologie critiche ed emergenti mostra la profondità del conflitto degli Stati Uniti con la Cina, che ha proprio nella tecnologia un’arena decisiva. Questo documento degli Stati Uniti si mette nel solco della Strategia di sicurezza nazionale pubblicata dall’amministrazione Trump nel 2017, che ha teorizzato l’equivalenza tra sicurezza nazionale e sicurezza economica. E soprattutto va inquadrato nella risposta degli apparati di Washington all’ascesa tecnologica cinese, a seguito della diffusione del piano Made in China 2025.

L’estensione della sicurezza nazionale alla capacità tecnologica è centrale nella prospettiva degli Stati Uniti, e con ogni probabilità caratterizzerà le iniziative di Washington in questo decennio, a prescindere dai diversi colori politici. La “fusione” tra gli apparati militari e di sicurezza e lo sviluppo scientifico-tecnologico è infatti l’elemento permanente del “capitalismo politico” degli Stati Uniti, almeno dalla Seconda guerra mondiale. E lo sarà ancora di più nel momento in cui Washington deve lottare contro un’altra temibile “fusione”, quella teorizzata e praticata dal sistema cinese.

L’allargamento della sicurezza nazionale alla tecnologia è evidente nel primo pilastro della Strategia: la promozione della base di innovazione (innovation base) della sicurezza nazionale. Il concetto di innovation base si lega a quello di defense industrial base e indica un ecosistema ampio, fatto di aziende private, sostegni pubblici, investimenti in ricerca e innovazione. Questi ecosistemi, anche se enormi, vanno circoscritti: nel senso che possono far scattare meccanismi di difesa e di attacco. Per esempio, incentivi alle imprese domestiche affinché il mercato americano di droni civili non sia dominato dai cinesi. Oppure, ordini esecutivi che indicano un’intera filiera (per esempio, la supply chain delle telecomunicazioni) di sicurezza nazionale, e vanno quindi a escludere operatori specifici dalle ordinarie transazioni di mercato (come nel caso di Huawei).

Per queste ragioni, il governo degli Stati Uniti si trova sempre davanti a un’ambiguità: anche se nei documenti ufficiali rivendica la superiorità di un “approccio orientato al mercato che prevarrà contro i modelli diretti dallo Stato”, è assurdo sostenere che l’approccio degli Stati Uniti al nesso tra difesa e tecnologia sia basato sul mercato. Il modo corretto di interpretare gli Stati Uniti, visti gli incentivi, gli appalti, e soprattutto le sanzioni e gli strumenti di controllo degli investimenti sulla tecnologia, è piuttosto il mercato dove possibile, la sicurezza nazionale dove necessario. Almeno per quanto riguarda le tecnologie indicate come “critiche ed emergenti”, e cioè un lungo elenco che comprende ovviamente lo spazio, le tecnologie quantistiche, l’intelligenza artificiale, le biotecnologie, la medicina, gli armamenti, i semiconduttori, le reti di comunicazione, ma anche (tra l’altro) le tecnologie agricole, i materiali avanzati, l’energia, la data science. Si tratta di un catalogo vastissimo, che gli Stati Uniti hanno arricchito a seconda delle esigenze del momento. 

Il mantenimento della leadership tecnologica richiede diversi passaggi: la previsione (forecasting) per anticipare le tendenze, l’individuazione delle priorità per non disperdere le risorse, il coordinamento con alleati e partner. Questo è forse il punto più interessante, perché inatteso, almeno per uno sguardo superficiale. La Strategia nazionale per le tecnologie critiche ed emergenti mostra una necessità per Washington: fare da soli è impossibile. Lo stesso cuore dell’approccio statunitense (la volontà di “prevenire la sorpresa tecnologica”, su cui si basa l’agenzia di sviluppo di progetti avanzati per la difesa, DARPA, Defence Advanced Research Projetcs Agency) non è considerato un’esclusiva, ma una leva per la costruzione di una coalizione di alleati. Si parla di un “vantaggio tecnologico condiviso”: la costruzione di alleanze è importante, perlomeno nella retorica, anche negli ultimi passaggi dell’amministrazione Trump. Per esempio, il documento indica l’importanza di “coinvolgere partner e alleati per sviluppare processi simili a quelli del CFIUS” (Committee on Foreign Investment in the United States), riferendosi al Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti. Le “sfere di sicurezza nazionale” che gli Stati costruiscono nel mondo di Covid-19 devono essere compatibili con quella di Washington. E, da ultimo, subordinate ad essa nelle scelte fondamentali, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la Cina.

 

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Immagine: Illustrazione vettoriale mappa del mondo astratto con schede di circuito. Crediti: Upl / Shutterstock.com

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L’attualità della Guerra di Corea

Settant’anni fa, nell’estate del 1950, iniziava uno dei conflitti più importanti della storia contemporanea: la Guerra di Corea.
Nonostante l’immaginario occidentale sull’Asia sia stato plasmato dal Vietnam, anche grazie a Hollywood, in realtà il conflitto coreano è stato più importante: il suo impatto globale, a settant’anni di distanza, è ancora con noi.

Anzitutto, la Guerra di Corea non è tecnicamente conclusa. Ovviamente è stato firmato un armistizio, il 27 luglio 1953, ma non c’è una pace condivisa.

La questione coreana ha influenzato profondamente la guerra fredda e tutta l’Asia della seconda metà del Novecento. Soprattutto, continua a caratterizzare il nostro secolo, dove è evidente la centralità dei conflitti in quell’area, per ragioni economiche e geopolitiche.

La Corea del Nord (Repubblica Popolare Democratica di Corea) è figlia di quel conflitto, per la sua struttura militare e familiare. L’arretramento economico convive con la costante mobilitazione per gli armamenti, con le sue caratteristiche di prestigio e di tenuta della nazione. La Corea del Sud (Repubblica di Corea) negli anni Cinquanta, dopo la guerra, crebbe meno della Corea del Nord, prima di incarnare una straordinaria storia di crescita e di innovazione, anche se sotto diversi regimi politici nel corso dei decenni. Una vicenda in cui è centrale il ruolo di alcune grandi aziende tecnologiche, a partire da Samsung, tanto che la Corea del Sud viene definita da alcuni come “Repubblica di Samsung”. 

La Repubblica Popolare Cinese ha avuto nella Guerra di Corea un precoce momento di maturità, decidendo un’ampia mobilitazione militare a un anno dalla fine della guerra civile. Il conflitto non ha riguardato solo l’area regionale di interesse cinese, ma anche la volontà cinese di affermarsi come potenza nella guerra fredda.
La Guerra di Corea ha segnato soprattutto gli Stati Uniti, per diverse ragioni. Per esempio, la questione militare, a livello interno ed esterno. Il generale Douglas MacArthur, veterano della guerra nel Pacifico e dell’occupazione del Giappone, viene rimosso dal presidente Truman per profonde divergenze. Allo stesso tempo, le forze militari di Washington sono rimaste in Corea del Sud: Camp Humphreys, con 28.000 soldati, è la più grande base degli Stati Uniti all’estero.   

Gli storici della presidenza e i giuristi restano molto interessati alla Guerra di Corea, per comprendere l’evoluzione del potere negli Stati Uniti. Lo storico Arthur Schlesinger Jr. nel suo classico del 1973, The Imperial Presidency, individua l’allargamento dei poteri presidenziali nell’ingresso in guerra operato da Truman senza l’approvazione del Congresso e in altri eventi, che culminano in un ordine esecutivo dell’8 aprile 1952, con cui al segretario al Commercio viene ordinato di prendere il controllo di gran parte dell’industria dell’acciaio degli Stati Uniti. Da questo tentativo di Truman è nata una disputa nelle corti, con la successiva decisione della Corte suprema che ha affermato i limiti dei poteri presidenziali.   

