Atlante

Marco Brando

Marco Brando, nato a Genova nel 1958 e cresciuto alla Spezia, dopo un fugace innamoramento per Medicina a Pavia, si è dedicato a Scienze politiche. Fa il giornalista dal 1982. Ha lavorato per «l'Unità» (dove è stato un inviato e ha seguito, tra l'altro, l'inchiesta "Mani Pulite"), «Tv Sorrisi e Canzoni», «Il Corriere del Mezzogiorno», (cronaca pugliese del «Corriere della Sera»), «City» (quotidiano del gruppo Rcs), come caporedattore centrale, e «Nuovo» (Cairo editore), come caposervizio. Ha inoltre collaborato con vari media italiani e stranieri. Da luglio 2018 fa il free lance. Ha un blog su IlFattoQuotidiano.it e collabora con Strisciarossa.it, Informazionesenzafiltro.it e Tessere.org; scrive per «FQ Millennium» e la rivista «Civiltà delle Macchine». Tra i suoi libri: "Sud Est” (Palomar, Bari 2006), "Lo strano caso di Federico II di Svevia. Un mito medievale nella cultura di massa" (Palomar, Bari 2008), "L'imperatore nel suo labirinto. Usi, abusi e riusi del mito di Federico II di Svevia" (Tessere, Firenze 2019) e “Storia di Pavia. Dalle origini ai giorni nostri” (Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, in uscita nel 2022). È stato – tra l’altro – docente nella Summer School "Emilio Sereni" dell'Istituto Alcide Cervi (Gattatico, 2010) e nel Corso di alta formazione in Comunicazione giornalistica (Milano, 2010); poi coordinatore e docente nel corso di formazione "Il giornalista che scrive di storia: esempi, strumenti e risorse” (Milano, 2020), proposto dall’Associazione italiana di Public History (Aiph), di cui è socio, e dall'Ordine dei giornalisti. È anche socio della Società italiana degli Storici medievisti (Sismed).

Pubblicazioni
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La fame di energia dell’intelligenza artificiale

 

Sull’onda del successo ottenuto da chatbot come ChatGPT di OpenAI o Bard di Google, l’intelligenza artificiale (IA) è uscita dai laboratori informatici ed è diventata trendy tra la gente, perlopiù entusiasta e pronta a farci due chiacchiere. Però siamo sicuri che, tra i vari interrogativi che questa tecnologia pervasiva suscita, non debba esserci anche questo: farà bene o male all’ambiente? La maggior parte di noi è indotta a pensare che l’IA ‒ insieme al resto del sistema digitale globale ‒ abbia un impatto ecologico trascurabile, se non inesistente. Forse lo pensiamo perché tra noi esseri umani del XXI secolo è ancora molto solida l’abitudine millenaria di dover fare esperienza diretta di ciò che capita. Per esempio, mettiamo sotto accusa ciminiere, tubi di scappamento e liquami perché li vediamo scaricare nell’ambiente sostanze inquinanti. Inoltre pensiamo che la “dematerializzazione” elettronica di tante attività, prima svolte a colpi di pendolarismi e consumo di materie prime, abbatta l’emissione di CO2 (cosa che in effetti accade), senza però produrne: cosa che non accade, visto che, come spiega Stefano Cisternino su Atlante, l’energia necessaria per far funzionare reti, microchip, computer e smartphone viene ricavata soprattutto dalle solite fonti fossili, che inquinano l’aria e alterano il clima del pianeta.

L’effetto-miraggio prodotto da queste percezioni falsate rende pressoché invisibile quello che abbiamo sotto gli occhi: primo, lo sviluppo sempre più impetuoso del digitale e dei sistemi necessari per farlo funzionare, avidi di energia; secondo, il fatto che ci siano oggi 5,16 miliardi di utenti di Internet, il 64,4% della popolazione mondiale (fonte We Are Social Italy). Così esiste uno “Stato fantasma” di cui pochi si accorgono, come se fosse in un’altra dimensione, ma che è nel mondo ai primi posti per consumo di elettricità: secondo un recente report di Shift Project, raggiungerà il 7% del consumo energetico globale nel 2025. Ebbene, quel Paese “invisibile” è proprio il sistema digitale. La sua fame di elettroni fa sì che ‒ secondo il rapporto BP Statistical Review of World Energy 2023 ‒ nel 2022 si sia arrivati a 604,04 exajoules di consumi.

Per capire meglio: 1 joule, unità di misura dell’energia, equivale alla potenza di 1 watt al secondo, mentre 1 exajoule è pari a un miliardo di miliardi di joule. Se la valutazione del 7% è fondata, lo “Stato fantasma” sta per tagliare il traguardo dei 42,28 exajoules di energia consumati. Meno di Cina (159,39) e Stati Uniti (95,91), ma più di India (36,44), Russia (28,89) e Giappone (17,84); l’Italia, giusto per fare un confronto, consuma 6,14 exajoules l’anno, 7 volte di meno. Dunque, qualora lo “Stato” citato esistesse fisicamente, sarebbe al terzo posto nel mondo per consumo di elettricità. Invece si collocherebbe “solo” al quarto posto, sotto l’India, secondo un rapporto pubblicato nel 2002 dal Centro Luigi Einaudi e Intesa Sanpaolo (a cura di Mario Deaglio); però l’eventuale perdita del terzo gradino sul podio cambia poco. Le stime variano in base alle assunzioni di dati e al metodo di calcolo, ma le conclusioni sono sempre allarmanti. Di certo, come ha scritto la fisica e informatica Giovanna Sissa su RivistaIlMulino.it, ​​il sistema digitale provoca «un impatto ambientale che spesso è sconosciuto o ampiamente sottovalutato proprio dai suoi utenti finali (noi cittadini, ndr) e, persino, dalle varie figure professionali coinvolte, come programmatori, manager, informatici, sistemisti». Quell’impatto è determinato da server, infrastrutture di rete, sistemi di raffreddamento dei data center e miliardi di dispositivi utilizzati dalle persone.

L’Osservatorio ESG Karma Metrix 2023 (progetto di Avantgrade.com, misura l‘impronta di carbonio del web) aggiunge che i nostri comportamenti quotidiani fanno sì che in un anno le Big Tech ‒ Amazon, Apple, Alphabet (Google & co.), Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp & co.) e Microsoft ‒ siano, a loro volta, il 42° “Paese” per consumo di energia (poco meno della Colombia e più del Venezuela) e il 51° per emissioni di CO2 (quanto il Cile, più del Belgio). Inoltre, la BBC riporta che l’alimentazione dei sistemi tecnologici legati a Internet ha lo stesso impatto ambientale di tutto il traffico aereo mondiale (FlightAware valuta che ogni anno decollano circa 15 milioni di voli civili con 1,2 miliardi di passeggeri; più quelli militari). Mentre secondo uno studio della Royal Society, divulgato a fine 2020, le tecnologie digitali contribuiscono tra l’1,4% e il 5,9% alle emissioni globali di CO2: basti pensare che un utente medio che utilizza la posta elettronica per lavoro può arrivare a emetterne 135 chili in un anno. Un solo server è capace di produrre in un anno da 1 a 5 tonnellate di anidride carbonica.

L’esigenza di rendere più ecocompatibile il funzionamento della rete e delle infrastrutture informatiche da qualche anno è diventata un problema di cui si ha consapevolezza, per lo meno a livello teorico e scientifico. Per esempio, la stessa Royal Society ha evidenziato il potenziale che hanno le potenti tecnologie digitali, come l’apprendimento automatico e l’intelligenza artificiale, per affrontare le principali sfide anche in questo campo. Ironia dalla sorte, le infrastrutture su cui si basa l’IA sono alimentate (e lo saranno ancora per un bel po’) con energia proveniente per lo più da fonti fossili; quindi si arriva al paradosso di “chiedere” aiuto a un’intelligenza “nutrita” con ciò che si vorrebbe eliminare. Al centro dell’attenzione c’è, prima di tutto, il consumo energetico di migliaia di data center (che hanno anche bisogno di essere continuamente raffreddati), pari all’1% della domanda globale di energia. Ben 6.300 sono in 15 Paesi (fonte Statista, 2022), di cui circa 2.700 negli Stati Uniti, 487 in Germania, 456 nel Regno Unito, mentre per l’Italia sarebbero 131.

Semmai è importante sottolineare che secondo la Royal Society il data mining, fondamentale per sviluppare l’IA, si avvia a consumare, entro pochi anni, tanta energia quanta quella oggi necessaria per l’estrazione di minerali in tutto il mondo. Per fare cosa? Per individuare informazioni di varia natura (non conosciute a priori) tramite l’estrapolazione mirata da grandi banche dati, singole o multiple. Il processo di estrapolazione consuma già molto. Come sottolinea Diego Ragazzi (Data Strategy Lead di Cefriel - Politecnico di Milano) su AgendaDigitale.eu, «i recenti progressi nell’intelligenza artificiale hanno riproposto il tema dell’impatto ambientale. La preoccupazione nasce dalla crescita per ora esponenziale nella complessità dei modelli di IA di base (foundation models), che si traduce in richieste sempre più esose di capacità di calcolo e di memoria. [...] Con l’avvento dei sistemi basati su apprendimento profondo (deep learning), si osserva un’accelerazione», attraverso «un numero di operazioni elementari almeno un milione di volte superiore» rispetto a una decina di anni fa. Anche il volume di dati richiesto per l’addestramento è cresciuto moltissimo: nel caso dei modelli linguistici è quadruplicato.

Tutto ciò richiede sempre più elettricità: secondo i ricercatori di Google e dell’Università di Berkeley in California, citati da Ragazzi, «i valori di consumo energetico richiesto per l’addestramento di alcuni popolari modelli di IA, indicativamente intorno al centinaio di MegaWatt ogni ora (MWh), con un picco di 1.287 MWh riportato per GPT-3». Però l’energia non serve solo per gli addestramenti dell’IA. Il salasso vero viene dopo, con l’utilizzo su larga scala delle reti neurali artificiali (deep neural network) per l’apprendimento profondo. «Sono sempre più diffuse in ogni ambito: dagli smartphone alle automobili fino ai modelli di grandi dimensioni dei centri di calcolo», scrive Ragazzi. L’esperto cita anche una recente analisi dell’Università di Valencia (Spagna) sui modelli di IA in esercizio: evidenzia, per i modelli di punta, la tendenza a una crescita negli anni del consumo energetico per singola “inferenza” (l’inferenza si verifica quando la rete neurale è in grado di acquisire un set di dati che non ha mai visto prima e di formulare previsioni accurate su quello che rappresentano). L’applicazione in modo esponenziale di questi sistemi è già in atto e riguarda gran parte di ciò che usiamo abitualmente, dall’assistente vocale al traduttore on-line.

Tra i tanti problemi (di tipo sociale, culturale, economico e politico, ad esempio) che questo fenomeno creerà ai noi umani, c’è ‒ ancora una volta ‒ quello suscitato dalla necessità di fornire al sistema maggiore quantità di energia. Si spera che possa essere sempre più pulita, generata da fonti rinnovabili. Ha, e avrà, un peso anche l’efficienza di software e hardware. Il rischio è che il sistema cresca più di quanto si sia in grado di alimentarlo e possa a un certo punto andare in tilt. È, per capirci, quello che accade da qualche tempo quando, durante le sempre più frequenti ondate di caldo, nelle città i condizionatori (molto più diffusi rispetto al passato) fanno saltare la rete elettrica perché non c’è abbastanza energia per farli funzionare. Sarebbe meglio non scoprire che cosa succederebbe se, in caso di blackout, dovessimo essere privati troppo a lungo della nostra “badante digitale” più o meno artificialmente intelligente, visto che ormai ci assiste in quasi ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

 

Per approfondire

Indicatori di sostenibilità ambientale: la carbon footprint, in Eai.enea.it, 2011

L’impatto digitale sull’ambiente, in RivistaIlMulino.it, 26 gennaio 2021

Digital 2023, in WeAreSocial.com, 26 gennaio 2023

​​Il costo energetico della conoscenza: ecco l’impatto dell’IA sull’ambiente, in Agendadigitale.eu, 24 agosto 2023

L’impronta carbonica digitale: il peso di Internet sull’ambiente, in Atlante Treccani, 24 marzo 2023

Osservatorio ESG Big Tech 2023, in Ip.karmametrix.com, 2023

Statistical Review of World Energy, in Energyinst.org, 2023

Trends in AI inference energy consumption: Beyond the performance-vs-parameter laws of deep learning, in ScienceDirect.com, aprile 2023

 

Immagine: Perforazione di pozzi e indagini geofisiche per la ricerca e produzione di petrolio e gas. Uso delle moderne tecnologie di intelligenza artificiale per la produzione. Crediti: KoSSSmoSSS / Shutterstock.com

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Clima, l’era degli estremi

 

In Italia tra metà maggio e metà luglio 2023 la Romagna e una grande città, Milano, sono state sconvolte da alluvioni, maxi temporali e venti impetuosissimi. Il Sud Italia è stato colpito da vasti incendi, spesso provocati dall’uomo, in modo doloso o più o meno casuale, e favoriti dagli effetti del caldo, che ha toccato i 48 gradi. Questi si possono definire “fenomeni eccezionali”? No, se con quell’aggettivo si intende “rari”. Semmai stanno diventando, purtroppo, eventi normali e ricorrenti: in un susseguirsi altalenante di penuria di piogge e ondate estive di calore, di precipitazioni abbondantissime e mini uragani. Si passa così da lunghi periodi di siccità, oggi più frequenti nelle stagioni in cui fino a poche decine di anni fa pioveva o nevicava maggiormente, a periodi in cui piove la quantità di acqua che “normalmente” cade in alcuni mesi.

Intanto gli allarmi lanciati dalla comunità scientifica sono tanto frequenti quanto sottovalutati o addirittura respinti a livello politico. Uno degli ultimi studi ha adottato proprio il termine “altalena” (swing in inglese, che vuol dire anche oscillazione) per spiegare il passaggio rapidissimo da un estremo climatico all’altro. È stato svolto grazie alla collaborazione tra cinque climatologi di Cina, Regno Unito e Stati Uniti. La rivista Geophysical Research Letters ha appena pubblicato la ricerca intitolata Minacce crescenti provocate dall’altalena tra estremi caldi ed estremi piovosi in un mondo più caldo, realizzata da Jiewen You, Shuo Wang e Boen Zhang  (Hong Kong Polytechnic University), Colin Raymond (University of California - Los Angeles) e Tom Matthews (Kings College - Londra). L’équipe di scienziati ha stabilito che, a causa del climate exchange, la frequenza dell’oscillazione tra grandi ondate di caldo e forti nubifragi nel mondo è aumentata del 22% ogni dieci anni dal 1956 al 2015 (+132% in 60 anni).

La ricerca ‒ basata su una serie di calcoli molto complessi ‒ si dedica anche all’impatto di questi eventi sulla società: «La brusca alternanza tra estremi caldi ed estremi piovosi può portare a impatti sociali più gravi rispetto a episodi estremi che restano isolati. Tuttavia [...] le loro caratteristiche nell’arco del tempo non erano state ancora ben esaminate. Il nostro studio presenta una valutazione completa della successione di ondate di calore e nubifragi», con «estremi di caldo umido, seguiti da inondazioni dovute alla pioggia e fenomeni estremi pluviali, seguiti di nuovo da caldo umido». Continuano i climatologi: «Abbiamo rilevato che questi estremi durante il periodo 1956-2015 [...] hanno subito un aumento significativo della frequenza di circa il 22% per decennio a causa del surriscaldamento globale». Si legge poi: «Negli ultimi anni, il mondo ha sperimentato vari eventi meteorologici e climatici estremi, che sono altamente dirompenti per gli esseri umani e la società». Gli studiosi sottolineano la carenza nella capacità di prevedere questi fenomeni e ricordano «l'importanza di utilizzare test statistici affidabili per garantire la validità dei risultati per eventi composti complessi. La nostra analisi evidenzia la necessità per i responsabili politici e le parti interessate di sviluppare strategie di adattamento per far fronte alle vulnerabilità sovrapposte dovute a estremi caldi e umidi composti».

 

Cosa s'intende con “carenza nella capacità di prevedere”? A la Repubblica Sandro Carniel, oceanografo dell’Istituto di Scienze polari del CNR, ha spiegato che questo genere di nubifragi improvvisi sono «seguiti con i radar meteorologici nel momento in cui si formano. Si sviluppano in tempi rapidi e spazi brevi. Risentono molto delle condizioni geografiche locali. In genere lasciano intervalli troppo brevi (poche ore) per dare l’allarme alla popolazione». «I modelli meteorologici», ha aggiunto Carniel, «faticano a prevedere le piogge intense perché di solito non tengono conto delle interazioni fra mari e atmosfera. Si preferisce usare algoritmi più semplici, economici e facili da maneggiare, che considerano aria e acqua come sistemi separati. Ma mare e atmosfera non sono sistemi separati. Si scambiano continuamente calore e umidità».

Quindi gli eventi meteorologici provocati dai cambiamenti climatici non sono solo casi da affrontare, dopo le catastrofi, a colpi di bulldozer, risarcimenti occasionali, appelli ai volontari (che per fortuna ci sono), riti apotropaici e filippiche contro la natura matrigna (anche perché si tratta di fenomeni provocati dall’uomo, che con la natura ha un rapporto conflittuale). Semmai occorre attrezzarsi preventivamente a tutto campo anche sul fronte sociale, economico, infrastrutturale, tecnico, scientifico, sanitario, alimentare. Gli stimoli non mancano. Sono parecchi gli articoli specialistici che esaminano l’impatto del riscaldamento globale e i suoi effetti su vari contesti: come prodotto interno lordo (PIL) ed economia, salute e prevenzione, condizioni psicologiche, disponibilità e costi del cibo, migrazioni, turismo. Purtroppo invece a livello istituzionale si procede ancora a casaccio, anche in Italia.

 

Si può sorvolare, forse, su quanto affermano coloro che si ostinano a negare in modo maniacale che l’estrema rapidità con cui il clima sta cambiando non abbia niente a che fare col riscaldamento globale provocato dall’attività umana nell’ultimo secolo e mezzo (qui entra in gioco la voglia individuale di non vedere, quindi è una circostanza che c’entra più con la psicologia che con la meteorologia). Però non si può ignorare che la sottovalutazione sia l’ansiolitico cui troppi ricorrono, più o meno consapevolmente. Infatti, parecchi singoli cittadini e persino tanti tra coloro che detengono potere decisionale non percepiscono il fatto che non siamo di fronte a “eventi eccezionali”, vista la loro frequenza sempre maggiore; questa incoscienza nega e mortifica quanto afferma, pressoché unanimemente, la comunità scientifica.

 

Lo sottolinea pure l’ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), diffuso nel 2021:«Il riscaldamento globale ha già causato cambiamenti diffusi, rapidi e sempre più intensi. Alcuni non hanno precedenti in migliaia o addirittura milioni di anni. [...] Nel complesso i cambiamenti osservati nel sistema climatico dalla fine del XIX secolo rivelano un mondo inequivocabilmente più caldo». Siamo certi che siano gli esseri umani a riscaldare il clima? Sì. Ironia della sorte, ci siamo salvati da un riscaldamento ancora più intenso a nostra insaputa, grazie a un’altra fonte umana di inquinamento umano. Si legge nel rapporto: «Tutto il riscaldamento osservato dall’era pre industriale (+1,1°C) è il risultato delle attività umane. In realtà, le emissioni (umane, ndr) di gas serra [...] avrebbero riscaldato la Terra ancora di più, per un totale di circa 1,5°C, ma il loro effetto riscaldante è stato in parte contrastato dalle emissioni di inquinanti atmosferici, chiamati aerosol o polveri sottili, che hanno mediamente un effetto raffreddante sul clima».

 

Insomma, il clima lo abbiamo già modificato. Per far cessare gli effetti, ormai innescati e in evoluzione, non basta schiacciare un ipotetico interruttore facendolo passare da on a off e sperando che tutto si fermi; nel nostro caso, non basterebbe smettere di colpo di usare petrolio e gas. Semmai occorrerebbe attendere che la forza già impressa al cambiamento si esaurisca molto lentamente. Secondo l’IPCC, «una riduzione immediata e sostenuta nel tempo delle emissioni di gas serra rallenterebbe il riscaldamento globale entro un decennio, ma potrebbero essere necessari circa vent’anni prima di assistere chiaramente a una stabilizzazione delle temperature». Oggi dunque possiamo ridurre l’emissione di gas serra (soprattutto CO2, seguita da metano e protossido di azoto) in modo da non raggiungere il punto di non ritorno (tutt’altro che lontano). Lo propongono anche vari piani a livello internazionale (quello che ci riguarda più da vicino è il piano dell’Unione Europea, da attuare entro il 2050). Per quel che riguarda l’Italia, la politica non sembra aver fatto propria una sensibilità adeguata, di fronte alla “nuova normalità” del clima estremo. Peccato, perché, come si legge su Greenreport.it, «senza una presa di coscienza istituzionale, il Paese continuerà ad inseguire all’infinito le conseguenze di un’emergenza che nega e che, dunque, non può affrontare con efficacia».

 

Per approfondire

 

Cambiamento Climatico 2021, in Ipcc.ch

Cambiamento climatico, qual è il suo impatto sul turismo, in Wallstreetitalia.com, 27 luglio 2023

Confesercenti: l’ondata di calore fa calare i consumi, in Pmi.it, 27 luglio 2023

Cos’è l’ansia climatica e cosa comporta?, in Atlante Treccani, 17 marzo 2023

Dal grande caldo ai temporali catastrofici. Ecco perché le altalene del clima sono sempre più frequenti, in Repubblica.it, 21 luglio 2023

Food, Health, and Mitigation of Climate change in Italy e The importance of public health in defining climate change policies, Epidemiologia&Prevenzione, 2023

Gli effetti del cambiamento climatico sull'economia italiana, in Bancaditalia.it, 2022

Growing Threats From Swings Between Hot and Wet Extremes in a Warmer World - You, in Agupubs.onlinelibrary.wiley.com, Geophysical Research Letters, 8 luglio 2023

Migranti climatici, i più numerosi ma non riconosciuti, in Atlante Treccani, 3 luglio 2023

Strategia a lungo termine per il 2050, in Climate.ec.europa.eu

 

Immagine: Via Amendola allagata, Lugo, Ravenna (18 maggio 2023). Crediti: Chiarentini Federica / Shutterstock.com

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Migranti climatici, i più numerosi ma non riconosciuti

 

Nell’ultimo decennio gli eventi meteorologici estremi hanno provocato in media 21,5 milioni di nuovi sfollati all’anno (23,7 milioni nel 2021), più del doppio di quelli causati da guerre e violenze. Sono dati forniti recentemente dall’UNHCR, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati. Eppure i migranti a causa di disastri climatici ufficialmente ‒ secondo il diritto internazionale e quello degli Stati ‒ non esistono. Vale anche per l’opinione pubblica dei Paesi ricchi: di fronte all’esodo di centinaia di migliaia di persone da quelli più poveri verso l’Europa, il Nord America o l’Australia, anche i più “buoni” di noi (quelli che non le vorrebbero fermare a colpi di soccorsi negati, muri o peggio) rischiano di giudicare in base a luoghi comuni.

Per esempio, anche in Italia si tende a ritenere che la maggior parte fugga da eventi legati a conflitti armati, persecuzioni e vessazioni. Mentre, scrive Maria Marano su Economiacircolare.com, si evita di parlare di migranti climatici: «La narrazione mediatica, così come il dibattito politico, rimanda principalmente a espressioni come vittime, sfollati (in senso generico) o evacuati, senza utilizzare aggettivi che riconducano alle cause dello spostamento. È un modo per evitare di mettere a fuoco le reali cause dei problemi e sottrarsi dall’assunzione di responsabilità, che sono ben chiare. Portare l’attenzione sui cambiamenti climatici, sul degrado del territorio, sulla violazione dei diritti dei cittadini, significa portare l’ambiente al centro dell’agenda politica».

Di certo, la sussistenza di violenze e guerre è ancora l’unico caso che il diritto internazionale ritiene valido per la concessione dell’asilo (in teoria, perché spesso si respingono i profughi prima di accertare da quale situazione vengano): per stabilire lo status di rifugiato ci si basa ancora sui criteri fissati con la Convenzione di Ginevra, firmata il 28 luglio 1951. Nata per dare una condizione giuridica a sfollati o fuggitivi durante la Seconda guerra mondiale o la guerra fredda, è estranea all’evoluzione quantitativa e qualitativa del fenomeno. La Convenzione, vecchia di 72 anni, è oggi, col Protocollo relativo allo status dei rifugiati firmato a New York il 31 gennaio 1967 (reso esecutivo in Italia con la legge n. 95 del 1970), uno dei due soli strumenti a carattere universale che permettono di trovare riparo e protezione in un altro Paese; la normativa dell’Unione Europea (UE) e, nel nostro Paese, la legge n. 132 del 2018 hanno mantenuto il concetto di protezione degli stranieri solo per motivi umanitari, mentre l’emigrazione per motivi economici, salvo casi particolari, non è permessa, nemmeno se è legata a catastrofi climatiche.

Eppure, visto che nel XXI secolo i migranti spinti alla fuga dai cambiamenti del clima rappresentano la maggioranza, sarebbe necessario un aggiornamento; tanto più che quelle catastrofi non sono frutto di un fenomeno naturale, come un terremoto, ma vengono provocate da attività umane, soprattutto quelle svolte nelle aree più ricche del mondo; mentre le conseguenze stanno ricadendo attualmente soprattutto sui Paesi più poveri. Circostanza sottaciuta dai governi dei grandi, al di là di alcune prese di posizione molto teoriche e poco pratiche. Ha sottolineato Claudia Bellante su Il Tascabile di Treccani: «Se la questione climatica viene messa sotto il tappeto, come potranno esistere ed essere riconosciuti come tali i migranti climatici? Il negazionismo non è solo la scusa perfetta usata dai governi per non agire a livello produttivo e legislativo, ma anche per non ammettere le cause che spingono determinate popolazioni a lasciare le proprie terre e, di conseguenza, la scusa per non accoglierli».

Negazionismo o superficialismo imperversano, in effetti. Come se non fosse evidente che ‒ a causa del climate change ‒ si moltiplicano vari fattori di rischio, dalla carenza di cibo all’instabilità sociale e politica, favorendo guerre civili o tra Stati e, quindi, le migrazioni. Secondo il report Climate as a risk factor for armed conflict, pubblicato nel 2019 dalla rivista Nature con le firme di Katharine J. Mach (Stanford University) e altri 13 ricercatori, fino al 20% dei conflitti avvenuti nell’ultimo secolo ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima e si rischia un forte incremento. Con questo esito, sostiene l’UNHCR: «A livello mondiale nel 2021 circa 193 milioni di persone si trovavano in condizioni di grave insicurezza alimentare e necessitavano di assistenza urgente – un numero mai registrato prima – in 53 Paesi, con un aumento di quasi 40 milioni di persone rispetto al picco precedente raggiunto nel 2020».

Intanto dalle nostre parti la disinformazione funziona, complici i movimenti politici che cavalcano la xenofobia. Quindi i cittadini del mondo benestante si lamentano delle “loro” sempre più frequenti alluvioni, delle ondate di siccità, degli incendi, dei ghiacciai ridotti a ghiaccioli pericolanti; però sottovalutano ciò che capita altrove, con effetti assai più dirompenti a causa delle mancanze di risorse: basti pensare al Pakistan, dove di recente le precipitazioni record hanno colpito 33 milioni di persone. L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), rivela che «oltre il 40% della popolazione mondiale (tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone) vive in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici». Il rapporto di Legambiente Migranti ambientali, gli impatti della crisi climatica (2022) segnala che le macroregioni più a rischio sono «l’Africa occidentale, centrale e orientale, l’Asia meridionale, l’America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l’Artico: in queste aree, tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte superiore rispetto a regioni che presentano una minore vulnerabilità». Persino il report Groundswell della World Bank, pubblicato in due parti nel 2019 e nel 2021, sostiene che, «a causa della crisi climatica, entro il 2050, 216 milioni di persone in sei diverse regioni del mondo potrebbero essere costrette a spostarsi».

Tuttavia, come abbiamo scritto, in base alle norme in vigore le vittime di quei disastri non sono considerate degne di “migrare”. Un divieto che a milioni di persone, poste di fronte all’alternativa tra la morte quasi sicura nelle loro terre e quella meno sicura nel corso dell’esodo, importa poco: prima o poi proveranno a imboccare la strada pericolosissima (dato che nessuno concede loro i visti che invece a noi “ricchi” consentono di andare quasi ovunque) che va verso la parte più ricca del mondo. Dunque, accanto a politiche concrete per frenare il climate change in modo da prevenire una parte dei danni, occorre fare in modo che nella nostra parte del mondo si possa essere pronti ad accogliere e gestire un fenomeno inevitabile. Dunque occorrerebbe riconoscere formalmente che la crisi climatica è un’emergenza umanitaria e che esiste la figura, ormai maggioritaria, del migrante climatico.

Peccato che la necessità di riconoscere questo status giuridico non trovi ascolto tra i potenti. Nello studio Climate refugees or climate migrants: how environment challenges the international migration law and policies, Marina Andeva e Vasilka Salevska (University American College Skopje, North Macedonia) confermano che «i migranti climatici sono rimasti invisibili per molti anni nei dibattiti sulla migrazione e sul clima riguardanti il loro status legale e la loro regolamentazione». Però «definizioni universalmente accettate delle persone che lasciano la propria casa per motivi ambientali sono importanti per una serie di ragioni legali, economiche e di sicurezza. [...] Un serio dialogo politico dovrebbe iniziare ora, quando c’è ancora spazio e tempo per affrontare alcune delle sfide».

Anche Francesca Rosignoli (Università Rovira i Virgili di Tarragona) nel saggio Environmental Justice and Climate-Induced Migration, sostiene che «oggi i migranti climatici mancano di uno status legale e nessuna istituzione internazionale ha il mandato per fornire loro protezione e assistenza umanitaria». Continua: «La riluttanza politica ad agire si traduce, soprattutto, nella mancata protezione dei diritti umani delle comunità più vulnerabili in tutto il mondo. [...] Molti luoghi stanno diventando inabitabili, mettendo così a rischio la vita di intere popolazioni. Allo stesso tempo, ciò che sembra indiscutibile è che il fenomeno migratorio indotto dal clima solleva forti questioni etiche, suggerendo di inquadrare l’argomento come una questione di giustizia ambientale».

Mentre il filosofo Antonio Campillo Meseguer (Università di Murcia), nell’articolo Las fronteras del aire: cambio climático, migraciones y justicia global, ci ricorda: «I migranti fuggono per una serie di motivi (povertà, violenza armata e degrado ambientale) di cui i Paesi del Nord del mondo sono i principali colpevoli e beneficiari; attraverso il “noi, per primi”, la chiusura delle frontiere e la criminalizzazione di migranti e rifugiati, questi Paesi non solo rifiutano di assumersi le proprie responsabilità, ma aggravano ulteriormente le grandi ingiustizie ecosociali globali». È difficile dargli torto.

 

Per approfondire

Sergio Castellari, Cambiamenti climatici, in Enciclopedia Italiana, IX Appendice, 2015

Climate as a risk factor for armed conflict, in Nature, 12 giugno 2019

Climate Change Could Force 216 Million People to Migrate Within Their Own Countries by 2050, in WorldBank.Org, 2021

Climate refugees or climate migrants: how environment challenges the international migration law and policies, in Conference AICEI, 2020

Crisi climatica: è record di sfollati. Dal Pakistan all’Emilia-Romagna, in Economiacircolare.com, 2023

Environmental Justice and Climate-Induced Migration, in Cambridge University Press, 2022

Las fronteras del aire: cambio climático, migraciones y justicia global, in Daimon. Revista Internacional de Filosofía, 2022

Migranti ambientali, gli impatti della crisi climatica, in Legambiente.it, 2022

Persecuzioni Climatiche, in ASud.net, 2023

Claudia Bellante, Saremo anche noi migranti climatici nel 2050?, in Il Tascabile, 2023

 

 

Immagine: Ragazzi seduti davanti alla loro casa distrutta dalle inondazioni che hanno colpito il Paese, Quetta, Pakistan (1 dicembre 2023). Crediti: SS 360 / Shutterstock.com

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Le microplastiche di cui ci nutriamo

«E venne l’uomo / che mangiò la trota / che inghiottì il gamberetto / che rosicchiò la pianta / che la plastica assaporò». Angelo Branduardi potrebbe riscrivere la canzone Alla fiera dell’Est in questo modo, se volesse mettere in musica il viaggio a ritroso delle microplastiche, con cui inquiniamo l’acqua da decenni e che ci ritornano attraverso ciò di cui ci nutriamo. Un processo di contaminazione descritto da uno studio italiano di ENEA-CNR, appena pubblicato sulla rivista internazionale Water. Così le particelle di plastica finiscono nel nostro organismo (sangue, latte materno, placenta, urine e liquido seminale inclusi), con probabili danni allo stesso patrimonio genetico. Altri piccolissimi frammenti entrano attraverso l’aria che respiriamo e la pelle. Di certo, non bastano i  «due soldi» citati dal cantautore per risolvere il problema: nel mondo si ricicla solo il 9% (il 17% in Italia) della plastica prodotta e persino gli impianti di riciclo emettono nell’ambiente le microplastiche.

Il contesto generale in cui accade questo fenomeno? Dai giganteschi accumuli galleggianti oceanici (il più grande, il Pacific Trash Vortex, è vasto almeno quanto la Penisola Iberica) alle più piccole particelle, la plastica, derivata per lo più dal petrolio (ne occorrono 1,9 kg, più 18 litri d’acqua, per ottenere 1 kg di polietilene tereftalato - Pet) è ovunque. Soffoca ogni ecosistema, oltre a contribuire attraverso la sua produzione, secondo l’OCSE, all’emissione del 3,4% dei gas serra, quelli che provocano i cambiamenti climatici. L’impegno a diminuire almeno la produzione di quella monouso è proclamato nell’Unione Europea (dal 14 gennaio 2022 è in vigore la direttiva Single use plastic) e  dalle Nazioni Unite: non a caso per l’edizione 2023 della recente Giornata mondiale dell’Ambiente è stato scelto come tema #BeatPlasticPollution.

Nel recente rapporto dell’UNEP (United Nations Environment Program), Turning off the Tap, si legge che «l’umanità produce oltre 430 milioni di tonnellate di plastica all’anno, due terzi dei quali sono prodotti di breve durata che presto diventano rifiuti. Mentre i costi sociali ed economici dell’inquinamento da plastica vanno da 300 a 600 miliardi di dollari all’anno»; eppure il suo recupero e riciclo «potrebbe far risparmiare 4,5 trilioni di dollari entro il 2040. Intanto, secondo altri studi ENEA, l’80% dei rifiuti raccolti sulle spiagge italiane è rappresentato da plastica; tanto più che, svela il report The Mediterranean: Mare plasticum dell’IUCN (International Union for Conservation of Nature), nel bacino mediterraneo nel 2020 ce n’erano già 1.178.000 tonnellate e ogni anno altre 230.000 tonnellate raggiungono il mare; l’Italia è al secondo posto nel Mediterraneo, dopo l’Egitto e prima della Turchia, come fonte di questo tipo di inquinamento. Le micro- (sotto i 5 mm) e nanoplastiche (sotto 1 micrometro), pur rappresentando  “solo” il 12% del totale della plastica dispersa, sono particolarmente infide: siamo in grado di schivare un sacchetto galleggiante, mentre quelle particelle non le vediamo, sebbene siano persino nell’acqua che esce dai nostri rubinetti e molto spesso pure in quella che compriamo in bottiglia.

Lo studio ENEA-CNR citato all’inizio dimostra che a lungo termine, anche attraverso la catena alimentare, l’intero ecosistema viene compromesso. Il team di ricercatori ‒ Valentina Iannilli, Francesca Lecce e Giulia Sciacca di ENEA; Massimo Zacchini, Laura Passatore, Serena Carloni e Fabrizio Pietrini del CNR ‒ ha valutato in laboratorio gli effetti di microparticelle di polietilene (PE), tra le più comuni materie plastiche disperse nell’ambiente, su organismi d’acqua dolce, vegetali e animali. In particolare, le specie utilizzate sono state la Spirodela polyrhiza ‒ la cosiddetta lenticchia d’acqua, una piccola pianta acquatica galleggiante ‒ e l’Echinogammarus veneris, un crostaceo d’acqua dolce simile a un gamberetto, che è l’alimento principale di vari pesci, come le trote. Le piantine sono state immerse in acqua contaminata da microplastiche lunghe circa 50 micrometri (1 µm è un millesimo di millimetro), quindi più corte del diametro di un capello. Dopo appena 24 ore le piante sono state trasferite nella vasca contenente i gamberetti. Ebbene, le spirodele, durante l’esposizione, oltre a mostrare una lieve riduzione del contenuto di clorofilla, hanno accumulato un’elevata quantità di microplastiche sulle radici, di cui i crostacei si cibano. Cosicché ogni gamberetto ha ingerito in media 8 particelle, passandole ai pesci che li divorano. Dai pesci all’uomo il passo è breve.