Questo resta, in ogni caso, uno degli elementi più attuali del conflitto coreano: il fatto che gli Stati Uniti l’abbiano utilizzato per stabilire e applicare alcuni strumenti che oggi definiamo di “guerra economica”. Nonostante la decisione della Corte suprema sull’acciaio, questi poteri sulla sicurezza nazionale restano molto influenti. Vengono per esempio dal Defense Production Act, promulgato l’8 settembre 1950, che è stato utilizzato nella crisi Covid-19 per cercare di riorientare (non sempre con successo) la produzione industriale delle aziende americane verso la catena del valore biomedicale e dei dispositivi di protezione. Risale alla Guerra di Corea anche la creazione dell’OFAC (Office on Foreign Assets Control), strumento centrale per la politica di sanzioni degli Stati Uniti. L’ingresso cinese in guerra nell’autunno del 1950, infatti, porta al blocco di tutti gli asset cinesi e nordcoreani sotto la giurisdizione americana, e alla creazione di un apposito ufficio all’interno del Dipartimento del Tesoro, per supervisionare e realizzare queste operazioni. Oggi la “lista OFAC” comprende migliaia di individui e aziende in numerosi Paesi, ma anche questa storia ha inizio con la Guerra di Corea. Senza avere fine.

 

Immagine: Bombardamenti aerei distruggono i rifornimenti nordcoreani durante il blocco di Wonsan. Crediti: Everett Collection / Shutterstock.com

 

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La geopolitica di TikTok

 

TikTok è un riferimento irrinunciabile non solo per capire cosa c’è nella testa degli adolescenti o per le nuove strategie degli Uffizi, ma anche per leggere i conflitti geopolitici del nostro tempo.

Come abbiamo scritto già a novembre, l’azienda si trova al centro della guerra digitale tra Stati Uniti e Cina. Anzitutto perché il geniale algoritmo di TikTok ha generato un successo commerciale straordinario: ad aprile l’applicazione ha superato i 2 miliardi di download, facendo schizzare in alto la valutazione dell’azienda cinese che la possiede, ByteDance, che potrebbe superare i 150 miliardi di dollari in una futura quotazione.  

Seguire le vicende di TikTok è appassionante. La cronaca recente dell’applicazione somiglia a un ottovolante geopolitico. Ragioni economiche e motivi strategici si intrecciano e si confondono, nella logica del capitalismo politico.

A giugno, i principali titoli sul comizio di Donald Trump a Tulsa, Oklahoma, sono stati dedicati al suo “sabotaggio” attraverso TikTok da parte degli adolescenti, i quali avrebbero prenotato numerosi posti senza poi farsi vedere: anche se il fenomeno non è nuovo, è interessante, in un periodo di guerra di informazione, che sia cresciuta in modo così forte e sensibile la narrazione “TikTok batte Donald Trump”. Spostiamoci in India: mercato cruciale per TikTok, su cui ha scommesso moltissimo il fondatore Zhang Yiming, anche con l’acquisizione della app Helo e con la promessa di investire un miliardo di dollari nel Paese, dove ha più di duemila dipendenti. Il 29 giugno il governo indiano ha bandito dal Paese TikTok, in un provvedimento che ha toccato complessivamente cinquantanove applicazioni cinesi “coinvolte in attività che pregiudicano la sovranità e l’integrità dell’India, la difesa dell’India, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico”. Così, lo scontro fisico ed “analogico” tra India e Cina sul confine conteso si è trasferito quasi subito nell’arena digitale, generando proteste tra le numerose star dei social media indiane. Infine, TikTok ha annunciato di cessare l’operatività dell’applicazione a Hong Kong, dopo l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza nazionale.

TikTok sviluppa la sua enorme potenza di mercato in un terreno ambiguo e scivoloso: cerca di distanziarsi dal governo di Pechino, assume grandi manager internazionali come Kevin Mayer della Disney, ma non può rinunciare all’identità cinese dell’azienda che la possiede. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato che gli Stati Uniti stanno valutando se bandire TikTok. Non è una novità, e forse non è il più importante pericolo di lungo termine.

Il rischio per la Cina è più diffuso: la capacità tecnologica di Pechino è guardata da vicino dai “Cinque Occhi” (Five Eyes), l’alleanza spionistica tra Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, e il governo cinese lo sa benissimo. Anche se l’Anglosfera fosse data per persa come mercato per le applicazioni cinesi, ciò che Pechino non può tollerare è una diffusione generalizzata del blocco ai suoi prodotti in altre geografie, in altri mercati promettenti. In questo modo i “Cinque Occhi” si trasformerebbero in un’idra con tante teste, in grado di contrastare nel nome dell’allargamento della sicurezza nazionale il grande occhio cinese e le sue innovazioni.  

 

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Il futuro di Exor

È stato un 2019 denso di eventi per il gruppo Exor, che ha celebrato i 10 anni dalla sua costituzione e i 120 anni della nascita della Fabbrica Italiana Automobili Torino con l’avvicinamento di FCA verso Renault e il successivo accordo tra FCA e Peugeot.

Anche il 2020 si apre all’insegna del rapporto tra Italia, Francia e Stati Uniti nell’identità della holding di partecipazioni guidata da John Elkann, con l’annuncio di una trattativa esclusiva per la vendita della società di riassicurazione PartnerRe (acquistata da Exor tra il 2015 e il 2016). L’offerta viene dal gruppo di mutua assicurazione leader sul mercato francese, Covea, che vuole diversificarsi sulla riassicurazione per svilupparsi sui mercati internazionali. Se l’affare andrà in porto, la plusvalenza per Exor sarà notevole: PartnerRe è stata acquisita nel 2016 per 6,9 miliardi di dollari, verrebbe venduta per 9 miliardi, rafforzando ulteriormente la liquidità disponibile per operazioni future.

Con i cambiamenti nei due maggiori investimenti della holding, la vendita di PartnerRe e l’accordo di FCA con Peugeot, Exor è destinata a cambiare volto. Inoltre, anche se oltre 81 miliardi sui 143 miliardi di ricavi del 2018 provenivano dal Nord America e solo 12 miliardi dall’Italia, capire cosa ci sia esattamente nella testa di John Elkann resta uno degli esercizi più importanti del capitalismo italiano. Elkann ha voluto alimentare una “cassaforte” in grado di investire liberamente e generare rendite, eppure quando c’è un’opportunità di uscire dagli investimenti più rilevanti con una plusvalenza, non esita a coglierla. Nella galassia FCA, uno dei passaggi più importanti del futuro sarà lo spin-off dell’azienda di automazione e robotica Comau, da cui verranno altre risorse. A questo punto Exor, oltre a investire maggiormente in start up (attraverso il veicolo Exor Seeds), dovrà cercare altre opportunità in asset legati alla transizione ecologica e allo sviluppo sostenibile, anche per ragioni di immagine.

Se da un lato la disponibilità di Exor è così elevata che per influire sugli assetti italiani, come si è visto sull’acquisto di Gedi, serve pochissimo rispetto alle plusvalenze degli ultimi anni, i settori ad alta intensità tecnologica richiedono e richiederanno investimenti ancora maggiori per essere parte del “club”. In ogni caso, Elkann è rimasto una delle poche figure con un piede nell’Italia capace di giocare non solo da preda ma da predatore, a livello europeo e internazionale, anche facendo leva su una solida relazione con gli Stati Uniti e sulla capacità finanziaria costruita da Marchionne.   

Un’altra prospettiva con cui possiamo leggere la possibile operazione PartnerRe-Covea riguarda la riorganizzazione del settore assicurativo nel mondo. Un settore tradizionale, oggi chiamato a far fronte a nuovi rischi e a nuove emergenze, soprattutto in riferimento agli eventi estremi climatici e a nuovi comportamenti dei clienti, per l’influenza della sharing economy e della trasformazione digitale. Per l’Italia il punto di caduta di questo processo riguarda, anzitutto, le conseguenze su Generali, azienda decisiva per il debito pubblico italiano. Generali resta più piccola di altre realtà europee come la tedesca Allianz e la francese AXA, e con una compagine societaria instabile, nonostante il ruolo sempre più rilevante, direttamente e attraverso Mediobanca, dell’altro attore italiano protagonista di una grande operazione coi francesi, Leonardo Del Vecchio, che ha 41 anni più di John Elkann. Un timore mai sopito, espresso a suo tempo tra gli altri da Vincenzo Maranghi, è che AXA prenda il controllo del Leone di Trieste, togliendo all’Italia uno degli ultimi centri di controllo del capitalismo rimasti. Anche in questo senso, sarà interessante capire se Elkann vorrà continuare a puntare sul settore assicurativo.

 

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Immagine di copertina: John Elkann al Gran Premio d’Italia dell’F1 World Championship 2018, Monza (2 settembre 2018). Crediti: cristiano barni / Shutterstock.com

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Huawei e Gran Bretagna: una special relationship

“Special relationship”, l’espressione che in genere descrive i legami tra Stati Uniti e Regno Unito, può essere utilizzata anche per rappresentare i rapporti tra Londra e Huawei. Nell’ascesa globale dell’azienda di telecomunicazioni cinese, la collaborazione sulla rete britannica con BT (British Telecom) è stata una vera e propria pietra miliare. Le due “relazioni speciali” si sono ampiamente scontrate, e continueranno a farlo, nelle decisioni del governo britannico sul 5G, in cui all’azienda di Shenzhen è stato vietato di fornire componenti delle parti più sensibili e di superare il 35% delle forniture, evitando un divieto onnicomprensivo. La scelta, che si è protratta per mesi, è stata tecnica solo fino a un certo punto, perché ha sempre avuto una dimensione politica. Chiave di lettura più volte ribadita dal segretario di Stato Mike Pompeo il quale, in visita a Londra a fine gennaio, ha definito il Partito comunista cinese «la minaccia fondamentale del nostro tempo».     

Una prospettiva del rapporto tra Huawei e il Regno Unito non schiacciata sulla cronaca può essere fornita attraverso il percorso e le proposte di due persone: John Suffolk e Vittorio Colao.

Pochi conoscono Suffolk, figura cruciale nell’ascesa di Huawei dell’ultimo decennio. Oggi è senior vice-president di Huawei, con la responsabilità di supervisionare la cybersicurezza e la privacy per l’azienda a livello globale. Il suo ingresso nel colosso di Shenzhen, con una funzione creata per l’occasione, è giunto dopo una lunga esperienza in Gran Bretagna, culminata nel ruolo di chief information officer per il governo sotto tre diversi primi ministri (Blair, Brown, Cameron). Suffolk ha lasciato il suo incarico pubblico a fine 2010 e nel corso del 2011 è stato autorizzato dal governo, ai sensi delle regole del servizio civile britannico, a prendere servizio presso Huawei. È Suffolk a prendersi la responsabilità di confronti, talvolta aspri, con i rappresentanti politici, in particolare negli Stati Uniti e nella sua Gran Bretagna, dovendo rispondere a domande sulle politiche del Partito comunista cinese. Suffolk ha affermato: «Probabilmente siamo la società al mondo più controllata, ispezionata, analizzata, colpita e punzecchiata». Alla fine del mandato di Suffolk nel governo britannico, e alla sua presenza, avviene l’apertura del Cyber Security Evaluation Centre, di cui a novembre ricorrerà il decennale. È un passo che avviene su impulso di apparati di intelligence notoriamente esperti (Government Communications Headquarters) e che prevede un rapporto costante con Huawei per monitorare le vulnerabilità del sistema. Il centro interagisce anche con il National Cyber Security Centre (NCSC), attivo dal 2016 ed erede di precedenti istituzioni informatiche e crittografiche.

Possiamo leggere l’esperienza britannica di Huawei anche attraverso un’altra figura, quella di Vittorio Colao, manager italiano alla guida di Vodafone dal 2008 al 2018. Dal suo osservatorio d’impresa, Colao ha potuto vedere da vicino l’ascesa di Huawei nel Regno Unito. In un intervento di un anno fa sul Corriere della sera ha posto alcune delle questioni su cui si sta orientando anche la comunità europea. Il manager ha invitato a distinguere tra lo spionaggio e la vulnerabilità, puntando l’attenzione sulla vulnerabilità futura dei Paesi che sono privi di centri di produzione di tecnologie chiave e che rischiano di essere dipendenti da valutazioni altrui: di Pechino o di Washington. Nel mezzo della “corsa alla sicurezza nazionale” nella tecnologia, generata dall’ascesa cinese e dalle politiche statunitensi verso gli alleati, l’approccio britannico fornisce un’esperienza decennale, che ha anticipato gli strattoni dell’ultimo anno e mezzo. Alla luce di quell’esperienza, Colao propone di far nascere centri di valutazione sulla cybersicurezza simili a quelli presenti nel Regno Unito in tutti i Paesi europei, creando potenzialmente migliaia di posti di lavoro e una nuova comunità scientifica e di ricerca, per ispezionare e contrattaccare. Si tratterebbe di un importante passo avanti per alcuni Paesi, seppur all’interno di una soluzione tecnica, che non può sciogliere da sola le scelte di “appartenenza” politica sugli schieramenti in campo.   

 

Immagine: Store di Apple Huawei e Samsung a Chengdu, Cina (4 febbraio 2019). Crediti: B.Zhou / Shutterstock.com

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L’Iran e il potere delle sanzioni

La guerra delle sanzioni è una chiave per leggere il conflitto tra l’Iran e gli Stati Uniti. Tra quelli impiegati da Washington, si tratta dello strumento che resta e con ogni probabilità resterà quello prevalente. Anche perché l’apparato sanzionatorio degli Stati Uniti è una cosa seria. Rappresenta uno dei più importanti usi politici dell’economia dell’era contemporanea. L’esclusione dall’uso del dollaro è infatti una minaccia enorme, che può mettere in crisi buona parte degli attori finanziari al mondo.

È essenziale comprendere che le sanzioni statunitensi all’Iran non hanno mera natura bilaterale: ogni attore economico che commercia con l’Iran può inciamparvi, per malafede o per disattenzione. I casi sono numerosi, e spesso hanno coinvolto anche altri Paesi sotto sanzioni (come Sudan, Cuba, Libia), soprattutto per le istituzioni finanziarie. Per esempio, nel 2015 la banca francese BNP Paribas, all’interno di una multa monstre di quasi 9 miliardi di dollari del dipartimento della Giustizia statunitense relativa soprattutto ad affari in Sudan, è stata punita anche per oltre 650 milioni di transazioni con entità iraniane, tra cui una compagnia petrolifera di Dubai che rappresentava in realtà un’azienda iraniana. La tedesca Commerzbank, sempre nel 2015, ha accettato di pagare alle autorità statunitensi 1,45 miliardi di dollari, sempre per violazioni relative a Iran e Sudan. È importante ricordare che anche la fase del “caso Huawei” che ha portato all’arresto di Meng Wanzhou nel dicembre 2018 in Canada nasce da una vicenda legata all’Iran: l’accusa degli Stati Uniti al gigante delle telecomunicazioni cinese è di aver costruito una sussidiaria-ombra (Skycom Tech), radicata a Hong Kong, per fare affari con Teheran, compresa la vendita di tecnologia statunitense.