Sottolinea Valentina Iannilli, ricercatrice di ENEA nel Laboratorio di Biodiversità e servizi ecosistemici: «I pesci accumulano microplastiche anche nei muscoli, che sono le parti che noi mangiamo». Inoltre, quei microframmenti nei crostacei hanno «effetti diretti anche sull’integrità del patrimonio genetico; di conseguenza con potenziali contraccolpi analoghi a lungo termine su popolazioni, comunità e interi ecosistemi». Lo studio di ENEA-CNR fornisce nuovi elementi alle ricerche su questo tipo di inquinamento “invisibile”, permettendo di aggiungere un ulteriore tassello al puzzle. Altri studi negli ultimi tempi hanno fornito informazioni allarmanti. Qualche esempio? Tracce di microplastiche con diametri tra 2 e 6 µm sono state individuate in 6 campioni su 10 del liquido seminale di uomini sani residenti in Campania. È il risultato di un ulteriore studio italiano, svolto, nell’ambito del progetto EcoFoodFertility, dagli scienziati Luigi Montano, Oriana Motta, Marina Piscopo ed Elisabetta Giorgini e pubblicato il 23 maggio corso. I risultati indicano che «l’emergenza microplastiche è sempre più pericolosa per la riproduzione della specie umana dato che le microplastiche sembrano influire sulla qualità seminale». Anche perché i loro frammenti «fanno da cavallo di Troia per altri contaminanti ambientali che, legandosi ad esse provocano ulteriori danni all’interno agli organi riproduttivi, molto sensibili agli inquinanti chimici». L’ha sottolineato Luigi Montano, coordinatore del progetto. Già a gennaio 2023, sulla rivista Toxics, lo stesso gruppo aveva individuato per la prima volta le microplastiche nelle urine di cittadini di Napoli e Salerno.

Alle domande sulle fonti della contaminazione risponde uno studio pubblicato lo scorso aprile su Trends in Analytical Chemistry dai ricercatori dell’Agenzia scientifica nazionale australiana. Hanno segnalato che le microplastiche possono contaminare ciò di cui ci nutriamo non solo nel corso della catena alimentare, ma anche durante la lavorazione degli alimenti e il loro confezionamento. Un altro studio delle università di Glasgow (Scozia) e Halifax (Canada) mette sotto accusa i fanghi di depurazione usati come fertilizzanti. Le indagini dedicate agli effetti delle microplastiche sugli esseri umani sono ancora in corso e non è chiaro quanto siano dannose, sebbene si supponga che la loro presenza nei tessuti possa causare stress fisico e danni, infiammazione, stress ossidativo e risposte immunitarie. Intanto si sa quante ne ingeriamo mediamente attraverso il cibo. L’hanno calcolato i ricercatori della Wageningen University & Research (Paesi Bassi): circa 0,0041 mg alla settimana (meno di un granello di sale) e 12,3 mg nell’arco di 70 anni. Di questi 12,3 mg ‒ sia ben chiaro ‒ solo una piccola frazione (40,7 nanogrammi, dove 1 ng è pari a 0.000001 mg) viene assorbita dal corpo, il resto è espulso per lo più attraverso il tratto gastrointestinale. Può forse consolare il fatto che gli scienziati olandesi non concordano con un recente rapporto, No plastic in nature: Assessing plastic ingestion from nature to people, realizzato dall’Università di Newcastle (Australia) per conto del WWF: quest’ultimo sostiene che gli esseri umani consumerebbero fino a 5 grammi di plastica (il peso di una carta di credito) ogni settimana (circa 700 mg/pro capite/giorno, pari a ben 2 etti e mezzo l’anno). Invece, secondo l’indagine svolta a Wageningen, soltanto una persona su 20 nel mondo, a causa di un’alimentazione molto scorretta, può arrivare a ingurgitarne fino a 676 mg, però a settimana (pari a 36,5 grammi in un anno, equivalenti a poco più di 7 carte di credito).

Ci auguriamo che abbiano ragione gli olandesi. «È ancora poco chiara l’entità dei rischi delle microplastiche per la salute umana. Col nostro modello stiamo facendo un grande passo verso la loro previsione», afferma il professor Bart Koelmans, leader del gruppo di Wageningen. Vedremo. Nell’attesa, un fatto è certo: ingurgitare la plastica non fa affatto bene e sottovalutare i pericoli è un peccato mortale. A proposito di peccati, l’idea che, inconsapevolmente, ci mangiamo le nostre carte di credito ha le caratteristiche, soprattutto nelle società più ricche e consumiste, di una legge infernale del contrappasso: la punizione sembra rispecchiare la natura dei guai che provochiamo ed è degna della fantasia di un nuovo Dante. Dovremmo cercare almeno di meritarci il Purgatorio, possibilmente con meno plastica.

 

Per approfondire

Ambiente: un mare di plastica, ENEA annuncia i risultati degli studi, in Enea.it

 

Appello dell’Oms, servono dati sulla microplastica nell’acqua da bere, in Ansa.it

 

Silvia Lilli, Continente di plastica, in Enciclopedia Italiana, IX Appendice (2015), Treccani.it

 

First Evidence of Microplastics in Human Urine, a Preliminary Study of Intake in the Human Body, in Mdpi.com

 

Alessandro Albanese, La plastica nemica dell’ecosistema marino, in Il Libro dell'Anno 2011, Treccani.it

 

La plastica non solo inquina: aggrava anche la crisi climatica, in Valori.it

 

Stefano Cisternino, Le microplastiche sono ormai, letteralmente, parte di noi, in Atlante, Treccani.it

 

Lifetime Accumulation of Microplastic, Environmental Science & Technology, in Pubs.act.org

 

L’Unione europea vuole un accordo mondiale per porre fine ai rifiuti di plastica, in Greenreport.it

 

Microplastiche nelle acque potabili, in Iss.it

 

Microplastic Toxicity and Trophic Transfer in Freshwater Organisms: Ecotoxicological and Genotoxic Assessment in Spirodela polyrhiza (L.) Schleid. and Echinogammarus veneris (Heller, 1865) Treated with Polyethylene Microparticles, Water, in Doi.org

 

No plastic in nature: Assessing plastic ingestion from nature to people, in Wwf.panda.org

 

Raman Microspectroscopy Evidence of Microplastics in Human Semen: An Emerging Threat to Male Fertility, in

Papers.ssrn.com

 

Research calculates: human consumes less than a grain of salt of microplastics per week, in Wur.nl

 

Serve un divieto mondiale sulla plastica monouso, in Rinnovabili.it

 

Stop alla plastica monouso: entra in vigore la direttiva Ue, in Altroconsumo.it

 

Synthetic polymer contamination in bottled water, in News.bbc.co.uk

 

The invisible threat: microplastics from your clothes, in Plasticsoupfoundation.org

 

The measurement of food safety and security risks associated with micro- and nanoplastic pollution, in Sciencedirect.com

 

The Mediterranean: Mare plasticum, in Iucn.org

 

The potential for a plastic recycling facility to release microplastic pollution and possible filtration remediation effectiveness, Journal of Hazardous Materials Advance, in Sciencedirect.com

 

Immagine: Inquinamento da plastica, particelle di plastica nell’acqua dell’oceano (rendering 3D). Crediti: Dotted Yeti / Shutterstock.com

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Il dibattito sul costo delle immagini. La controreplica

Gentile Direttore,

ho letto la replica inviata a Treccani da Antonio Tarasco, capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Cultura, in relazione al mio articolo Il (caro) prezzo da pagare per le immagini dei beni culturali (Atlante, 15 maggio 2023). Senza ricorrere ai toni utilizzati in quel testo, dove vengono definite «false e faziose» le notizie da me fornite ed è messa così in dubbio la mia professionalità, ci tengo a sottolineare che i medesimi rilievi sono nella sostanza condivisi da centinaia di accademici e studiosi, che hanno sottoscritto un comune appello contro il D.M. n. 161/11 aprile 2023 firmato dal ministro Gennaro Sangiuliano. Sono condivisi anche dai professori universitari citati nel mio testo, gli storici Alessandro Barbero, Francesco Panarelli (presidente della Sismed) e Chiara Piva (direttivo della Cunsta). Concordano con quei rilievi pure quasi 6.000 persone che hanno già firmato on-line una petizione, ancora in corso, contestando il decreto. Vista la generale levata di scudi, mi sembra lecito sostenere che il provvedimento sia stato scritto in modo tale da suscitare dubbi, allarmi e perplessità.

 

Fatte queste premesse, ritengo utile rispondere alle obiezioni del dottor Tarasco:

 1) È incontrovertibile che il decreto introduca per la prima volta tariffe che prima non erano previste. Il ministero, infatti, nel 1994 aveva reso gratuita la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in tutti i periodici scientifici e nelle monografie di tiratura inferiore a 2.000 copie e con prezzo sotto le 150.000 lire (70 euro). Un principio sopravvissuto in tutte le biblioteche e gli archivi dello Stato e in numerose soprintendenze e musei fino al D.M. 161/2023, che ha sottoposto a tariffa tutte le pubblicazioni editoriali in commercio dalle trecento copie di tiratura in su.

 

2) Per quel che riguarda il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND) 2022-23, questo, come si legge proprio sul sito del Ministero della cultura in data 22 luglio 2022, «costituisce la visione strategica con la quale il Ministero intende promuovere e organizzare il processo di trasformazione digitale nel quinquennio 2022-2026». Non compete a me giudicarne la legittimità o meno rispetto al Codice dei beni culturali. Mi limito a sottolineare ciò che afferma uno degli allegati al PND, (Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale): l’editoria (anche non scientifica) dovrebbe essere esentata dal pagamento del canone, salvo eventuali eccezioni.

 

3) È vero, come scrive Tarasco, che «non c’è proprio nulla di scandaloso» se l’Amministrazione «ha razionalizzato e messo ordine all’interno di prassi disomogenee e confuse». Però questo obiettivo è già tra quelli del PND, piano totalmente ignorato dal nuovo tariffario.

 

4) Tarasco poi scrive che sono sbagliati i conti da me eseguiti sui nuovi costi a carico di uno studioso che sarebbero determinati dal D.M. 161/2023. Potrei anche essermi leggermente sbagliato, tanto più che la procedura ora prevista è, a dir poco, cavillosa. Confermo però l’onerosità del pagamento richiesto.

 

5) Tarasco cita i Musei Vaticani, il British Museum e le loro tariffe come esempi; lo fa in rapporto ai rimborsi per la fornitura di riproduzioni, su cui peraltro non mi esprimo nell’articolo. Potrebbero però allo stesso modo essere presi come riferimento gli Archives nationales francesi, i Musei comunali parigini, il Rijksmuseum, la Biblioteca nazionale di Spagna e, in Italia, la Fondazione Museo Egizio di Torino (che amministra beni di proprietà del ministero), più una miriade di altri istituti che nel mondo mettono a disposizione del pubblico le digitalizzazioni ad alta risoluzione delle opere, in modo da permetterne il riuso più libero: per qualunque scopo, anche commerciale.

 

6) Infine, non è affatto sicuro che mantenere la gratuità delle immagini abbia «ripercussioni negative sulla finanza pubblica». Gestire le nuove procedure e tariffe previste dal tariffario comporterà oneri burocratici non indifferenti per gli stessi istituti, già in difficoltà a causa delle notevoli carenze di organici. La stessa Corte dei conti (Delibera n. 50/2022/G) ha rilevato che, in molti casi, «il rapporto tra costi sostenuti per la gestione del servizio di riscossione e le entrate effettive generate è a saldo negativo».

 

 

Nei giorni scorsi abbiamo dato spazio sulle pagine di Atlante al dibattito sollevato dal decreto ministeriale n. 161 dell’11 aprile 2023 riguardante “la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali”. Ad un articolo, a firma di Marco Brando, che raccoglieva le preoccupazioni di studiosi e rappresentanti di alcune associazioni di riferimento per docenti e ricercatori, è seguita la replica a firma di Antonio Tarasco, capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della cultura. Pubblichiamo ora la controreplica ricevuta da Marco Brando.

In questo testo sono presenti, per scelta dell’autore, i collegamenti ai documenti e agli articoli richiamati, così che ciascuno possa avere la possibilità di ricostruire e approfondire il tema in discussione.

La redazione

 

Per approfondire

 

A proposito del D.M. 11 aprile 2023, n. 161 che introduce nuovi criteri di tariffazione sulla riproduzione e il riuso di beni in consegna a istituti e a luoghi della cultura statali, 3 maggio 2023

 

Marco Brando, Il (caro) prezzo da pagare per le immagini dei beni culturali, in Atlante Treccani, 15 maggio 2023

 

Antonio Tarasco, Il costo delle immagini. La replica, in Atlante Treccani, 19 maggio 2023

 

Claudio Ciociola, Libere riproduzioni negli archivi e nelle biblioteche, in Atlante Treccani, 2015

 

Decreto legislativo 08/04/1994, Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalita’ per le concessioni relative all’uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero

 

Decreto legislativo 22/01/2004 n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio

 

D.M. 161 11/04/2023 - Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali

 

Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale, ministero della Cultura, Roma, 2022

 

Petizione Per la libera circolazione delle immagini del patrimonio culturale pubblico,  Change.org, 2023

 

Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022-2023, Decreto direttoriale MIC n. 12 del 30 giugno 2022, in Iccd.beniculturali.it

 

Delibera della Corte dei conti n. 50/2022/G, Spese per l’informatica con particolare riguardo alla digitalizzazione del patrimonio culturale italiano (2016-2020)

 

 

Immagine: La Madonna di Senigallia, di Piero della Francesca, dipinto terminato intorno al 1474, Palazzo Ducale di Urbino (9 febbraio 2020). Crediti: dav76 / Shutterstock.com

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Il (caro) prezzo da pagare per le immagini dei beni culturali

 

Un’inversione a U? Una retromarcia? Uno sboom? Una controriforma? Si rischia di dover saccheggiare parecchi luoghi comuni del gergo giornalistico nel tentativo di definire il contenuto del decreto ministeriale n. 161 dell’11 aprile 2023 firmato dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Il D.M. s’intitola Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali. Significa che si dovrà pagare per pubblicare qualsiasi tipo di riproduzione fotografica (tradizionale e digitale, anche parziale) di beni culturali statali: da un’opera d’arte fino a un codice medievale. Anche a studiosi, accademici, studenti, ricercatori, che prima erano esclusi dai versamenti, sarà presentato il conto per la semplice divulgazione su riviste scientifiche di immagini provenienti da musei, biblioteche e archivi statali. Un conto salato: per esempio, citando un caso concreto, se un ricercatore volesse rendere pubblica la propria tesi di dottorato in Storia dell’arte, contenente 390 indispensabili foto, solo per i diritti di riproduzione definiti dal nuovo decreto dovrebbe sborsare 7.500 euro.

Il decreto è frutto di un’inattesa quanto repentina cancellazione dei principi contenuti nelle Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale elaborate meno di un anno fa, durante il governo Draghi, dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale – Digital Library e inquadrate a luglio 2022, dopo una fase di consultazione pubblica, nel Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale (PND), a sua volta legato al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Con queste linee guida il ministero aveva appena reso gratuita la pubblicazione delle immagini di beni culturali statali in qualsiasi pubblicazione editoriale, anche non scientifica. Ora c’è lo stop. Una battuta di arresto che lo storico Alessandro Barbero, interpellato da Atlante, ha commentato così: «Penso quello che pensano tutti gli studiosi, i ricercatori e chiunque abbia a cuore il patrimonio storico e artistico italiano: non solo come una fonte di miserabile reddito per lo Stato, ma come una ricchezza immateriale di tutti gli italiani e di tutto il mondo. Ritengo che il ministro e il suo ministero farebbero molto bene se ammettessero che si sono sbagliati, che hanno emanato quel provvedimento senza valutarne le conseguenze e che sono disposti a imparare dai propri errori e a correggerli. Perché se no si potrebbe pensare che l’abbiano fatto apposta e questo sarebbe ancora più sconfortante».

Una situazione tanto più desolante se si considera che, nel mondo, sempre più musei, archivi e biblioteche rendono disponibili on-line le digitalizzazioni delle proprie collezioni ad alta risoluzione consentendone il libero riutilizzo da parte di chiunque per qualunque finalità, persino commerciale. Tale provvedimento, che piomba su un mondo italiano della ricerca già sottofinanziato, sta suscitando sorpresa persino all’estero. Per esempio, lo storico dell’arte e giornalista francese Didier Rykner ha provato, sulla rivista La Tribune de l’Art, a fare qualche conto: «Supponiamo che occorrano 10 foto a colori in alta definizione, da pubblicare su una rivista scientifica stampata in 400 copie e venduta a 30 euro. Le tabelle (allegate al decreto, ndr), molto numerose, danno il seguente coefficiente moltiplicatore: tra 300 e 1000 copie e meno di 50 euro, si moltiplica per 2,5. Alla fine le dieci fotografie gli costeranno quindi 10 x 12 x 2,5 = 300 euro! Quando erano sempre state gratis. Il calcolo e l’incasso dei pagamenti, inoltre, si basa su regole contortissime e contraddittorie, capaci di mandare in tilt il già esiguo (da molti anni) personale che lavora nelle strutture ospitanti, con costi di gestione burocratica destinati ad assorbire gli eventuali introiti generati.

Per giunta, non basta pagare. Occorre il permesso del ministero per utilizzare le immagini; perché, si legge nel comma 2 dell’articolo 2 del decreto, «indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato, la concessione per l’uso e la riproduzione dei beni culturali è comunque subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico dei medesimi beni culturali, ai sensi dell’articolo 20 del Codice dei beni culturali e del paesaggio». Articolo 20 che, però, si riferisce a tutt’altro, cioè all’occupazione di beni culturali o alla loro fruizione fisica, non alle loro riproduzioni fotografiche. Insomma, ulteriori appesantimenti burocratici nella procedura di “certificazione” della compatibilità del contesto in cui il materiale dovrà essere usato.

Il decreto ministeriale ovviamente ha suscitato «perplessità e apprensione tra i membri delle associazioni scientifiche e professionali», che hanno divulgato un comunicato congiunto in cui sono messe in evidenza  le criticità del provvedimento e vengono segnalate caratteristiche di incostituzionalità, laddove si vincola l’uso delle immagini all’approvazione statale, «con violazione delle libertà costituzionali di espressione, di ricerca, di apprendimento lungo l’arco di tutta la vita (artt. 21, 33, 34, 35), oltre che di diffusione della cultura (art. 9)».

In attesa di sviluppi, il professor Francesco Panarelli (Università della Basilicata), presidente della Società italiana per la Storia medievale (Sismed, tra i sottoscrittori del comunicato), dice ad Atlante: «L’elaborazione di un decreto del genere avrebbe dovuto richiedere un’ampia riflessione preventiva e stupisce che sia stato emanato senza consultare chi concretamente gestisce quei beni e chi li utilizza per fini non di lucro. Per non dire dell’assenza del ministro dell’Università e della Ricerca, che dovrebbe rappresentare tutto il comparto. Due conseguenze mi preoccupano in particolare: l’incremento di un uso non più legale delle riproduzioni, perché è pressoché impossibile adempiere a tutti i passaggi di controllo e approvazione previsti; l’aumento di spesa per chi fa ricerca, pubblica e consulta pubblicazioni sempre più costose». «Inoltre», continua Panarelli, «si disincentiva l’open access, l’edizione aperta: una recente e imperfetta conquista che cerca di sganciare le pubblicazioni scientifiche dagli ingiustificati costi imposti dall’editoria scientifica internazionale. Quest’ultima resterà probabilmente l’unica in grado di garantire procedure e pagamenti previsti dal decreto». La professoressa Chiara Piva, docente di Storia dell’arte alla Sapienza di Roma e componente del direttivo della Cunsta (Consulta Universitaria Nazionale per la Storia dell’arte), ricorda: «Il principio della condivisione pubblica del patrimonio culturale oggi è considerato in tutti i Paesi più avanzati uno strumento di tutela di quei beni, perché quando la cittadinanza partecipa si fa anche garante della loro conservazione. È quello che insegniamo ai nostri studenti. Nel caso del decreto si va invece in senso diametralmente opposto. Per giunta, per cosa vengono spesi tutti i soldi del Pnrr destinati alla digitalizzazione di quel patrimonio, se poi musei, biblioteche e archivi devono mettere tutto sotto chiave e concedere l’uso soltanto a pagamento in base ad astruse tabelle? È un danno soprattutto per i più giovani, che hanno poche risorse economiche. Però qualsiasi studioso sarà indotto a studiare opere che sono disponibili gratuitamente all’estero. Mi sembra di essere tornata indietro di trent’anni…».

 

Per approfondire

A proposito del D.M. 11 aprile 2023, n. 161 che introduce nuovi criteri di tariffazione sulla riproduzione e il riuso di beni in consegna a istituti e a luoghi della cultura statali, 3 maggio 2023

 

Claudio Ciociola, Libere riproduzioni negli archivi e nelle biblioteche, in Atlante Treccani, 2015

 

Decreto legislativo 08/04/1994, Tariffario per la determinazione di canoni, corrispettivi e modalita’ per le concessioni relative all’uso strumentale e precario dei beni in consegna al Ministero

 

Decreto legislativo 22/01/2004 n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio

 

D.M. 161 11/04/2023 - Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali

 

Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale

 

Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale 2022-2023, Decreto direttoriale MIC n. 12 del 30 giugno 2022, in Digitallibrary.cultura.gov.it

 

Didier Rykner, L’Italie taxe les photographies même pour les chercheurs, in LaTribunedelArt.com, Parigi 7 maggio 2023

 

Immagine: David, un capolavoro di scultura rinascimentale di Michelangelo a Firenze. Crediti: kaitong.yepoon / Shutterstock.com

/magazine/atlante/societa/L_accesso_Internet_diritto_umano.html

L’accesso a Internet come diritto umano fondamentale

 

L’impossibilità e la difficoltà di accedere al web potrebbero essere considerate soltanto un problema pratico. Però una domanda è lecita: il fatto che molti attualmente non possano utilizzare Internet è prima di tutto una gravissima limitazione della libertà? «Sì», risponde Merten Reglitz, docente di Etica globale all’Università britannica di Birmingham. Tanto che il professore ha lanciato un appello sulla rivista Politics Philosophy & Economics: propone che l’accesso alla rete diventi un diritto umano fondamentale, altrimenti si rischia di approfondire le disuguaglianze. Egli ritiene che sia indispensabile per garantire altri diritti basilari, come quelli al lavoro, alla previdenza, all’istruzione, al sistema sanitario. È essenziale sia nei Paesi ad alto reddito sia in quelli a basso reddito, perché oggi ovunque non essere connessi alla rete rappresenta un enorme svantaggio.

Questo appello, se dovesse raggiungere il traguardo che si prefigge, potrebbe, per esempio, indurre ad aggiungere un 31° articolo alla Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I diritti umani sono quelli che devono essere riconosciuti a ogni persona, indipendentemente da origini, appartenenze o luoghi in cui si trova. Composta da un preambolo e da 30 articoli, la dichiarazione definisce le libertà che ogni essere umano possiede sin dalla nascita, sancendone l’universalità ed estendendone per la prima volta la validità a livello mondiale. Pur non essendo (purtroppo) vincolante, ha posto le basi per l’affermazione di quei diritti a livello internazionale, quindi  rappresenta un passaggio storico fondamentale; tanto che oggi è alla base di oltre settanta trattati internazionali, incluse la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

 

Quei trenta diritti si possono dividere in civili (come la libertà personale e quella economica, poi la libertà di pensiero, di riunione, di religione), politici (in sostanza, la possibilità di una partecipazione democratica dei cittadini nel determinare l’indirizzo politico dello Stato) e sociali (è il caso di lavoro, assistenza, studio, tutela della salute). Tutto ciò a suo tempo non è stato concepito dall’ONU astrattamente, ma considerando l’evoluzione delle società più avanzate dell’epoca, poco dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale. Però alla fine degli anni Quaranta del Novecento il web globale non era immaginato neppure nei romanzi di fantascienza più utopistici e solo nell’ultimo quarto di secolo ha avuto il boom di cui siamo testimoni, permeando la vita di miliardi di persone. 

Cosicché, secondo Reglitz, oggi il web ha cambiato la vita di coloro che possono accedervi. Eppure nessuna legge internazionale «riconosce e protegge specificamente l’accesso a Internet come diritto umano, né tale diritto è direttamente implicato in altri diritti umani». Capita nonostante abbia «un valore unico e fondamentale per la realizzazione di molti dei nostri diritti umani socio-economici, consentendo agli utenti di presentare domande di lavoro, inviare informazioni mediche agli operatori sanitari, gestire le proprie finanze e affari, presentare richieste di previdenza sociale e valutazioni educative. [...] La rete ha un potenziale che dovrebbe essere protetto e sfruttato dichiarando l’accesso a Internet un diritto umano». 

Lo studioso britannico sottolinea, poi, che «questo argomento è significativo per una comprensione pubblica filosoficamente informata e perché fornisce le basi per la creazione di nuovi doveri. Ad esempio, l’accettazione di un diritto umano all’accesso a Internet richiede come minimo la garanzia dell’accesso per tutti e la protezione dell’accesso al Web e del suo uso al riparo da certe interferenze discutibili (come sorveglianza, censura, abusi online). La realizzazione di tale diritto richiede quindi la creazione di un Internet che sia radicalmente diverso da quello che abbiamo attualmente». Inoltre la possibilità di accedere alla rete «dovrebbe essere un diritto umano distinto dagli altri, perché la sua utilità è diventata troppo grande per affidarlo alla buona volontà delle autorità politiche e delle società private». Un tema quanto mai attuale, a giudicare dalle polemiche sulle regole concepite dalle aziende che “governano” social come Facebook, Instagram, Twitter, TikTok e le nuove piattaforme di intelligenza artificiale, come Chat GPT.

 

In gergo tecnico, la negazione (parziale o totale) del diritto all’accesso al web da almeno vent’anni viene definita anche in Italia con un inglesismo: digital divide. Il problema è diventato assai concreto soprattutto durante la pandemia, tra 2020 e 2022. Basti pensare alle enormi difficoltà incontrate pure dagli italiani che hanno (o avrebbero) dovuto lavorare o studiare rimanendo a casa. Lo ha spiegato Massimo Zortea (dipartimento di Ingegneria civile, ambientale e meccanica dell’Università di Trento): il Covid-19 ha messo in evidenza che «povertà informativa, educativa e digitale sono tre facce dello stesso poliedro. Ha fatto venire alla luce il divario nell’accesso alle ICTs (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ndr): nel 2018, oltre metà della popolazione mondiale utilizzava Internet; tuttavia, circa 3,7 miliardi di persone rimanevano offline, non solo nei Paesi più poveri: anche il 13% della popolazione nei Paesi a più alto reddito non accedeva a Internet». È un «fenomeno di triplice natura: tecnologica (carenza di infrastrutture per la connessione); economica (costa caro acquistare un computer, un cellulare); cognitiva (paura e mancanza di fiducia/abilità/esperienza)».

 

Alla luce di queste circostanze, ha senso percorrere la strada suggerita da Reglitz, definendo l’accesso al web un diritto umano universale, come già è previsto (in base alla “vecchia” Dichiarazione universale) per i diritti a istruzione, cibo o libertà di espressione? Atlante Treccani lo chiede a Persio Tincani, docente di Filosofia del diritto all’Università di Bergamo.

«Prima di tutto», afferma, «la questione teorica potrebbe essere questa: Internet è in sé un diritto umano oppure è uno strumento indispensabile per poter godere di diritti dei quali, in quanto esseri umani, si è moralmente titolari? È una questione che si pone lo stesso Reglitz. Ebbene, il dato di partenza è diverso nei Paesi ad alto reddito e in quelli a basso reddito».

 

Partiamo da questi ultimi, professore.

«L’autore sembra pensarla come me», continua Tincani. «Per esempio, quello che dice sull’istruzione è di una correttezza e ragionevolezza cristallina: se la principale ragione dell’analfabetismo nel mondo dipende dal fatto che le scuole sono poche e lontane, considerare la presenza a scuola come un optional è corretto, se esiste la possibilità di fornire istruzione online. Addestrare gli insegnanti a questa modalità di insegnamento e garantire l’accesso alla rete a tutti cambierebbero le cose e garantirebbero l’istruzione (che è un diritto umano). Lo stesso discorso vale, tra l’altro, per l’informazione e anche per il diritto alla riunione.  Di quest’ultimo spesso ci dimentichiamo quando parliamo di Internet perché immediatamente pensiamo alla libertà di parola e basta. Ma libertà di parola a cosa serve se non c’è nessuno che sta a sentire? L’accesso al Web garantisce anche quest’ultima opportunità». 

 

Nei Paesi ad alto reddito la questione ha ulteriori sfumature?

«Sì. Pensiamo alla digitalizzazione della pubblica amministrazione. L’accesso a Internet non è assolutamente indispensabile per il cittadino. Però è innegabile che senza quell’accesso diventa molto più complicato e molto più oneroso esercitare i diritti. Questo fa la differenza tra l’uguaglianza formale e quella sostanziale».

 

Viene in mente l’art. 3 della nostra Costituzione: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo delle persone. Reglitz si richiama al pensiero del filosofo statunitense John Rawls, secondo il quale «affinché un sistema di diritti sia equo, tutti i diritti devono avere per i loro titolari un certo valore che supera la mera uguaglianza formale». Cosa ne pensa, professor Tincani?

«Più che a Rawls, che pure è utile, io penserei a Amartya Kumar Sen (filosofo di origine indiana, ndr): la giustizia come uguaglianza di capacità. Io posso avere lo stesso diritto che hai tu, ma siamo “uguali” se abbiamo anche la stessa capacità di esercitarlo. Se io non ho Internet e devo andare all’Asl per prenotare una visita mentre tu lo puoi fare da casa, perché hai la connessione, non siamo uguali nelle nostre capacità. Io spendo più di te, in termini di denaro, di tempo eccetera, quindi i tuoi diritti sono più potenti dei miei». 

 

Pensiamo, come fa Reglitz, al lockdown. Chi non aveva la connessione a Internet è rimasto completamente solo, gli altri no.

«Certo. Anzi, collegandoci noi abbiamo avuto accesso a tante cose nuove, come le riunioni online, che abbiamo continuato a usare anche dopo. Abbiamo aggiunto una modalità di comunicazione e di apprendimento importante a quelle che già avevamo; in questo senso ‒ credo solo in questo senso ‒ siamo diventati “migliori”. Insomma, abbiamo visto dal vivo una cosa che forse non consideravamo: Internet è uno strumento potente per la promozione della persona umana, sia come singolo sia nelle formazioni sociali».

 

Qui siamo all’art. 2 della Costituzione. O no?

«Sì. Sono temi collegati agli aspetti di Internet come strumento per il lavoro e per l’istruzione. Quest’ultima durante la pandemia è proseguita proprio perché c’è il web; e così via. Per di più, nei Paesi sviluppati non esiste solo il telelavoro, ci sono anche tanti altri lavori che esistono solo su Internet e che rimangono preclusi a tutti coloro che non hanno una connessione di qualità. È un altro problema enorme del quale spesso ci dimentichiamo».

 

In definitiva, l’accesso a Internet  secondo lei è un diritto umano in sé o è un diritto strumentale per poter esercitare diritti umani?

«La mia opinione è che sia un diritto umano in sé. Perché non averlo significa, come minimo, che la possibilità di esercitare diritti umani non sia uguale. Per dirla in poche parole: il diritto all’uguaglianza e l’uguale dignità delle persone significa, in termini giuridici, uguale distribuzione dei diritti. Quindi se il 37% della popolazione mondiale non possiede un accesso a Internet, necessario per un’uguale distribuzione nell’esercizio di questi diritti, significa che la loro distribuzione non è universale. Dunque, sì: ritengo che effettivamente l’accesso al web dovrebbe essere inserito tra i diritti umani universali».

 

 

Per approfondire

Accesso all’educazione e “digital divide” in tempo di pandemia - Oltremare

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in Enciclopedia Treccani

Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Enciclopedia Treccani

Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in Ohchr.org

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in Atlante Treccani

Digital divide, in Enciclopedia della Scienza e della Tecnica

Rawls, John, in Enciclopedia Treccani

Sen, Amartya Kumar, in Enciclopedia Treccani

Merten Reglitz, The socio-economic argument for the human right to internet access, in SAGE Journals Home, 2023

 

Immagine: Studentessa in uniforme che utilizza un computer portatile nella campagna della Thailandia. Crediti: arrowsmith2 / Shutterstock.com

/magazine/atlante/societa/Quali_regole_scienza_responsabile.html

Quali regole per una scienza socialmente responsabile?

 

In quale modo gli scienziati devono comunicare con i cittadini per evitare che la divulgazione delle loro ricerche possa avere un effetto potenzialmente dannoso, se non pericoloso? Il problema non è banale, viste le sue ripercussioni a livello socio-culturale; tanto che ora ‒ come vedremo ‒ i professionisti della scienza hanno a disposizione un decalogo sul comportamento da tenere. Insomma, l’impatto della ricerca può essere negativo (in inglese esiste un neologismo per questo fenomeno: grimpact). Di certo l’esperienza della pandemia ha fatto comprendere che in alcuni casi si rischia di creare confusione, di cementare pregiudizi, di suscitare paure. Queste conseguenze sono state frequenti quando tra 2020 e 2022 epidemiologi, virologi e altri professionisti della sanità si sono fatti abbacinare dalle dinamiche della diretta e del palcoscenico mediatico, nei talk show televisivi e radiofonici o sul web; magari dopo essere stati posti volutamente, da giornalisti e conduttori in cerca di audience, a confronto con colleghi con i quali avevano divergenze o con fan di qualche teoria pseudo-scientifica.

 

 Come Treccani ha riportato nell’articolo I medici, i media e i social: le trappole da schivare, «conta quello che si dice, il modo in cui lo si dice e il contesto in cui tutto ciò viene messo in scena». In gioco ci sono la credibilità e l’autorevolezza degli scienziati: gli occhi sono sempre più puntati su di loro. Ancora Treccani ha ricordato il 2° Rapporto annuale sulla buona comunicazione dell’emergenza quotidiana, diffuso nel luglio 2022 da Ital Communications e CENSIS; vi si legge che «l’emergenza ha generato una domanda di informazione inedita da cui nessuno è escluso. Il 97,3% degli italiani nell’ultimo anno ha cercato notizie su tutte le fonti disponibili, off e on-line [...], determinando cambiamenti anche nel rapporto con i media. Oggi la corsa all’informazione riguarda la totalità della popolazione; una platea che [...] partecipa [...] alla creazione delle notizie e le diffonde».

 

Pare dunque assai opportuno il decalogo proposto agli scienziati di tutto il mondo da quattro loro colleghi, ricercatori nel campo della psicologia. Si intitola Dieci semplici regole per una scienza socialmente responsabile, pubblicato il 23 marzo 2023 sul magazine Plos Computational Biology. Alon Zivony (Università di Londra e di Sheffield - UK), Rasha Kardosh (Università di New York  - Usa), Liad Timmins (Università di Swansea - UK) e  Niv Reggev (Università del Negev, Be’er-Sheva - Israele) premettono: «Queste regole, che coprono le principali considerazioni lungo tutto il ciclo di vita di uno studio dall’inizio alla diffusione, non sono intese come un elenco prescrittivo o un codice di condotta deterministico. Piuttosto, hanno lo scopo di aiutare gli scienziati motivati a riflettere sulla loro responsabilità sociale come ricercatori e a impegnarsi attivamente nella valutazione del potenziale impatto sociale della loro ricerca». Perché i loro «studi possono anche infliggere indirettamente danni a individui e gruppi sociali attraverso il modo in cui sono progettati, riportati e diffusi [...]. Anche i ricercatori in buona fede potrebbero pubblicare lavori che hanno impatti sociali negativi a causa della mancanza di consapevolezza».