Teheran si trova da 40 anni sotto vari regimi sanzionatori, che sono stati accresciuti nel 1995, in particolare attraverso lo Iran and Libya Sanctions Act, e poi rafforzati 10 anni più tardi per le azioni sull’arricchimento dell’uranio, al fine di colpire le istituzioni finanziarie. Le disposizioni specifiche sull’Iran sono state presidiate dall’enorme apparato che dopo l’11 settembre il dipartimento del Tesoro ha organizzato per colpire le disponibilità finanziarie degli attori che finanziano il terrorismo. Così, a ogni avvicinamento e irrigidimento delle relazioni tra Stati Uniti e Iran si accompagnano annunci o aspettative sul regime sanzionatorio. L’eredità di questa lunga storia è l’interminabile sezione “Iran Sanctions” del sito del dipartimento del Tesoro, che riporta i venticinque ordini esecutivi (da Carter il 14 novembre 1979 a Trump il 20 gennaio 2020) che hanno imposto specifiche restrizioni commerciali, oltre alle altre norme rilevanti e alle liste delle persone e delle istituzioni coinvolte.

La pressione delle sanzioni si confronta con la volontà dei governi di resistervi e di trovare scappatoie, oltre che con problemi nuovi. All’indomani del Joint Comprehensive Plan of Action, gli europei hanno manifestato preoccupazione sulle conseguenze dell’apparato sanzionatorio americano, parlando di una “overcompliance”, la difficoltà ad adeguarsi alle regole che rende di fatto impossibili gli affari. Lo strumento Instex, nato per facilitare gli scambi commerciali tra aziende europee e iraniane senza ricorrere a transazioni finanziarie, non è mai decollato. La separazione tra commercio e finanza, e la creazione di sistemi paralleli, è sempre un cammino difficile, che richiede grande capacità tecnica e fiducia reciproca.  Un altro problema emerso di recente, e di cui sentiremo parlare molto in futuro, riguarda la posizione delle piattaforme on-line davanti alle sanzioni, per esempio nei finanziamenti di campagne di pubblicità su Instagram che si richiamano a individui o a gruppi sottoposti ai divieti americani. A partire dallo stesso Corpo delle guardie della rivoluzione islamica.

In sintesi, le sanzioni affermano un (importante) potere. Presidiano un confine che diventa “duro” soprattutto nei momenti in cui si accendono i conflitti. Eppure, anche alle sanzioni più pesanti è possibile resistere. I mancati ricavi di 200 miliardi di dollari – stimati dallo stesso presidente Rohani – derivati dalle sanzioni degli Stati Uniti, non hanno dato il colpo definitivo all’Iran, sia per l’abitudine a vivere sotto sanzioni (e dunque ad aggirarne alcune) che per rapporti commerciali informali con altri Paesi. Anche se non danno un contributo decisivo per cambiare i regimi politici, le sanzioni costituiscono un armamentario molto potente, che potrà essere decisivo per comprare tempo nell’arco di conflitti prolungati. Oltre che per ostacolare chi, volente o nolente, continuerà a inciamparvi.   

 

Immagine: Dollaro statunitense e rial iraniano. Crediti: Mc_Cloud / Shutterstock.com

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Il dibattito sugli Stati imprenditori

Le parole del ministro dello Sviluppo economico italiano sul possibile ritorno dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), pronunciate in un’audizione di novembre al Senato, hanno suscitato un ampio dibattito sull’attualità e l’opportunità degli investimenti industriali degli Stati. È una discussione che ha preso vigore dopo la crisi avviata nel 2007-08, anche in merito al ruolo dei fondi sovrani, i fondi di investimento posseduti direttamente da Stati, che effettuano investimenti in società quotate e non. Per esempio, in un confronto sui fondi sovrani presso la Fondazione Corriere della sera nel 2008, l’allora presidente dell’ENI Roberto Poli rimarcava l’attualità dell’esperienza italiana dell’economia mista per comprendere le nuove tendenze della finanza internazionale.

Nel mondo operano diversi “Stati imprenditori”, secondo due principali accezioni: controllo e partecipazioni dello Stato in imprese (anche attraverso società a maggioranza pubblica volte a promuovere investimenti e ad acquisire imprese); investimenti statali per sostenere settori dell’economia nazionale, in particolare nella tecnologia.

Nella seconda accezione, spicca il ruolo degli Stati Uniti. Il successo del libro di Mariana Mazzucato sullo Stato innovatore (titolo originale: The entrepreneurial State) è legato anche e soprattutto alla sua analisi degli Stati Uniti. L’economista italo-statunitense, basandosi anche sugli studi di Fred Block, cita numerosi casi di supporto statale alle innovazioni negli Stati Uniti. Il supporto pubblico alle imprese della difesa, se consideriamo l’estensione dell’apparato militare degli Stati Uniti, è una realtà soverchiante del mondo in cui viviamo, il mondo erede della seconda guerra mondiale. Il “capitalismo del Pentagono”, già studiato da Seymour Melman, è diventato un complesso militare-industriale-tecnologico sempre più esteso. Settori strategici, come lo spazio, non possono esistere senza un forte investimento statale. Sulla Luna o su Marte non ci va certo “il mercato”. Da un lato, il mercato per andare su Marte deve conformarsi a un ordine giuridico-economico fatto di procedure autorizzative e di sicurezza molto complesse. Dall’altro lato, se Elon Musk con la sua SpaceX può fornire alcuni servizi per lo spazio a un certo prezzo a clienti esteri, può farlo anche per via dei contratti che ha con gli attori statali degli Stati Uniti. Lo “Stato imprenditore” di Washington riguarda anche altri settori, che coinvolgono l’economia verde e le scienze della vita, ma il ruolo del nesso difesa-sicurezza-tecnologia rimane determinante.   

Sul caso cinese dello Stato imprenditore/Partito imprenditore si potrebbe discutere a lungo, per la sua complessità. Il Partito comunista cinese governa una società organica in cui tutti gli aspetti – politici, economici, sociali e culturali – sono sottoposti ad un controllo verticale. Un controllo rafforzato, non indebolito, dallo sviluppo tecnologico. Tutto questo avviene anche attraverso elementi e conflitti di mercato: nella tensione tra grandi imprese, per esempio tra Alibaba e Tencent, ma anche nell’intensa competizione tra territori, province, municipalità e tra imprese ad esse legate. In questo scenario sono avvenute importanti privatizzazioni che hanno portato all’aumento del peso dei mercati finanziari. Tutto ciò non va però ad intaccare in nessun modo il controllo del Partito, e il suo monopolio assoluto della forza.

In ambito europeo, lo Stato imprenditore per eccellenza è la Francia. Questo deriva da tre principali fattori: la vicenda di lungo corso della costruzione dello Stato francese attraverso corpi che prevedono una forte relazione tra pubblico e privato, tra le imprese e lo Stato; il ruolo militare della Francia, che è ben superiore rispetto a quello degli altri Paesi europei; il modo con cui la Francia ha razionalizzato i suoi strumenti di partecipazione nelle imprese, senza mai superarli. La nascita di Bpifrance nel 2012 risponde a questa logica. Essa è una joint venture di due entità pubbliche francesi: la Caisse des dépôts et consignations (CDC), posseduta al 100% dallo Stato francese, e l’agenzia EPIC BPI-Groupe, sempre posseduta al 100% dallo Stato francese. Questa nuova forma ha consentito alla Francia di operare con maggiore attenzione allo scopo di “servire l’avvenire” (come recita il motto di Bpifrance), ovvero accompagnare le imprese nella loro crescita attraverso finanziamenti e investimenti, investendo allo stesso tempo come fondo sovrano in imprese medie e grandi (comprese PSA e Orange) e identificando obiettivi ambiziosi tra cui la rinascita dell’industria nazionale, il rafforzamento delle filiere, l’attuazione di piani come quello relativo al deep tech.