 

Un’importante questione di fondo sottolineata dai promotori di questa iniziativa riguarda l’influenza assai diversa che, rispetto al passato, gli studi scientifici hanno sull’opinione pubblica. Infatti, sebbene le preoccupazioni sull’impatto sociale della comunicazione scientifica siano tutt’altro che nuove (se ne parla da oltre un secolo), un tempo gli articoli scientifici erano «accessibili soltanto a relativamente pochi esperti»; invece oggi «possono raggiungere molto rapidamente un pubblico incredibilmente vasto, «molti milioni» di persone, «tramite notiziari online, Twitter, podcast, programmi tv, canali YouTube, forum online e così via. Questo pone un grande potere sulla sfera pubblica nelle mani di relativamente pochi scienziati. Inoltre, la velocità e l’ampiezza della divulgazione li espongono a una nuova sfida che potrebbe cogliere molti alla sprovvista: affrontare la miriade di modi in cui la ricerca pubblicata sarà interpretata e valutata dal grande pubblico».

 

Non solo: gli scienziati sono spinti «a ignorare qualsiasi aspetto del loro lavoro che ostacoli una rapida pubblicazione: come affrontare i limiti dei loro metodi o considerare le potenziali implicazioni e interpretazioni a lungo termine e ampie dei loro risultati. In questo clima, le attuali strutture scientifiche scoraggiano la responsabilità sociale». In che senso? Zivony, Kardosh, Timmins e Reggev dicono chiaramente che «la competizione per i posti di lavoro e le opportunità di finanziamento nel mondo accademico spinge gli scienziati a sfornare pubblicazioni ad alto impatto con un ritmo sempre crescente. Di conseguenza, per massimizzare l’impatto, sono incoraggiati a pubblicare scoperte nuove o controverse, esagerando la veridicità delle loro conclusioni. In breve, gli scienziati sono spinti a competere per l’attenzione del pubblico, ma a minimizzare o ignorare del tutto qualsiasi impatto sociale negativo che la loro ricerca potrebbe avere».        

Il decalogo è dunque dedicato allo «scienziato motivato»: quello che vuole prevenire eventuali contraccolpi negativi, ma teme che possano verificarsi «a causa della sua mancanza di consapevolezza» a proposito delle misure necessarie per evitarli. Quali sono le dieci regole proposte, descritte dettagliatamente nel documento citato? Queste:

 

1) - Ottenere con largo anticipo punti di vista diversi sul progetto di ricerca da parte della comunità scientifica e anche di coloro che, nella società, ne sono più toccati, coinvolgendoli fin dalle prime battute.

2) - Comprendere i limiti del progetto rispetto alle ipotesi di ricerca. Ciò può aiutare a migliorarlo e a perfezionare i metodi di indagine.

3) - Tenere presente il contesto sociale e quello storico in cui si innesta la ricerca, sia in fase di progettazione sia come parte integrante della comunicazione.

4) - Essere trasparenti, con lo sviluppo di un protocollo di studio preliminare completo che descriva in dettaglio le ipotesi da verificare, le procedure per ottenere i dati pertinenti e i metodi e le analisi necessari per verificare quelle ipotesi.

5) - Segnalare i risultati e i limiti in modo accurato e chiaro. Questo perché pubblicare un articolo su una rivista prestigiosa è un importante trampolino di lancio nella carriera di uno scienziato. Tuttavia, queste riviste spesso incoraggiano a sopravvalutare e sensazionalizzare l’impatto dei risultati. Ciò va a scapito della trasparenza. Invece descrivere le scoperte chiaramente e senza esagerare riduce potenziali interpretazioni errate e salvaguarda da un loro uso sbagliato.

6) - Scegliere attentamente la terminologia nella divulgazione, perché quella molto specialistica può essere fraintesa e causare problemi, aggravati dalla continua evoluzione del linguaggio e dalla sua condivisione/comprensione.

7) - Ottenere dall’editore e dai suoi revisori un esame dei testi rigoroso. Pratiche editoriali scorrette possono portare a risultati dannosi sia per gli autori che per la sfera pubblica.

8) - Assicurare la corretta interpretazione dei risultati. Per attrarre un vasto pubblico, i comunicati stampa tendono a semplificare o sensazionalizzare i risultati. I media tradizionali e i social media possono ulteriormente amplificare questa tendenza, minando così gli sforzi dei ricercatori responsabili.                                        

9) - Affrontare le critiche dei colleghi e del pubblico con rispetto. Gli studi che toccano questioni socialmente controverse si tradurranno spesso in risposte accese da parte di altri scienziati e delle comunità interessate da quel lavoro. Le piattaforme on-line, che incoraggiano risposte rapide e coinvolgimento emotivo, possono esacerbare queste risposte e moltiplicare interpretazioni polarizzate. Con risultati molto dannosi.

10) - Correggere o ritrattare determinati aspetti della ricerca, quando soltanto dopo la divulgazione ci si rende conto di implicazioni negative. Ciò permette di fare capire al pubblico che gli autori, in particolare, e gli scienziati, in generale, prendono sul serio le responsabilità loro affidate.

 

Ovviamente questi suggerimenti sono preziosi per la stessa comunità scientifica italiana. Tuttavia, bisognerebbe che anche la comunità dei giornalisti professionali si ponesse maggiormente il problema della verifica delle fonti e della necessità di chiedere chiarimenti in caso di dubbi, invece di inseguire facili sensazionalismi e titoli ad effetto. Un esempio recente? Il 5 aprile l’Accademia dei Georgofili (da oltre 250 anni promuove gli studi di agronomia, selvicoltura, economia e geografia agraria) ha dovuto pubblicare una smentita riferendosi a un suo progetto ‒ Phenomenology of Neapolitan Pizza Baking in a Traditional Wood-Fired Oven ‒ coordinato dal professor Paolo Masi dell’Università di Napoli. È successo perché moltissimi media hanno scritto che, secondo lo studio, non è vero che le parti bruciate della pizza siano cancerogene. I ricercatori hanno invece stabilito che, siccome la parte bruciata di una pizza cotta nel forno a legna non supera il 4% della superficie totale, per evitare gli effetti cancerogeni basta, banalmente, scartare quella piccola porzione. È evidente che i giornalisti non sono stati in grado di capire e/o non hanno verificato la notizia. In questo caso c’è di mezzo “soltanto” una pizza napoletana. Però più spesso, come ci ha insegnato la pandemia, la posta in gioco è ben più alta.

 

 

Per approfondire

 

I medici, i media e i social: le trappole da schivare, in Lingua Italiana,  Treccani

La buona comunicazione dell’emergenza quotidiana, CENSIS

La buona comunicazione dell’emergenza quotidiana, in Atlante, Treccani

 Aniello Falciano, Mauro Moresi, Paolo Masi, Phenomenology of Neapolitan Pizza Baking in a Traditional Wood-Fired Oven, in Foods 2023, 12 (4)

Alon Zivony, Rasha Kardosh, Liadh Timmins, Niv Reggev, Ten simple rules for socially responsible science, in PLOS Computational Biology 2023, 9(3)

 

Immagine: Un ricercatore lavora con il microscopio per lo sviluppo del vaccino contro il Coronavirus in un laboratorio di ricerca farmaceutica. Crediti: Mongkolchon Akesin / Shutterstock.com

/magazine/atlante/societa/Cosa_ansia_climatica_cosa_comporta.html

Cos’è l’ansia climatica e cosa comporta?

 

Tutti o quasi sappiamo cos’è la meteoropatia, l’insieme di disturbi di natura fisica e psichica provocati dalle variazioni del tempo meteorologico e dai cambiamenti legati al passare della stagioni. Il clima influenza inevitabilmente il nostro corpo e il nostro stato d’animo:  un  legame cui nessuno può sottrarsi, sebbene ci sia chi è più predisposto al disagio che ne consegue. Tuttavia, in questi ultimi anni, dichiararsi meteoropatici può sembrare un atteggiamento d’altri tempi. Perché i “vecchi” ritmi stagionali nella zona temperata del pianeta (la nostra) sono sempre più imprecisi e ovunque la frequenza e l’intensità di pioggia, neve, freddo e caldo appaiono alterate. Cosicché, per essere al passo con i tempi del surriscaldamento globale e del climate change, oggi, purtroppo, rischia di andare per la maggiore l’ecoansia o ansia climatica.

Definita per la prima volta in inglese come eco-anxiety, non è uno dei tanti neologismi trendy che attraversano i cieli della cultura pop. Semmai è entrata a far parte della letteratura scientifica: indica la preoccupazione o l’ansia cronica determinate dal destino ambientale del pianeta, sconvolto dai cambiamenti climatici. È un problema così pratico, e per nulla teorico, che sul magazine on-line dell’Humanitas Research Hospital, gruppo privato ospedaliero e di ricerca milanese, è stato dedicato un articolo alla questione: si intitola Eco ansia o ansia climatica: cos’è e come riconoscerla e riporta le considerazioni di Giampaolo Perna, professore ordinario di Psichiatria all’Humanitas University.

Il professore spiega che tra i fattori che sembrano esporre maggiormente ai sintomi dell’ecoansia, con ripercussioni sul benessere emotivo e psicologico, ci sono «la giovane età», l’«impegno attivo nei confronti della crisi ambientale» (vengono in mente i ragazzi che manifestano per chiedere agli Stati interventi che fermino il climate change), il fatto di «lavorare nell’ambito della sostenibilità» ecologica e l’«ampia esposizione mediatica» (a proposito di quest’ultima sovviene la correlazione col doomscrolling, disturbo legato alla ricerca ossessiva di notizie ansiogene). I sintomi più comuni sono ansia, tensione, difficoltà nelle relazioni, insonnia, dettati anche dal timore di essere corresponsabili del degrado ambientale e dal pensiero fisso su questo problema. Si può provare la solastalgia, percezione ansiogena della mancanza di un futuro a causa dei disastri ambientali sempre più frequenti (il neologismo, coniato nel 2015 dal filosofo australiano Glenn Albrecht, deriva da solace e nostalgia, quindi nostalgia del conforto). Chi soffre di ecoansia può anche arrivare a decisioni estreme, come la scelta di non fare figli.

«Nel caso di disastri naturali, che possono essere dovuti o meno a eventi climatici estremi causati dal riscaldamento globale», spiega lo psichiatra, «le conseguenze sulla salute mentale possono durare nel tempo e manifestarsi anche con sintomi di stress post-traumatico». Capita ovviamente a chi è direttamente vittima dei disastri, però questi disturbi possono ripercuotersi anche su chi soffre di ansia climatica. Certo, è giusto non restare indifferenti nei confronti del futuro del nostro pianeta, tuttavia, consiglia il professore, se «i sintomi di ansia associati ai temi ambientali arrivano a paralizzare la vita di una persona o diventare un’ossessione che assorbe totalmente tempo ed energie, è fondamentale parlarne in famiglia o con gli amici, ridurre l’esposizione ai media durante la giornata e rivolgersi a uno psichiatra/psicologo».

Certamente è legittimo chiedersi, come ha fatto Claudia Bellante ne Il Tascabile di Treccani, se questo genere di ansie siano un lusso che possono permettersi soltanto coloro che vivono in società ricche o benestanti, visto che altrove i problemi percepiti come urgenti sono ben altri. Ed è vero che la salute mentale non dovrebbe essere «appannaggio esclusivo di coloro che vivono nei paesi sviluppati del Nord globale» (lo ha detto a Bellante la professoressa Mala Rao, del dipartimento di Assistenza primaria e Salute pubblica dell’Imperial College di Londra). In effetti una ricerca, pubblicata nell’agosto del 2021 e svolta da cinque scienziati australiani, cita proprio la questione delle differenze tra le società ricche e le altre, rilevando che «la maggior parte delle prove proviene dai paesi occidentali [...]. Sono necessarie ricerche future nei paesi non occidentali. Le popolazioni indigene, i bambini, i giovani e coloro che sono legati al mondo naturale sono i più colpiti dall’ansia ecologica e sono identificati come vulnerabili».

Resta il fatto che nelle nostre società di stampo occidentale il problema esiste, nonostante ci sia un accesso privilegiato alle cure in questo campo, come in molti altri, rispetto al cosiddetto Sud del mondo. Così l’indagine sull’eco-anxiety è al centro di ricerche serissime. Il primo studio globale sull’ecoansia tra adolescenti e giovani ‒ e sulla sua relazione con la risposta da parte dei governi di fronte all’emergenza ‒ è quello pubblicato nel settembre 2021 da dieci ricercatori di Regno Unito, Stati Uniti e Finlandia. Hanno indagato lavorando su un campione di 10.000 volontari tra 16 e 25 anni di età, residenti in dieci Paesi (Regno Unito, Finlandia, Francia, Australia, Portogallo, Brasile, India, Filippine, Nigeria e Stati Uniti). Il presupposto di fondo è stato questo: «Il cambiamento climatico ha implicazioni significative per la salute e il futuro di bambini e giovani, ma questi hanno poco potere per limitarne i danni, rendendoli vulnerabili all’aumento dell’ansia climatica. Studi qualitativi mostrano che l’ansia climatica è associata a percezioni di azioni inadeguate da parte di adulti e governi, sentimenti di tradimento, abbandono e danno morale».

Il risultato della ricerca? «Gli intervistati erano preoccupati per il cambiamento climatico (59% molto o estremamente preoccupato, 84% almeno moderatamente preoccupato). Oltre il 50% si sentiva triste, ansioso, arrabbiato, impotente e colpevole. Oltre il 45% ha affermato che i propri sentimenti riguardo al cambiamento climatico hanno influenzato negativamente la vita quotidiana personale e il suo funzionamento; molti hanno riportato un numero elevato di pensieri negativi sul cambiamento climatico. Gli intervistati hanno valutato negativamente la risposta del loro governo al cambiamento climatico e hanno riferito maggiori sentimenti di tradimento che di rassicurazione. Le correlazioni hanno indicato che l’ansia e il disagio legati al clima erano significativamente correlati alla percezione di una risposta inadeguata del governo e ai sentimenti di tradimento associati».

Lo studio scientifico più recente, pubblicato a dicembre 2002, è stato svolto da 43 scienziati, intervistando quasi 13.000 persone in 32 Paesi di tutti i continenti, anche al di fuori del mondo benestante: per esempio, Italia, Brasile, Cina, Colombia, Australia, Egitto, Finlandia, India, Iran, Russia, Nigeria, Palestina, Turchia e Uganda. I risultati «mostrano che l’ansia climatica è positivamente correlata al tasso di esposizione alle informazioni sugli impatti del cambiamento climatico, alla quantità di attenzione che le persone prestano alle informazioni sul cambiamento climatico e alla [...] risposta emotiva al cambiamento climatico». Gli effetti dell’ecoansia climatica sul benessere mentale sono stati considerati negativi in 31 Paesi su 32. Insomma, a livello internazionale, a prescindere dal grado della qualità della vita nelle aree coinvolte, «le emozioni negative legate al clima» sono considerate «una possibile minaccia al benessere».

Per quel che riguarda l’Italia, la ricerca appena citata mostra che il 25,2% degli intervistati si dichiara “molto o estremamente teso”, il 23,8% “molto o estremamente ansioso”, il 45,6% “molto o estremamente preoccupato”, il 24,1% “molto o estremamente terrorizzato”. Uno studio precedente (agosto 2021), svolto nell’ambito del dipartimento di Scienze della salute dell’Università di Firenze, conferma che il climate change sta avendo un impatto anche sulla salute mentale degli italiani. «Per questi motivi», si legge nelle conclusioni, «è fondamentale disporre di una misura dell’ansia da cambiamento climatico in Italia, al fine di affrontarne adeguatamente l’impatto psicologico». Nell’attesa, la ricerca scientifica offre agli ecoansiosi anche una scappatoia positiva. Un’indagine australiana, pubblicata a marzo del 2021, svela che sperimentare l’ecorabbia produce migliori risultati sul fronte della salute mentale rispetto all’ecoansia e favorisce un maggiore impegno nell’attivismo pro clima e anche nei comportamenti personali. Insomma, l’ecorabbia costruttiva protegge in modo inequivocabile sia l’ambiente che il benessere personale. In parole povere, il concetto potrebbe essere tradotto con questo slogan: “L’ambiente è in pericolo, insieme al tuo futuro? Non stressarti, arrabbiati. E passa all’azione!”.

 

Immagine: Bambina seduta sulla terra incrinata dalla siccità. Crediti: seamind224 / Shutterstock.com

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Più smart working, meno traffico e inquinamento

 

Sorpresa: il lavoro a distanza fa bene anche alla salute di chi non lavora. E pure a quella di coloro che lavorano in modo “tradizionale”. Perché? Perché chi lo pratica ‒ oltre a godersi di più la vita privata - produce meno gas e particelle di scarico, responsabili di tantissime malattie e di parecchi decessi prematuri. Il benefico contraccolpo ambientalista di quello che ci siamo abituati a definire smart working (spesso impropriamente, viste le varie differenze) è confermato da uno studio svolto in Italia da ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Ricorrendo a quel tipo di attività per due giorni a settimana (100 all’anno, escluso il periodo delle ferie) si evita l’emissione di circa 600 kg di anidride carbonica in 12 mesi per ogni lavoratore: il 40% in meno rispetto al dato IEA (International Energy Agency) di emissione pro capite nel 2018. Inoltre, si ottengono notevoli risparmi in termini di tempo (circa 150 ore), distanza percorsa (3.500 km in meno) e carburante (-260 litri di benzina e -237 di gasolio). Insomma, il lavoro da remoto permette a un singolo lavoratore pendolare (che usa in tutto o in parte un’auto tradizionale) di non immettere, ogni giorno, 6 kg di CO2 nell’atmosfera e di non consumare circa 2,5 litri di gasolio o benzina. Si riducono altresì, sempre per ogni persona in un giorno, anche tutti gli altri inquinanti derivanti dal traffico su gomma: ossidi di azoto, monossido di carbonio, PM10 e  PM2,5. I risultati della ricerca sono appena stati pubblicati sulla rivista internazionale Applied Sciences, edita dal MPDI (Multidisciplinary Digital Publishing Institute) di Zurigo, sotto il titolo Potential Benefits of Remote Working on Urban Mobility and Related Environmental Impacts: Results from a Case Study in Italy. L’indagine ha riguardato 3.397 persone che lavorano nella Pubblica amministrazione. È stata poi focalizzata su quattro città campione ‒ Roma, Torino, Bologna e Trento ‒ nel quadriennio 2015-18; si è quindi concentrata sulle risposte date da 1.269 persone che hanno la possibilità di svolgere i loro compiti a distanza e utilizzano l’auto per andare in ufficio, in modo esclusivo o in combinazione con altri mezzi. Siccome i dati si riferiscono ai lavoratori da remoto prima del Covid-19, si tratta di individui che hanno scelto liberamente di lavorare da casa per diversi motivi, senza essere costretti da una situazione di emergenza.

Seicento kg (6 quintali) di anidride carbonica per persona in un anno sono poca cosa, di fronte ai 325 milioni di tonnellate totali emessi in Italia nel 2021? Mica tanto. Facciamo qualche calcolo. Sul piano teorico, contando i 570.000 lavoratori italiani che svolgevano lavoro a distanza nel 2019, si arriva a 342 milioni di kg di CO2, cioè 342.000 tonnellate. Tuttavia, dopo il boom imprevedibile di questa pratica a causa delle misure anti-pandemiche, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano le persone che hanno lavorato tutti i giorni da remoto (per mesi) nel 2020 sono state 6,58 milioni (un terzo dei dipendenti italiani); quindi durante quel lungo periodo è stata evitata, su base annua, l’emissione di 1.500 kg per persona, pari, contando 200 giorni lavorativi, a 9.870.000 tonnellate di anidride carbonica in 12 mesi. E oggi? L’11 gennaio 2023 ‒ dopo la fine dello stato di emergenza ‒ i lavoratori agili complessivi risultavano essere quasi 3,6 milioni. Pertanto, contando due giorni a settimana trascorsi lavorando da casa (in base ai criteri usati da ENEA), a fine anno la quantità di CO2 non emessa arriverà a 2.560.000 tonnellate (il paragone pare un po’ bislacco ma rende l’idea: è il peso di 5.639 elettrotreni Frecciarossa). Per giunta, quelle emissioni si concentrano nelle città, dove quindi sono ad alta densità e ancora più dannose.

Spiega Roberta Roberto, ricercatrice di ENEA nel dipartimento Tecnologie energetiche e Fonti rinnovabili, co-autrice dell’indagine insieme ai colleghi Bruna Felici, Alessandro Zini, Marco Rao e a Michel Noussan: «In Italia circa un cittadino su due possiede un’auto. Il nostro Paese è al secondo posto nell’Unione europea per il più elevato tasso di motorizzazione, dopo il Lussemburgo». Lo conferma lo studio La via italiana alla mobilità connessa, realizzato da The European House - Ambrosetti con OCTO Telematics: l’Italia è seconda nella classifica europea con circa 663 veicoli ogni 1.000 abitanti e le auto, da sole, valgono l’80% del traffico totale dei passeggeri; hanno più vetture i lussemburghesi (681), terzi i tedeschi (574), poi spagnoli (513), francesi (482) e britannici (473). «Il lavoro agile e ogni altra forma di lavoro a distanza, tra cui lo smart working, hanno mostrato di poter essere un importante strumento di cambiamento; in grado non solo di migliorare la qualità di vita professionale e personale, ma anche di ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino e di rivitalizzare intere aree periferiche e quartieri che sono considerati dormitori», precisa Roberto. Perché sono state scelte Roma, Bologna, Torino e Trento per svolgere la ricerca? Per due motivi, risponde Bruna Felici, ricercatrice dell’Unità Studi, Analisi e Valutazioni. «Il primo è legato alle loro caratteristiche, legate a territorio e profilo storico. Queste inducono a supporre impatti differenti sulla mobilità cittadina. Inoltre un aspetto molto pratico è legato al fatto che ci sono state molte risposte al nostro questionario da parte dei dipendenti pubblici che lavorano in quelle città, facendolo da casa in media per due giorni alla settimana».

I dati raccolti da ENEA svelano che mediamente le persone intervistate percorrono 35 km al giorno per una durata di 1 ora e 20 minuti. A Roma però c’è la situazione peggiore, con un tempo di percorrenza medio di 2 ore: nella sintesi della ricerca si legge che probabilmente succede «a causa delle maggiori distanze (un lavoratore romano su 5 percorre più di 100 km al giorno) e del traffico più intenso. Infatti, nella capitale gli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro e studio sono circa 420 mila mentre ogni persona trascorre nel traffico 82 ore all’anno». La metà del campione dichiara di viaggiare esclusivamente con mezzi di trasporto privati a motore ​​(47% in auto e 2% su due ruote), mentre il 17% viaggia esclusivamente con i mezzi pubblici e il 16% con un mix di trasporto pubblico/privato. Trento risulta la città con il maggior ricorso a mezzi privati a combustione interna negli spostamenti casa-lavoro (62,9%), seguita da Roma (54,4%), Bologna (44,9%) e Torino (38,2%).

«L’uso di mezzi privati garantisce soluzioni flessibili per quel che riguarda risparmio di tempo e autonomia di movimento, molto importanti soprattutto per chi ha figli che vanno a scuola. Il trasporto pubblico, invece, è scelto soprattutto per risparmiare denaro o quando mancano i parcheggi», precisa Alessandro Zini, dell’Unità Studi, Analisi e Valutazioni. Di certo, l’indagine dell’ENEA non è soltanto destinata agli scienziati, né è fine a se stessa. Nelle intenzioni dei ricercatori c’è anche, e forse soprattutto, un obiettivo pratico: invece di gestire il lavoro a distanza, sdoganato dalla pandemia, solo in versione emergenziale, chi fa le scelte politiche dovrebbe approfittarne per farlo diventare strutturale. Non solo per quel che riguarda l’organizzazione nelle aziende private e pubbliche, ma anche per «supportare la definizione di nuove strategie [...] che potrebbero aiutare i decisori politici a ridurre una parte della domanda sistematica di mobilità», visto che in Italia «il settore dei trasporti è stato responsabile del 25,2% delle emissioni nazionali totali di gas a effetto serra nel 2019, di cui, escludendo l’aviazione internazionale e il trasporto marittimo internazionale, il 92,6% proviene dal trasporto su strada, con le auto in primissima fila (68,7%)». Insomma, quella ricerca potrebbe aiutare a risolvere qualche problema anche in nome del popolo inquinato. Tutto il popolo, non solo quello dei lavoratori.

 

Per saperne di più

Potential Benefits of Remote Working on Urban Mobility and Related Environmental Impacts: Results from a Case Study in Italy

Smart Worker: chi sono e quanti sono i lavoratori agili in Italia

Sempre più inquinata l’aria delle città italiane | Società, ATLANTE | Treccani, il portale del sapere

Telelavoro e Smart Working a confronto: funzionamento e differenze

The italian Way to the Connected Mobility

 

Immagine: Ingorgo in una strada di Roma. Crediti: k_samurkas / Shutterstock.com

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L’impatto del gas naturale su salute e ambiente

 

Quanto è dannoso il gas naturale per l’ambiente e la salute? Il quesito non è secondario, considerando che in Italia viene usato per produrre il 50% dell’energia elettrica, tanto che siamo al primo posto tra i Paesi dell’Unione Europea (UE), ben oltre la media (19%). La risposta è: provoca molti danni, anche se non sembra. Infatti, prima di entrare nei dettagli, occorre prendere atto di una circostanza: chi non si occupa di temi ambientali di solito pensa che non sia inquinante. Sarà che vediamo solo esili pennacchi di fumo uscire dalle ciminiere delle centrali e dai camini delle case, quindi ne deduciamo che i suoi effetti ambientali siano altrettanto tenui o persino nulli. Tanto da immaginare che, eliminando altri combustibili fossili come petrolio e carbone, si possa tirare un sospiro, anzi un respiro, di sollievo. A quanto pare, la pensa così anche la maggioranza del Parlamento europeo. Tra lo sconcerto degli ambientalisti, è stata fatta una scelta significativa: a luglio del 2022 il Parlamento, preso tra due fuochi (ansia “energetica” per la guerra russo-ucraina e piano REPowerEU), ha confermato la definizione del gas come fonte di energia sostenibile, insieme al nucleare. Cosicché, con una maggioranza di 328 voti (278 deputati contro, 33 astenuti), è stato deciso che chi opera in quel settore può ricevere dall’UE i fondi destinati ai cosiddetti “investimenti green”.

Tornando al quesito iniziale, nessuno nega che per ora il gas serva. Pesano le tensioni internazionali. Pesano anche i tempi necessari per sfruttare in modo decisivo le fonti davvero alternative (solare ed eolico soprattutto): soltanto nel 2040 dovrebbero fornire il 50% dell’energia usata nell’UE e il 30% di quella necessaria in tutto il pianeta. Però occorre essere consapevoli dei rischi e non nasconderli. Perché anche il gas provoca moltissimi danni alla salute, con costi astronomici in campo sanitario. Succede soprattutto, guarda caso…, in Italia. Il rapporto False fix: the hidden health impacts of Europe’s fossil gas dependency ‒ diffuso a maggio da HEAL (Health and Environment Alliance), CREA (Centre for Research on Energy and Clean Air), Ember, Europe Beyond Coal, Food & Water Action e presentato a fine gennaio in Italia con ISDE (International Society of Doctors for the Environment) e ReCommon ‒ svela che il nostro Paese è quello che paga di più i costi sanitari. Con un conto da 2,1 miliardi l’anno, visto che a livello europeo (27 Paesi dell’UE e Regno Unito) ammontavano, nel 2019, a 8,7 miliardi. «Un rischio», si legge su Sanitainformazione.it, «molto alto e forse sottostimato dai governi che, secondo i proponenti del rapporto, dovrebbero rivedere le politiche energetiche».

Il report, redatto da varie organizzazioni non governative, ha quantificato «per la prima volta gli impatti sulla salute della combustione di gas fossile per la produzione di energia elettrica, escludendo le abitazioni private». Si legge che, «mentre la combustione del carbone continua a essere la forma di produzione di energia più inquinante e dannosa per la salute, i costi del gas fossile sono stati grossolanamente sottovalutati. Ma non possono essere trascurati». Il bilancio dell’impatto diretto sulla salute prodotto dalla combustione di gas nel solo 2019? Nei Paesi esaminati ci sono stati 2.864 decessi prematuri, oltre 15.000 casi di malattie respiratorie in adulti e bambini, più di 4.100 ricoveri ospedalieri e oltre 5 milioni di giorni di lavoro persi a causa delle malattie; un impatto molto diretto dato che le centrali elettriche a gas sono situate in aree ad alta densità di popolazione, quindi un gran numero di persone è in balia dell’inquinamento atmosferico conseguente. 

A Sanitàinformazione.it Agostino Di Ciaula ‒ presidente del comitato scientifico dell’ISDE e internista al Policlinico di Bari ‒ ha spiegato: «Il falso presupposto è che il gas sia considerato il più verde tra i combustibili fossili. Inquina di meno ma non vuol dire che non inquina. Con il gas si produce poco particolato primario, ma non è l’unico inquinante. Bruciare gas significa produrre inquinanti gassosi altrettanto pericolosi: tra cui anche particolato, biossido di azoto e biossido di zolfo, che generano importanti conseguenze sanitarie sul breve periodo. In una stessa giornata, se aumenta l’ossido di azoto aumenta la frequenza di asma, infarti, disturbi cerebrovascolari, alterazioni della gravidanza».

Per giunta, il gas naturale (miscela di idrocarburi gassosi costituita principalmente da metano oltre a varie quantità di altri composti organici) contribuisce alle emissioni dei gas serra che causano il surriscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Lo fa attraverso la combustione. Però lo stesso metano è un gas serra, fino a 90 volte più efficace della CO2 nell’ingabbiare il calore; ebbene, parecchio di questo gas si disperde nell’atmosfera attraverso gli impianti di estrazione. Una ricerca pubblicata sulla rivista Science dai ricercatori del Chemical Sciences Laboratory del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) sostiene che le emissioni di metano causate negli Stati Uniti da problemi tecnici durante le estrazioni arrivano a 13 milioni di tonnellate, «il 60% in più di quanto era stato stimato prima dalla US Environmental Protection Agency». Nel report americano si legge che «l’impatto sul clima di queste perdite è stato più o meno equivalente a quello delle emissioni di anidride carbonica di tutte le centrali elettriche a carbone degli Stati Uniti in funzione nel 2015». Lo studio stima che le emissioni totali negli Stati Uniti provocate da guasti e malfunzionamenti siano pari al 2,3% della produzione: abbastanza per erodere il potenziale beneficio climatico del passaggio dal carbone al gas naturale negli ultimi 20 anni. Per non parlare del fatto che il metano perso vale 2 miliardi di dollari, secondo l’Environmental Defense Fund: potrebbe riscaldare 10 milioni di case per un anno. Sembra che non ci siano ricerche su analoghe perdite nel resto del mondo, Italia inclusa. Però non è difficile supporre che le prestazioni siano analoghe.

Le conclusioni? Antonio Tricarico, ricercatore di ReCommon, durante la presentazione italiana del report False fix ha detto che in Italia «la revisione del Piano Nazionale per l’Energia e il Clima prevista quest’anno dovrebbe mirare ad adottare l’obiettivo di un sistema elettrico libero da fonti fossili entro il 2035 e sollecitare un’ordinata eliminazione del gas entro tale data». Frida Kieninger, direttrice degli affari europei di Food & Water Action, ha affermato: «I piani dell’UE per sostituire gran parte delle importazioni di gas russo con gas fossile liquefatto (GNL) danneggeranno le comunità di tutto il pianeta. Se l’Europa non riesce a svezzarsi da tutto il gas, non sta solo fallendo nel proteggere la salute degli europei. Rappresenta una seria minaccia per la salute di coloro che sono colpiti dall’avidità di combustibili fossili da parte dell’Europa». Infine, Vlatka Matkovic, senior health and energy officer di HEAL, ha dichiarato: «Gli effetti sulla salute e i costi derivanti dalla combustione di gas fossili sono stati enormemente sottostimati nei dibattiti pubblici e politici, ma non possono più essere ignorati».

Il bello è ‒ si fa per dire ‒ che il rapporto cui si riferiscono è stato realizzato e pubblicato non solo col supporto finanziario della European Climate Foundation (ECF), ma anche con quello dell’Unione Europea. Peccato che la maggioranza dei parlamentari europei non l’abbia letto o l’abbia dimenticato, visto che, nonostante i dati fossero già stati diffusi a maggio del 2022, a luglio hanno votato per finanziare il consumo di gas naturale, promosso come «fonte di energia sostenibile». Non solo. La Commissione europea sta elaborando un testo che prevede l’abbandono graduale (ma obbligatorio) delle caldaie domestiche «a combustibili fossili» (cioè, a gas), da completare entro il 2029, passando poi a fonti di energia rinnovabile. Il motivo: inquinano molto. Insomma, lo stesso gas inquinante si trasforma, nei provvedimenti dell’Unione, da sostenibile (se usato per produrre energia elettrica) a dannoso (quando si utilizza nelle case).

 

Immagine: Inquinamento atmosferico urbano, Milano (13 dicembre 2016). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

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Crescono i thriver, ossia coloro che scelgono di rallentare i ritmi lavorativi

 

Una quindicina di anni fa l’inglesismo workaholic era molto di moda anche in Italia. Tanto che nel 2008 fu inserito dal Vocabolario Treccani tra i neologismi: «Chi dipende, in maniera ossessiva, dal proprio lavoro; maniacalmente dedicato al lavoro». Ora l’era del workaholism sembra in declino. Però nel 2023 sta comparendo un sostantivo che lascia ben sperare: vista la mania per gli anglicismi (qui ne leggerete parecchi), potrebbe essere destinato ad altrettanto successo. Qual è la parola? Thriver. Oggi è una novità anche in inglese: deriva dal verbo thrive, che significa “prosperare”, “crescere bene”. È vero che nel 2021, in un saggio della psicologa americana Michele Borba, è stato usato quel termine come titolo, però lì si riferisce all’educazione da dare ai bimbi perché possano essere ottimisti in tempi incerti. Nel nostro caso di definisce thriver una persona che sa gestire la vita privata e quella professionale in modo diametralmente opposto rispetto a un workaholic; perché ha deciso di rallentare i propri ritmi lavorativi per “germogliare” su altri fronti più rilassanti, inclusa la famiglia.

Il termine in quest’ultimo senso è appena stato utilizzato da Euromonitor International (il principale fornitore indipendente e globale di ricerche di mercato strategiche, specializzato in business intelligence), per il report Top 10 Global Consumer Trends 2023, realizzato testando un campione di cittadini di un centinaio di Paesi con economie di mercato. Lo scopo: fornire alle aziende informazioni sul modo in cui entrare in sintonia con le sensibilità dei consumatori. Tuttavia, il rapporto si rivela interessante in generale. Coordinato da Alison Angus e Gina Westbrook, è dedicato alle dieci tendenze per il 2023 a livello globale. Una di queste è, appunto, inquadrata sotto il titolo Thriver. Qui si racconta che nel 2022, durante il percorso di ritorno alla normalità pre-Covid, dopo un inizio euforico si è diffusa la voglia di un cambio di passo: verso un’esistenza meno caotica e stressante. Il 55% delle persone intervistate sostiene che sarà più felice da qui ai prossimi 5 anni e il 48% è certo di potersi garantire così anche una vita più sana. Mentre il 53% ammette che nel corso del 2022 ha ridotto eccessivamente il limite tra lavoro e vita personale e il 45% confessa di essersi sentito troppo sotto pressione, complice l’invasività di telelavoro e smart working.

Nel report si legge che gli individui «hanno superato il punto di esaurimento. La stanchezza è ai massimi storici. [...] Quando è troppo è troppo». Così «si rifiutano di lavorare tantissimo a scapito del loro benessere mentale. [...] Le cose che una volta contavano non contano, almeno non nel modo in cui lo facevano prima». I cittadini di tutto il mondo sembrano desiderosi di «andare avanti nella vita adempiendo ai doveri quotidiani, però senza esaurire la loro energia. I thriver si stanno mettendo in pausa, facendo un passo indietro e lasciando perdere qualsiasi cosa al di fuori del loro controllo. [...] Mettono le esigenze personali sopra ogni altra cosa, [...] cercando tranquillità e conforto».