Gli Stati imprenditori che abbiamo passato in rassegna rapidamente riguardano senz’altro l’Italia. Lo Stato imprenditore francese interagisce con le nostre aziende, spesso acquisendole. L’economia italiana si trova inoltre in mezzo alla tensione in aumento tra il capitalismo del Pentagono e il crescente protagonismo cinese. In ogni caso, “piani” e “programmi” economici fanno pienamente parte della realtà internazionale. La differenza sta sempre nel modo con cui vengono attuati.

 

Immagine: La tecnologia big data esposta nella Smart China Expo (27 agosto 2019). Crediti: helloabc / Shutterstock.com

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TikTok nella guerra digitale USA-Cina

TikTok è un social network sempre più diffuso tra i giovanissimi, assurto di recente alle cronache politiche per la diffusione capillare della parodia “Io sono Giorgia”, ispirata da Giorgia Meloni. È dunque possibile unire i punti tra il climax “sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana” e l’acceso conflitto tra Stati Uniti e Cina nell’ambito digitale, su numerosi piani. Vediamo come. 

Anzitutto, TikTok conta per i suoi numeri e per i suoi dati di crescita. Secondo FT Confidential Research, ha raggiunto il miliardo di utenti più velocemente di qualunque altra app di social media, con una impressionante curva di crescita rispetto alla sua nascita, appena 3 anni fa. Già nel 2018 queste prospettive hanno portato la società cinese che possiede TikTok, ByteDance, a una valutazione di 75 miliardi di dollari.

Oltre ai numeri, conta la capacità di penetrazione del mercato occidentale realizzata da Zhang Yiming, geniale fondatore di ByteDance. Con l’aumento della tensione tra Pechino e Washington, i giganti digitali americani e cinesi si organizzano sempre più secondo una divisione del lavoro internazionale. Il mercato cinese, come avviene nel caso Huawei, si rinserra a sostegno delle imprese nazionali. I giganti americani preparano la loro negoziazione con gli apparati politici e burocratici, temono l’antitrust, si americanizzano anche per ragioni di marketing, consci che il loro governo terrà i cinesi fuori. Zhang Yiming non rispetta questa divisione dei mercati: è un sarto che ha costruito un vestito con caratteristiche cinesi (la app Douyin) che risponde al volere del Partito comunista cinese e un vestito per i mercati occidentali, apprezzato dagli utenti. La potenza di questo approccio e le sue possibilità di imitazione rappresentano di per sé un pericolo per gli Stati Uniti.    

Washington ritiene che siccome ByteDance deve operare in Cina secondo le regole di Pechino garantisce il loro rispetto filtrando i contenuti politici sensibili di TikTok all’estero. L’ultima edizione del corposo rapporto al Congresso della U.S.-China Economic and Security Commission riprende l’accusa di censura sulle proteste di Hong Kong, che TikTok nega, e riporta con preoccupazione il successo della app.

Perché nel Congresso degli Stati Uniti si agita la paura di una app che tiene incollati allo schermo i ragazzini, un video dopo l’altro? Perché i numeri della sua crescita, e della sua penetrazione, si legano a un altro numero essenziale, ripreso anche dal blog Lawfare. Si tratta del numero degli americani che lavorano per il governo e che sono dotati di accesso a documenti classificati (security clearance), stimato in oltre 2,8 milioni. La diffusione della segretezza rende la profilazione dei dati dei cittadini americani un rischio, indiretto e diretto, per la sicurezza nazionale. Su questa base, gli apparati militari, di sicurezza e di intelligence degli Stati Uniti vogliono limitare al massimo la penetrazione del loro avversario strategico negli affari più sensibili degli americani (come le preferenze sessuali o i video geolocalizzati girati in casa per divertirsi).

Così TikTok è diventato un oggetto del geodiritto, della guerra giuridica che gli Stati Uniti combattono con la Cina attraverso gli strumenti di controllo degli investimenti per la sicurezza nazionale. Il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), il Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, polo della “geopolitica della protezione”, nel 2019 ha bloccato due acquisizioni cinesi legate ai dati, PatientsLikeMe e Grindr. Sulla base dell’acquisizione della app Musical.ly nel 2017 da parte di ByteDance e della presenza di server negli Stati Uniti, il CFIUS può indagare TikTok, che si prepara alla difesa («non siamo controllati dal Partito comunista cinese, siamo americani, nomineremo una commissione indipendente») sotto la guida della general manager negli Stati Uniti Vanessa Pappas, proveniente da YouTube.

Quello americano non è per TikTok l’unico fronte caldo. Un Paese cruciale è l’India, con più di 120 milioni di utenti e una penetrazione passata per diversi contenziosi legali, anche sui contenuti pornografici. Cosa accadrà in futuro? Gli americani faranno di tutto per indebolire ByteDance, per salvaguardare i loro dati e il loro primato. Come risponderanno i cinesi? Se un giorno la capacità tecnologica cinese crescerà ancora, Pechino potrebbe cercare di aggirare la nuova “paura rossa” degli Stati Uniti usando come basi altri Paesi, per esempio africani. Allo scopo di creare campioni tecnologici ombra con cui conquistare i dati occidentali, perfezionando la strategia di Zhang Yiming. Nel mentre, noi ci divertiremo a cantare “io sono Giorgia”.

 

Crediti immagine: Ascannio / Shutterstock.com

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I risvolti dell’accordo tra FIAT e Peugeot

Il comunicato congiunto di PSA (Peugeot Société des Automobiles) Groupe e FCA del 31 ottobre sulla creazione di un nuovo gruppo automobilistico reca la doppia sede di Rueil-Malmaison e Londra. L’Italia compare nel richiamo a Piazza Affari (uno dei luoghi della quotazione della nuova capogruppo, con Parigi e New York) e alla sede operativa centrale italiana, che si affianca a Francia e Stati Uniti, e su cui vale il vago “mantenere una importante presenza”.

Serve a poco sorprendersi del ridimensionamento del peso dell’Italia all’interno di FCA. È un punto mostrato con chiarezza dai migliori osservatori della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, tra cui Giuseppe Berta e Paolo Bricco. Già nell’ultimo periodo dell’era Marchionne, l’azionista Exor aveva diversificato rispetto alla produzione di automobili, in particolare col gruppo riassicurativo PartnerRe, e aveva cercato un’altra alleanza internazionale dopo Chrysler. L’accordo con Peugeot, dopo il fallimento su Renault,  presenta sinergie industriali e complementarietà sui mercati di riferimento, ancorando nel medio termine Exor al mercato dell’auto. Vi sono elementi positivi nel possibile matrimonio, che si inserisce in una lunga storia di accordi e relazioni tra Peugeot e FIAT in altre ere (geologiche) dell’automobile. Restano alcuni aspetti problematici.