Cosa si aspettano i lavoratori? «Confini chiari (tra vita privata e vita lavorativa, ndr), carichi di lavoro gestibili, equi compensi e comunicazioni trasparenti». Euromonitor cita alcune aziende che hanno garantito ulteriori ferie settimanali retribuite, come parte del programma di benefici per prevenire il burn-out, cioè lo stress psico-emotivo da lavoro. Sono citati anche i casi in cui si sta testando una settimana lavorativa di quattro giorni senza perdita di stipendio «per migliorare il morale e la produttività». Di certo, si legge nel rapporto, «i dipendenti richiederanno una maggiore qualità della vita in ufficio prima di tornare definitivamente alla propria scrivania. Le aziende devono fornire sbocchi che diano sostegno e rassicurazione».

Oltre alla categoria dei thriver, Euromonitor ne segnala altre nove legate alla necessità di «riscoprirsi e proteggersi». Sono: Automazione autentica (l’esigenza di una tecnologia digitale che abbia un “tocco umano”); Budgeteers (coloro che stanno attenti al budget, con un aumento di chi sceglie di risparmiare); Ecologico economico (i consumi tengono conto dell’impatto ambientale). Qui e ora, nel senso che la gente non sa «cosa porterà il domani», quindi vive il presente, nella consapevolezza che «il denaro non è l’unico bene prezioso. Il tempo, la salute e il benessere sono ugualmente importanti». La categoria Routine rinnovata si riferisce al fatto che le persone «si stanno adattando a nuovi orari e sono ansiose di andare avanti con le loro vite nonostante le incertezze future».

Alla condizione femminile è dedicata la categoria La donna si ribella: «Il movimento #MeToo è stato un catalizzatore per il cambiamento sociale. Il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade negli USA (consentiva l’aborto in tutti gli Stati Uniti, ndr), l’assassinio di Mahsa Amini in Iran e il clamoroso femminicidio della diciottenne Debanhi Escobar in Messico, tra le altre ingiustizie, hanno suscitato indignazione in tutto il mondo. Sono stati compiuti passi per affrontare le barriere sistemiche, ma la discriminazione di genere rimane un problema evidente. Le donne rompono in modo proattivo gli stigmi e sfidano i pregiudizi in modo regolare. Stanno sfidando le norme sociali e i ruoli stereotipati mentre affermano la loro autorevolezza». La categoria Giovane e disorientato riguarda gli under 25: «La pandemia ha plasmato i loro anni più formativi, il che si traduce in una maggiore resilienza e in maggiori aspettative rispetto alle generazioni precedenti».

La categoria Controllo della navigazione online è significativa: «Le app sono al centro di tutti gli aspetti della vita. Ma [...] troppe opzioni lasciano [...] frustrati. Navigare [...] per ore e ore può sembrare improduttivo e dispendioso. L’uso eccessivo dei social media è stato collegato a tempi di attenzione ridotti e a un aumento del rischio di problemi di salute mentale». Cosicché nel 2022 «più di un quinto dei consumatori ha cancellato gli account di social media che non usava molto spesso». Questa, precisa il report, «non è una disintossicazione digitale. Piuttosto, significa focalizzarsi sulla funzionalità e l’efficienza. La maggior parte [...] non ha intenzione di ridurre il tempo davanti allo schermo, ma è più esigente sul modo di impiegarlo». Si tratta di scelte che ricordano quella di disconnettersi dall’eccesso alle notizie più o meno ansiogene. In compenso piace il divertimento digitale: la categoria Via al gioco è dedicata al fatto che quello on-line è molto diffuso e, sorprendentemente, intergenerazionale: lo praticano il 22% dei Baby boomer (gli over 60, o quasi, nati tra 1946 e 1964), il 38% degli over 40 della Generazione X (1965-1980), il 55% dei Millennial (1981-1996) e il 52% della Generazione Z (1997-2012).

In conclusione, il fenomeno del thriver sembra quello più legato alle conseguenze della pandemia nella vita sociale e lavorativa e ha qualcosa in comune con altri due fenomeni: il quiet quitting (termine entrato tra i neologismi del Vocabolario Treccani nel 2022) e la great resignation. Il primo si riferisce alla «riduzione, in termini quantitativi, dell’impegno dedicato al proprio lavoro, consistente nel fare il minimo indispensabile pur nel rigoroso rispetto delle mansioni assegnate e dell’orario lavorativo». La great resignation (grandi dimissioni) riguarda i lavoratori che lasciano un impiego non soddisfacente perché non cercano soltanto uno stipendio adeguato, soprattutto puntano su percorsi gratificanti di carriera e orari flessibili (capita anche in Italia, dove nel 2022 ci sono stati quasi 1,7 milioni di dimissioni volontarie nei primi 9 mesi, con un aumento del 22% rispetto allo stesso periodo del 2021).

Però, rispetto ai fan di quiet quitting e great resignation, i thriver sembrano disposti a fare più del minimo e a non dimettersi, purché il lavoro non sia più totalizzante e soffocante. L’analisi proposta da Euromonitor apre dunque il sipario sui nuovi ruoli interpretati (o sognati) dalle persone nelle società più avanzate. Sebbene la ricerca sia destinata alle aziende, con lo scopo di far loro inquadrare le caratteristiche dei consumatori nel 2023, mostra anche quali siano i contraccolpi socioeconomici a quasi un anno dalla fine della fase acuta della pandemia e quali i primi assestamenti. È curioso constatare che il tema del diritto a un equilibrio tra vita lavorativa e vita privata (ennesimo anglicismo, worklife balance) è una tema datato e, per certi versi, persino “antico”: rispetto al passato sono cambiati molto i mezzi di produzione, ma è cambiato meno il modo in cui il lavoro può diventare opprimente.

Qualche esempio? A metà del XIX secolo Karl Marx (1818-1883) riteneva ‒ in estrema sintesi ‒ che il lavoro fosse una delle più alte espressioni dell’essere umano; però sosteneva che quello operaio, frutto della rivoluzione industriale, non potesse che essere alienato. Nella seconda metà del XX secolo questo concetto fu sviluppato dalla scuola di Francoforte: secondo Herbert Marcuse (1898-1979), l’alienazione, uscita dalle fabbriche, era il paradigma dell’intera società capitalista. Fatto sta che la realizzazione pratica del socialismo e del comunismo, che Marx indicava come prospettiva di redenzione dal lavoro alienato, si è rivelata fallimentare rispetto alle ipotesi teoriche, nonostante la mitologia dello stacanovismo, una specie di workaholism d’epoca in stile sovietico.

Come abbiamo visto, resta attuale un interrogativo: il lavoro nella società industriale digitalizzata può finalmente diventare una fonte di realizzazione individuale oppure resta alienante? Il report di Euromonitor lascia intuire che una risposta definitiva non esiste neppure nel XXI secolo. Nell’attesa, forse è il caso di evocare il genero di Marx, Paul Lafargue (1842-1911): era il 1880 quando ne Il diritto all’ozio criticò, anche in modo ironico e graffiante, la «strana follia» che si era impadronita delle classi operaie: «L’amore per il lavoro [...] spinto sino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie». Per Lafargue l’ozio era inteso come «tempo liberato» dai ritmi produttivi alienanti. All’epoca il libro ebbe molto successo e piacque pure a suo suocero. È ancora piuttosto noto. Visti i risultati del report di Euromonitor, potrebbe piacere anche a qualche giovane disorientato: ovviamente, se trovasse il tempo, e soprattutto la voglia, per leggerlo.

 

Crediti immagine: Olesya Kuznetsova / Shutterstock.com

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Mediterraneo, l’invasione degli alieni

Dove sono gli alieni? Viene spontaneo guardare verso il cielo e le stelle. Invece è il caso di tenere d’occhio il Mediterraneo. Perché quelli cui ci riferiamo sono strani ma non extraterrestri. Semmai li scoviamo nel luogo “sbagliato”: non dovrebbero essere nel Mare nostrum, bensì in acque tropicali: dalla lepre di mare (o Aplysia dactylomela), mollusco erbivoro svolazzante sott’acqua, al Melibe viridis, un lumacone carnivoro con una testa gelatinosa che setaccia il fondale, degno di un film fanta-horror; dal “bruttissimo” e, soprattutto, velenosissimo pesce pietra (Synanceia verrucosa) al pesce chirurgo (Acanthurus monroviae), con la coda tagliente come un bisturi.

C’è da preoccuparsi per questi quattro “clandestini”? Sì. Sul loro numero torneremo dopo. Ora è il caso di precisare che il loro trasloco nel nostro mare è sbagliato soltanto dal nostro punto di vista. Per loro è giustissimo: l’acqua da qualche decennio ha sempre più una temperatura ideale, simile a quella dei Tropici. Quindi, sebbene queste specie vengano definite scientificamente “aliene”, loro non si sentono affatto fuori posto nella gigantesca e tiepida vasca da bagno che noi Mammiferi bipedi del genere Homo e della specie sedicente sapiens, più o meno a nostra insaputa, abbiamo loro preparato. Arrivano soprattutto attraverso il Canale di Suez, che connette Mediterraneo e Mar Rosso; o si fanno trasportare da mari lontanissimi nelle acque di zavorra che le navi scaricano dalle nostre parti.

 

Non è soltanto, si fa per dire, questione di trovarsi circondati da ospiti inaspettati e spesso dotati di molto appetito. Il fatto è che l’intero ecosistema sta andando in tilt, cominciando dalle specie locali sopraffatte da quelle “aliene”. L’ultimo qualificatissimo allarme è stato lanciato pochi giorni fa dall’ENEA (ente pubblico di ricerca nei settori dell’energia, dell’ambiente e delle nuove tecnologie) durante l’evento organizzato a Roma per celebrare i 25 anni della Stazione di osservazioni climatiche: si trova sull’isola di Lampedusa, a Capo Grecale, ed è un punto di riferimento internazionale per lo studio dell’evoluzione del clima e delle sue principali variabili. L’ENEA segnala che le temperature del mare nel 2022 hanno raggiunto i 30 gradi: «Mettono a rischio la biodiversità, modificano gli habitat di varie specie e influiscono principalmente su pesca, acquacoltura, condizioni atmosferiche ed evaporazione». Tra l’altro, a 5 km dalla costa dell’isola è collocata una boa hi-tech, che svolge le funzioni di osservatorio oceanografico: consente lo studio delle proprietà chimico-fisiche delle acque, la validazione delle osservazioni satellitari e rende disponibili alla comunità scientifica i dati. La boa-sentinella ha confermato l’aumento della temperatura media del mare: negli ultimi 100 anni ha subito un incremento di oltre 1,5 gradi, molto di più della media globale.

 

Sul fronte di anidride carbonica (CO2) e metano (gas che provocano il surriscaldamento globale), l’Osservatorio dell’ENEA ha rilevato che nell’ultimo quarto di secolo l’anidride carbonica è aumentata da 365 a 420 parti per milione (+15%), il metano da 1825 a 1985 parti per miliardo (+9%), mentre nello stesso lasso di tempo la temperatura media è salita di circa 0,5 gradi, insieme a frequenza e intensità delle ondate di calore. «Prima della rivoluzione industriale, il contenuto atmosferico di CO2, uno dei principali gas con effetto serra prodotti dalle attività umane che influiscono sul clima, si attestava intorno alle 280 parti per milione, mentre nel 1992, quando abbiamo iniziato le misure dell’anidride carbonica a Lampedusa, erano circa 350 parti per milione», spiega Alcide di Sarra, ricercatore dell’ENEA. «Ultimamente abbiamo registrato 420 parti per milione, con un incremento fortissimo negli ultimi 25 anni pari a circa il 15% e un tasso di crescita annuale che è passato da 1.7 ppm/anno a circa 2.6 ppm/anno. Questo incremento, abbinato all’aumento delle temperature che stiamo registrando, preoccupa anche a causa della possibile riduzione della funzione di assorbimento della CO2 in eccesso, normalmente svolta da oceano e vegetazione».

L’eccesso di metano ‒ lo stesso che, ironia della sorte, paghiamo a caro prezzo per scaldare le nostre case ‒ crea ulteriori preoccupazioni. «È un altro sorvegliato speciale per il suo ruolo importantissimo nel raggiungere gli obiettivi dei protocolli internazionali sul clima, tenuto conto che ha una capacità di riscaldamento da 30 a 80 volte maggiore rispetto alla CO2», dice un altro ricercatore, Damiano Sferlazzo. «Dall’epoca preindustriale al 1997 la concentrazione atmosferica di metano è più che raddoppiata passando da 720 a circa 1825 parti per miliardo (ppb, ndr) ed è ulteriormente aumentata dell’8%, negli ultimi 20 anni, con un tasso di crescita che a partire dal 2010 è diventato più rapido raggiungendo +15 ppb/anno nel 2021 ed oggi 1985 ppb». Spiega la ricercatrice Tatiana Di Iorio: «Tutti questi dati mostrano la necessità di intervenire rapidamente per implementare politiche di riduzione delle emissioni di gas serra, in coerenza con gli obiettivi europei della neutralità climatica entro il 2050». Continua: «Si tratta di una sfida essenziale per il futuro dell’Europa e del pianeta, e in particolare del Mediterraneo, una delle aree più sensibili ai cambiamenti climatici dove gli impatti sull’ambiente possono essere critici. Oggi più che mai è a rischio».

Che fare per dare una mano in questo campo come cittadini? Per esempio, potremmo tenere d’occhio la diffusione di creature marine “aliene”, incoraggiate dalla situazione appena descritta. L’Osservatorio climatico di Lampedusa, in collaborazione con l’Area marina protetta delle Isole Pelagie, svolge anche eventi in cui le persone comuni sono coinvolte nella gestione dell’ecosistema marino. Per definire quest’ultimo genere di attività si usa, nel mondo, il termine citizen science, “scienza dei cittadini”. Per esempio, si possono individuare le specie aliene presenti lungo i litorali in cui viviamo o che frequentiamo da turisti, pescatori, sub. Basta essere pronti a fotografare (pure grazie agli onnipresenti smartphone) e a segnalare tutti i dati (data, luogo, contesti ambientali, ecc.) agli addetti ai lavori, cioè gli scienziati titolati per raccogliere, elaborare e approfondire.

Un’attività cui non manca la materia prima, visto che ‒ tornando al numero di creature intruse ‒ si valuta che siano un migliaio le specie invasive tropicali che si sono accasate nel Mediterraneo. Ispra Ambiente, l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale, fornisce un vademecum illustrato che aiuta i volenterosi a individuare 24 tra quelle più importanti (con tanto di e-mail cui inviare le segnalazioni: alien@isprambiente.it). Con l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-Irbim) ha lanciato nell’agosto 2022 la campagna Attenti a quei 4. Lo scopo: informare, in particolare, dell’arrivo attraverso il Canale di Suez fino alle coste dell’Italia meridionale di quattro visitatori piuttosto pericolosi (pesce palla maculato, pesce scorpione, pesce coniglio scuro e pesce coniglio striato), spiegare come riconoscerle e monitorare la loro presenza e distribuzione nelle acque italiane, grazie anche ai cittadini. Insomma, segnalate, gente, segnalate!

 

Immagine: Un pesce leone nelle acque del Mar Mediterraneo. Crediti: scubadesign / Shutterstock.com

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Quanto costa l’istruzione?

«La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Queste parole non sono frutto di un’utopia, di un’aspirazione ideale inattuabile. O meglio, non dovrebbero esserlo, visto che sono scritte da quasi 75 anni nell’art. 34 della legge fondamentale del nostro Stato: la Costituzione, cui governo e Parlamento spetta uniformarsi. È quindi difficile capire perché istruire una bimba o un bimbo italiani dall’asilo nido alla laurea oggi debba costare alla famiglia come minimo 53.000 euro, in media 130.000.

Sono dati forniti in una ricerca svolta dal Centro studi italiano di Moneyfarm, società di gestione patrimoniale digitale in Europa. È stata divulgata pochi giorni fa. Esordisce così: «Educare un figlio richiede un notevole impegno economico, soprattutto se gli si vogliono fornire tutte le nuove competenze necessarie che andranno a facilitare il suo ingresso in un mercato del lavoro in continua evoluzione e sempre più competitivo». Fatto sta che, per riuscirci, occorre investire (e avere) decine di migliaia di euro, se non centinaia. Secondo la ricerca, l’itinerario dal nido fino all’università comporta una spesa stimata tra 53.000 e 700.000 euro (per gli studenti vip), con una media di 130.000. Somme assai rilevanti, che ultimamente si infrangono pure contro lo scoglio della crisi economica.

Risultato? Nell’ultimo anno accademico le iscrizioni di matricole alle università italiane sono calate del 3%, nonostante il nostro Paese fosse già in coda in Europa per quel che riguarda il numero di laureati. Lo dimostra l’ultimo report di Eurostat, che esamina l’avanzamento dell’istruzione terziaria (universitaria o equivalente) negli Stati membri dell’Unione Europea (UE): nel 2021 in media il 41% dei cittadini dell’Unione tra 24 e 34 anni aveva conseguito almeno una laurea, con punte del 63% in Lussemburgo e del 62% in Irlanda. L’Italia, col 28% di giovani laureati, si piazza al penultimo posto; va peggio solo la Romania. Gli italiani sono il fanalino di coda anche considerando che 13 Paesi (Lussemburgo, Irlanda, Cipro, Lituania, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Svezia, Danimarca, Spagna, Slovenia, Portogallo e Lettonia) hanno già tagliato, con 9 anni di anticipo, il traguardo fissato per il 2030: portare al 45% la quota della popolazione (con età compresa nella fascia di età citata) che abbia completato l’istruzione terziaria.

I ritardi dell’Italia non sono legati soltanto a una carenza nell’organizzazione dei percorsi didattici, evidentemente molto meno efficaci rispetto a quelli della stragrande maggioranza degli altri Paesi dell’UE. Pesa la carenza di risorse pubbliche, necessarie per sostenere gli studenti e il settore scolastico; ciò provoca un aggravio economico notevolissimo per le famiglie. Moneyfarm per rendere meglio l’idea della situazione individua quattro profili di studenti, con altrettanti nomi di fantasia, per valutare il costo della loro educazione fino alla conclusione degli studi universitari; sono inclusi libri e materiali scolastici, più alcune attività formative extra (come corsi di lingua straniera, informatica, musica), mentre non si tiene conto dell’effetto di eventuali (e scarse) borse di studio o di agevolazioni legate all’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente).

Il percorso più “economico” è quello di Andrea, «un ragazzo milanese con una laurea magistrale in Economia. Ha studiato nella sua città, restando a vivere con i genitori, per risparmiare sull’affitto». Quale spesa ha dovuto affrontare la famiglia? Intorno ai 53.000 euro per questo percorso educativo standard, considerando un ciclo completo di 5 anni in un’università pubblica (con retta piena). Però le spese quasi raddoppiano nel caso di Francesca: vive in un piccolo centro siciliano lontano dalle città universitarie, in cui deve trovare un alloggio. Dall’asilo all’ateneo, tutti pubblici, dove frequenta una facoltà scientifica (5 anni di frequenza), la spesa arriva, risparmiando il più possibile, intorno ai 98.000 euro. Riccardo ha una famiglia con reddito medio-alto, che punta a fornirgli una preparazione che comprenda la conoscenza di altre due lingue oltre l’italiano e varie trasferte per corsi all’estero, con la frequenza dell’università nella sua città, Padova. In totale l’investimento arriva a 170.000 euro. Per Erica, che studiato quasi completamente a Londra grazie a una famiglia facoltosa, il costo del ciclo di studi decolla: 700.000 euro; il suo caso però è molto circoscritto. In media in Italia «educare un figlio dal nido all’università costa intorno ai 130.000 euro, circa 6-7.000 euro all’anno», scrive Moneyfarm. Una somma che molte famiglie, anche volendo, non possono permettersi.

Pesa molto, com’è prevedibile, soprattutto il percorso universitario: da solo, il costo da pagare per mandare i propri figli all’università in Italia può superare i 100.000 euro (compresi libri di testo, vitto, alloggio e denaro per le spese generiche calcolati su 10 mesi, escludendo le pause estive). Per un corso di studi triennale, più due anni di magistrale, a Milano si spendono, scegliendo un ateneo pubblico, 77.900 euro in 5 anni, a Padova 60.200, a Napoli 60.000; se si frequentano gli atenei privati, a Roma, per esempio, se ne spendono 111.200. D’altra parte la mancanza di strutture pubbliche in grado di ospitare gli studenti fuori sede a prezzi decorosi ha portato a un boom dei prezzi delle locazioni destinate a questa fascia di utenti. Come ha sottolineato un recente studio di Immobiliare.it, in media nel 2022 «i prezzi delle singole sono aumentati di ben 11 punti percentuali rispetto al 2021 (si arriva a 439 euro), mentre un posto letto in doppia costa il 9% in meno ». Con record in alcune città: a Milano una singola costa mediamente 620 euro mensili (+20%), a Roma 465, a Padova e Firenze 450, 447 a Bologna, a Torino e Venezia 360, a Napoli 337. Sono rare le città con un’offerta di buon livello per quel che riguarda le strutture pubbliche destinate all’ospitalità degli studenti fuori sede; eppure devono fare i conti con la forte riduzione delle risorse: a Pavia, per esempio, chiamata la Oxford sul Ticino, il taglio drastico dei finanziamenti regionali  sta mandando in default i bilanci degli 11 collegi amministrati dall’EDiSU (Ente per il Diritto allo Studio Universitario), alcuni esistenti da più di 60 anni.

Dunque le famiglie devono fare enormi sacrifici per mantenere i figli fino all’università, tanto più che già le superiori sono molto care. Infatti, c’è chi fino a pochi anni fa poteva ancora permettersi di proseguire gli studi dopo gli esami di maturità, ora non può più. In un’inchiesta svolta a fine ottobre dal quotidiano la Repubblica si legge: «Non è certo un caso se dopo 5 anni di continua salita e dopo due anni di pandemia, il numero delle immatricolazioni all’università sia sceso del 3%. Il ritorno delle lezioni in presenza e l’aumento severo del prezzo degli affitti, delle bollette e dei trasporti, ha indotto migliaia di giovani a rinunciare ad iscriversi. E calano più sensibilmente i fuori sede. Dei circa 1,7 milioni di universitari italiani, coloro che si trasferiscono a studiare altrove sono adesso meno di 500.000, circa 100.000 in meno rispetto all’ultima rilevazione ufficiale del 2018. A rinunciare sono soprattutto le matricole. Troppo poche e troppo basse le borse di studio, assolutamente insufficienti (appena 40.000) i posti negli studentati pubblici». Insomma, ciò che prescrive l’art. 34 della Costituzione continua a restare un’utopia, nonostante sia stato scritto, ottimisticamente…, “appena” 75 anni fa.

 

Immagine: Studenti prima di entrare a scuola per gli esami finali della scuola secondaria di secondo grado, presso la scuola Artemisia Gentileschi di Milano (20 giugno 2012). Crediti: Paolo Bona / Shutterstock.com

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La crisi che tocca anche l’economia invisibile

Qualcuno si è mai preoccupato di valutare quanto in Italia, a causa della pandemia, ci ha rimesso anche chi è, volente o nolente, nel giro del lavoro nero, chi evade tasse e i contributi o, addirittura, chi gestisce un business criminale? Ebbene sì, i conti in quelle tasche, che nel nostro Paese sono parecchie, sono stati fatti. Ha provveduto l’Istat, l’Istituto nazionale di Statistica. Un suo rapporto, diffuso il 14 ottobre 2022, svela che, in effetti, la crisi del 2020 ha colpito anche la cosiddetta “economia non osservata” ‒ nome tecnico che può essere inteso come “economia invisibile” ‒ divisa in sommersa e illegale. È crollata del 14,1% e la sua incidenza è scesa al 10,5% del prodotto interno lordo (PIL). In soldoni, questo settore variegato ha perso quasi 30 miliardi rispetto al 2019, quando era pari all’11,3% del PIL; in particolare, il sommerso è sceso a 174,6 miliardi di euro, i profitti illegali a 17. Sarà interessante capire i contraccolpi che avrà in questo campo la crisi innescata nel 2022 dalla guerra russo-ucraina.

 

Per capire meglio la posta miliardaria in gioco è opportuno comprendere il significato delle locuzioni usate. Nel glossario dell’Istat si legge che l’economia non osservata (definita NOE a livello internazionale, Non-Observed Economy), «include quelle attività che, per motivi differenti, sfuggono all’osservazione statistica diretta. Le principali componenti sono rappresentate dal sommerso economico e dall’economia illegale; il sommerso statistico e l’economia informale ne completano lo spettro». Il sommerso economico «include tutte quelle attività che sono volontariamente celate alle autorità fiscali, previdenziali e statistiche. È generato da dichiarazioni mendaci riguardanti sia fatturato e costi delle unità produttive [...], sia l’effettivo utilizzo [...] di lavoro irregolare. Ulteriori integrazioni derivano dalla valutazione [...] degli affitti in nero» e di altri aspetti minori, incluse persino le mance. Poi, si considerano attività illegali quelle «aventi per oggetto beni e servizi» legati ad attività criminali (divise in tre tipologie: produzione e traffico di stupefacenti, la più rilevante, servizi di prostituzione e contrabbando di tabacco) e quelle «che, pur riguardando beni e servizi legali, sono svolte senza adeguata autorizzazione o titolo». Per sommerso statistico si intendono le attività che sfuggono all’osservazione diretta per inefficienze informative, mentre l’economia informale raggruppa quelle basate su rapporti di lavoro che non sono regolati da contratti, bensì da relazioni personali o familiari.

 

Ovviamente, sorge spontanea una domanda. Come si può determinare il valore di quello che è invisibile, dato che non risulta in nessuna contabilità ufficiale? Il paradosso viene spiegato da Federico Sallusti, che nell’Istat, come si legge sul sito dell’Istituto, guida il team «di intrepidi statistici della Contabilità nazionale, cioè la direzione Istat che, fra gli altri oneri, ha quello di stimare il Prodotto interno lordo». Sallusti precisa che la sua squadra non stima la ricchezza delle attività sommerse e illegali, ma il valore aggiunto (la differenza tra il valore finale e quello dei beni e servizi acquistati per produrlo, ndr) che generano. Quel valore si scova applicando tecniche statistiche e integrazioni fra dati. «La parte interessante è proprio questa», afferma, «e i metodi sono molti, diretti e indiretti: ad esempio, abbiamo modelli econometrici che ci dicono se un’impresa ha un comportamento che rientra in un range di normalità, tenuto conto delle sue dimensioni e del settore in cui opera; oppure incrociamo dati amministrativi e dati che provengono da indagini, ad esempio per stimare il numero reale delle unità di lavoro. O ancora, analizziamo le retribuzioni di chi lavora in una determinata filiera produttiva come dipendente e chi svolge lo stesso lavoro come indipendente per intercettare le incongruenze e stimare la sotto-dichiarazione del valore aggiunto degli operatori molto piccoli». Per quel che riguarda le attività illegali, «entra in gioco anche la collaborazione con le forze dell’ordine, con il dipartimento delle Politiche antidroga e con chi svolge, anche a livello internazionale, indagini specifiche sulle attività illegali, per esempio sui costi e sui consumi degli stupefacenti; il che permette di ricostruire il valore aggiunto anche di questa attività».

 

Il peso dell’economia invisibile sulla ricchezza reale del Paese non è secondario, visto che ha rappresentato negli ultimi anni tra il 10% e il 12% del PIL e non ha comportato alcun introito fiscale. Stilare una classifica su questo fronte nell’Unione Europea (UE) non è facile, perché ‒ come ha rilevato a ottobre 2022 Alexandra Fernandes (ricercatrice presso l’HIVA – Research Institute for Work and Society, della Katholieke Universiteit Leuven, in Belgio) ‒ nella compilazione dei conti nazionali ogni Stato membro usa criteri in parte diversi. Inoltre, Fernandes sottolinea con toni molto diplomatici ma chiari che, sebbene chi si occupa della contabilità di ogni Stato non stia ignorando l’esistenza dell’economia non osservata, gli interessi di chi fa i conti, degli accademici e dei responsabili politici «non sono necessariamente allineati».  In ogni caso, TheGlobalEconomic.com, che elabora i dati di oltre 200 Paesi in vari campi, ci ha provato: su 38 Paesi europei nel 2015 l’Italia si è classificata, partendo da quello con più economia fantasma (l’Ucraina), all’11° posto, tra Albania e Croazia (seguite da Moldavia e Russia). La Svizzera è la più virtuosa. Se guardiamo gli Stati membri dell’Unione Europea, rispetto al Belpaese sono messi peggio (o meglio, dal punto di vista di chi sfugge al fisco) solo Cipro, Malta e Grecia.

                                                        

Il dato di fondo, dunque, è questo: in Italia l’evasione assume contorni più preoccupanti rispetto agli altri Paesi sviluppati; per non parlare degli enormi profitti della criminalità organizzata. Il sito Italiaindati.com, riassumendo i dati Istat e altre fonti ufficiali, calcola che nel 2018 circa l’80% del sommerso economico sia stato generato nel terziario (soprattutto in tre settori: “Altri servizi alle persone”, “Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione” e “Costruzioni”). Nel 2019 sono stati 3,586 milioni i lavoratori a tempo pieno in condizione di non regolarità. Tra le attività illegali (19,4 miliardi, +0,9% dal 2018) il traffico di stupefacenti frutta 14,8 miliardi di euro in termini di valore aggiunto, mentre la prostituzione circa 4 miliardi. Dove? «L’incidenza dell’economia non osservata nel 2018 era molto alta nel Mezzogiorno, dove rappresentava il 18,8% del complesso del valore aggiunto, seguita dal Centro (13,8%), Nord-est (10,9%) e Nord-ovest (10,3%)». Mentre la Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva per il 2021, svolta dal ministero dell’Economia e delle Finanze, ha calcolato che tra il 2016 e il 2018 lo Stato ha incassato in media oltre 94 miliardi di euro di imposte in meno ogni anno rispetto a quelle preventivate (le più evase sono state l’IRPEF da lavoratore autonomo ‒ 33,1 miliardi ‒ e l’IVA, 34,4 miliardi, un record nell’UE).

 

Il bello è, si fa per dire…, che l’economia fantasma talvolta viene portata come un fiore all’occhiello per il Paese. Per esempio: «La crescita zero è un’invenzione ridicola perché l’Istat non considera il 27% di economia sommersa». Lo disse il 26 marzo 2006, al quotidiano Il Mattino, l’allora premier Silvio Berlusconi. A parte il fatto che la stima precedente dell’Istat si era fermata “solo” al 16,7%, l’economia sommersa faceva già parte del calcolo del prodotto interno lordo: dal 1987, quando il PIL fu appositamente rivalutato, con una metodologia poi adottata da altri Paesi europei. Così come era ed è bizzarro teorizzare che il sommerso possa essere una medaglia per la dinamica economica, a meno che (sarà così?) l’evasione fiscale non sia considerata una virtù civica. Tuttavia, Berlusconi ha ribadito il concetto varie volte; per esempio, il 17 gennaio 2013, nella trasmissione Porta a Porta; poi il 19 febbraio 2018, quando era ospite della trasmissione Dalla vostra parte.

Un punto di vista di questo genere ‒ se dovesse essere adottato, ufficialmente o ufficiosamente, anche dai prossimi governi ‒ di certo non incoraggerebbe la gente a emergere dal sommerso. Viene in mente, a questo proposito, un libro scritto nel 1990 dal professor Mario Centorrino (1942-2014), economista, allora preside della facoltà di Scienze politiche a Messina: L’economia “cattiva” del Mezzogiorno (Liguori Editore). Più di trent’anni fa il professore sosteneva che certamente la criminalità organizzata controllava (come controlla tuttora) le finanze occulte in vaste aree del Sud Italia (oggi non solo quelle, è multiregionale e multinazionale). Però a tanta gente “per bene” appare conveniente alimentare un’economia sommersa (in alcune zone spesso complementare a quella delle cosche), evitando di rispettare le regole e le leggi: dalle piccole scelte a quelle più importanti, dalla piccola alla mega-evasione fiscale. Un atteggiamento che sicuramente unisce, tuttora, l’intero Paese, da nord a sud. Capita nonostante che negli ultimi anni il governo Conte e quello Draghi abbiamo tentato di spingere verso un maggiore uso del denaro elettronico, che è tracciabile: con misure ordinarie (come i limiti nell’uso di contanti e l’obbligo per commercianti e professionisti del POS, dispositivo che permette di accettare versamenti digitali con carte di pagamento) e misure “ludiche” (come la lotteria degli scontrini e il cash back di Stato). Sistemi che, per quanto migliorabili, un po’ sono serviti. Così come a molti hanno dato fastidio, tanto che quelle misure sembrano destinate a finire nel capiente dimenticatoio italiano. Vedremo.

 

Crediti immagine: Alessia Pierdomenico / Shutterstock.com

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Costruire un futuro con i migranti

«Fra i segnali incoraggianti troviamo, ad esempio, la ripresa della crescita della popolazione straniera residente in Italia: i dati al 1° gennaio 2022 parlano di 5.193.669 cittadini stranieri regolarmente residenti, cifra che segna una ripresa dallo scorso anno». Nel clima politico, sociale e mediatico che contraddistingue ‒ a suon di allarmismi xenofobi ‒ l’attuale Italian way of life (inglesizziamo per sdrammatizzare un po’ alcuni aspetti del nostro stile di vita), quell’esordio è piuttosto stridente. Stride nel confronto con l’allarme sociale rispetto a presunte “invasioni”. Però coloro che hanno concepito quella frase iniziale hanno un alibi “buonista”, che coincide con la missione perseguita: si chiamano Caritas e Fondazione Migrantes, sono organismi pastorali delle Conferenza episcopale italiana e l’affermazione citata viene dal loro recente XXXI Rapporto Immigrazione 2022.

Prima di raccontare quali sono i segnali incoraggianti sul fronte dell’immigrazione, facciamo un passo indietro, per cercare di contestualizzare la questione. Ebbene, nel Belpaese deteniamo, da alcuni anni, un primato europeo. Non stiamo parlando di sport. È un record surreale: per ogni immigrato non comunitario ospitato o residente entro i nostri confini, noi ne “vediamo” (quasi) quattro; tre di questi sono soltanto frutto dell’immaginazione, condita dalla paura e dai pregiudizi incentivati da certi media e da certa politica. Tradotto in numeri: «Gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco (in punti percentuali) tra la percentuale di immigrati non-Ue realmente presenti in Italia (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%». Poi: «L’errore di percezione [...] si manterrebbe ugualmente elevato anche se considerassimo la percentuale di tutti gli immigrati presenti in Italia (quindi anche quelli provenienti da Paesi dell’UE, ndr), che, secondo i dati delle Nazioni Unite, corrispondono attualmente al 10% della popolazione (cresciuti di oltre 6 punti percentuali rispetto al 2007)». Lo ha sottolineato qualche tempo fa un’analisi dell’Istituto Cattaneo, intitolata Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione.

La percentuale italiana di persone con una percezione (errata) del fenomeno è quella più elevata, assai superiore alla media riscontrata tra tutti i cittadini dei Paesi dell’Unione: «Di fronte al 7,2% di immigrati non UE presenti “realmente” negli Stati europei, gli intervistati (a livello comunitario, ndr) ne stimano il 16,7%»; sono pochi i Paesi in cui la percezione coincide quasi con la realtà, come capita in Svezia, Danimarca, Estonia e Croazia. In compenso, si fa per dire…, “soltanto” il 27% degli italiani non sa fornire alcuna risposta sulla percentuale di immigrati che vivono nel Paese (mentre la media UE è del 31,5%). Insomma, su 100 nostri connazionali intervistati, 27 restano a bocca aperta, senza rispondere; il restante 73% mediamente inventa/percepisce la presenza di più di 15 milioni di stranieri non comunitari, mentre nel 2018, quando l’Istituto Cattaneo ha svolto l’indagine, erano, in realtà, poco più di 4 milioni. Si arrivava a 6 (e qualcosa) sommando anche gli immigrati comunitari.

Torniamo, fatte queste premesse, al report di Caritas e Migrantes e a dati affidabili. La pandemia tra 2020 e 2021 ha fatto diminuire il flusso di immigrati; mentre alcuni hanno preferito tornare nei Paesi di origine. Risultato: al 1° gennaio 2022, secondo l’indagine, i cittadini stranieri regolarmente residenti erano 5.193.669, «cifra che segna una ripresa dallo scorso anno». Nel quadro delle prime 5 regioni di residenza, si conferma il primato della Lombardia, seguita da Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Piemonte. Il quadro delle nazionalità? Come negli anni precedenti, fra i residenti prevalgono i rumeni (circa 1.080.000 cittadini, il 20,8% del totale, comunitari), seguiti da albanesi (8,4%), marocchini (8,3%), cinesi (6,4%) e ucraini (4,6%). «Sono aumentati anche i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno (al 1° gennaio 2022 sono 3.921.125, mentre nel 2021 erano attestati sui 3,3 milioni), così come i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nell’anno: nel corso del 2021 sono stati 275 mila, +159% rispetto al 2020 (105.700); in particolare si è registrata un’impennata dei motivi di lavoro, certamente come esito della procedura di sanatoria varata dal governo nel 2020. Anche i provvedimenti di cittadinanza hanno segnato una certa crescita: sono stati 118 mila nel 2020, ovvero un +4% dall’anno precedente».

Dunque, non c’è nessuna invasione incontrollata; semmai questo spauracchio aleggia solo in certi slogan propagandistici e nella percezione sbagliata (in parte conseguenza di quegli stessi slogan) da parte di tanti italiani. Il rapporto di Caritas e Migrantes sottolinea poi che «in generale la popolazione straniera ha una struttura più giovane di quella italiana: ragazze e ragazzi con meno di 18 anni rappresentano circa il 20% della popolazione e per ogni anziano (65 anni o più) ci sono più di 3 giovanissimi di età compresa fra gli 0 e i 14 anni. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri (“seconde generazioni” in senso stretto) sono oltre 1 milione e di questi il 22,7% ha acquisito la cittadinanza italiana; se ad essi aggiungiamo i nati all’estero, la compagine dei minori stranieri (fra nati in Italia, nati all’estero e naturalizzati) supera quota 1.300.000 e arriva a rappresentare il 13,0% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni». Si è assistito, nell’ultimo anno, «anche al preoccupante aumento del numero dei minori stranieri non accompagnati, arrivati nell’aprile del 2022 a 14.025, certamente anche per effetto della guerra in Ucraina, da cui proviene il 28% circa del totale. [...] Il quadro socio-anagrafico si presenta [...] preoccupante e pone l’urgenza di politiche che potenzino efficacemente le opportunità da offrire ai ragazzi stranieri, anche per non disperdere il potenziale prezioso che rappresentano per un’Italia sempre più vecchia».

Cosa capita nel mondo del lavoro in questo campo? Per gli stranieri aumentano le opportunità ma non cresce la stabilità. «Al 1° trimestre 2022 i dati Istat relativi alla rilevazione sulle forze di lavoro registrano, dopo un forte calo dell’anno precedente, una crescita del tasso di occupazione dei lavoratori stranieri tra i 20 e i 64 anni, più significativo rispetto a quello registrato tra i lavoratori italiani (+1,5 contro +0,8)». In generale, «il tasso di occupazione per la componente straniera è ancora al di sotto di quello registrato per i lavoratori italiani (61,4% contro 62,9%), mentre quello di disoccupazione presenta tra gli stranieri un valore ancora particolarmente elevato, pari al 14,4%, ovvero 5,4 punti percentuali in più rispetto a quello registrato tra gli autoctoni (9,0%)». In ogni caso, «fra gli indicatori che hanno segnato una ripresa vi sono i dati sulle assunzioni di personale comunitario ed extra-Ue, aumentate in modo significativo rispetto alla fase pandemica. Nel complesso, fra il II° trimestre 2020 e il II° trimestre 2021 si è registrato in Italia un incremento delle assunzioni pari a 1.149.414 unità, di cui 124.230 hanno riguardato la componente extracomunitaria e 35.520 quella comunitaria. …[...] L’incremento più significativo delle assunzioni di cittadini stranieri si è avuto nel settore dell’industria, in particolare nel Nord Italia; altro settore interessato da incrementi significativi è stato quello del commercio e riparazioni, seguito da costruzioni e altre attività nei servizi».

Tuttavia, gli stranieri sono i più sfruttati. «Rispetto agli italiani è stata molto più modesta la crescita dei contratti a tempo indeterminato (circa l’11% contro oltre il 40%), a dimostrazione del fatto che i lavoratori stranieri vivono una maggiore precarietà sul lavoro: 7 contratti su 10 sono a termine; inoltre, ad un aumento delle assunzioni ha fatto da contraltare un incremento delle cessazioni dei rapporti di lavoro (+9,9% tra i lavoratori Ue e +28,0% tra quelli extra-Ue). [...] La progressiva diffusione di forme di lavoro non-standard [...] ha reso più fragile la condizione di molti lavoratori, in particolare di cittadinanza straniera, anche in termini di esclusione sociale». Inoltre, «l’alto livello di occupabilità dei migranti in Italia è in gran parte dovuta alla loro disponibilità a ricoprire lavori manuali non qualificati, spesso poveramente pagati: questo provoca un fenomeno di “etnicizzazione” delle relazioni di lavoro, connotando fortemente alcuni settori occupazionali, come ad esempio il lavoro di cura. L’accentuarsi e il protrarsi di questo divario di tutele e di disuguaglianze economiche, accelerato dalla pandemia, rischiano di trasformarsi in una condizione permanente, un vero e proprio status non solo occupazionale, dal quale difficilmente si potrà uscire».

Insomma, in Italia abbiamo bisogno di migranti, comunitari e non comunitari. Ne hanno bisogno anche i cittadini “doc”, inclusi quelli animati, più o meno consapevolmente, da pulsioni razziste. Perché gli stranieri svolgono lavori che gli italiani spesso snobbano; inclusa l’assistenza garantita a una popolazione autoctona che è sempre più anziana e che fa sempre meno figli. Per quanto tempo, prima che il sistema salti, si potrà evitare di favorire sul serio l’integrazione dei migranti, piuttosto che puntare solo su sfruttamento, emarginazione e abuso mediatico-politico del presunto “allarme immigrazione”? Vista la situazione, i nodi dovranno essere sciolti presto. Tanto è vero, secondo Neodemos.info (foro indipendente di analisi demografica), che «nei prossimi decenni la migrazione sarà l’unico motore della crescita demografica nei Paesi ad elevato reddito, poiché il numero di decessi supererà progressivamente quello delle nascite. Al contrario, l’aumento della popolazione nei Paesi a basso e medio reddito continuerà a essere guidato da un eccesso di nascite rispetto ai decessi». In Italia e altrove, anche i più allarmisti devono farsene una ragione e chi governa deve rimediare, possibilmente senza evocare invasioni inesistenti. Non a caso, il rapporto di Caritas e Migrantes ha come sottotitolo Costruire il futuro per i migranti. Un futuro che ha tantissimo a che fare con il nostro.

 

Immagine: Marcia di uomini e donne a piedi nudi in difesa dei diritti dei migranti,Torino (11 settembre 2015). Crediti: Stefano Guidi / Shutterstock.com

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Come l’uso di dispositivi mobili per lavoro influisce sulle dinamiche familiari

 

Ci rende migliori o peggiori l’utilizzo degli smartphone (e di altri dispositivi simili) per lavorare pure dopo che siamo tornati a casa? Prima di rispondere, torniamo indietro di trent’anni: ecco l’epoca in cui c’erano esclusivamente i telefoni fissi e i primi cellulari, utili solo per parlare; mentre il web, nato da pochissimo tempo, era conosciuto e usato da pochi specialisti. Ebbene, nel 1993 l’attore Massimo Lopez prestò il suo volto a un esilarante spot pubblicitario: interpretava un condannato alla fucilazione già davanti al plotone di esecuzione; come ultimo desiderio, chiedeva di fare una (interminabile) telefonata. Desiderio che continuò a esprimere nei successivi 11 soggetti, realizzati da Armando Testa per SIP all’insegna dello slogan “Una telefonata allunga la vita”. Questa frase diventò un tormentone, entrando nel linguaggio degli italiani.

Un trentennio dopo siamo nell’era del lavoro agile (smart working, per i fan degli inglesismi) e del telelavoro, usciti nel 2020 dalla semiclandestinità a causa delle misure anti-pandemia. Cosicché oggi potremmo dire che “una telefonata fa fare carriera”. Infatti, gli attuali smartphone tuttofare (con tablet e computer) consentono di lavorare da casa, volendo, 24 ore su 24. Però c’è l’altra faccia della medaglia: l’utilizzo di questi dispositivi durante le ore trascorse in famiglia spesso ci rende nervosi, irascibili, insopportabili. Lo sostiene un recente studio pubblicato su Information Systems Research da Massimo Magni (dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi di Milano), Manju K. Ahuja (University of Louisville - USA) e Chiara Trombini (INSEAD Singapore).

La ricerca si intitola, a scanso di equivoci, Uso eccessivo dei dispositivi mobili e conflitto tra famiglia e lavoro: un approccio alla teoria del drenaggio delle risorse per esaminarne gli effetti sulla produttività e sul benessere. È stata svolta negli Stati Uniti attraverso un questionario on-line, compilato da 324 lavoratori e dalle persone che convivono con loro. Un primo questionario ha valutato l’entità dell’attrito tra compiti lavorativi e familiari e il grado di competizione tra colleghi. Due settimane dopo, un secondo test ha indagato sul bilancio che i lavoratori fanno della loro produttività, sui disturbi somatici legati allo stress (dal mal di stomaco all’emicrania, per fare due esempi), sulle esigenze di recupero delle energie alla fine della giornata, sulla percezione di aver assunto atteggiamenti negativi (come sfuriate, critiche campate in aria e pulsioni passivo-aggressive nei confronti dei familiari). Sempre dopo 14 giorni, i conviventi hanno dovuto rispondere a quesiti sulla frequenza dell’uso dello smartphone in famiglia da parte del loro partner, per motivi di lavoro.

In effetti, i dispositivi digitali offrono a chi lavora come dipendente una connessione salda e continua con l’azienda, nello stesso tempo gli consentono così di occuparsi dei suoi impegni restando tra i suoi cari. Questa opportunità sicuramente sarà offerta in tutti i Paesi industrializzati e digitalizzati anche quando l’emergenza sanitaria sarà finita, perché garantisce vantaggi a lavoratori e datori di lavoro. Per quel che riguarda i dipendenti, sembra il modo ideale per evitare i disagi cui si va incontro nel tentativo di conciliare le esigenze familiari con quelle legate all’impiego. In quale modo? Usando sempre di più gli smartphone o altri device simili per lavorare in orari diversi da quelli previsti in sede, garantendo, se non aumentando, la stessa produttività.

Questa strada però rischia di mandare in tilt le relazioni in famiglia e, ironia della sorte, il conseguente disagio individuale provoca pure contraccolpi negativi proprio sulla capacità di produrre risultati lavorativi con la qualità e nella quantità desiderate. Il lavoratore percepisce di lavorare molto di più ma in modo non efficiente e competitivo, così tenta invano di recuperare terreno, aumentando il senso di stanchezza e frustrazione. Risultato: lo stress psicologico provoca anche disturbi fisici, legati alla somatizzazione dell’ansia; inoltre, chi gli sta vicino in casa subisce le conseguenze di questa situazione. Succede persino che i familiari, a loro volta stressati, aumentino le loro interferenze ‒ magari usando quegli stessi dispositivi digitali ‒ quando il dipendente è sul luogo di lavoro.

In parole povere, capita questo fenomeno: siccome nell’ambito lavorativo e in quello familiare sono richieste modalità di approccio diverse ‒ perché differenti sono le attese, i compiti e le responsabilità ‒ far convivere le due situazioni crea dinamiche “esplosive”. Infatti, ognuno di noi ha un capitale di energie e uno di tempo limitati, che man mano si esauriscono. La sovrapposizione pressoché costante tra lavoro e famiglia impedisce di amministrare in modo opportuno quelle energie.  Con quali effetti? Lo spiega ad Atlante Treccani il professor Magni, uno degli autori della ricerca: «L’intromissione delle esigenze legate alla famiglia nel ritmo di lavoro spinge gli individui a usare sempre di più gli smartphone o altri dispositivi, per recuperare il tempo perduto sul fronte lavorativo. Si crea una situazione molto stressante; tanto più pesante quanto più l’organizzazione del lavoro, nella propria azienda, è basata sulla competizione tra i dipendenti». Aggiunge il professore: «Una persona finisce per assumere atteggiamenti che i suoi familiari non reggono più».

L’obiettivo della ricerca è, dunque, quello di mettere in luce la necessità di essere consapevoli dei confini da porre tra vita privata e vita lavorativa. La questione è tutt’altro che marginale, vista la posta in gioco. Consentire ai dipendenti di lavorare in remoto oggi è ormai una strategia chiave del business, così come la qualità del lavoro e il benessere del lavoratore (strettamente correlati) dovrebbero esserne un pilastro. Invece incoraggiare la competitività esasperata crea ulteriore stress, tanto più se non esiste una pianificazione appropriata.

L’esigenza di rimediare, secondo il professore Magni, va al di là di contratti di lavoro e principi normativi (già esistenti, nuovi o in via di elaborazione, di fronte alle novità emerse ricorrendo di colpo al lavoro a distanza). «Premesso che il diritto alla disconnessione è sacrosanto», afferma, «secondo me non ha senso porre paletti troppo rigidi per quel che riguarda tempi e orari. Può darsi, per esempio, che una persona che lavora abbia voglia di assistere a uno spettacolo in cui recitano i suoi figli nel pomeriggio, per poi recuperare dopo cena. La maturità è più importante del divieto, che rischia di essere disatteso, come capiterebbe con un’ipotetica proibizione di bere alcolici. Il lavoratore dovrebbe organizzarsi meglio, decidendo quando staccare da posta elettronica e telefonate. L’azienda dovrebbe, attraverso una pianificazione proposta con largo anticipo, aiutare lui e gli altri dipendenti a fissare una scala di priorità».

La ricerca citata punta sulla Resource Drain Theory (la teoria del drenaggio delle risorse si basa proprio sul presupposto che gli individui ne possiedono una riserva limitata, da spartire tra famiglia e lavoro). Questa è utile per studiare come il conflitto famiglia-lavoro (il Family-Work Conflict, FWC, ha origine dalle richieste da parte di partner e figli “trascurati”) possa essere legato all’uso eccessivo di dispositivi mobili per scopi lavorativi durante le ore non lavorative. I risultati dimostrano, appunto, che il conflitto familiare legato al fenomeno citato mina produttività e benessere e che l’eventuale clima competitivo nell’azienda amplifica questi effetti.

 

Anche in Italia il problema esiste: se fino al 2019 meno di mezzo milione di italiani lavorava nella propria abitazione, sono stati ben oltre 5 milioni nel 2021. I grandi cambiamenti nelle abitudini sono confermati dal rapporto 2022 sul benessere nel lavoro da casa, svolto da NFON, fornitore di sistemi di comunicazione aziendale in quindici Paesi europei: ha intervistato gli smart worker di sei di questi, Italia inclusa. Risulta che con il lavoro a distanza per tre dipendenti su dieci è aumentato il carico di impegni lavorativi; per uno su quattro è cresciuto il numero di ore che gli dedica. In compenso, il 36% sostiene che lavorando da casa ha più tempo da dedicare a familiari e amici. Ottimo. Tuttavia ‒ considerando la ricerca di Maggi, Ahuja e Trombini ‒ è importante che la famiglia non rischi di “godersi”, durante quel tempo in più, un coinquilino reso isterico dalla continua pressione imposta, ovunque, dai ritmi aziendali.

 

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Perché tanti non leggono più le cattive notizie

Siamo travolti in continuazione da informazioni più o meno attendibili. Oggi il 90% di queste è “consumato” attraverso la TV e soprattutto, grazie al web, per mezzo di computer, tablet e smartphone; il resto proviene dalla “vecchia” stampa (sempre meno letta) e dalla radio. Le news sono talmente tante ‒ spesso pessime, soprattutto negli ultimi tempi, tra pandemia, guerre e crisi economiche ‒ che una minoranza autolesionista va in tilt, provando un insaziabile bisogno di avere sempre più cattive notizie. Mentre tantissimi (oltre un terzo del pubblico teorico) cercano di schivare la marea mediatica, come se fossero un esercito di allergici di fronte a una tempesta di polline. In mezzo, c’è chi non ha timori: perché ritiene di saper gestire il bombardamento mediatico oppure perché non si rende conto dei presunti rischi legati all’overdose di informazioni.

Degli “autolesionisti” Atlante Treccani si è occupato recentemente, citando una forma di dipendenza che nasce dal web: il doomscrolling, la tendenza patologica a far scorrere (scrolling) le notizie in cerca di informazioni su catastrofi e sventure (dooms). Della ben più vasta platea di allergici alle notizie si parla soprattutto dal 2020 in poi; cioè, da quando il Covid-19 ha sorpreso ‒ emotivamente e psicologicamente ‒ soprattutto le società dei Paesi più o meno benestanti, dato che non si sarebbero mai immaginate di finire, nel XXI secolo, in ostaggio di un’epidemia globale. La guerra scatenata dalla Russia di Vladimir Putin, con l’invasione dell’Ucraina, ha contribuito a far aumentare la massa di chi detesta stressarsi a causa dei media logorroici, ufficiosi e ufficiali.

Si parla infatti di sovraccarico cognitivo e di information overload (surplus informativo). Una definizione, quest’ultima, creata negli anni Sessanta dal sociologo statunitense Bertram Gross (1912-1997); ha scritto nel suo libro The managing of organizations: the administrative struggle (1964): «Il sovraccarico di informazioni si verifica quando la quantità di input in un sistema supera la sua capacità di elaborazione». Un altro statunitense, il premio Nobel Herbert Alexander Simon (1916-2001; a suo tempo lanciò lo studio degli intrecci tra economia, mass media, psicologia e sociologia), è stato il primo a sostenere che «le informazioni consumano l’attenzione dei loro destinatari. Quindi una ricchezza di informazioni crea una povertà di attenzione».

È un fenomeno che ovviamente si è sviluppato soprattutto nell’era digitale; quindi capita da un quarto di secolo a questa parte, con sempre maggiore virulenza man mano che la massa di notizie provenienti dal web è aumentata. Si parla, negli ambienti scientifici, di selective disconnection (disconnessione selettiva). Un termine usato anche in un recente rapporto del Reuters Institute for the Study of Journalism, il Digital News Report 2022. Come abbiamo già scritto, al giorno d’oggi, a causa del concatenarsi di eventi drammatici, c’è un boom di disconnessioni. Negli ultimi cinque anni è aumentata moltissimo la percentuale di chi schiva sempre o spesso le informazioni giudicate, a vario titolo, “pesanti”. In certi casi la percentuale è raddoppiata.

La ricerca, a questo proposito, si focalizza su 12 dei 46 Paesi (democratici o legati ad altri con regimi democratici) esaminati dalla società YouGov, per conto di Reuters, attraverso un questionario on-line inviato a fine gennaio/inizio febbraio 2022. Ebbene, la media delle persone “disconnesse” nel 2022 arriva al 38% (era il 29% nel 2017). In testa c’è il Brasile, col 54%; seguono il Regno Unito al 46%, gli Stati Uniti al 42%, l’Irlanda e l’Australia al 41%, la Francia al 36%, la Spagna al 35%. In Italia, dove oggi la penetrazione di Internet viene valutata al 93%, la percentuale di disconnessi è del 34% (era il 28% nel 2017): il dato è un po’ più basso della media, forse anche a causa del fatto che nel cosiddetto Bel Paese «la rivoluzione digitale è stata più lenta rispetto ad altri sistemi mediatici europei». Seguono, in coda, Germania (29%), Danimarca e Finlandia (20%), Giappone (14%).

Lo studio del Reuters Institute analizza in modo approfondito il sistema dell’informazione, inclusi social network come Instagram e TikTok: ormai sono la fonte prediletta di notizie da parte di giovani sotto i 30 anni, quelli che le testate giornalistiche spesso faticano a raggiungere. Ebbene, troppe informazioni su politica e Covid-19 rappresentano, nel mondo, la ragione per cui il 43% evita di informarsi; il 36% si giustifica sostenendo che le cattive notizie hanno un effetto negativo sull’umore; il 29% si definisce logorato dalla quantità di news che gli vengono proposte; un altro 29% ritiene che non ci si possa fidare delle news perché considerate “di parte”; il 17% risponde che preferisce evitare certi argomenti; il 16% dice che si sente impotente («non c’è niente che posso fare con quelle informazioni»). Viene riportata, per esempio, l’opinione di un ventisettenne britannico: «Evito attivamente le cose che scatenano la mia ansia e le cose che possono avere un impatto negativo sulla mia giornata. Sto cercando di evitare di leggere notizie su cose come morti e disastri».

«Questi dati suggeriscono due problemi diversi ma correlati», si legge, tra l’altro, nel rapporto. «In primo luogo, l’emergere di una minoranza di persone attive online, molte delle quali più giovani o meno istruite, ma che si sono largamente disconnesse dalla notizia, forse perché non la sentono rilevante per la loro vita. E poi, separatamente, troviamo un calo più generalizzato dell’interesse e del consumo di notizie che colpisce un gruppo molto più grande, che può essere correlato a cambiamenti strutturali nel modo in cui le notizie vengono distribuite, come il passaggio all’online, la natura del ciclo delle notizie stesso, o entrambi».

Ovviamente non è soltanto una questione di stress percepito da parecchi fruitori potenziali delle notizie. Questa situazione pone seri problemi al mondo (e all’industria) dei mass media professionali, per quel che riguarda il modo in cui propongono le informazioni. Nel report c’è una valutazione che fa emergere un paradosso: «Gli argomenti che i giornalisti considerano più importanti ‒ come le crisi politiche, i conflitti internazionali, le pandemie globali e le catastrofi climatiche ‒ sembrano essere proprio quelli che stanno allontanando alcune persone dalle notizie, soprattutto tra coloro che sono più giovani o più difficili da raggiungere». Inoltre, molti cittadini sostengono che le notizie sono difficili da comprendere; ciò suggerisce «che i media potrebbero fare molto di più per semplificare il linguaggio e spiegare o contestualizzare meglio storie complesse».

Che fare? Molte testate giornalistiche affrontano il problema, scrive il Reuters Institute, cercando di rendere le notizie maggiormente appetibili da parte delle persone; però occorre chiedersi quale sia il limite (etico e deontologico) fino al quale ci si può spingere per ottenere questo scopo senza ingannare il consumatore di news. Altre testate «stanno adottando approcci come il giornalismo risolutivo», per esempio su un tema come il cambiamento climatico; questo mira «a dare alle persone un senso di speranza» e/o a contrastare il senso di impotenza che certe informazioni negative provocano. Esiste, da quest’ultimo punto di vista, il Solutions Journalism Network: un’organizzazione internazionale, indipendente e senza scopo di lucro, la cui missione «è trasformare il giornalismo in modo che tutte le persone abbiano accesso a notizie che le aiutino a immaginare e costruire un mondo più equo e sostenibile». È stato fondato nel 2013 dai giornalisti David Bornstein (Canada), Courtney E. Martin e Tina Rosenberg (USA) e ha già formato circa 20.000 giornalisti nel mondo.

Insomma, il report del Reuters Institute mostra quale sia la sfida, molto dura, che i media professionali sono chiamati ad affrontare: devono riuscire a connettersi con persone che hanno accesso a una quantità senza precedenti di contenuti on-line e convincerle che vale la pena di prestare attenzione alle notizie. Sembra banale, ma non lo è affatto. Tanto meno lo è nell’era delle fake news, le notizie false. Sono spesso propinate su Internet, in modo deliberato, anche da certe forze politiche e, soprattutto, da vari regimi autoritari o totalitari, che hanno creato apparati specializzati nel diffondere menzogne così ben congegnate da sembrare “vere”. L’assoluta necessità di garantire l’accesso a un’informazione libera, affidabile, corretta, trasparente, accessibile e comprensibile dovrebbe essere la parola d’ordine per i giornalisti, ma prima ancora per i sistemi democratici. Da quest’ultimo punto di vista, il disinteresse per tali questioni da parte dei partiti ‒ persino nei programmi elettorali, come è appena capitato in Italia ‒ non favorisce l’ottimismo. Ovviamente anche questa è cattiva notizia. Però sarebbe meglio non trascurarla.

 

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Crescono le emozioni negative

Quando ci viene fatto sapere che il prodotto interno lordo (PIL) del nostro Paese sta aumentando, forse dovremmo sforzarci di essere meno stressati. Così come dovremmo incupirci quando apprendiamo che è in calo. Per esempio, il 2 agosto scorso si leggeva che in Italia sul fronte del PIL ‒ nonostante tensioni internazionali, crisi di governo ed elezioni in arrivo ‒ «le stime relative al 2022 migliorano, passando dal 2,9 dello scorso aprile al 3,2 per cento»; più di quanto fosse previsto, tanto da portarci ai primi posti nell’Unione Europea. Dunque ci siamo sentiti tutti più rilassati, visto che quel parametro indica il benessere economico? Macché. In realtà non solo da alcuni anni viene contestata anche da molti economisti la capacità del PIL di quantificare efficacemente la capacità che ha un Paese di produrre ricchezza. È pure sempre più evidente che quel tipo di benessere, calcolato a suon di fatturati, non è direttamente proporzionale al benessere generale delle persone; in altre parole, la crescita del prodotto interno lordo non ci fa diventare meno ansiosi.

Infatti, per quel che riguarda il tasso di esperienze negative e positive che le persone vivono ogni giorno, secondo il Global Emotions Report 2022 di Gallup (l’analisi più recente, diffusa a luglio) durante il 2021 l’Italia ha perso 11 posizioni nella classifica del benessere rispetto al 2020, nonostante quest’ultimo sia stato l’anno in cui la pandemia di Covid-19 ha colpito di più. L’indagine sulla salute emotiva ‒ che Gallup svolge dal 2006 ‒ si basa su quasi 127.000 interviste fatte a persone sopra i 15 anni in 122 Paesi e aree del mondo nel 2021 e all’inizio del 2022. Certo, noi italiani restiamo tra i meno stressati e siamo nella prima metà della classifica; però la nostra relativa ricchezza come ansiolitico non funziona granché.

Il rapporto svela a livello mondiale un massimo storico di emozioni negative (definite «l’aggregato di stress, tristezza, rabbia, preoccupazione e dolore fisico che le persone provano ogni giorno») durante l’anno scorso: la percentuale di persone che si sono definite rilassate è scesa dal 72% al 69%. Nel 2021 molti Paesi si sono mossi in una direzione peggiore rispetto al 2020, inclusi cali a due cifre in vari Stati a reddito più elevato, come Stati Uniti (-12 punti), Finlandia (-11 punti) e, appunto, Italia (-11). Si legge, per giunta, che l’aumento globale delle sensazioni negative è iniziato molto prima che i problemi percepiti negli ultimi tempi (rischi di pandemia, inflazione e recessione, turbolenze geopolitiche, guerre, peggioramento dei cambiamenti climatici) venissero alla ribalta. In effetti, l’incremento dello stress appare in evoluzione da un decennio.

Gallup non fornisce la classifica complessiva. Però cita i 10 Paesi in cui gli abitanti segnalano più esperienze emotive negative e i 10 in cui si registrano quelle più positive. Del primo gruppo fanno parte, cominciando dal peggiore, Afghanistan, Libano, Turchia, Egitto, Nepal, Tunisia, Giordania, Bangladesh, Algeria e Ucraina (prima della guerra, chissà oggi…). Nel secondo gruppo, iniziando dal migliore, ci sono Panamá, Indonesia, Paraguay, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Islanda, Filippine, Senegal, Danimarca. Quest’ultima graduatoria ‒ dedicata alle esperienze più positive ‒ rischia di far traballare le certezze di coloro che, come gli italiani, vivono nella parte cosiddetta ricca del mondo. Appare evidente che, nella graduatoria di Gallup, i sentimenti gratificanti non sono legati al tenore di vita più elevato, ma alla sua qualità in relazione alle aspettative e al contesto sociale in cui si vive (ovviamente in aree in cui non esista una povertà eccessiva). Infatti è vero che nel 2021 c’è stato nel mondo un record di persone che ha subito livelli di stress molto elevati (il 41%) e che 330 milioni di adulti hanno trascorso almeno due settimane senza parlare con un solo familiare o amico; però il rapporto svela pure che i Paesi in cui le connessioni sociali sono più forti, come quelli dell’America Centrale, hanno i punteggi delle emozioni positive maggiori a livello globale.

Ovviamente, se sul piatto della bilancia, per misurare la felicità, vengono messi molti più parametri, la graduatoria cambia, perché risente anche del tenore di vita e di altri vantaggi che hanno i cittadini con maggiori risorse economiche e beneficiari di politiche pubbliche volte a garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini. È il caso dei dati forniti dal World Happiness Report 2022, relativo al 2021 e diffuso a marzo scorso dal Sustainable Development Solution Network, organizzazione non profit creata dalle Nazioni Unite nel 2012. In questo contesto, sono presi in considerazione 146 Stati, per i quali si valutano, oltre ai parametri di carattere economico, la bassa corruzione, il livello di istruzione, il tasso di occupazione, il sostegno a livello sociale, la fiducia nelle istituzioni, la libertà di scelta, la generosità della comunità, eccetera. Risultato: la Finlandia è al 1° posto tra i Paesi in cui si vive meglio, seguita da Danimarca, Islanda, Svizzera, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Israele e Nuova Zelanda (in comune con i 10 migliori Stati segnalati da Gallup compaiono soltanto Danimarca e Islanda). Tra 11° e 20° posto ci sono Austria, Australia, Irlanda, Germania, Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Repubblica Ceca, Belgio e Francia. Panamá, in testa nella classifica di Gallup, qui è al 37° posto. Anche in questa “competizione” l’Italia ha perso posizioni tra 2020 e 2021, finendo dal 25° posto al 31°, dopo l’Uruguay e prima del Kosovo. In coda, confermando l’analisi di Gallup, ecco ancora Libano e Afghanistan.

Di certo, le due indagini citate, pur avendo alcuni aspetti e alcuni risultati in comune, portano a conclusioni diverse. Se la prima conferma il detto secondo il quale “i soldi non danno la felicità”, perché il benessere si può provare anche al di fuori dei Paesi più ricchi, la seconda fa venire in mente una battuta attribuita a Woody Allen: “Il denaro non dà la felicità, ma procura una sensazione così simile alla felicità, che è necessario uno specialista molto avanzato per capire la differenza” («Money doesn’t give happiness, but it provides a similar feeling which requires a very advanced specialist to verify the difference»). In realtà, come ha scritto l’economista Luigino Bruni per la voce Economia e felicità del Lessico del XXI Secolo dell’Enciclopedia Treccani, «il primo dato empirico da cui si è partiti negli studi sulla felicità, presto divenuto noto come il paradosso della felicità in economia, o paradosso di Easterlin, è stata l’inesistente o troppo esigua correlazione tra reddito e felicità, o tra benessere economico e benessere generale». Forse ha sempre avuto ragione il vecchio Aristotele. Il filosofo greco già 24 secoli fa, nell’Etica nicomachea, sosteneva: «È chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato. Essa infatti ha valore solo in quanto ‘utile’, cioè in funzione di qualcos’altro». Magari in funzione, direbbe qualcuno oggi, della giustizia sociale e della corretta distribuzione delle risorse, di cui questo pianeta stressato ha sicuramente molto bisogno.

 

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La buona comunicazione dell’emergenza quotidiana

È vero che alle notizie non esaltanti col tempo ci abituiamo quasi tutti (a parte i fan del doomscrolling, fissati nella ricerca on-line di quelle cattive). Però anche in Italia dal 2020 in poi ‒ tra pandemia, guerra, crisi economica, inflazione, siccità e naufragi di governi ‒ le emergenze sono state (e sono) così tante che pure chi stava iniziando a farci il callo comincia a perdere il self-control. Il settore della comunicazione e dei media, ovviamente, gioca un ruolo fondamentale nella rappresentazione della realtà. Nel farlo, contribuisce in modo notevole all’orientamento dei comportamenti e alla formazione delle opinioni.

Il 2° Rapporto annuale sulla buona comunicazione dell’emergenza quotidiana  realizzato e diffuso recentemente da Ital Communications e Censis, è dedicato proprio all’individuazione delle dinamiche che ci coinvolgono di questi tempi. Con l’intento di trovare «le piste su cui lavorare per garantire una comunicazione affidabile e di qualità in un ecosistema dell’informazione sempre più orizzontale e diversificato», vuole essere uno strumento di servizio, destinato non solo a politici, esperti e giornalisti, ma anche ai cittadini, per lo meno quelli desiderosi di antidoti contro le manipolazioni. La ricerca si è concentrata sull’informazione offerta nel corso dell’emergenza sanitaria e del conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina.

 

Nel rapporto si legge che «un primo elemento è sotto gli occhi di tutti: l’emergenza quotidiana ha generato una domanda di informazione inedita da cui nessuno è escluso. Il 97,3% degli italiani nell’ultimo anno ha cercato notizie su tutte le fonti disponibili, off e on-line, per una media di 2,7 fonti consultate per ciascuno. L’emergenza ha dunque accelerato il percorso verso un ecosistema mediatico più digitale e più articolato, determinando cambiamenti anche nel rapporto con i media. Oggi la corsa all’informazione riguarda la totalità della popolazione; una platea che non sta ferma ad aspettare, ma partecipa essa stessa alla creazione delle notizie e le diffonde». Cosicché «questo processo di creazione e circolazione dell’informazione dal basso ha degli effetti che si traducono, soprattutto nel Web e sui social media, in una democratizzazione dei contenuti; ma anche nella costruzione di realtà parallele a quelle ufficiali, capaci di incidere su opinioni e comportamenti di milioni di persone complicando ulteriormente realtà già di per sé complesse». È il caso «delle più o meno fantasiose teorie no-vax, che sono circolate in tutto il mondo portando tanta gente a scendere in piazza e a decidere di non vaccinarsi, della circolazione di video e immagini false per avvalorare notizie infondate o di propaganda sulla guerra tra Russia e Ucraina, fino alle notizie che mettono in discussione la veridicità del cambiamento climatico».

                                       

Risulta che, per ricavare informazioni sul Covid-19 e sulla pandemia, 9,3 milioni di italiani si siano rivolti soltanto ai media tradizionali, mentre 7,2 milioni hanno preferito esclusivamente quelli on-line. La maggior parte ‒ 32 milioni ‒ si è affidata a un cocktail di media classici e digitali. Inoltre, si apprende che quasi i due terzi dei cittadini (il 62%) ha assorbito le notizie provenienti dalle fonti di informazione ufficiali senza porsi troppe domande. Tuttavia, di fronte a una domanda precisa, il 64,2% ha affermato di disapprovare il tipo di comunicazione adottata nel corso dell’intero periodo dell’emergenza sanitaria: ritiene che gli organi di informazione abbiano privilegiato la spettacolarizzazione e l’obiettivo di “catturare” l’audience del pubblico. Appena il 35,8% ritiene che le notizie siano state trattate con la precisione e la chiarezza sufficienti per capire ciò che stava accadendo, le regole da rispettare e i consigli da seguire. Anche sul fronte del conflitto in Ucraina, il 57,7% degli italiani ha segnalato di avere un’idea molto o abbastanza confusa a proposito di quello che accade e delle ripercussioni prevedibili nel prossimo futuro. Guarda caso, a torto o a ragione, «tra le persone di cui gli italiani si fidano, anche come fonti informative, ci sono gli influencer, che il 38,1% degli italiani dichiara di seguire nelle loro opinioni/analisi sulla guerra». 

 

Poi però tantissimi italiani si sfogano sul web, dove ritengono di poter condividere notizie esprimendosi in modo libero. Risultato? In media il 35,9% nell’ultimo biennio ha commentato e/o condiviso, sui social network, contenuti critici nei confronti delle decisioni assunte dal governo durante l’epidemia. Questa percentuale supera il 40% tra gli occupati, chi vive nel Mezzogiorno e chi ha fra 35 e 64 anni, per scendere ad un 26,2% (in ogni caso, significativo) tra gli ultrasessantacinquenni. È di poco inferiore la percentuale di coloro che hanno fatto la stessa scelta per quel che riguarda la guerra russo-ucraina: il 33,8%, con percentuali più alte tra i cosiddetti  “millennials”, la generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta.                                 