Il Gruppo Exor nel 2019 affronta un doppio passaggio, ricordato nella lettera agli azionisti del 2018 da John Elkann: 10 anni dalla sua costituzione (con la fusione per incorporazione di IFIL nell’IFI); 120 anni dall’inizio dell’avventura imprenditoriale della famiglia Agnelli. Elkann, in quello stesso contesto, dà appuntamento agli investitori il 21 novembre a Torino, dove tutto è cominciato. In realtà, Torino e l’Italia contano poco nella geografia attuale di Exor e rischiano di contare ancora meno in futuro. Per scelte cruciali, come le decisioni sulle sedi societarie, avvenute senza una vera riflessione nel nostro Paese. Per un disimpegno, nei fatti, della famiglia, le cui iniziative, come il fondo venture Exor Seeds, rimarcano la diversificazione geografica. Per la logica di scorporo e vendita sull’alta tecnologia perseguita, che ha interessato Magneti Marelli e che caratterizzerà il gigante dell’automazione industriale e robotica Comau. Per una disconnessione tra il gruppo e le scelte istituzionali italiane, come si è visto già un anno fa su ibrido ed elettrico. E soprattutto, per la scarsa percezione dell’enormità delle questioni che attraversano il mercato dell’auto.

La sete di capitali per gli investimenti tecnologici sulla nuova mobilità è impressionante. A fronte di ciò, l’espressione presente nel comunicato congiunto di PSA e FCA («Sinergie annuali a breve termine stimate in circa 3,7 miliardi di euro, senza chiusure di stabilimenti») svela i suoi limiti. L’intensità tecnologica del settore, oltre a segnalare il principale ritardo accumulato da FCA in questi anni, pone incognite sulla capacità produttiva e sulle sfide di efficienza in cui il CEO del nuovo gruppo, Carlos Tavares, sarà impegnato. Queste incognite toccheranno l’Italia: le istituzioni e i lavoratori devono averne contezza per potervi giocare un ruolo. Allo stesso tempo, gli italiani devono comprendere che affrontare queste sfide da soli, senza alleanze funzionanti, era ed è comunque impossibile. E che, come sopra ricordato, i passaggi di Exor fuori dal fulcro italiano sono già avvenuti.   

Anche in questa operazione, lo specchio francese rimpicciolisce l’Italia. Il Memorandum of Understanding tra PSA e FCA dovrà prevedere i vari passaggi regolatori, tra cui anche quello negli Stati Uniti, mercato essenziale di FCA e luogo di scrutinio sui cinesi Dongfeng, azionisti del nuovo gruppo con Exor, la famiglia Peugeot e lo Stato francese (attraverso Bpifrance Participations).

Quali carte restano all’Italia? In primo luogo, serve un presidio coerente su industria e innovazione (il 18 ottobre 2019 si è riunito presso il MISE il tavolo sull’automotive e il 24 ottobre 2013 si era insediata, sempre al MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), la Consulta permanente dell’automotive). È sempre più urgente una visione coerente delle trasformazioni del settore dell’auto, condivisa dalle forze politiche e in grado di evitare danni alla capacità industriale italiana ed europea. Danni che possono venire anche dal favorire inconsapevolmente gli altri, presi dall’entusiasmo del nuovo. Per giocare sul tavolo europeo, occorre presidiare al meglio le iniziative in atto, sulla catena del valore delle batterie, sugli ambiti strategici di intervento sul futuro dell’industria.      

La filiera italiana dell’automotive, secondo uno studio di Cassa depositi e pestiti, Sace Simest e Anfia, vale 93 miliardi di fatturato, 250.000 occupati e il 5,6% del PIL. Le 5.700 imprese che la compongono, soprattutto le più piccole, saranno sotto pressione nel prossimo futuro. Per queste aziende, consolidamento e crescita dimensionale sono fondamentali. Su questo punto specifico, l’Italia potrebbe imparare dalla Francia. Non da una partecipazione pubblica – impossibile e illusoria – nel nuovo gruppo, ma dal modo con cui la mobilità è considerata nel Piano strategico 2018-23 di Bpi France, che dispone tra l’altro di un fondo specifico (Fonds Avenire Automobile) per intervenire nella filiera.

 

Immagine: FCA, lo storico impianto di Mirafiori, Torino, Piemonte (11 luglio 2019). Crediti: MAURO UJETTO / Shutterstock.com

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La lotta geopolitica del quantum computing

Il 20 settembre il Financial Times, in un articolo già molto pubblicizzato e commentato, ha annunciato un traguardo raggiunto da Google: la cosiddetta “supremazia quantistica”. In sintesi, un computer quantistico di Google dovrebbe aver compiuto in 3 minuti e 20 secondi un calcolo per cui i computer tradizionali più avanzati impiegherebbero circa 10.000 anni. Premettiamo che il passo compiuto da Google deve essere ancora verificato bene, nella sua concretezza e nelle sue implicazioni, per non trarvi indicazioni premature. Come ha ricordato Raffaele Mauro nel libro che rappresenta la migliore guida italiana a questi temi, Quantum Computing di Tag Books, di computer quantistici (basati su qubit invece che su bit) si parla fino dagli anni Settanta, anche se proprio in tempi più recenti si cominciano a cogliere le loro potenzialità. Non solo grazie a start up promettenti, come Rigetti Computing, ma anche e soprattutto grazie agli investimenti degli Stati Uniti, della Cina e dei giganti dell’impresa digitale.

In questi termini, la corsa quantistica si interseca con la geopolitica della tecnologia. Nessuna tecnologia è neutra. È sempre posseduta da qualcuno, con diversi gradi di accesso degli altri, con diverse possibilità di influenza, e pertanto con implicazioni sui rapporti di potere. La corsa alle capacità quantistiche, in questo senso, si interseca con processi che segnano la nostra epoca: gli investimenti cinesi sui conglomerati tecnologici, sull’ecosistema dell’innovazione e sulle infrastrutture spaziali; la reazione degli Stati Uniti attraverso gli strumenti di geodiritto, l’allargamento del dominio della sicurezza, il rapporto con i giganti digitali americani.

In questo scenario, sono presenti aspetti diversi, che coinvolgono direttamente la lotta tra Pechino e Washington. Nonostante alcune iniziative di cui andrà verificata l’attuazione, come Quantum Technologies Flagship, come al solito non sembra che entità europee possano giocare un ruolo di primo piano in questa partita.

Nel 2016 la Cina ha lanciato il primo satellite quantistico, che prende il nome dal filosofo Mozi (Micius) del periodo degli Stati combattenti. Il satellite, annunciato come «primo passo per una rete internet quantistica globale», ha permesso tra l’altro di organizzare videoconferenze e trasmissioni crittografate. Gli investimenti sul quantum computing sono da tempo una priorità del Partito comunista cinese e sono citati, tra l’altro, nel tredicesimo piano quinquennale del 2016. I protagonisti della crescita tecnologica cinese, anzitutto Alibaba e Tencent, ma anche Baidu e Huawei, hanno annunciato iniziative e laboratori per recuperare il divario con gli Stati Uniti. Il simbolo dell’accelerazione quantistica cinese è il fisico Pan Jianwei, la “tartaruga marina” (così i cinesi chiamano gli scienziati tornati dall’estero in patria) giunto dall’Austria quasi vent’anni fa per alimentare questa ondata.

Gli avanzamenti cinesi sono reali, ma vengono sovente esagerati negli Stati Uniti. Questa nuova “paura rossa” non nasce per caso, ma per aumentare i fondi e la capacità di fuoco del sistema americano. Un sistema di cui le aziende come Google sono parte, anche per il rapporto con la NASA che ha caratterizzato il possibile traguardo pubblicizzato dal Financial Times. Il quantum computing sta ricevendo maggiore attenzione anche nello spettro politico: per esempio, il candidato democratico Andrew Yang ha inserito il tema tra le sue proposte programmatiche. Anche se non è competitivo, altri candidati più solidi potrebbero seguire il suo esempio. Nel sistema americano, quello che conta di più in questi ambiti a cavallo tra l’industria e la tecnologia è sempre l’attenzione degli apparati, del Pentagono e delle agenzie di informazione e sicurezza. Da questo punto di vista, è significativo che il general counsel della National Security Agency, Glenn Gerstell, sia intervenuto sul New York Times il 10 settembre con un lungo articolo programmatico. Gerstell, oltre a battere cassa con il governo, ha scritto: «è vero che nessuno ha ancora costruito un computer quantistico funzionante. Ma sembra più probabile che prima della metà di questo secolo la Cina o gli Stati Uniti lo faranno, con straordinari vantaggi per la nazione che arriverà prima».

Anche per questo, capire la solidità e le implicazioni del passo compiuto da Google (o dei prossimi passi che verranno) sarà importante per decifrare i prossimi passaggi della geopolitica della tecnologia. 

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Le indagini americane sui giganti digitali

Il 23 luglio il dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato formalmente un’indagine della divisione antitrust sul potere di mercato delle principali piattaforme digitali e sulle pratiche che possono aver ridotto la competizione, frenato l’innovazione o danneggiato i consumatori. Il giorno dopo, il 24 luglio, è stato reso pubblico l’accordo tra Facebook e la Federal Trade Commission degli Stati Uniti: l’azienda di Mark Zuckerberg pagherà la più grande multa di tutti i tempi per violazione della privacy, 5 miliardi di dollari. Dovrà inoltre adeguare le sue normative sulla privacy per dare maggiori poteri all’agenzia americana, anche attraverso un monitoraggio periodico fornito dallo stesso Zuckerberg. Un’attenzione che non bisogna sottovalutare, perché il governo americano sa essere molto attento nelle sue prescrizioni.  

Questi eventi si collocano all’interno di una più generale crescita di consapevolezza del ruolo geopolitico della tecnologia, soprattutto nello specchio della competizione tra Stati Uniti e Cina, in cui, come già visto in precedenza, la sfida di Huawei è affrontata attraverso una serie di azioni legali e con il rafforzamento degli strumenti di controllo e di esclusione sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Apparati politici e giganti tecnologici soffrono entrambi di una riduzione della fiducia dal basso. Da un lato, e non è una novità, le persone non si fidano dei politici, non si fidano del modo in cui funzionano Washington, Bruxelles, Roma, e cercano chi propone di cambiare le cose, per poi passare al successivo tentativo di cambiamento, e così via. Dall’altro lato, è in crisi la stessa fonte di legittimazione pubblica dei servizi digitali, una volta ammantata da un alone di buonismo propagandistico (il motto “Don’t be evil” di Google, il mito della connessione universale di Zuckerberg) e ormai apertamente messa in questione, sia per l’operato finanziario di queste aziende che per il loro impatto sull’occupazione.

Allo stesso tempo i grandi attori digitali americani, al di là delle ipocrisie, fanno già politica a tutto tondo: per il loro potere nella vita delle persone, per i loro ingenti finanziamenti alla politica, per le loro connessioni con il governo americano che riguardano anche, per esempio, i contratti con gli apparati militari e i servizi di sicurezza. In questo scenario complesso, si è inserita una nuova attenzione nel dibattito delle idee degli Stati Uniti per il ruolo dell’antitrust: la sua pietra miliare può essere considerato l’articolo del 2017 di una studentessa dell’Università di Yale, Lina Khan, dedicato al potere di Amazon, al suo controllo di infrastrutture critiche del mondo digitale. Quest’anno, il reclutamento della stessa Lina Khan come consulente del sottocomitato antitrust e diritto commerciale e amministrativo della Camera dei rappresentanti ha segnalato un crescente interesse per questi temi soprattutto da parte democratica, che potrà avere un’eco ulteriore nel dibattito delle primarie.

Oltre la definizione filosofica, economica e giuridica dell’antitrust in una nuova era, rimane centrale il tema del conflitto tra gli Stati Uniti e la Cina. La migliore illustrazione di questa centralità viene dalla strategia con cui Facebook si difende dall’attenzione del governo e tende a giustificare tutti i suoi progetti, compresa la valuta digitale Libra. La strategia è: “O noi o i cinesi”. O noi innoviamo per conto nostro, o lo faranno i cinesi. O noi gestiamo la moneta elettronica, o arriverà la moneta dei cinesi. I principali dirigenti di Facebook, dallo stesso Mark Zuckerberg, alla direttrice operativa Sheryl Sandberg, fino all’ex vicepremier britannico Nick Clegg (assunto dall’azienda meno di un anno fa), usano tutti quest’argomento, rapportandosi al governo americano, e quindi evidenziando sempre di più il loro carattere “nazionale” per non incorrere nelle tagliole dei controlli e delle regole.  

 

Immagine: Mark Zuckerberg (24 maggio 2018). Crediti: Frederic Legrand - COMEO / Shutterstock.com

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FCA-Renault, tra capitalismo italiano e francese

Le trattative sulla fusione tra FIAT Chrysler Automobiles e Renault e il ritiro della proposta da parte di FCA per «le condizioni politiche» in Francia hanno riportato all’attenzione, oltre allo scenario generale del mercato dell’auto tra consolidamento e trasformazioni tecnologiche, i rapporti economici e geopolitici tra Italia e Francia.

Sono numerosi gli incroci, gli affari e i dissidi che legano i due Paesi, in una lunga storia di diffidenze e di compartecipazioni. Basti citare i contrasti con la Francia di Enrico Mattei e i rapporti tra Mediobanca e Lazard. La Francia è il Paese europeo che ha “inventato” e che pratica di più il cosiddetto sovranismo, soprattutto nell’ambito economico. L’Agenzia di partecipazioni dello Stato definisce quote e obiettivi dello “Stato azionista”, tra le cui partecipazioni vi è la stessa Renault. L’amministrazione è garantita con continuità dall’alta burocrazia francese pubblica e privata, nel cui ambito è stato peraltro elaborato, da Bernard Esambert, il concetto contemporaneo di “guerra economica”. La capacità militare sancisce l’estensione dello Stato francese, e accompagna spesso i suoi eccessi, oltre a un’assertività alla quale non corrisponde una capacità negoziale in Europa paragonabile a quella tedesca.

In ogni caso, la Francia è una potenza finanziaria di altro tenore rispetto all’Italia, in particolare per la capacità di usare le banche d’affari per promuovere la crescita dimensionale di grandi gruppi, come mostrato dal sostegno determinante di Antoine Bernheim (Lazard) al gigante del lusso di Bernard Arnault, LVMH.

Molti sono i fronti aperti tra Italia e Francia. Basti pensare alla vicenda Fincantieri. I rapporti bilaterali, ben più che con la problematica “campagna d’Italia” di Vincent Bolloré, sono cresciuti d’intensità con l’attivismo dei due maggiori azionisti di Generali dopo Mediobanca, Caltagirone e Delvecchio. Il primo è presente tra l’altro nel gigante di acqua e rifiuti Suez, anch’esso controllato dallo Stato francese. Il secondo, già attivo nell’immobiliare francese, alla prova della complessa integrazione con Essilor. 

In sintesi brutale, al ruolo elefantiaco dello Stato in Francia corrisponde l’impronta delle famiglie italiane, spesso in cerca d’autore, come accade nelle vicende attuali del gruppo controllato da John Elkann. Le medie imprese, punto di forza del nostro sistema rispetto alla Francia, non hanno un vero protagonismo politico, mentre l’Italia non ha affrontato due grandi questioni: la saldatura tra il risparmio e l’investimento e la necessità di sostenere e promuovere quell’alta tecnologia che è ancora un punto di forza del Paese nonostante gli scarsi investimenti, tanto pubblici quanto privati.