                             

Le responsabilità? Gli italiani lamentano che durante tutto il periodo dell’emergenza sanitaria, «anche quando ci sarebbe stato bisogno di trasmettere la reale entità dei problemi e condividere regole e comportamenti da tenere, la dimensione della comunicazione (spesso ansiogena e a caccia di “mi piace”, ndr) abbia avuto la meglio su quella dell’informazione» equilibrata. Secondo Censis e Ital Communications, «questo giudizio non riguarda solo media e social media, ma coinvolge inevitabilmente anche la comunicazione ufficiale (quella del Governo, delle istituzioni, delle amministrazioni locali e delle autorità sanitarie), che in molti casi non è stata capace di imporre un’unica e chiara linea di pensiero e di condotta, ed è stata essa stessa fonte di una confusione che è poi rimbalzata su media e social». Certo, alla fine la ragione e le notizie ufficiali hanno vinto: circa il 90% degli italiani con più di 12 anni si è vaccinato; «eppure il giudizio complessivo sui toni e i contenuti della comunicazione è fortemente critico». Per quel che riguarda l’emergenza-guerra, secondo il report «è troppo presto per fare un bilancio dell’informazione… ma anche in questo caso i segnali che vengono dall’opinione pubblica non sono confortanti: il 57,7% degli italiani giudica confusa (molto il 16,4%, abbastanza il 41,3%) l’informazione ricevuta, mentre il 42,3% la giudica chiara (13,1% molto e 29,2% sufficientemente)».

 

I risultati offerti da questo report confermano che nel mondo dell’informazione professionale (quindi tra i giornalisti fedeli alle regole deontologiche e allergici alle strumentalizzazioni dell’audience) e in quello della comunicazione istituzionale (la capacità di comunicare è essenziale per ottenere un rapporto di collaborazione e di fiducia con i cittadini) occorre porsi domande serie sul proprio ruolo e sulla modalità di gestione delle notizie, soprattutto in situazioni di allarme generalizzato. Fin dall’inizio della pandemia, a marzo 2020, c’è stato chi aveva sottolineato, invano, la grande impreparazione in questo campo: la comunicazione in emergenza si insegna nelle università, ma a livello pratico resta lettera morta. Così come anche su Treccani pochi mesi fa è stato ricordato che esiste un problema serio, la cui espressione più plateale è stata proprio la difficoltà/incapacità nell’informare da parte delle istituzioni, mentre spesso gli organi di informazione professionale, anziché assolvere al compito di chiarire e semplificare, sono stati contagiati dal contorsionismo verbale, aumentando il livello di sfiducia. Invece, scrivono i ricercatori di Censis e Ital Communications, «gli italiani si aspettano… accuratezza, responsabilità, terzietà e toni pacati».

 

Che fare? In parole povere, occorre che il mondo della comunicazione, pubblico e privato, si rimbocchi le maniche, magari dopo aver preso coscienza dei propri limiti durante gli ultimi due anni e mezzo. Nel rapporto si sottolinea che «la buona comunicazione non si improvvisa», cercando di mettere toppe quando ormai la gente è confusa, stressata e allarmata. Semmai, preventivamente «c’è bisogno di piani di comunicazione interna ed esterna e di gestione dell’emergenza… È necessario intervenire costruendo degli argini per frenare disinformazione e fake news e costruire buona comunicazione». Un’esigenza tanto più urgente se si considera che, grazie anche al boom della didattica a distanza, «la platea di chi naviga sul Web sta crescendo e include anche una larga fetta di minori. Oggi il 69,1% dei ragazzi che hanno meno di 14 anni e il 61,7% di quelli che ne hanno meno di 12 navigano su Internet». Forse non è il caso di lasciarli fin da piccoli in balìa di mitomani e cattivi “informatori”.

       

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Immagine: La stampa italiana sull’epidemia di Coronavirus in Italia, Milano (24 febbraio 2020). Crediti: praszkiewicz / Shutterstock.com

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Un mondo di contraddizioni sul cibo

Se un ignaro extraterrestre dovesse esplorare la Terra, si troverebbe di fronte un’umanità che si crogiola nelle contraddizioni: per esempio, dalla passione per le guerre all’incapacità di frenare i distruttivi cambiamenti climatici che provoca. Però potrebbe essere particolarmente colpito da una situazione ancora più surreale. Quale? La mancanza di cibo per un essere umano su tre e il fallimento del progetto di far calare questo fenomeno (semmai incentivato prima dalla pandemia, poi dalla guerra russo-ucraina). Contemporaneamente, scoprirebbe che il 25% degli esseri umani è sovrappeso od obeso e che ogni anno perdiamo o sprechiamo un terzo di tutti gli alimenti prodotti nel mondo.

Per spiegare allo stupito alieno come stanno le cose, potremmo cominciare fornendogli dati recenti. Quelli contenuti nel Rapporto sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione pubblicato il 6 luglio scorso da cinque agenzie dell’ONU: Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD), Fondo per l’infanzia (UNICEF), Programma alimentare mondiale (WFP) e Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Il rapporto mostra una situazione in continuo peggioramento. Nel 2021 circa 2,3 miliardi di persone nel mondo (il 29,3% di circa 7,9 miliardi totali) hanno vissuto in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave: 350 milioni in più rispetto al 2019, prima della pandemia. Di queste persone, 1,38 miliardi (17,6%) sono state costrette a ridurre la qualità e/o la quantità quotidiana di cibo per mancanza di denaro o di altre risorse. Inoltre, 924 milioni (11,7%) sono rimaste senza poter mangiare per un giorno o di più (+207 milioni rispetto al 2019). Mentre un numero stimato tra 702 e 828 milioni (tra l’8,9% e il 10,5% della popolazione mondiale) è stato colpito da denutrizione cronica, cioè dalla mancanza quasi totale e quotidiana di cibo (+46 milioni rispetto al 2020 e +150 milioni dal 2019).  Considerando anche coloro il cui reddito è stato così basso, rispetto all’elevato costo del cibo di qualità accettabile, da non potersi permettere una dieta sana, nel 2020 si arriva a 3,1 miliardi di uomini, donne e bambini (+112 milioni rispetto all’anno prima) con problemi legati a un’alimentazione inadeguata: quasi la metà dell’umanità.

 

Tra l’altro, due categorie ‒ bambini e donne ‒ sono le più colpite. «Il divario di genere nell’insicurezza alimentare ha continuato a crescere nel 2021: il 31,9 per cento delle donne nel mondo ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6 per cento degli uomini; un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 punti percentuali nel 2020», si legge nell’indagine dell’ONU. Poi «si stima che circa 45 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni abbiano sofferto di deperimento: la forma più mortale di malnutrizione, che aumenta il rischio di morte fino a 12 volte. Inoltre, 149 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni hanno avuto deficit di sviluppo a causa di una mancanza cronica di nutrienti essenziali nella loro dieta… Desta grande preoccupazione il fatto che due bambini su tre non abbiano un regime alimentare diversificato, necessario per crescere e sviluppare il proprio pieno potenziale».

 

Lo scorso anno l’Oxfam, organizzazione umanitaria internazionale con 80 anni di storia alle spalle, ha calcolato che ogni minuto nel mondo muoiono d’inedia 11 esseri umani, quasi 16.000 al giorno. Purtroppo non si riesce a frenare questa tendenza, nonostante ricorrenti impegni presi dai 193 Paesi membri dell’ONU. Le proiezioni contenute nel rapporto delle Nazioni Unite indicano che nel 2030 quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione mondiale) dovranno ancora affrontare la carenza di cibo. È un numero simile a quello del 2015, quando, nell’ambito dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, l’ONU fissò l’obiettivo di porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione proprio entro il 2030. Insomma, tra 8 anni non sarà cambiato nulla.

 

Le previsioni sono negative sebbene prendano in considerazione, “ottimisticamente”, una ripresa economica globale, dato che sono state elaborate prima che il conflitto scatenato da Mosca in Ucraina svelasse i contraccolpi a livello globale. Una nota lo sottolinea: «Nel periodo di pubblicazione di questo rapporto, la guerra in corso in Ucraina, che coinvolge due dei maggiori produttori mondiali di cereali, di olio di semi e di fertilizzanti, sta sconvolgendo le catene di approvvigionamento internazionali e facendo aumentare i prezzi di grano, fertilizzanti, energia, nonché degli alimenti terapeutici pronti all’uso per bambini che soffrono di malnutrizione grave. Ciò accade mentre le catene di approvvigionamento sono già colpite negativamente da eventi climatici estremi sempre più frequenti, specialmente nei Paesi a basso reddito, e ha implicazioni potenzialmente preoccupanti per la sicurezza alimentare e la nutrizione globali». Non a caso nella prefazione del report si sottolinea che «conflitti, shock climatici estremi e economici, combinati con crescenti disuguaglianze», sono i «principali fattori di insicurezza alimentare e malnutrizione».

 

Quindi «la questione in gioco non è se le avversità continueranno a verificarsi o meno, ma come intraprendere azioni più audaci per costruire la resilienza contro gli shock futuri», per esempio riqualificando le politiche agricole a livello globale. I rischi sono molto alti per tutti; anche per i Paesi ricchi, in cui la fame è un problema molto marginale. Il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, David Beasley, ha riassunto: «C’è il pericolo reale che i numeri salgano ancora di più nei prossimi mesi. I picchi globali dei prezzi di cibo, carburante e fertilizzanti minacciano di far precipitare nella carestia diversi Paesi. Il risultato sarà destabilizzazione globale, fame e migrazioni di massa a livelli senza precedenti. Dobbiamo agire oggi, per evitare questa catastrofe all’orizzonte». Un problema enorme. Rispetto al quale altri fenomeni apparentemente in contraddizione, come il boom di obesi e lo spreco di cibo, sono l’altra faccia della stessa medaglia: l’incapacità di governare non solo la produzione alimentare nel mondo ma anche la sua qualità, non di rado scarsissima (il cibo più economico spesso è molto calorico ma privo delle sostanze nutrienti necessarie).

 

Per esempio, in un articolo pubblicato nel 2021 sul sito dell’OMS, si legge che l’obesità a livello mondiale è quasi triplicata dal 1975: nel 2016 oltre 1,9 miliardi di adulti dai 18 anni in su erano in sovrappeso (il 39% del totale); di questi oltre 650 milioni erano obesi (13%). Per quel che riguarda bimbi e adolescenti, nel 2020 ne risultavano sovrappeso od obesi 39 milioni tra quelli sotto i 5 anni e 340 milioni tra i 5 e i 18. Il sovrappeso e l’obesità, un tempo considerati un problema dei Paesi ad alto reddito, sono in aumento in quelli a basso e medio reddito, in particolare nelle città. In Africa il numero di bambini sotto i 5 anni in sovrappeso od obesi è aumentato del 24% dal 2000. Quasi la metà dei bimbi con questo problema nel 2019 viveva in Asia. L’OMS scrive che al peso eccessivo «sono legati più decessi in tutto il mondo rispetto al sottopeso», perché «è un importante fattore di rischio per malattie non trasmissibili», come quelle cardiovascolari (tra le prime cause di morte), il diabete, i disturbi muscoloscheletrici e alcuni tipi di cancro. Inoltre, «non è raro trovare denutrizione e obesità che coesistono all’interno dello stesso Paese, della stessa comunità e della stessa famiglia», a causa della scarsissima qualità nutrizionale dei cibi accessibili.

 

A loro volta, gli sprechi alimentari sono enormi. La FAO segnala che finisce nella spazzatura un terzo del cibo prodotto nel mondo, ogni anno. Il suo spreco corrisponde anche alla perdita di un terzo dell’energia e di un terzo dell’acqua usate per  produrlo (basti pensare che, solo per gli animali allevati, ne servono, in 12 mesi, 2.000 miliardi di metri cubi). Ha elaborato, in questo campo, il Food Loss Index: è dedicato allo sperpero delle 10 principali materie prime alimentari, dalla produzione alla vendita all’ingrosso; si arriva, in questa fase, al 13,8%. Mentre il Food Waste Index Report dell’United Nations Environment Programme (UNEP) è dedicato agli sprechi nella parte terminale: gli scarti prodotti nelle case, nella ristorazione e nella vendita al dettaglio. Si arriva a 931 milioni di tonnellate l’anno nel 2019, di cui il 61% proviene dai consumi domestici, il 26% dai ristoranti, il 13% dai negozi. In Italia, secondo l’UNEP, siamo sotto la media globale per quel che riguarda gli sprechi in famiglia, con “appena” 67 kg l’anno pro capite (4 milioni di tonnellate totali), ma non è consolante.

 

È chiaro che diminuendo il numero di obesi nel mondo non si salva automaticamente la vita a milioni di persone che muoiono di fame. Né ha un’utilità pratica il monito con cui spesso gli adulti sgridano i bimbi inappetenti nei Paesi benestanti (“Mangia! Pensa ai bambini che in Africa non hanno niente!”). Tuttavia, quei fenomeni contrastanti ‒ l’inedia cui sono condannati centinaia di milioni di persone mentre altre mangiano troppo cibo e/o lo buttano via ‒ sono una metafora delle contraddizioni della società globale. Il rimedio teoricamente consiste in una radicale trasformazione del nostro modo di produrre e di consumare generi alimentari. Però i governi dei Paesi più ricchi non sono ‒ a quanto pare ‒ in grado di farlo e di mantenere gli impegni, così come le multinazionali del cibo non hanno interesse a cambiare i loro business. Quindi il visitatore extraterrestre probabilmente tornerebbe sconsolato sul suo pianeta per raccontare le nostre contraddizioni. Anche se forse gli alieni siamo noi stessi, troppo spesso incapaci di renderci conto della situazione.

 

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Doomscrolling, quando le cattive notizie generano dipendenza

 

Alzi la mano chi almeno una volta è stato tentato, soprattutto negli ultimi due anni e mezzo, di arrendersi di fronte al flusso costante di informazioni stressanti: dalla pandemia alla guerra, dall’aumento dei prezzi alla siccità, per citare le star tra le cattive notizie. È capitato a quasi tutti. La necessità di una pausa fa venire voglia di spegnere TV digitali, radio on-line, smartphone, computer e altri aggeggi iperconnessi. C’è però anche chi è colto da un’insopprimibile esigenza di segno contrario: più si stressa per la marea di notizie più o meno fondate, ma quasi sempre ansiogene, più ha bisogno di averne: per stare, dopo, anche peggio. È una specie di ipocondria in versione mediatica, simile al disturbo più noto provocato dalla preoccupazione eccessiva e irrazionale riguardo la propria salute: se gli ipocondriaci “classici” cercano continuamente notizie sulle malattie che immaginano di avere, quelli mediatici sono ossessionati proprio dalle novità deprimenti che riescono a scovare costantemente, soprattutto attraverso il web e i mass media digitali. Questa patologia ha anche un nome scientifico, in inglese: doomscrolling.

Il neologismo è stato accolto dall’Oxford Dictionary nel 2020: la parola indica la tendenza patologica a far scorrere (scrolling) lo schermo del nostro telefonino (o tablet o computer) per cercare disperatamente informazioni su catastrofi e sventure (dooms) che capitano nel mondo. Trovarle non è difficile, come sa chiunque. Quelle notizie ci sono propinate da valanghe di canali televisivi con TG e talk show, in cui spesso gli esperti disorientano, battibeccando tra loro o litigando con tuttologi non esperti ma telegenici. Oggi ci arrivano soprattutto dal web: grazie ai siti dei media professionali e di quelli indipendenti; attraverso i social network e altre diavolerie internettiane, come app prodighe di notifiche e podcast logorroici. Più contribuiscono frotte di blogger, influencer, youtuber o tiktoker, visto che il mondo digitale distribuisce generosamente titoli per qualificare coloro che il preveggente Eugenio Montale già definiva «propalatori di fanfaluche credibili» nella poesia Fanfara del 1969, un trentennio prima che la rete ci conquistasse.

Sia chiaro: la diffusione dell’ipocondria mediatico-digitale non è, per restare in tema, una delle “cattive notizie” trendy che il web ci rifila, per poi dimenticarle. È un fenomeno preso molto sul serio sul fronte sanitario, tanto più che proprio la pandemia, dal 2020 in poi, ha moltiplicato esponenzialmente chi ne è affetto. Dati precisi sul numero di malati non ce ne sono ancora, ma alle porte degli psicologi e degli psichiatri bussa sempre più gente, anche in Italia. Tanto che pochi giorni fa è stato pubblicato un articolo dedicato alla questione sul magazine dell’​​Humanitas Research Hospital, gruppo privato ospedaliero e di ricerca milanese, riconosciuto come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico.

È stata chiamata a parlarne Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta del centro Psico Medical Care di Humanitas. «La ricerca delle cattive notizie è sicuramente aumentata da inizio pandemia nel 2020. La pandemia di Covid-19 ha attivato in tutti noi la paura del contagio, della morte, della catastrofe imminente», afferma la dottoressa. «Il nostro senso di precarietà emotiva e fisica è aumentato e quindi anche la ricerca di monitorare costantemente le notizie per essere sempre aggiornati e sentirsi rassicurati». Chi è più vulnerabile? «Il doomscrolling si manifesta in particolar modo in coloro che hanno una predisposizione genetica per disturbi psicologici. Dunque tutte quelle persone che soffrono, o sono predisposte a soffrire, di disturbi di ansia e che hanno più probabilità di sviluppare meccanismi legati al controllo come gestione dell’ansia. L’esigenza di poter intervenire per anticipare e ‘tamponare’ situazioni di pericolo, tipica di chi soffre di questi disturbi, può portare a sviluppare una dipendenza da cattive notizie».

Si diventa ipocondriaci mediatico-digitali senza quasi accorgersene. «La nostra vita è costellata da stimoli e da notizie di cronaca anche quando non usiamo i nostri device personali, basti pensare agli schermi nelle stazioni e sui mezzi pubblici. La mancanza di consapevolezza circa il problema, però, può portare a non rendersi conto di questa cattiva abitudine che, a lungo andare, influenza le nostre giornate, facendo insorgere una costante sensazione di angoscia. Come spesso accade con i disturbi di natura psicologica, non sempre siamo consapevoli di fare doomscrolling», afferma la psicologa. Quando lo facciamo «rinforziamo la sensazione di angoscia correlata al bisogno di controllo su cose che, in ogni caso, non potremmo controllare, come accadimenti pericolosi per noi e per i nostri cari». Tutto ciò «può, nel caso di problemi psicologici severi, causarne un peggioramento con manifestazioni di calo del tono dell’umore e un aumento di ansia e disturbi del sonno». Tanto più che gli algoritmi che governano il web e i social moltiplicano gli stimoli: ripropongono «le notizie su cui ci soffermiamo maggiormente», così, «se tendiamo a cercarne ossessivamente di negative…, ci proporrà sempre più spesso quelle cattive».

La serietà di questo fenomeno è testimoniata da una circostanza: nel luglio del 2021 è stata chiamata a parlarne ‒ sul sito del prestigioso World Economic Forum ‒ Ariane Ling, psicologa nello Steven A. Cohen Military Family Center del NYU Langone Health, grande centro medico universitario legato alla New York University. Nell’intervista, alla domanda «Il doomscrolling esisteva prima della pandemia?», la dottoressa ha risposto: «Sicuramente, in particolare con i pazienti che hanno presentato depressione e ansia. Parliamo molto di bias di (tendenza alla, ndr) conferma: se si sta lottando con la depressione o con i pensieri tipo ‘Il mondo è tutto cattivo’, ci concentreremo maggiormente su articoli o cose nel nostro ambiente che convalidano quella convinzione... Un tempo le persone avrebbero potuto prendersi una pausa dal lavoro e chiacchierare con un collega: questo è stato sostituito dal fatto che stiamo soltanto sui nostri telefoni; li abbiamo costantemente con noi come compagni di sventura». Cosa possono fare le persone per fermare il doomscrolling? «Una delle domande che pongo sempre ai miei pazienti è: ‘Se tu non avessi il telefono, cosa faresti?’. Una volta presa consapevolezza di quanto tempo stanno trascorrendo sui loro smartphone, si fa spazio alla curiosità: ‘Potrei leggere o cucinare o allenarmi’».

La diffusione del doomscrolling pone comunque qualche questione anche al mondo dell’informazione. È vero che un giornalista professionista non può sentirsi responsabile della depressione che spinge una persona ad «annegare lentamente dentro una specie di sabbie mobili emotive, abbuffandosi di notizie negative» (è una definizione usata da Brian X. Chen, principale esperto di tecnologia per il New York Times). Però almeno i professionisti della comunicazione dovrebbero evitare di gettare benzina sul fuoco della tendenza ‒ generalizzata ‒ a provocare reazioni emotive e irrazionali da parte dell’opinione pubblica. Come ha scritto su Prima Comunicazione Andrea Barchiesi, esperto in marketing e mezzi d’informazione, «i media per sopravvivere si sono fatti social. I talk show sono diventati pericolosamente simili a una pagina Facebook. Degli acchiappa-click con un menù di contenuti pensato per generare coinvolgimento più che informazione... Creare coinvolgimento non significa necessariamente informare, anzi sempre più spesso significa creare polemica e spettacolarizzare, dare voce a opinioni divisive, incuranti degli effetti prodotti all’interno della società».

Di certo, al di là dei particolari e pesanti disturbi che la ricerca ossessiva di notizie negative provoca nelle persone psicologicamente più fragili, la cosiddetta “infodemia” ha causato e sta causando danni a livello di massa: non solo legati all’ansia che provoca (tanto che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha citato questa circostanza più volte usando l’espressione inglese “infodemic”), ma anche ai pregiudizi e alla disinformazione che alimenta (per esempio, sui vaccini anti-Covid o sulla guerra russo-ucraina). Come scrive Treccani.it riferendosi al neologismo, si tratta della «circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili». Questa forse è un’altra questione e dilungarsi potrebbe annoiare qualcuno. Però dalla noia alla paranoia il passo è breve.

 

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Un’invasione di miliardi di mascherine

Proviamo a immaginarci in cammino o alla guida su marciapiedi e strade lastricati di mascherine chirurgiche e Ffp2 usate. Un incubo provocato dallo stress legato all’interminabile emergenza sanitaria? Macché. Quelle mascherine potrebbero davvero, mischiate con altri componenti, essere utilizzate così, secondo alcuni ricercatori australiani: ne servirebbero 3 milioni per 1 chilometro. Però questo utilizzo su larga scala per ora è solo una proposta. Intanto, pur essendo indispensabili per proteggere le persone, il loro smaltimento resta un problema enorme, ancora irrisolto. Infatti, le troviamo abbandonate per strada, nei fiumi e nei laghi, in campagna, nei boschi, soprattutto in mare: basta guardare le nostre spiagge e quelle di tutto il pianeta. L’allarme-inquinamento è stato lanciato a livello globale già nei primi mesi della pandemia: da organizzazioni ambientaliste, istituzioni sovranazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità e scienziati. Finora però è stato ignorato dagli Stati, così come è stato oscurato ‒ a livello di opinione pubblica ‒ dalla scarsità di informazioni, dalla gravità della pandemia da Covid-19, dalla necessità di fermarla.

L’emergenza sanitaria è un alibi valido per non pensare a quella ambientale? In realtà, la necessità di contrastare il contagio non può indurre a nascondere sotto il tappeto dell’amnesia una circostanza: da marzo 2020 a giugno 2022 sono stati consumati presumibilmente 3.483 miliardi di mascherine; risulta facendo un calcolo in base ai dati pubblicati da Environmental Science, rivista scientifica dell’American Chemical Society. La ricerca nel 2020 aveva valutato che nel mondo se ne consumassero 129 miliardi ogni mese: 1.548 miliardi in un anno, circa 4 miliardi al giorno, 3 milioni al minuto; in più, 65 miliardi, mensili, di guanti monouso e tantissimi altri dispositivi di protezione individuale (DPI) come flaconi, visiere, kit diagnostici. In parole povere, per limitarci alle mascherine, considerando che una sessantina occupa 1 metro quadrato, finora, in 27 mesi, ne abbiamo prodotte a livello mondiale quante bastano per 60.000 chilometri quadrati; sarebbero più che sufficienti per “tappezzare” l’intero territorio dell’Italia nord-occidentale (Liguria, Val d’Aosta, Piemonte e Lombardia, in tutto 58.000 km2) o quasi il 90% dell’Irlanda (70.000 km2).

In Italia, in proporzione, le cose vanno nello stesso modo: oltre 46 miliardi di mascherine sono state consumate dall’inizio dell’emergenza fino a metà giugno 2022, quando è finito l’obbligo di utilizzo in alcuni luoghi chiusi. Ai circa 2 miliardi di mascherine utilizzate in Italia nelle scuole, si aggiungono i 16 miliardi impiegate nei luoghi di lavoro e circa 28 miliardi altrove. È la stima appena diffusa dai ricercatori della SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale). «Noi ovviamente siamo favorevoli al loro uso per contrastare la pandemia», dice il presidente della SIMA, Alessandro Miani, ad Atlante. «Però si sarebbe dovuto pensare allo smaltimento corretto, al loro impatto, al riciclaggio, alla produzione di maschere meno inquinanti, al ricorso a sistemi alternativi per sanificare gli ambienti chiusi, con  dispositivi di purificazione dell’aria. Invece non è successo, tanto meno in Italia. Così sull’ecosistema stanno avendo un impatto catastrofico».

Tutti i DPI sono fatti con materiali inquinanti e tossici, soprattutto man mano che si decompongono nell’ambiente. Il dispositivo più usato nell’era del Covid ‒ la mascherina, appunto ‒ è il più pericoloso, nonostante le apparenze. Quando è integra, può soffocare gli animali che la ingeriscono (soprattutto quelli acquatici) o impigliarli in modo inestricabile e fatale (in acqua e sulla terra ferma). Va inoltre chiarito che non è affatto biodegradabile; per giunta, è costituita da tre parti distinte: quello che in apparenza è un “tessuto” (protegge naso e bocca), gli elastici laterali e la barretta metallica sul naso. Tre materiali diversi che, anche volendo, non possono essere riciclati nello stesso momento. In particolare, il finto “tessuto” è composto da un mix di polimeri (soprattutto propilene e poliestere).

Se anche una sola mascherina su cento fosse abbandonata in giro invece di essere gettata tra i rifiuti, si arriverebbe a 1,29 miliardi al mese. Nell’ambiente restano per decenni (in teoria, la parte in plastica fino ad almeno 4 secoli), frantumandosi sempre di più; fino a trasformarsi in particelle di micro- e nanoplastica: in mare e nei corsi d’acqua le inghiottono i pesci (gli stessi che poi mangiamo); sulla terraferma, trascinate dall'acqua, vanno nelle falde freatiche e da lì anche negli acquedotti. L’ipotesi dell’1% di dispersione però è ottimistica. Uno studio firmato da tre scienziati cinesi nell’aprile del 2022 su Science of Total Environment sottolinea che il 79% delle mascherine è finito in discariche più o meno efficienti o, peggio, nell’ecosistema, mentre soltanto il 12% è stato incenerito e appena il 9% riciclato.

Nel contempo, una ricerca condotta da un team di chimici del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della Terra dell’Università di Milano-Bicocca (Francesco Saliu, Maurizio Veronelli, Clarissa Raguso, Davide Barana, Paolo Galli, Marina Lasagni) e pubblicata su Environmental Advances, ha dimostrato che una sola mascherina chirurgica gettata via irresponsabilmente ‒ dalle strade alle spiagge ‒ rilascia centinaia di migliaia di particelle microscopiche del diametro di poche decine di micron. Inoltre, le mascherine non contengono solo polipropilene e poliestere. I ricercatori della Università di Swansea (Regno Unito) hanno scoperto che, quando sono immerse nell’acqua, rilasciano pure piombo, antimonio e rame: metalli tossici se dispersi e, probabilmente, in parte inalati da chi le indossa. Il capo del progetto, Sarper Sarp, ha dichiarato: «Abbiamo urgente bisogno di più ricerca e regolamentazione sulla loro produzione, in modo da ridurre i rischi per l’ambiente e la salute umana». Per giunta, i tre scienziati cinesi citati segnalano che sono pericolosi ‒ oltre ai metalli ‒ anche i coloranti usati per tingerle e le particelle di micro- e nanosilice necessarie per produrle.

Nell’attesa, ai cittadini viene detto di metterle nella spazzatura non differenziata; da lì poi finiscono nei termovalorizzatori o nelle discariche. Però tutti in Italia le abbiamo viste e le vediamo abbandonate, ovunque. D’altra parte un recente sondaggio on-line internazionale (Sri Lanka, India, Singapore, Regno Unito, Australia, Stati Uniti) rivela che il 9% delle persone ammette di buttare via le mascherine dove capita, incautamente; si presume che molte altre non lo ammettano. Inoltre, non è difficile immaginare dove finiscano in Paesi in cui la raccolta dei rifiuti è marginale. Colpisce dunque la persistente impreparazione dei governi di fronte ai 60.000 chilometri quadrati di maschere usate e gettate via fino a oggi e di fronte a quelle che saranno utilizzate nei prossimi tempi. Un’impreparazione legata anche al fatto che, prima della pandemia, la possibilità che questi e altri DPI potessero diventare molto pericolosi per l’ambiente non era considerata un problema urgente. Infatti, fino all’inizio del 2020 le mascherine sembravano relegate in ospedali e ambulatori.

Poi c’è stato il noto boom. Lo testimonia il fatto che il fatturato delle aziende che nel mondo producono DPI è aumentato vertiginosamente: dagli 800 milioni di dollari del 2019 ai 166 miliardi nel 2020, secondo la società internazionale di consulenza aziendale Grand View Research; un grande affare cui non vogliono rinunciare. Cosicché i rifiuti derivati da mascherine, che prima erano meno dello 0,01% del totale, dopo la pandemia hanno raggiunto lo 0,84%, secondo un altro studio elaborato da 8 ricercatori dell’Università di Portsmouth (Regno Unito) e pubblicato sulla rivista Nature: ora siamo a una ogni cento rifiuti, con un aumento percentuale pari al +9.000%. Gli studiosi britannici hanno scritto che la loro gestione «dovrebbe essere incorporata nella progettazione di future politiche pandemiche per evitare eredità ambientali negative di Dpi mal gestiti».

Qual è la via maestra da seguire per evitare che la pandemia, non ancora finita, e il più frequente ricorso alle mascherine (diventate per tanti una consuetudine a prescindere dalle emergenze sanitarie, come capita da tempo in Giappone) alimentino il consumo di quelle usa-e-getta? Le lavabili e/o biodegradabili in teoria sono promettenti, ma c’è chi dubita della loro efficacia; inoltre, costano care, così il loro mercato è limitato, visti i prezzi irrisori delle monouso. Il riciclaggio vero, invece, è costoso e complicato: sono miliardi; il virus può resistere fino a 3 giorni sopra la maschera, quindi occorrono procedure particolari; non esistono punti di raccolta dedicati; sono composte da materiali difficili da separare. Ammesso e non concesso che possano essere raccolte tutte o quasi, buttarle nelle discariche non elimina il problema, semmai lo rinvia; bruciarle non è l’ideale, per il rischio di emissioni nocive; in entrambi i casi si sprecano materie prime potenzialmente riutilizzabili. La soluzione più sostenibile sarebbe il riciclo su larga scala.

Così torniamo all’apparente “incubo” citato all’inizio. In Australia, alcuni ricercatori del Royal Melbourne Institute of Technology hanno individuato promettenti possibilità di utilizzo per costruire strade e marciapiedi. Il loro studio dimostra che per realizzare 1 chilometro di strada a due corsie si consumerebbero circa 3 milioni di mascherine, togliendone 93 tonnellate dalla circolazione. Insomma, sarebbe un ottimo esempio di cosiddetta economia circolare (sempre che, come temono i tre studiosi cinesi, quello strano ”asfalto” non rischi, col tempo, di emettere particelle nocive). Mentre in Germania il grande istituto di ricerca Fraunhofer nel 2021 ha scoperto che è possibile triturarle e sottoporle a un processo termochimico di pirolisi a circuito chiuso, usando poi il materiale ricavato per fabbricarle nuove di zecca. Vedremo che cosa succederà. Nel frattempo, migliaia di miliardi di mascherine rischiano, per l’incapacità di gestire il loro smaltimento, di essere lasciate in eredità ai nostri figli, nipoti e pronipoti. Insieme a tutto il resto della plastica (e non solo).

 

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Si è fermata la crescita della popolazione in Europa

 

Se ne parla poco, per lo meno nel giro dei non addetti ai lavori. Eppure, tra i problemi che l’Unione Europea (UE) dovrà affrontare, uno è rappresentato da una bomba a orologeria: quella demografica. Non minaccia un’esplosione, come capita in altre aree del mondo sempre più affollate; semmai si rischia un’implosione. Perché noi europei saremo sempre meno. Il dato sullo stop alla crescita della popolazione si può ricavare dal corposo dossier messo a disposizione da Eurostat, l’Ufficio statistico dell’UE. Il rapporto 2022, intitolato Demografia dell’Europa, propone una versione interattiva, «per aiutare gli utenti non specializzati a vedere quali statistiche ufficiali europee possono dirci come la popolazione si sta sviluppando, sta invecchiando e molto altro ancora».

Ebbene, al 1° gennaio 2021 nell’Unione Europea vivevano 447,2 milioni di persone; sono inclusi 23,7 milioni di cittadini di Paesi non comunitari nati nell’UE (il 5,3% del totale) e 37,5 milioni nati fuori dall’UE (l’8,4%). Risulta che tra 2001 al 2020, la popolazione totale degli attuali 27 Stati membri sia aumentata da 429 milioni a 447 milioni, con una crescita del 4%; alcuni Paesi hanno avuto un incremento più alto, altri più basso o negativo. È vero che, sommando tutte le componenti, si arriva statisticamente a un rialzo nell’arco di un ventennio. Tuttavia, nel dossier di Eurostat si legge pure che ‒ nonostante l’apporto dell’immigrazione extracomunitaria ‒ nel 2020 l’aumento della popolazione si è fermato per la prima volta. Non solo, si è invertita la tendenza: tra il 1° gennaio 2020 e il 1° gennaio 2021 la popolazione complessiva dell’UE è diminuita di 278.000 persone.

Proprio lItalia ha contribuito fortemente a questo dato, visto che detiene il record europeo negativo: ha perso in un anno 405.275 abitanti, scendendo a fine 2020 a 59.236.213. Un numero che successivamente è diminuito ancora, dato che, secondo gli ultimi dati (qui la versione infografica) dell’Istat (Istituto nazionale di statistica), la popolazione italiana al 1° gennaio 2022 contava 58.983.122 persone residenti: altre 253.091 in meno rispetto a quelle di un anno prima. È un trend negativo che prosegue dal 2015, dopo che nel 2014 i residenti nel Paese erano arrivati al record di 60.345.917 (ben 1.362.795 in meno in 8 anni). In Italia c’è la maggiore percentuale di over 65 (24%) e la più bassa di under 20 (18%); inoltre, nel 2020, anche a causa del Covid-19, si è verificato il maggior aumento di decessi (+17%). Deteniamo pure altri primati: dal più basso tasso di natalità grezzo (6,8 nati vivi ogni 1000 abitanti) all’età media delle madri che hanno il primo figlio (31,4 anni). Dunque, più anziani e meno neonati: di questo passo, nel 2080 in Italia ci saranno meno di 53 milioni di abitanti, pari a quelli registrati nel 1967.

Facciamo un passo indietro, per capire. Nell’UE siamo tanti a essere preoccupati, forse quasi tutti, tranne qualche inguaribile ottimista. D’altra parte, i motivi per sentirsi così esistono. A parte lo shock determinato dalla pandemia (dalla quale stiamo gradualmente uscendo ma che ha provocato molte vittime, la paralisi dell’economia e forti contraccolpi psicologici), altre fonti di stress non mancano: la frenata nella ripresa post-Covid causata dal ritorno della guerra nel Vecchio Continente; i cambiamenti climatici e l’inquinamento; l’aumento dei prezzi con l’inflazione; il tasso di occupazione traballante; la carenza di materie prime indispensabili per le tecnologie digitali; il costo dell’energia di origine fossile più che triplicato e il blocco di molti mercati, anche a causa del conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina.

Ironia della sorte, l’implosione determinata dalla bomba demografica europea potrebbe far sì che nei prossimi anni nell’UE saremo sempre meno a preoccuparci: per la semplice ragione che il numero degli europei è destinato, se non si troveranno rimedi, a diminuire costantemente. Una prospettiva che già in un approfondimento del Parlamento europeo risalente al 2008, quando la decrescita generale nell’Unione era prevedibile, veniva sintetizzata così: «A un’Europa a ritmi economici elevati e a tassi positivi di crescita fa da contrappeso lo spettro di una società in rapido invecchiamento. E le poche nascite sul suolo europeo hanno un effetto boomerang sul mercato del lavoro, sui sistemi di protezione sociale e sulla spesa sanitaria. Il quadro demografico che emerge è allarmante… La popolazione europea è infatti in netto calo e già nel 2050 l’età media salirà a quota 49, quando più di un europeo su dieci sarà over 80. Solo cent’anni fa la popolazione europea costituiva il 15% dell’intera popolazione mondiale, ma tale proporzione si invertirà di tre volte entro il 2050 (cioè, saremo il 5%, ndr). A fare da contrappeso a tale trend c’è la forte crescita del Paesi in via di sviluppo, che rappresentano oltre il 95% della crescita», quella demografica a livello globale.