Lo Stato in Francia pensa “napoleonicamente”, al di là di ogni riverniciatura di comodo di Macron. L’Italia, invece di pensare “strategicamente”, oscilla tra la richiesta di confusi interventi tampone, per cui pare che la Cassa depositi e prestiti debba giungere a qualunque capezzale, e l’appiattimento dell’interesse nazionale sulle contingenze politiche. Eppure, l’interesse nazionale vive solo di coesione, consapevolezza geopolitica, continuità, capacità negoziale, chiarezza su tutti gli attori. Tutti elementi che sarebbero utili per comprendere il futuro incerto del gruppo FCA, che con Magneti Marelli (già finita ai giapponesi) e Comau (gigante della robotica) vanta punte di eccellenza tecnologica, oltre che nella componentistica e nell’indotto. Un approccio più maturo sarebbe necessario anche per i prossimi passaggi che attendono gli incroci tra Francia e Italia: oltre al settore bancario, gli assetti delle Generali e il ruolo di Leonardo nel contesto europeo, soprattutto dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione.  

 

Immagine: Deposito di nuove auto FCA da esportare, Torino, Italia (gennaio 2019). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

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Huawei e la guerra tecnologica USA-Cina

Nelle tensioni su commercio e tecnologia tra Stati Uniti e Cina, un’azienda ha acquisito un ruolo di primo piano: Huawei. Huawei è stata fondata nel 1987 da Ren Zhengfei, dopo una carriera nell’Esercito popolare di liberazione. Secondo gli Stati Uniti, la crescita dell’azienda cinese nei mercati della telefonia mobile e delle apparecchiature informatiche si alimenta dei rapporti stretti con il Partito comunista cinese e coi suoi apparati militari. Rapporti che Huawei (non quotata e controllata dai dipendenti) ha sempre negato.  

È semplicistico credere che il conflitto con la Cina sia “merito” o “colpa” di Donald Trump. L’attenzione delle autorità americane su Huawei ha invece una lunga storia. Nel 2012 la Camera dei rappresentanti pubblica un rapporto sui problemi di sicurezza nazionale posti da Huawei e ZTE (azienda di telecomunicazioni quotata, controllata dal governo cinese). Secondo il rapporto, Huawei e ZTE pongono una minaccia di sicurezza nazionale agli Stati Uniti e ai suoi sistemi, rendendoli vulnerabili all’influenza cinese. Il rapporto raccomanda alle imprese americane di limitare al massimo i rapporti con le due aziende.

Vi sono però tre aspetti che incidono sull’escalation del 2018-19.

Il primo è l’orientamento delle élites degli Stati Uniti, in cui ha perso influenza, in favore dell’apparato di sicurezza, la classe finanziaria (di Henry Paulson di Goldman Sachs, per esempio) che ha guidato l’apertura alla Cina in accordo con Wang Qishan e Zhu Rongji. Inoltre, poiché i cinesi hanno sviluppato le loro soluzioni proprietarie in materia di e-commerce e social media, si è andata riducendo l’esposizione sulla Cina dei giganti digitali americani (con l’eccezione di Apple).

Il secondo aspetto è dato dal cambiamento della retorica cinese negli anni di Xi Jinping, in particolare per quanto riguarda il progetto di puntare su una “innovazione autonoma” che centri di ricerca, imprese pubbliche e private perseguono in modo organico, anche sotto il capello del piano Made in China 2025.

Il terzo riguarda le capacità sviluppate da Huawei: l’entità del fatturato, i progressi nella ricerca e sviluppo, la presenza globale in 170 Paesi, la collaborazione con i principali operatori, il posizionamento nelle tecnologie e standard 5G.   

È in questo contesto che il 1° dicembre 2018 avviene l’arresto a Vancouver di Meng Wanzhou, CFO di Huawei e figlia del fondatore Ren Zhengfei. Meng Wanzhou è oggetto di numerose accuse negli Stati Uniti, tra cui quella di aver aggirato le sanzioni all’Iran e in ragione della quale è stata chiesta la sua estradizione. Huawei, da canto suo, contesta le accuse pendenti presso varie corti degli Stati Uniti. È quindi già in corso una guerra giuridica (lawfare) tra gli Stati Uniti e la Cina, con cui Washington mette in atto la cosiddetta “trappola di Tucidide”: la potenza dominante, ancora non impensierita direttamente nell’ambito militare o finanziario, ricorre alla forza per contenere alcuni rischi posti dalla potenza emergente.

Oltre ai casi perseguiti dalle corti, la guerra giuridica coinvolge altri due importanti apparati.

Il primo è il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), che scrutina gli investimenti diretti negli Stati Uniti con implicazioni di sicurezza nazionale, imponendo specifiche condizioni e bloccando le transazioni. Il CFIUS, già intervenuto retroattivamente nel 2011 per un’acquisizione di Huawei, di recente (2016-18) si è concentrato sulle aziende di semiconduttori negli Stati Uniti (fornitrici della stessa Huawei), impedendo che giungessero sotto il controllo cinese o fuori dal controllo americano, come nel caso Qualcomm/Broadcom. La componentistica hardware rimane un fattore di condizionamento per i cinesi.

Il secondo apparato è il BIS (Bureau of Industry and Security) del Dipartimento del Commercio, tassello essenziale del sistema americano di controllo delle esportazioni attraverso le Export Administration Regulations (EAR), che stabiliscono i divieti ai quali devono adeguarsi tutte le società americane. Sia ZTE che Huawei hanno subito l’azione del BIS. La prima nel 2018, quando  l’esclusione di ZTE dal commercio con gli Stati Uniti avrebbe implicato il fallimento dell’azienda, scongiurato da un accordo in cui viene di fatto commissariata da un avvocato americano che ne supervisiona tutta la compliance. L’inclusione di Huawei e delle sue imprese affiliate nell’EAR per “coinvolgimento in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti” è del 16 maggio 2019, con pesanti implicazioni sulle forniture di software e hardware. Huawei si impegna su vari fronti: il tentativo di salvaguardare altri mercati, in particolare Europa, Africa e Asia; la disponibilità a lavorare con le agenzie di intelligence per individuare eventuali vulnerabilità; il tentativo di distaccarsi completamente dalle forniture statunitensi (con lo sviluppo interno di hardware e software), da verificare nella sua difficile realizzabilità, anche se coerente con le parole di Ren Zhengfei nel febbraio 2019: «Quando l’Occidente si oscura, è luce a Oriente. Quando è buio a Nord, abbiamo comunque il Sud. Gli Stati Uniti non rappresentano il mondo intero».

Le tensioni tra Stati Uniti e Cina mostrano che le catene globali del valore non sono immutabili. Non esiste alcun potere magico dell’iPhone o di altri prodotti di unire politicamente i Paesi coinvolti nella sua produzione. Le catene del valore sono sensibili, e subordinate, alla “geopolitica della protezione” e all’allargamento della sicurezza nazionale. Sono esposte al sistema sanzionatorio degli Stati Uniti, il più avanzato e occhiuto al mondo.

La “trappola di Tucidide tecnologica” non fa scoppiare bombe. Mette in moto una guerra giuridica. Così riguarda non solo i due contendenti, ma coloro che vi inciampano, e si feriscono. Come i Paesi europei, chiamati a scelte di fondo in cui l’economia è inseparabile dalla geopolitica. O gli studenti e gli ingegneri cinesi, ospiti sempre meno graditi negli Stati Uniti.

 

Immagine: Il grattacielo di Huawei a Vilnius, Lituania (2 aprile 2016). Crediti: J. Lekavicius / Shutterstock.com