Nel documento appena citato si sosteneva che l’UE stava «studiando le opzioni possibili in vista della giusta soluzione». Per esempio, «rivedere la politica sulla famiglia, stimolare le nascite, agire sul rapporto vita privata/vita lavorativa». Inoltre, «una delle soluzioni è senza dubbio l’immigrazione, anche se tale risorsa diventerà anch’essa prima o poi “anziana”. Andrà privilegiato dunque il canale della maggiore produttività e l’introduzione di nuove politiche sulle nascite. Il Parlamento europeo ha a più riprese chiesto adattamenti agli Stati membri per tener presente il fattore “cambiamento demografico”, in particolare puntando sull’apprendimento lungo l’intero arco della vita, sull’immigrazione o su leggi sul lavoro».

Rispetto a 14 anni fa, il mondo e l’Europa sono cambiati molto, perché è successo di tutto e a sorpresa: dalla lunga e grande recessione globale iniziata proprio in quel periodo, agli ultimi tremendi due anni e mezzo, con una pandemia accompagnata da una nuova guerra sul territorio europeo. In compenso le previsioni sul «deficit demografico» (così veniva definito nell’approfondimento del 2008), di fronte ai nuovi dati forniti da Eurostat (e, a livello italiano, dall’Istat), mostrano non solo che quelle previsioni erano fondate ma che sono state persino ottimistiche; in compenso, visti i risultati, non è stato fatto granché per quel che riguarda i suggerimenti forniti all’epoca dal Parlamento europeo.

Poco si è mosso a proposito di politiche per le famiglie, in modo da stimolarle a fare più figli. Poco è stato intrapreso sul fronte dell’immigrazione, che semmai ‒ invece di diventare, se ben gestita, un volano dello sviluppo, incluso quello demografico ‒ negli ultimi anni è divenuta il pretesto per allarmi contro una presunta invasione, fomentati da parte delle forze politiche sovraniste e populiste in cerca di voti. Evidentemente quell’“invasione” non c’è stata, visto che la popolazione residente nell’UE è addirittura diminuita, anche includendo, come abbiamo visto sopra, 61,2 milioni persone residenti (e integrate) nell’Unione ma considerate, a vario titolo, extracomunitarie.

È un enorme problema, sebbene poco percepito dalla popolazione, perché i suoi effetti sono diluiti nel tempo; in realtà è assai concreto, soprattutto guardando in prospettiva da qui a pochi decenni. Lo stesso papa Francesco, all’inizio del 2019 durante un’udienza generale, parlò con preoccupazione dell’«inverno demografico che stiamo vivendo in Europa». Si può non essere d’accordo con la dottrina cattolica sul fronte della concezione della vita di coppia e della procreazione; tuttavia, i dati dimostrano che siamo entrati nel pieno di quell’inverno, a prescindere dalla laicità o meno di chi li giudica. Proprio a partire dal 2008 i tassi di fecondità, molto diversi tra Paese e Paese in Europa, hanno determinato un crollo delle nascite che è divenuto una costante, senza distinzioni per quel che riguarda l’età dei genitori e le loro possibilità economiche. Ci si sente meno sicuri sul fronte del lavoro; ci si sente in balia di occupazioni precarie: con scarse speranze di veder migliorare la propria qualità della vita o di aspirare a una casa decente o di poter contare su servizi pubblici adatti a una famiglia con figli. Succede in Italia e, in misura maggiore o minore, anche altrove nell’UE.

Nell’UE il calo delle nascite e la politica delle migrazioni gestita male (senza saper offrire ai migranti lavoro e integrazione, una vita degna di questo nome) hanno dunque contribuito a innescare la bomba a orologeria di cui si scriveva all’inizio. Negli ultimi due anni e mezzo le esperienze comuni della pandemia e poi del sostegno alla resistenza ucraina stanno mostrando, con qualche sbandamento, un’Unione Europea più coesa. Anche sul fronte del deficit demografico servirebbe una rivoluzione delle politiche pubbliche statali e comunitarie. Invece assistiamo quasi inermi allo “spettacolo”, come abbiamo visto ampiamente previsto, di un’Unione Europea che ha sempre meno cittadini: unita sì, ma nell’incapacità di garantirsi un futuro attraverso i propri figli.

 

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L’impatto del Covid sulla quotidianità dei più giovani

Durante l’emergenza sanitaria gli effetti del confinamento sui ragazzini italiani non hanno preoccupato granché chi ha gestito la situazione. Eppure, com’è stato segnalato nel gennaio scorso durante il congresso della SINPF (Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia), la pandemia ha fatto raddoppiare i casi di depressione tra gli adolescenti: uno su quattro ne ha i sintomi e la loro salute mentale appare più a rischio rispetto a quella degli adulti. Un rapporto appena diffuso dall’Istat aggiunge a questo quadro ulteriori spunti di riflessione. Si basa su dati raccolti intervistando un ampio campione di iscritti, durante l’anno 2020/2021, alle scuole secondarie, le “vecchie” medie inferiori e superiori. È intitolato I ragazzi e la pandemia: primi risultati dell’indagine sugli alunni delle scuole secondarie.

 

Scrive l’Istat: «La vita quotidiana dei giovanissimi è radicalmente cambiata a seguito delle misure adottate per il contenimento della pandemia da Covid-19». Emerge che «la quasi totalità degli alunni (il 98,7%, oltre 4.220.000) ha sperimentato periodi di didattica a distanza (DAD), ma il 67,7% preferisce le lezioni in presenza». Risulta inoltre che il 70,2% degli alunni trova più faticoso seguire le lezioni a distanza, il 49% ha sentito molto la mancanza dei compagni di scuola, il 50,9% in casa ha avuto grossi problemi di connessione al web. Non solo: «Il distanziamento sociale ha causato un crollo nella frequentazione degli amici (diminuita per il 50,5% degli alunni)», compensato solo in parte «da un aumento del ricorso a chat e social media per comunicare (aumentato per il 69,5% dei ragazzi)». Poi, «una quota non trascurabile di alunni segnala… un peggioramento della situazione economica della famiglia (29,4%)». Inoltre, ha pesato il fatto che gli under 18 abbiano subito il confinamento durante un periodo formativo essenziale. Conferma l’Istat: sono stati «colti di sorpresa, in una fase del percorso di vita in cui la dimensione sociale assume progressivamente un ruolo di primo piano, con ripercussioni su tutte le principali dimensioni della loro quotidianità fatta di scuola, attività extrascolastiche, relazioni con i pari e tempo libero»; dai rapporti di amicizia ai primi amori, per citare alcuni esempi. Molti sono così finiti nella corrente del malessere psicologico, più o meno grave, dal quale non è facile uscire da soli.

 

La ricerca premette: «I ragazzi che frequentano le scuole secondarie sono stati toccati poco dalla pandemia» per quel che riguarda le conseguenze fisiche dell’eventuale contagio. Tuttavia, sono stati molto feriti, come testimonia l’ondata di depressione, da un altro fattore: i contraccolpi nelle relazioni interpersonali delle restrizioni adottate per evitare contatti, il cosiddetto “distanziamento sociale”. Non li ha protetti il fatto di essere “nativi digitali” cresciuti col web e utilizzatori, anche prima, di tecnologie informatiche per comunicare, informarsi, giocare, guardare video e ascoltare musica? Mica tanto, in base ai risultati dell’indagine. Semmai, «il ricorso “obbligato” alla didattica a distanza», pur avendo «sicuramente introdotto un cambio di passo nell’utilizzo dellICT (Information and Comunication Technology)», ha determinato «anche nuovi elementi di diseguaglianza, connessi a divari digitali (e socio-economici) preesistenti».

 

Perché, «se è vero che i ragazzi erano già “molto connessi”, non tutti disponevano degli strumenti più adeguati, sia dal punto di vista dell’hardware sia della connessione di rete, per seguire numerose ore» di lezioni on-line. Per esempio, 2 studenti italiani su 10 non hanno potuto farlo in modo opportuno, essendo privi di computer e tablet; si arriva a 3 su 10 tra gli stranieri, svantaggiati pure dalla minore conoscenza della lingua. Molti hanno seguito malamente le lezioni on-line soltanto per mezzo di smartphone. I più svantaggiati ‒ italiani e non ‒ sono stati coloro che vivono nel Mezzogiorno. L’indagine dell’Istat ha fatto anche emergere le conseguenze dell’arretratezza della rete digitale italiana: «Non tutti i ragazzi possono disporre nella propria abitazione di una connessione Internet stabile: il 50,9% dichiara problemi, contro il 43,3% che afferma di averne una ottima».

 

L’Istat cita ovviamente anche il duro colpo alla vita di relazione. Il 70,0% degli studenti italiani (e il 65,4% degli stranieri) ha sentito la mancanza dei momenti di condivisione che capitano a scuola; al 55,4% sono mancate le gite, seguite da ricreazione (20%) e lavori di gruppo (13,1%). È andato in tilt pure il mondo delle relazioni dirette tra i ragazzi fuori dalle scuole, parzialmente compensato «da un sensibile aumento dei contatti virtuali attraverso l’utilizzo di chat/social network». È significativo che ne abbiano risentito meno gli studenti stranieri, ma non è capitato perché sono più forti, bensì a causa della maggiore emarginazione: «L’apparente minor impatto della pandemia sulla vita quotidiana extra-scolastica dei ragazzi stranieri, rispetto agli italiani, potrebbe ricollegarsi alla loro minore partecipazione sociale». In generale, «viaggiare è l’attività che è mancata di più agli alunni delle scuole secondarie (51%), seguita dalla libertà di uscire (49%), dalla frequentazione di “feste, cene e aperitivi” (48%)».

 

Colpisce l’intreccio tra i dati dell’Istat e quelli, citati, sulla depressione tra gli adolescenti. Cosa ne pensa Simona Rivolta, psicoterapeuta dell’età evolutiva a Milano? «In effetti risulta», risponde a Treccani.it, «che nelle neuropsichiatrie, ambulatoriali e ospedaliere, dall’inizio della pandemia ci sia stato un aumento degli accessi del 40% per bambini, preadolescenti e adolescenti. Idem nel centro privato in cui lavoro». L’emergenza com’è stata gestita a livello scolastico e istituzionale? «Si è trattato di un evento imprevisto, non esisteva un protocollo con indicazioni sul modo di agire. Nelle scuole c’è chi si è rimboccato le maniche, all’italiana, con scarsissime indicazioni dall’alto». Però l’impatto è stato forte… «Certo. Lo è stato per preadolescenti e adolescenti, per i più piccoli tutto sommato è andata assai meglio. Dall’età della scuola media inferiore fino all’università il contraccolpo è stato molto forte perché i ragazzi sono stati assai deprivati su un fronte fondamentale: quello dell’investimento sulla socialità e, quindi, sui processi che portano a una graduale separazione dal nucleo familiare e a un investimento sulla cosiddetta seconda famiglia, cioè sul gruppo degli amici, a scuola e fuori». Le reazioni? «Chi aveva risorse interiori buone ne ha risentito meno. Chi era già da prima in difficoltà, ha subito una sorta di tracollo. Ovviamente i tempi di recupero sono molto variabili, dipendono dalla struttura e dalle risorse del singolo e dal contesto in cui vive».

 

La DAD che effetti ha avuto a livello dell’apprendimento? Risponde la dottoressa Rivolta: «Ha dato risultati un po’ falsati. Perché tutti hanno approfittato della possibilità di copiare o di farsi aiutare nelle interrogazioni. Quindi le medie dei voti sono salite vertiginosamente, di fronte a una scarsa preparazione». Però all’inizio dell’anno scolastico 2021-2022 i ragazzi delle superiori si sono lamentati per il modo in cui è stata ripresa l’attività didattica normale. Come mai? «Ritengono che il sistema scolastico non abbia tenuto conto di due anni di parziale sospensione, dal punto di vista dell’apprendimento; cosicché, infierendo sul versante della prestazione, sono stati loro richiesti risultati che non erano in grado di fornire». Lei che opinione ha? «Penso che alle scuole, oggi gestite come aziende, si stia chiedendo di sfornare un prodotto con un certo standard di qualità. Si è dentro un modello in cui ‒ con una logica consumistica ‒ il ragazzo è, appunto, un prodotto; quindi è stata calcata la mano sulla prestazione. I docenti, in genere, hanno fatto quello che il sistema si aspetta, alcuni consapevoli dei limiti di questa operazione. Ciò è emerso quando c’è stata, all’inizio dell’anno scolastico, una sequela di occupazioni delle superiori. Gli studenti, di fatto, volevano lanciare questo messaggio ai vertici della scuola: non potete fare finta che non sia successo niente».

 

Insomma, forse è giunto il momento ‒ per gli adulti che stanno sui ponti di comando ‒ di ascoltare i ragazzi e, soprattutto, di provare a capirli, tanto più dopo un'esperienza pesante e inattesa come la pandemia. Di certo, come testimoniano i dati elaborati dall’Istat, va colmata una lunga serie di enormi lacune. Lacune con le quali non c’entra solo la emergenza sanitaria; c’entra un sistema che, a prescindere dal cataclisma del Covid, ha molte falle.

 

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Quanto inquina la guerra? Dall’Ucraina ai conflitti del Novecento

 

Sui loro terreni non si può più coltivare, né allevare bestiame. Il suolo è contaminato. Capita: sette fattorie ricevono di punto in bianco l’ordine di mandare al macero il frutto di un anno di lavoro, a causa dell’inquinamento causato da ciò che resta di bombe ed esplosioni. La guerra, oltre a distruggere e uccidere, inquina e avvelena i raccolti, gli animali, gli esseri umani. Le fattorie sono nell’Ucraina attaccata dalle truppe russe di Putin? No. Semmai quel Paese dovrà fare i conti con questi problemi nei prossimi anni, quando (si spera) le battaglie saranno finite e si dovranno bonificare i centri abitati e l’immensa pianura, che occupa quasi interamente il Paese, grande il doppio dell’Italia: da lì viene (anzi, veniva) buona parte di cereali, mais, orzo e girasoli consumati nel mondo (Italia inclusa).

 

Vedremo più avanti quali sono i problemi per gli ucraini. Però intanto viene da chiedersi: se quelle fattorie non sono in Ucraina, dove si trovano? Ebbene, sono nella Francia del Nord-Est. È successo ‒ incredibilmente (per chi non conosce le potenzialità inquinanti di certi armamenti) ‒ a causa di un conflitto finito più di un secolo fa, la Prima guerra mondiale. Lo riporta un articolo pubblicato sul sito di Groundsure (società britannica che offre consulenze sui rischi ambientali nel settore immobiliare), dedicato all’inquinamento ambientale «come danno collaterale della guerra». Il sindaco di una città vicina a una delle aziende agricole ha affermato che la decisione di distruggere i prodotti si era resa necessaria «dopo che una tonnellata di vecchia artiglieria era stata scoperta nella zona». Gli ordigni erano rimasti sepolti nel terreno. Ce ne sono ancora molti, che continuano, 104 anni dopo la fine della guerra, a rilasciare il loro carico di sostanze velenose. Sebbene nella Francia nord-orientale vengano distrutte in media 467 tonnellate di proiettili e bombe non esplose all’anno, tanti residuati devono ancora essere scoperti.

 

Si legge nell’analisi di Groundsure: «La Francia settentrionale era un’area in cui si verificarono molte delle battaglie del fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale e dove furono sparati più di un miliardo di proiettili. È stato stimato che il 30% di questi non è esploso». Significa 30 milioni di ordigni, che in parte sarebbero ancora sepolti: hanno più di un secolo, ma sono sempre carichi di sostanze mortali e tossiche; in vari casi possono pure esplodere. Circostanze analoghe a quelle francesi si verificano in Belgio e Germania, nei luoghi che hanno ospitato i campi di battaglia della Grande guerra, quasi tutte aree pianeggianti destinate normalmente ad agricoltura e zootecnia. «Non si può ancora coltivare perché ci sono ordigni inesplosi nel terreno o il suolo è contaminato da metalli pesanti e residui di armi chimiche», ha confermato, il 22 marzo scorso, Doug Weir, direttore di ricerca e politica del Conflict and Environment Observatory (CEOBS, monitora le conseguenze ambientali dei conflitti armati e delle attività militari), a Euronews.green.

 

Il caso dei residuati bellici risalenti al conflitto globale svoltosi tra 1914 e 1918 ovviamente non è isolato; anche la Seconda guerra mondiale (1939-45) si è lasciata alle spalle ordigni inesplosi. Così come si verificano situazioni analoghe in relazione a tutte le centinaia di conflitti grandi e piccoli scoppiati nel mondo dall’inizio del Novecento ad oggi, a causa del tipo di armamenti usati col boom dell’industria bellica. Pesa anche il loro impatto su infrastrutture industriali, assai inquinanti in caso di distruzione (raffinerie, depositi di carburante e sostanze chimiche, centrali elettriche e nucleari, per esempio). Per non parlare delle mine antiuomo, disseminate volutamente e destinate a provocare danni a distanza di moltissimi anni.

 

Considerando solo le munizioni più comuni usate nelle due guerre mondiali, queste contengono piombo, rame, zinco, arsenico, solventi clorurati, esplosivi nitroaromatici. Tutte sostanze molto tossiche. Purtroppo, sono state pubblicate pochissime prove su questo tipo di contaminazione; principalmente a causa delle restrizioni stabilite dai governi nell’accesso al materiale relativo all’impegno bellico. Le guerre odierne ovviamente sono ancora più “segretate”. Negli ultimi anni alle sostanze citate si è aggiunto, tra l’altro, l’uranio impoverito, utilizzato nelle munizioni anticarro perché la sua alta densità consente di sfondare le corazze: i residui radioattivi sono dannosissimi, spesso mortali, per i soldati e per i civili.

 

L’Italia non è estranea al problema: mentre il caso dei residuati bellici della Grande guerra è stato quasi eliminato, sono tuttora frequenti, a 77 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, i ritrovamenti di bombe d’aereo inesplose che costringono all’evacuazione temporanea di migliaia di persone, per poter essere disinnescate; si trovano anche tantissimi ordigni più piccoli, dalle mine alle bombe a mano. Non solo: decine di migliaia di armi chimiche (bombe e munizioni) nell’immediato dopoguerra sono state affondate, per sbarazzarsene frettolosamente, nel basso Adriatico e nel Tirreno meridionale, si legge in un dossier elaborato da Legambiente nel 2012. E la maggior parte è ancora lì, con grave rischio per l’ambiente marino e l’attività dei pescatori. Se ne è occupato anche l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un ente pubblico): nel 2013 Luigi Alcaro, responsabile del servizio emergenze ambientali in mare, sosteneva che nel Barese «dal Dopoguerra più di duecento pescatori hanno subito una ospedalizzazione dovuta al contatto con l’iprite, a seguito… di armi chimiche impigliate nelle reti». Inoltre, nel 2007 il settimanale Avvenimenti riferiva che gli aerei della NATO di ritorno dal Kosovo avrebbero scaricato vari tipi di ordigni in eccedenza nell’Adriatico, dalla laguna di Venezia fino alla Puglia; circostanza confermata nel dossier di Legambiente

 

Torniamo alla guerra in Ucraina: il ministro degli Affari interni ucraino Denys Monastyrsky ha detto, in un’intervista ad Ap News, che ci vorranno anni per disinnescare gli ordigni inesplosi, una volta che l’invasione russa sarà terminata, e che avranno bisogno di aiuto internazionale (assistenza che chiedono molti altri Paesi nel mondo, dalla Libia alla Cambogia). Preoccupato dalla situazione contingente, il ministro non ha accennato al problema successivo: l’inquinamento a lungo termine da parte delle sostanze usate per fabbricare gli ordigni e quello provocato dalla fuoriuscita di sostanze chimiche e idrocarburi da depositi bombardati o da eventuali perdite nelle tante centrali nucleari ucraine (inclusa quella di Chernobyl, occupata per alcune settimane dai russi, dove, oltre al sarcofago del reattore esploso nel 1986, ci sono ancora tonnellate di detriti radioattivi, stoccati o nel terreno).

 

Il magazine on-line Scienzainrete.it recentemente ha dedicato al tema un articolo intitolato Ordigni inesplosi: un’eredità pesante per l’Ucraina. C’è scritto che le armi moderne hanno «un tasso di fallimento di circa il 5%, che è ancora più alto nelle armi più vecchie, tuttora usate nei conflitti». Quindi almeno 5 ordigni su 100, tra quelli lanciati in Ucraina, rimangono sul terreno (come si legge sul sito Humanitarian Law & Policy), «danneggiando i civili, esacerbando lo sfollamento e impedendo le attività di sostentamento... A causa di questa situazione, intere comunità si trovano a vivere in una sorta di limbo».

 

Mentre nell’articolo già citato, pubblicato su Euronews.green, si giunge a queste conclusioni: «La possibilità di un disastro nucleare è solo la punta dell’iceberg quando si tratta delle innumerevoli conseguenze che l’invasione dell’Ucraina infliggerà all’ambiente. L’impatto è sbalorditivo, includendo le crescenti emissioni dovute all’attività militare, le fuoriuscite e le nubi tossiche causate dalla distruzione di impianti industriali e di stoccaggio del carburante, la contaminazione dell’acqua e del suolo da metalli pesanti e sostanze chimiche da bombe e armi e persino la distruzione di colture e fauna selvatica. Potrebbero volerci decenni prima che l’Ucraina e il mondo intero si riprendano dall’impatto del conflitto».

 

Insomma, l’eredità delle guerre, quella in corso in Ucraina e le tante altre scoppiate tra XX e XXI secolo, non è solo tremenda per l’umanità e per i segni che lascia nella sua memoria; colpisce ferocemente anche l’ambiente, lasciando ferite che spesso non si rimarginano per molti decenni. Chi sta nelle stanze dei bottoni ha il dovere di riflettere anche su questa terribile responsabilità.

 

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Immagine: Vecchie bombe inesplose della Seconda guerra mondiale nascoste in una foresta. Crediti: LeStudio / Shutterstock.com

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Il rapporto degli italiani con media e fake news

Ci sono quattro italiani in un bar (tranquilli, non è una barzelletta). Tre su quattro, assai fiduciosi, garantiscono di essere perfettamente in grado di individuare le notizie false propinate su Internet: dai social network ai blog, fino ai siti web, inclusi quelli dei media professionali. Uno solo ammette di sentirsi piuttosto inerme. Però ‒ quando il barista chiede se pensano che, in generale, la gente sia brava a schivare le fake news ‒ le stesse quattro persone garantiscono che solo un italiano su tre ne è davvero capace. Insomma, almeno due dei tre avevano garantito di sentirsi sicuri di sé, in realtà si sopravvaluterebbero.

Questa circostanza non rassicura per quel che riguarda la vulnerabilità rispetto alle bufale che scalpitano on-line. Eppure è ciò che risulta da Media e fake news, il sondaggio realizzato da Ipsos (società multinazionale di ricerche di mercato e consulenza) per Idmo (Italian Digital Media Observatory), l’hub nazionale contro la disinformazione coordinato dal centro di ricerca Data Lab dell’Università Luiss Guido Carli. L’Idmo ha indagato sulla fiducia e sui comportamenti nei confronti dell’informazione e delle fake news. È stato esaminato un campione casuale nazionale rappresentativo della popolazione italiana tra i 18 e i 65 anni, in base a genere, età, livello di scolarità, condizione occupazionale, area geografica e dimensioni del Comune di residenza. In tutto, sono state realizzate mille interviste, tra l’1 e il 4 febbraio 2022.

I ricercatori hanno rilevato che gli italiani dicono di non avere dubbi sul significato del termine fake news e di sapere che esistono. Inoltre, quasi i tre quarti ‒ il 73% ‒ dichiarano di essere in grado di riconoscerle (percentuale che arriva quasi all’80% tra i più giovani). Guarda caso, la stessa fiducia non è riposta nella capacità altrui: solo il 35% ritiene che le altre persone siano in grado di distinguere le notizie vere da quelle farlocche. Insomma, di fronte a questa vacillante sicurezza (o traballante presunzione, che dir si voglia), viene la tentazione di citare una frase attribuita spessissimo, sul Web, a Winston Churchill: «Una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni».  

Dato che l’ex primo ministro del Regno Unito, celebre per la sua resistenza contro la guerra nazifascista, ci ha lasciati a 91 anni nel 1965 ‒ un trentennio prima dell’avvento del web ‒ sorge il dubbio che le fake news siano il pane quotidiano della propaganda (e non solo) dalla notte dei tempi, come d’altra parte ci insegna la storia dell’umanità. Tuttavia, allarma il fatto che Internet abbia trasformato il mondo, nel bene e nel male, in una gigantesco bar virtuale, dove si chiacchiera assai e in cui aumenta in modo esponenziale la sindrome di Pinocchio; con i risultati che abbiamo visto, per fare alcuni esempi recenti, durante l’emergenza pandemica e nel corso della guerra ignobile scatenata dalla Russia in Ucraina.

Con questa consapevolezza, torniamo ai dettagli del sondaggio Media e fake news. Risulta che tra i più giovani (18-30 anni) e i più scolarizzati sono maggiormente frequenti «le attività di controllo per analizzare l’attendibilità e affidabilità delle informazioni online e, quindi, proteggersi dalla disinformazione». Però come si informano gli italiani? La stragrande maggioranza (7 su 10) lo fa soltanto per mezzo di fonti gratuite e appena 1 su 4 è disposto a pagare per accedere ad informazioni giudicate affidabili. Le notizie considerate più diffuse e più pericolose sono quelle «comunicate o interpretate in modo intenzionalmente modificato allo scopo di favorire particolari interessi». A proposito della genesi delle frottole on-line, poco più di 60 italiani su 100 sostengono che chi le diffonde sui social network «sia consapevole del fatto che sono notizie false» e il 37% ritiene che la principale spinta sia economica, mentre il 36% pensa che il diffusore di frottole lo faccia convinto di dare una notizia vera e che la sua principale motivazione sia di carattere sociale (29%).

L’indagine rileva inoltre che «tra i più giovani e i più scolarizzati è più diffusa la fiducia nella propria capacità di distinguere fatti reali da fake news (quote sopra al 75%), mentre tra i più adulti è maggiormente diffusa la fiducia nella capacità delle altre persone (40%)». Questo fenomeno suscita preoccupazioni? Eccome. «Quasi il 90% degli intervistati sostiene che la disinformazione sia diffusa in Italia e una quota simile si dichiara preoccupato per questo. Quest’ultimo dato risulta più basso tra i più giovani, dove i preoccupati ammontano al 78%».

Comunque un italiano su 9, a prescindere da quanto si senta sicuro di individuare le bugie internettiane, giura di «fare almeno un’attività di controllo davanti a un’informazione online». Come? Il 50% la verifica la credibilità dell’informazione cercando di informarsi meglio e controllando su diversi siti. Il 44% controlla anche l’autenticità dell’indirizzo del sito web e il 31% verifica se è regolarmente aggiornato. Tanti comunque non si preoccupano di accertare la fondatezza di ciò che leggono, vedono o ascoltano. Semmai le attività di controllo sono diffuse soprattutto fra i più giovani e coloro che hanno titolo di studio più elevato: «il 61% si accerta di autori e link, il 56% fa comparazioni con altri indirizzi web, il 38% bada che il sito sia aggiornato. Percentuali che crollano tra i più adulti e i meno scolarizzati».

Però c’è un problema. Che cosa bisogna intendere per «affidabilità delle informazioni»? Pochi negano che una notizia pubblicata sulla pagina di un divulgatore ‒ dallo scienziato al debunker, dallo storico all’economista ‒ sia più credibile di altre prive di riscontri documentari e/o scritte da persone qualsiasi. Tuttavia, quasi tutti ritengono che la ripresa di una notizia da parte di «diverse fonti di informazioni sia segno di affidabilità; aspetto di per sé non del tutto vero». Non solo. Il 60% ritiene che «una notizia sia più affidabile quando condivisa da tante persone (quota più alta tra i più giovani e i meno istruiti)» e il 55% che «sia più affidabile se condivisa da un amico molto attivo sui social».

Infine, ammesso e non concesso che una persona riesca a individuare una palese baggianata on-line, che cosa deve fare? «Anche nel caso dei comportamenti corretti da avere davanti a un’informazione ritenuta falsa, gli italiani mostrano confusione», si legge nel rapporto. Su 100 persone, 85 sanno che è giusto segnalare tale informazione con i sistemi messi a disposizione dai social (la quota è meno alta tra i più giovani e tra i meno istruiti). Invece l’80% pensa che sia una buona idea condividere la fake news, sottolineando nel proprio post che si tratta di notizie prive di fondamento. Peccato che, segnalano i ricercatori, sia un «comportamento errato, in quanto partecipa alla diffusione stessa della notizia falsa». Soltanto poco più del 30% pensa, giustamente, che non rilanciarla sia la scelta corretta e, soprattutto, più utile per evitarne la propagazione.

A proposito di notizie false, è giusto dare un nostro piccolo contributo al debunking. Quella frase sulla fulminea bugia che si aggira per il mondo ‒ citata prima e attribuita a Churchill dalla maggior parte dei siti (italiani e stranieri) dedicati agli aforismi ‒ in realtà non è mai stata pronunciata dall’ex premier britannico (nel senso che non ci sono prove di alcun tipo). Per scoprire questa innocua falsità è stato necessario cercare l’aforisma equivalente in inglese (“A lie gets halfway around the world before the truth has a chance to get its pants on”) e andare sul sito Quote Investigator (avviato nel 2010 dallo statunitense Gregory F. Sullivan, ex docente di informatica nella Johns Hopkins University). Il risultato? Un’osservazione simile è spesso attribuita allo scrittore americano Mark Twain (1835-1910), però è falsa anche questa paternità; in realtà, si tratta della rielaborazione di un modo di dire che, in varie forme, circola da più di tre secoli nel mondo anglosassone.  

Per farla breve, se proprio si vuole scovare una primogenitura, bisogna attribuirla a Jonathan Swift (1667-1745), scrittore, poeta e prete anglicano irlandese, noto per il romanzo I viaggi di Gulliver (1726). Sul periodico del partito Tory, The Examiner, da lui diretto dal 1710, scrisse un concetto simile a quello attribuito falsamente a Churchill (sebbene Swift non citasse i pantaloni): «Come il più mediocre scrittore ha i suoi lettori, così il più gran bugiardo ha i suoi creduloni, e spesso accade che se una menzogna viene creduta anche solo per un’ora essa ha già compiuto il suo lavoro e non deve fare altro. Quando gli uomini capiscono di essere stati ingannati è troppo tardi, la storia ha raggiunto il suo risultato». Il brano è poi finito in un libro ‒ L’arte della menzogna politica ‒ attribuito, secondo alcuni impropriamente, a Swift. Insomma, come direbbe Enzo Arbore (niente paura, in questo caso non ci sono dubbi sulla citazione): «Meditate, gente, meditate!».

 

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Acqua potabile. L’enorme spreco della risorsa più preziosa

 

Supponete di fare il pieno per la vostra auto, di spendere un centinaio di euro e di perdere un terzo del carburante lungo la strada tra il distributore e il garage, perché il serbatoio è bucato. La circostanza può provocare due tipi di reazioni. Prima reazione: vi imbufalite e fate aggiustare la falla. Seconda reazione: non intervenite, fatalisticamente convinti che la falla non sia aggiustabile. Ebbene, in Italia sembra più trendy la versione fatalistica. Però non capita con il carburante, al cui consumo stiamo ben attenti. Succede con un altro liquido, che ‒ senza offesa per i petrolieri ‒ è assai più importante della benzina. Qual è? La “banale” acqua potabile, tanto preziosa quanto, dalle nostre parti, data per scontata. Invece è una risorsa sempre più scarsa al livello planetario e bisognerebbe preservarla.

 

Tuttavia, nel nostro Paese questa risorsa non è tutelata nel modo opportuno; anzi, viene sprecata. Un recente report dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), pubblicato il 21 marzo, fornisce un quadro della situazione italiana a dir poco sconfortante; riguarda i consumi nei 109 capoluoghi di provincia e città metropolitane tra 2019 e 2021: va perduto oltre un terzo dell’acqua immessa nella rete di distribuzione. In totale, nel 2020 «sono andati dispersi 0,9 miliardi (900 milioni) di metri cubi, pari al 36,2% dell’acqua immessa in rete (37,3% nel 2018), con una perdita giornaliera per km di rete pari a 41 metri cubi (44 nel 2018)».

 

Per farsi un’idea delle proporzioni, basti pensare che ogni anno i nostri acquedotti “smarriscono” tanta acqua quanto quella contenuta in 360.000 piscine olimpioniche e quasi il doppio del contenuto medio del Trasimeno, quarto tra i laghi d’Italia per estensione, dopo quello di Como, mentre, per fare un esempio di inefficienza, l’anno scorso in 11 Comuni ‒ sempre capoluoghi di provincia e città metropolitane, tutti nel Mezzogiorno, 2 in più rispetto al 2020 ‒ la distribuzione dell’acqua è stata razionata, disponendo la riduzione o la sospensione dell’erogazione; nel 2021 il 9,5% delle famiglie italiane lamentava forti irregolarità nell’erogazione del servizio. Una circostanza tanto più sconfortante in anni in cui i cambiamenti climatici sconvolgono i ritmi di piogge e nevicate anche nel Belpaese: il 29 marzo scorso nella Pianura Padana occidentale si era arrivati a 114 giorni senza precipitazioni; nell’intero bacino del Po durante lo stesso mese è stato registrato un deficit di pioggia del 92% (la magra invernale più grave dell’ultimo trentennio).

 

In media, dunque, entrano nelle reti idriche 370 litri per abitante al giorno, ma ne escono 236: il 39% usati per bagno e doccia, il 20% per i sanitari, il 12% per il bucato, il 10% per il lavaggio delle stoviglie, il 6% per usi di cucina, il 6% per il lavaggio dell’auto e per il giardino, solo l’1% per bere e il 6% per altri usi. L’Istat si è concentrato sui 109 capoluoghi di provincia/città metropolitane perché è più agevole valutare i dati. Lì risiedono 17,8 milioni di italiani, pari al 30% circa della popolazione totale, che consumano il 33% dell’acqua potabile. Risulta che in quei grandi centri la sua distribuzione è affidata a 95 gestori, che si occupano di 100 Comuni, mentre nei restanti 9 (con 600.000 residenti) l’amministrazione comunale ha la responsabilità diretta del servizio. La rete di distribuzione è enorme: 57.000 km (17.000 in più rispetto alla circonferenza della Terra, tanto per rendere l’idea). Ebbene, nel 2020 sono stati immessi in rete 2,4 miliardi di metri cubi di acqua, però dai rubinetti ne sono usciti 1,5 miliardi. Ovviamente, «l’intensità dell’erogazione dell’acqua è fortemente eterogenea sul territorio perché legata alle caratteristiche infrastrutturali e socio-economiche dei Comuni»: in alcune aree, insomma, il sistema idrico funziona piuttosto bene, in altre malissimo.

 

Come mai ci sono queste immani perdite? «Sono da attribuire a fattori fisiologici presenti in tutte le infrastrutture idriche, alla vetustà degli impianti, prevalente soprattutto in alcune aree del territorio, e a fattori amministrativi, riconducibili a errori di misura dei contatori e ad allacci abusivi, per una quota che si stima pari al 3% delle perdite», scrive l’Istat. Di fatto, «in più di un capoluogo su tre si registrano perdite totali superiori al 45%». Le situazioni più critiche, «con valori superiori al 65% di perdite, sono state registrate a Siracusa (67,6%), Belluno (68,1%), Latina (70,1%) e Chieti (71,7%)». «All’opposto», sottolinea l’Istat, «una situazione infrastrutturale decisamente favorevole, con perdite idriche totali inferiori al 25%, si rileva in circa un Comune su cinque. In sette capoluoghi i valori dell’indicatore sono inferiori al 15%: Macerata (9,8%), Pavia (11,8%), Como (12,2%), Biella (12,8%), Milano (13,5%), Livorno (13,5%) e Pordenone (14,3%). In nove Comuni, tre del Centro e sei del Mezzogiorno, si registrano perdite totali lineari superiori ai 100 metri cubi giornalieri per chilometro di rete, generalmente superiori al 50% in termini percentuali».

 

Negli 11 Comuni capoluogo di provincia/città metropolitana, localizzati tutti nel Mezzogiorno, in cui capitano i casi più frequenti di sospensione e razionamento del servizio, i disagi hanno cause precise: «Forte obsolescenza dell’infrastruttura idrica, problemi di qualità dell’acqua per il consumo umano e sempre più frequenti episodi di riduzione della portata delle fonti di approvvigionamento, che rendono scarsa o addirittura insufficiente la disponibilità della risorsa idrica». Risultato: «Misure di razionamento sono state adottate in quasi tutti i capoluoghi della Sicilia (tranne a Messina e Siracusa), in due della Calabria (Reggio di Calabria e Cosenza), in un capoluogo abruzzese (Pescara) e in uno campano (Avellino)». In quattro capoluoghi le restrizioni nella distribuzione dell’acqua potabile sono state estese a tutto il territorio comunale: «Enna, dove l’erogazione dell’acqua è stata sia sospesa che ridotta (32 giorni); Pescara, dove il servizio è stato ridotto solo in alcune ore della giornata, specialmente nelle ore notturne o nelle prime ore mattutine (74 giorni); Cosenza e Reggio di Calabria, dove le misure sono state adottate per fascia oraria e a giorni alterni (rispettivamente per 366 e 77 giorni)». Si potrebbero snocciolare molti altri dati relativi a queste situazioni più gravi, città per città. Basti aggiungere che è stata complicata molto la vita di circa 227.000 residenti, soprattutto in Sicilia, dove 14 persone su 100 patiscono le carenze di approvvigionamento.

 

Alla gente tutto ciò quanto costa? In base ai calcoli dell’Istituto di statistica, in media una famiglia italiana spende 14,68 euro al mese (176,16 l’anno) per la fornitura di acqua in casa tramite l’acquedotto (dati del 2020). Vanno però aggiunti altri costi ‒ come quelli della fognatura e della depurazione, più altri oneri e l’Iva ‒ che, secondo Businessonline.it, porta il costo medio annuale per famiglia nel 2022 a circa 450 euro. Si devono sommare anche 12,56 euro di spesa media mensile (150,72 annuali) per l’acquisto di acqua minerale, perché tante persone non bevono quella pubblica. Eppure quest’ultima è assai conveniente: un litro di acqua del rubinetto costa 0,00236 euro, mentre un litro in bottiglia si paga mediamente 0,15 euro.

 

Il problema della qualità dell’acqua ‒ o meglio, della percezione della sua qualità ‒ non è affatto secondario: il 28,5% ha dichiarato, nel 2021, di non bere quella dell’acquedotto. Da questo punto di vista, la percezione è migliorata rispetto a vent’anni fa, quando i diffidenti erano a quota 40,1%. Non si disseta con la cosiddetta “acqua del sindaco” il 16,8% nel Nord-Est, mentre la percentuale media sale al 57,2% nelle grandi isole. «A livello regionale», scrive l’Istat, «le percentuali più alte si riscontrano in Sicilia (59,9%), Sardegna (49,5%) e Calabria (38,2%); le più basse nelle Province autonome di Bolzano-Bozen (0,8%) e Trento (2,4%). Molto inferiori alla media nazionale anche le quote di Valle d’Aosta (8,6%) e Friuli-Venezia Giulia (11,6%)». Di certo, fanno affari i produttori italiani di acque minerali naturali: nel 2019 ne sono stati prelevati e venduti 19 milioni di metri cubi, con un incremento del 17,6% rispetto al 2015 e del 9,3% rispetto al 2018.

 

L’Istat nel report ricorda che il prezioso liquido e l’insieme dei servizi correlati «sono elementi imprescindibili per la sostenibilità ambientale, il benessere dei cittadini e la crescita economica». Tanto che all’acqua sono dedicati 2 dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile elaborati dall’ONU (Sustainable Development Goals, SDGs). «Occorre dunque rafforzare la resilienza del sistema idrico, rendendo i processi più efficienti soprattutto nei territori che presentano una maggiore vulnerabilità a situazioni di criticità idrica». Non a caso, «la salvaguardia delle risorse idriche e la gestione efficace, efficiente e sostenibile dei servizi idrici rientra tra gli obiettivi del PNRR», il Piano nazionale di ripresa e resilienza approvato nel 2021 per rilanciare l’economia nazionale dopo la pandemia. Nei prossimi anni in Italia efficienza e sostenibilità riusciranno davvero, anche in questo campo, a essere raggiunte? Oppure tra il dire e il fare continuerà a esserci di mezzo quasi 1 miliardo di litri di acqua potabile sprecata? Vedremo.

 

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E se in Russia censurassero Dante?

Ogni guerra, come quella scatenata in Ucraina dalla Russia, provoca tra l’opinione pubblica, quindi anche tra gli intellettuali, reazioni emotive e, talvolta, incoerenti. Per esempio, può capitare che in Italia un grande della letteratura russa come Fëdor Dostoevskij (1821-1881) possa fare le spese delle scelte intraprese, due secoli dopo la sua nascita, dal presidente-autocrate postsovietico Vladimir Putin. È capitato di recente a Milano, con la censura di un corso sullo scrittore programmato in un’università. Viene da chiedersi se questo tipo di reazione sia una novità, se ci siano stati alcuni precedenti, se in Russia per ritorsione si stia pensando di censurare il nostro Dante.

 

Proviamo a immaginare il passato, arrivando al 10 giugno 1940. Quel giorno, alle 18.00, Benito Mussolini, acclamatissimo, annuncia, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, l’entrata in guerra dell’Italia, al fianco della Germania nazista, contro Francia e Regno Unito: «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente!». A parte le contromisure di tipo militare da parte dei nuovi nemici degli italiani, nel giro di pochi giorni tutte le università francesi e britanniche smettono di svolgere corsi su Dante Alighieri: per “vendetta” nei confronti di un personaggio del passato considerato “complice” dei dittatori scesi in campo parecchi secoli dopo. La stessa scelta viene presto fatta dagli atenei degli Stati Uniti; tanto più dopo l’11 dicembre 1941, quando il Duce annuncia di aver dichiarato guerra pure agli USA, in base al patto con tedeschi e giapponesi. Nei Paesi alleati ben presto Dante ‒ scelto come “colpevole” perché sfruttato molto (a sua insaputa) dalla propaganda fascista ‒ diventa, a livello accademico e intellettuale, il simulacro del nemico italiano, quindi finisce censurato.

 

Tutto vero? Macché. Ci siamo concessi un breve racconto fantastorico, seppur inquietante. L’unico elemento vero citato è l’uso di Dante da parte della propaganda mussoliniana. Come ha scritto Nicolò Crisafi, che insegna letteratura italiana all’Università di Cambridge, «il fascismo… si arrogò il diritto di celebrare un Dante padre della patria, eroico, virile, autoritario, nazionalista, antisemita, amante dell’ordine e della legge… L’inno del partito fascista Giovinezza… fu emendato dopo la marcia su Roma per includere i versi ‘la vision dell’Alighieri / oggi brilla in tutti i cuor’». In realtà, nonostante questo abuso, nessun ateneo nei Paesi avversari del nazifascismo pensò di censurare lo studio di Dante; eppure era in corso la Seconda guerra mondiale. Semmai qualcosa del genere sta accadendo in Italia, su nuovi fronti.

 

Il fatto è che la guerra scatenata dalla Russia di Putin sul suolo ucraino ci tocca emotivamente più di altre decine e decine di guerre in corso nel mondo. Non tanto perché i nostri confini ‒ tra Gorizia, in Italia, e Berehove, in Ucraina ‒ distano appena 906 km, circa quanto quelli che separano Milano da Bari. La serie di guerre nell’ex Iugoslavia, tra 1991 e 2001, ci aveva colpito meno, eppure accadeva sulla porta di casa. La reazione emotiva che vediamo ora in Italia non è solo questione di solidarietà, doverosa, col popolo ucraino; oggi è legata al fatto che noi italiani avvertiamo maggiormente la minaccia diretta sul nostro mondo, dato che in ballo c’è una superpotenza militare, economica (che ci fornisce il 40% del gas) e politica come la Russia, dotata di armi nucleari. Temiamo molto di più che in passato di essere coinvolti direttamente, di subire contro-sanzioni o peggio; più o meno inconsciamente, temiamo anche di poter apparire come complici o, almeno, come indifferenti e non solidali.

 

Questa emotività ha contagiato anche gli intellettuali. Non si spiega altrimenti l’ormai noto caso, cui si è accennato all’inizio, del corso su Dostoevskij, previsto all’Università Bicocca di Milano. Sarebbe dovuto iniziare in questi giorni, ma probabilmente non si farà. Chi lo avrebbe dovuto condurre, lo scrittore Paolo Nori, ha rinunciato, salvo ripensamenti. In estrema sintesi, l’ateneo milanese da tempo aveva invitato Nori, traduttore del grande scrittore russo e autore del volume Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori, 2021), a svolgere quattro incontri, gratuiti e aperti a tutti, a partire dal 2 marzo. Il 1° marzo, però, la rettrice gli ha chiesto, via email, di «rimandare il percorso» per «evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in quanto è un momento di forte tensione».

 

Nori, amareggiato e imbufalito, si è sfogato su Instagram: «Trovo che quello che sta succedendo in Ucraina sia una cosa orribile e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono ridicole: censurare un corso è ridicolo. Non solo essere un russo vivente è una colpa oggi in Italia, ma lo è anche essere un russo morto che, quando era vivo, nel 1849, è stato condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita. Che un’università italiana proibisca un corso su un autore come Dostoevskij è una cosa che io non posso credere». Tutto ciò ha scatenato valanghe di polemiche, anche perché neppure a un ucraino in prima linea, probabilmente, verrebbe mai in mente di attribuire una collusione dello scrittore del XIX secolo, celeberrimo nel mondo slavo e anche nel nostro (così come tantissimi altri grandi della fondamentale letteratura russa), con le scelte di Putin nel XXI.

 

Dopo proteste, interrogazioni parlamentari e ogni genere di commento, on-line e off-line, i vertici della Bicocca hanno fatto retromarcia. Ma ormai la frittata, in nome di una malintesa concezione del “politicamente corretto”, era stata fatta. Per giunta, nel confermare il ciclo di incontri, l’ateneo aveva poi chiesto a Nori di affiancare a Dostoevskij anche autori ucraini, tanto per “equilibrare”. Nori ha replicato di nuovo: «Non condivido questa idea che se parli di un autore russo devi parlare anche di un autore ucraino, ma ognuno ha le proprie idee. Se la pensano così, fanno bene. Io purtroppo non conosco autori ucraini, per cui li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove». Le ulteriori scuse da parte della rettrice non sembrano aver avuto effetto.

 

Il caso milanese non è isolato. A Reggio Emilia, per esempio, la partecipazione dei fotografi russi a un festival di fotografia è stata annullata. Nel comunicato ufficiale si legge che, «stante la terribile guerra in atto, la Fondazione Palazzo Magnani e il Comune di Reggio Emilia, organizzatori del Festival di Fotografia Europea che prevedeva la Russia come paese ospite dell’edizione 2022, hanno deciso di annullare la mostra Sentieri di Ghiaccio e gli eventi correlati dedicati alla cultura russa. Purtroppo, non sussistono più le premesse e le condizioni per portare a termine il lungo lavoro dei mesi scorsi. L’arte e la cultura dovrebbero sempre costruire ponti e non innalzare muri; tuttavia, non possono ritirarsi in torri d’avorio: c’è un tempo per affermare con fermezza il diritto dei popoli a vivere in pace e un tempo per aprirsi al dialogo e al confronto, senza che violenza e morte siano invitate al tavolo».

 

Sembra quasi che il comunicato emiliano sia una smentita della sua stessa tesi, apprezzabile, secondo la quale «l’arte e la cultura dovrebbero sempre costruire ponti e non innalzare muri». Tanto più che ‒ così come Dostoevskij, scrittore ottocentesco, non può essere accusato di collusione col Putin ‒ è difficile mettere all’indice alcuni grandi fotografi. Oltre tutto, per esempio, uno di quelli esclusi è appena stato arrestato dalla polizia del regime russo: si chiama Alexander Gronsky, fermato mentre protestava contro la guerra in Ucraina. Rimasto in detenzione per 12 ore, è a casa e sta bene. Lui ha fatto sapere di «capire la scelta». Forse fa più fatica a capirla chi, in Italia e altrove, punta su quei ponti garantiti dalla cultura.

 

Nel frattempo, l’opportunità di ospitare gli accademici russi in Italia per dibattiti e convegni serpeggia nel dibattito ufficioso che è in corso tra molti loro colleghi italiani. Vedremo gli effetti. Per fortuna, si può citare un comunicato diffuso il 4 marzo dall’Associazione italiana biblioteche (AIB): «Le biblioteche e i luoghi della cultura sono luoghi di pace, di accoglienza, di confronto delle idee ed è dovere professionale dei bibliotecari promuovere conoscenza e dialogo interculturale, anche e soprattutto durante le guerre. Alcuni fatti recenti ci costringono purtroppo a ribadire questa che, almeno per la nostra comunità professionale, appare una ovvietà. Sentiamo di dover esprimere il nostro totale dissenso rispetto ad alcuni appelli circolati ultimamente, come quello delle Biblioteche nazionali dei paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e dell’Associazione delle biblioteche ucraine, a espellere l’Associazione dei bibliotecari russi da IFLA; o quello dell’Ukrainian Book Institute a boicottare i libri in lingua russa… La solidarietà con il popolo ucraino non passa certo per la discriminazione del popolo russo, e tantomeno per la censura delle sue espressioni linguistiche e culturali, come da qualche parte si vorrebbe fare». In attesa di tempi migliori, ci auguriamo che nessun ateneo russo abbia deciso, nel frattempo, di censurare, per “ritorsione”, Dante, Petrarca o Manzoni.

 

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Immagine: Monumento a Fëdor Dostoevskij, Mosca, Russia (14 ottobre 2021). Crediti: Everyonephoto Studio / Shutterstock.com

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Protestano gli scienziati russi contro la guerra

In Russia è difficile e pericoloso decidere di contestare le scelte del presidente-autocrate Vladimir Putin: è arduo in generale, lo è tanto più se si critica la “sua” guerra scatenata contro l’Ucraina. Infatti ogni giorno centinaia di contestatori pacifisti vengono arrestati nelle piazze di Mosca e di altre città. Non solo: una parte significativa degli scienziati e dei giornalisti scientifici russi si è schierata contro l’aggressione militare. L’hanno definita, con parole che sono pietre, “un passo verso il nulla”. Com’è successo? Il professor Mikhail Gelfand ‒ 58 anni, biologo esperto in genomica comparativa, specialista di bioinformatica all’Istituto di Scienza e tecnologia Skolkovo di Mosca ‒ il 24 febbraio ha promosso una lettera aperta (qui il testo in russo) e una raccolta di firme su TrV-Nauka (nauka in russo significa “scienza”), sito indipendente di notizie. La lettera è stata sottoscritta in pochissimo tempo da parecchie migliaia di suoi colleghi e da molti giornalisti che si occupano di temi scientifici.

 

Nell’appello non si usano mezzi termini. Inizia così: «Noi, scienziati e giornalisti scientifici russi, dichiariamo una forte protesta contro le ostilità lanciate dalle forze armate del nostro Paese sul territorio dell’Ucraina. Questo passo fatale porta a enormi perdite umane e mina le basi del sistema consolidato di sicurezza internazionale. La responsabilità di scatenare una nuova guerra in Europa è interamente della Russia». La lettera continua sottolineando che «non c’è una giustificazione razionale per questa guerra. I tentativi di usare la situazione nel Donbass come pretesto per lanciare un’operazione militare non ispirano alcuna fiducia. È chiaro che l’Ucraina non rappresenta una minaccia per la sicurezza del nostro Paese. La guerra contro di lei è ingiusta e francamente insensata».

 

Non si manca di ricordare i forti e antichi legami tra i due Paesi: «L’Ucraina è stata e rimane un Paese a noi vicino. Molti di noi hanno parenti, amici e colleghi scientifici che vivono in Ucraina. I nostri padri, nonni e bisnonni hanno combattuto insieme contro il nazismo. Scatenare una guerra per il bene delle ambizioni geopolitiche dei vertici della Federazione Russa, spinti da dubbie fantasie storiografiche, è un cinico tradimento della loro memoria.

Rispettiamo la statualità ucraina, che si basa su istituzioni democratiche realmente funzionanti. Trattiamo la scelta europea dei nostri vicini con comprensione. Siamo convinti che tutti i problemi nelle relazioni tra i nostri paesi possano essere risolti pacificamente».

 

Le considerazioni toccano anche un altro tema: l’isolamento in cui gli scienziati russi saranno relegati a causa delle recenti sanzioni contro il regime putiniano. «Dopo aver scatenato la guerra, la Russia si è condannata all’isolamento internazionale, alla posizione di Paese paria», si legge nell’appello lanciato dal professor Gelfand. «Ciò significa che noi scienziati non saremo più in grado di svolgere normalmente il nostro lavoro: del resto, condurre ricerca scientifica è impensabile senza la piena collaborazione con i colleghi di altri paesi». Poi: «L’isolamento della Russia dal mondo significa un ulteriore degrado culturale e tecnologico del nostro Paese in totale assenza di prospettive positive. La guerra con l’Ucraina è un passo verso il nulla». Infine: «È amaro per noi renderci conto che il nostro Paese, insieme ad altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica, che hanno dato un contributo decisivo alla vittoria sul nazismo, è ora diventato l’istigatore di una nuova guerra nel continente europeo. Chiediamo l’arresto immediato di tutte le operazioni militari dirette contro l’Ucraina. Chiediamo il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato ucraino. Chiediamo pace per i nostri paesi».

 

Il professor Gelfand (che ha una moglie con metà delle radici in Ucraina), ha spiegato in un’intervista a Science (pubblicata dall’American Association for the Advancement of Science, una delle più prestigiose riviste del settore, insieme a Nature) le ragioni della sua scelta. Alla domanda «Che cosa spera di ottenere con la lettera aperta?», ha risposto: «Tre cose. Prima di tutto, far capire che la comunità scientifica russa non coincide con la leadership russa. La seconda cosa: dimostrare ai nostri colleghi ucraini che ci opponiamo a ciò che il nostro governo sta attuando e stiamo facendo il possibile per fermarlo. Terzo: far comprendere tutto ciò anche alla comunità internazionale, nella speranza che qualsiasi azione per punire la Russia sia ponderata, in modo tale da non punire proprio le persone che si oppongono a ciò che la Russia sta facendo».

 

Insomma, coloro che osano contestare la scelta bellica di Putin non sono ancora la maggioranza, però sono una folta minoranza, molto qualificata e significativa. Lo dimostra l’appello degli scienziati. Come ha sostenuto Andrea Borelli, storico dell’Unione Sovietica e della Russia, su Il Manifesto, riferendosi alle manifestazioni pacifiste e anche all’appello appena citato, «c’è qualcosa su cui varrebbe la pena di porre attenzione in Europa, per definire una strategia di pace: le proteste nelle piazze russe». Ha aggiunto: «Sono eventi non scontati. Parliamo di un paese retto da un regime autoritario, dove non è possibile mostrare apertamente dissenso sulla linea del Cremlino, pena il rischio per la propria stessa incolumità». Le persone che firmano appelli o prendono posizioni pubbliche «sono consapevoli del fatto che potrebbero perdere il loro posto di lavoro o peggio». Dunque, «questi eventi ci ricordano una cosa: la Russia non è semplicemente Putin e il suo regime... Ci ricordano che Putin non è eterno, che una Russia diversa c’è già, nonostante tutto».

 

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Immagine: Agenti di polizia trattengono una donna in piazza Pushkin durante una manifestazione contro la guerra, Mosca, Russia (27 febbraio 2022). Crediti: Konstantin Lenkov / Shutterstock.com

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Sempre più inquinata l’aria delle città italiane

Sorpresa (si fa per dire…): abitiamo in centri urbani sempre più inquinati. Parola del rapporto Mal’Aria di città 2022. Quanto manca alle città italiane per diventare clean cities, realizzato da Legambiente e basato sui dati rilevati nel 2021. Insomma, sono ormai un ricordo gli inni alla ritrovata salubrità dell’aria esibiti nei primi mesi del 2020, grazie ai lockdown che avevano bloccato veicoli e aerei e frenato l’attività industriale. Era stata una magra consolazione di fronte all’assalto della pandemia, che ci aveva sorpresi pressoché disarmati. Però ci si poteva consolare sbirciando dalle finestre: per osservare, ad esempio, un’aquila reale volteggiare nel cielo sopra Milano durante il pomeriggio del 5 aprile 2020; proveniente dalle Alpi o dagli Appennini, forse era a sua volta incredula per quella strana pace, lassù e là sotto, nella metropoli annichilita.

In generale, grazie a un afflato ecologista consolatorio e autodifensivo, all’epoca molti ‒ al bar come sui media blasonati e nel chiacchiericcio dei social ‒ favoleggiavano sul “nulla sarà come prima”, sulla “lezione ambientalista” inflitta dalla disgrazia, sulla “natura che sa riprendersi i suoi spazi” e su di noi, in teoria capaci di mettere a frutto quell’esperienza. Ebbene, solo due anni dopo ‒ mentre sventoliamo armi anti-virus sempre più affilate ‒ abbiamo ripreso a respirare aerosol velenosi e polveri sottili, tutta robaccia prodotta con alacre noncuranza, come e ancora più di prima. Perché il “senno di poi” è stato velocemente obnubilato dalla più prosaico “the show must go on”: il solito spettacolo deve andare avanti, per non parlare dei business e del PIL. Purtroppo però il recentissimo rapporto di Legambiente conferma un’emergenza rimasta costante: l’inquinamento nelle città è sempre molto sopra i livelli di guardia.  

Per tutto il 2021 nessun capoluogo di provincia italiano è stato entro tutti i limiti che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), segnano il confine tra aria sana e aria malsana: non bisognerebbe superare, come media annuale, i 15 microgrammi (1 µg è un milionesimo di grammo) per metro cubo di PM10, i 5 di PM2,5 e i 10 di NO2. Il termine PM10 identifica le particelle di diametro aerodinamico inferiore o uguale ai 10 µm (1 µm è un millesimo di millimetro), in grado di penetrare nei polmoni e di danneggiarli gravemente; il PM2,5 indica le particelle di diametro inferiore o uguale ai 2,5 µm, capaci di insinuarsi ancora più in profondità nell’albero respiratorio. L’NO2 è il biossido di azoto, gas altamente irritante per polmoni e occhi. Tutti questi inquinanti sono farina del nostro sacco: per lo più derivano da processi di combustione (centrali termoelettriche, riscaldamento, traffico ecc.), e, nel caso del biossido di azoto, anche dalla produzione di acido nitrico, fertilizzanti azotati e altri prodotti chimici.

L’esame cui sono stati sottoposti 102 capoluoghi (su 109) ha svelato che nessuno sta sotto l’intero trio di limiti suggeriti. Le zone italiane più compromesse sono quelle della Pianura Padana; l’area metropolitana romana e quella di Palermo; la zona tra Prato e Pistoia, il Valdarno Pisano e la Piana Lucchese; la Conca di Terni; parte del Beneventano; le aree industriali della Puglia; la valle del Sacco (tra la provincia di Frosinone e la città metropolitana di Roma); il territorio tra Napoli e Caserta.

In 17 città i valori di polveri sottili sono oltre il doppio rispetto a quelli tollerabili. Sul fronte del PM10, la situazione peggiore è nella grande valle del Po. Alessandria è il capoluogo messo peggio, con 33 microgrammi per metro cubo; a Milano sono 32, a Brescia, Lodi, Mantova, Modena e Torino 31; Venezia, Piacenza, Reggio Emilia, Cremona, Vicenza, Treviso, Padova, Asti e Verona sono a quota 30; nel Sud Avellino è a 30. Sotto la soglia considerata pericolosa ci sono solo Caltanissetta, La Spezia, L’Aquila, Nuoro e Verbania. Secondo Legambiente, il PM10 dovrebbe essere ridotto in media del 33% per rientrare nei limiti previsti dall’OMS.

Per quel che riguarda il PM2,5, sempre nella Valle Padana ci sono i valori peggiori, fino al più del quadruplo rispetto ai limiti OMS, con i picchi a Cremona e Venezia, dove la media annuale è di 24 µg/mc. A Vicenza 22; a Padova, Piacenza e Milano siamo a 21; a Torino, Asti, Alessandria, Verona e Treviso a 20. Nessun capoluogo di provincia riesce a stare entro i limiti. L’obiettivo medio di riduzione delle concentrazioni per non superarli? Si dovrebbe calare del 61%.

L’NO2 preoccupa moltissimo per la sua concentrazione in 13 città. A Milano (con 39) e Torino (37) c’è la situazione più grave, con livelli tripli rispetto ai limiti. Nei guai pure Como e Palermo (36), Bergamo (35), Trento e Teramo (34), Monza e Roma (33), Bolzano e Napoli (32), Pavia e Firenze (31). Sotto i limiti ci sono solo Agrigento, Enna, Grosseto, Ragusa e Trapani. La riduzione da attuare per il biossido di azoto dovrebbe essere in media del 52%.

 

Che fare? Mica si tratta di augurarsi un ritorno all’epoca preindustriale e pre-motorizzata. Semmai dovrebbero giocare a favore il mitico PNRR e la nascita del ministero per la Transizione ecologica, col progressivo abbandono dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e del loro fardello di polveri e gas. Però nel frattempo il quadro offerto dal rapporto Mal’Aria mostra una situazione ambientale nelle nostre città identica a quella precedente la pandemia (e per alcuni versi peggiore).

 

Legambiente, che ha realizzato il report nell’ambito della campagna itinerante Clean Cities (sostenuta da numerose associazioni dell’Unione Europea), sottolinea che la situazione si risolve con i fatti: c’è «l’urgenza di ripensare e ridisegnare in prima battuta le aree metropolitane, gli spazi pubblici urbani e la mobilità sostenibile, sempre più intermodale, in condivisione ed elettrica». Inoltre, bisognerebbe vietare la vendita dei veicoli a combustione interna entro il 2030, ripensare il riscaldamento domestico, avviare un piano di riqualificazione energetica dell’edilizia pubblica, creare o ristrutturare i palazzi per arrivare a emissioni zero o almeno avvicinarsi a questo obiettivo, magari sfruttando bene il celebre Superbonus 110% (l’agevolazione fiscale varata nel 2020 per interventi edilizi finalizzati all’efficienza energetica).

 

Come afferma Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, «l’Italia deve uscire al più presto dalla logica dell’emergenza e delle scuse che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Decenni fatti di piani, parole, promesse ‒ spesso disattese ‒ e scuse avanzate per non prendere decisioni, anche impopolari, e per cambiare la faccia delle nostre città e le abitudini delle persone». Mentre Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, lancia un avvertimento: presto i limiti indicati dall’OMS diverranno vincoli di tipo legale; se non saranno rispettati si arriverà «all’avvio di ulteriori procedure di infrazione per gli Stati membri inadempienti. L’Italia ha già attive tre procedure di infrazione per PM10, PM2,5 e NO2».

 

Insomma, oltre ad auto-inquinarci, ci beccheremo pure multe milionarie? Forse, più delle infrazioni pagate dallo Stato inadempiente, difficili da percepire come una minaccia concreta da parte della gente, servirebbe una campagna seria di comunicazione dedicata alle vittime, attuali e future, provocate ‒ a decine di migliaia ‒ dall’inquinamento dilagante. Perché anche questa è una pandemia; contro la quale l’unico vaccino è rappresentato da noi stessi, col nostro comportamento individuale, e dalla buona fede dei governanti ‒ locali, nazionali ed europei ‒ che scegliamo col nostro voto.

 

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Mani pulite, 30 anni dopo

I decimi anniversari, e i loro multipli, sono un’occasione ghiotta per fare bilanci. Niccolò Machiavelli è stato tra i precursori, con i suoi due Decennali in rima. Nel primo ‒ che va dal 1494 al 1504 ‒ esordisce così: «Io canterò l’italiche fatiche, / seguìte già ne’ duo passati lustri / sotto le stelle al suo bene inimiche». Le “italiche fatiche” da raccontare sono senza dubbio tante anche guardando all’imminente trentennale dell’inchiesta “Mani pulite”: il 17 febbraio 1992 a Milano fu arrestato ‒ per aver intascato tangenti ‒ Mario Chiesa, presidente socialista e craxiano del Pio Albergo Trivulzio, in un’inchiesta coordinata dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro.

 

Si generò ben presto il termine Tangentopoli, per definire un sistema diffuso di corruzione in cui si intrecciano partiti, finanza, imprenditoria e società più o meno civile. Le conseguenze di quegli eventi si avvertono ancora oggi. Tuttavia, tanti italiani under 40, troppo giovani per ricordare o nati dagli anni Novanta in poi, probabilmente ne hanno avuto notizia solo grazie a una serie televisiva: quella ‒ non troppo fedele ai fatti ‒ andata in onda su Sky come trilogia nel 2015, 2017 e 2019, con i titoli 1992, 1993 e 1994.

 

Ricordare nel 2022 quegli anni è sempre opportuno. Semmai il problema oggi non consiste nella capacità di rievocarli, bensì nella scarsa capacità di storicizzarli. In altre parole, non si è ancora cercato di spiegare quel cataclisma giudiziario in relazione al preciso periodo storico in cui si è verificato, esaminando tutte le componenti in gioco. È chiaro che un approccio di questo tipo dovrebbe spettare, tre decenni dopo, agli storici; perché di giudizi sociologici, giornalistici, giurisprudenziali, giustizialisti, innocentisti e politicisti ne sono già stati emessi parecchi.

 

È lecito obiettare che 30 anni sono pochi per guardare a quel periodo in modo storicistico? Si potrebbe replicare con un esempio famoso: lo storico Renzo De Felice rivoluzionò le precedenti analisi sul fascismo a partire dal 1965, appena 20 anni dopo la Seconda guerra mondiale. Tanto che in occasione del trentennale, nel 1975, creò gran scompiglio tra storici e politici quando con Laterza pubblicò l’Intervista sul fascismo, confrontandosi con lo studioso statunitense Michael A. Ledeen. Invece, per quel che riguarda Mani pulite, prevale ancora un tipo di lettura memorialistica.

 

Guarda caso, nelle librerie ci sono tre libri usciti a fine 2021: due scritti da giornalisti che seguirono quelle cronache giudiziarie (Goffredo Buccini del Corriere della sera, per l’editore Laterza, e Mario Consani de Il Giorno, per Nutrimenti) e uno (edito sempre da Laterza) redatto dal più “giustizialista” dei magistrati del pool anticorruzione: Piercamillo Davigo. Il volume di Buccini ‒ Il tempo delle mani pulite. 1992-1994 ‒ e quello di Davigo ‒ L’occasione mancata. Mani pulite trent’anni dopo ‒ sono, da punti di vista diversi, racconti autobiografici; con conclusioni in entrambi i casi piuttosto amare, a proposito delle conseguenze. Mentre il libro di Consani ‒ Tangentopoli per chi non c’era ‒ ha un taglio didascalico, nel senso positivo del termine: in terza persona, l’autore fa una cronistoria dedicata ai più giovani.

 

È ovvio che le ricostruzioni di ciascuno degli autori possono essere considerate “di parte”, a seconda di giudizi e pregiudizi sugli anni di Tangentopoli. D’altronde, anche l’autore di questo articolo è stato uno dei cronisti che seguirono l’inchiesta milanese, per l’Unità; quindi a sua volta potrebbe apparire parziale. Per contestualizzare un minimo la vicenda, basti ricordare che dal “caso Chiesa”, che lì per lì pareva clamoroso ma circoscritto, partì una raffica di indagini ‒ milanesi e non solo ‒ che nel giro di pochissimi anni sconvolse il sistema dei partiti: la maggior parte, dalla DC al PSI, sparì e tutti furono stravolti; nacquero nuove formazioni politiche, in testa la berlusconiana Forza Italia. Dal cataclisma è nata quella che è definita ‒ impropriamente ‒ “Seconda Repubblica”, di cui vediamo i risultati più o meno apprezzabili.

 

Buccini racconta le scorribande nel Palazzo di giustizia di Milano, in compagnia (e/o in concorrenza) con un plotone di giornalisti intorno ai 30 anni, mandati allo sbaraglio anche da altre testate. Le racconta dal punto di vista del cronista del Corriere, incluse le dinamiche all’interno della redazione e i rapporti col direttore Paolo Mieli. Sostiene col senno di poi che i giornalisti come lui, della stampa e delle TV (il web non c’era ancora), ebbero il torto di costruire un’illusione: quella sulla «fine della corruzione e degli intrighi, secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia». Il racconto è fluido e coinvolgente, sebbene non emerga che la varietà dei redattori “al fronte” era molto variegata e non tutti coltivavano quell’illusione: alcuni per partito preso; altri perché cercavano di mantenere la tensione verso l’imparzialità: senza sposare acriticamente la causa giudiziaria, per quanto in apparenza “salvifica”.

 

Il magistrato Piercamillo Davigo, il più granitico (ancora oggi) nella certezza dell’infallibilità dell’indagine giudiziaria, ammette: «Le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto. All’inizio… sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici (neppure tutti) e alle imprese... Strada facendo ci siamo accorti che il malaffare era dilagato ben oltre». Così racconta i suoi entusiasmi e le sue delusioni (anche nei confronti di Di Pietro, quando questi nel 1994 lasciò in modo imbarazzante la toga), rievoca l’iniziale enorme sostegno popolare nei confronti del pool di magistrati, cita la reazione dei potentati: «Lentamente i legami di potere si rinsaldarono e da allora l’Italia è teatro di uno scontro tra il tentativo di far osservare la legge anche ai detentori del potere politico ed economico e la tentazione di questi poteri di sottomettere gli organi giudiziari alla volontà politica. Poteva essere l’inizio di un positivo rinnovamento per l’Italia. Ma fu un’occasione persa».

 

Il giornalista Mario Consani non trae conclusioni personali. Racconta. Ecco gli arresti quotidiani di imprenditori e politici, il pool acclamato, il cappio esibito in Parlamento dai leghisti (in prima fila con i post-fascisti nelle manifestazioni pro-Mani pulite), le monete contro il segretario del PSI Bettino Craxi, i processi, i suicidi, compresi quelli di vip dell’economia come Gabriele Cagliari (Eni) e Raul Gardini (Montedison ed Enimont), coinvolti in indagini collaterali a quelle del pool. Fino all’invito a comparire per Silvio Berlusconi e alle dimissioni inattese di Di Pietro dalla magistratura.

 

Nel libro di Consani i giudizi sono affidati a due commentatori: nella prefazione, l’avvocato penalista Giuliano Pisapia (all’opera sul fronte di Mani pulite, poi sindaco di Milano, oggi europarlamentare del PD); in un’intervista conclusiva, l’ex pm di Mani pulite (e di altre clamorose inchieste) Gherardo Colombo, dal 2007 ex magistrato. Pisapia solleva dubbi sull’«uso eccessivo della carcerazione preventiva», usata «non raramente senza che vi fossero i presupposti previsti dalla legge», ma finalizzata «a dichiarazioni accusatorie degli indagati». Poi afferma: «Il sistema giudiziario non è, e non può essere considerato, onnipotente. L’opera dei magistrati è fondamentale, ma intorno al loro lavoro non può né deve esserci alcuna aura salvifica. Non sono stati, né avrebbero potuto esserlo, gli arresti e i processi a battere la corruzione. La questione… deve essere affrontata dal punto di vista culturale».

 

Tuttavia, è proprio l’intervista a Colombo quella che suggerisce la necessità di storicizzare Tangentopoli. Perché una delle domande per gli storici è questa: Mani pulite ha fatto crollare il sistema dei partiti oppure quel sistema aveva creato le condizioni per autodistruggersi? L’ex pm sembra rispondere quando afferma: «Le indagini sono state possibili per… la fine della divisione del mondo in due blocchi contrapposti». In precedenza, la «guerra fredda… era presa a giustificazione di ampi strappi alla legalità (ovviamente inconfessati) che spesso integravano reati». Dopo la caduta del muro di Berlino, «le parole d’ordine che cementavano i partiti tradizionali diventano senza senso e gli elettori si rivolgono ad altro... Per lo stesso motivo non si ha più la forza di bloccare le inchieste e Mani pulite non viene fermata. Prima, invece, le poche indagini che iniziavano in un modo o nell’altro si arenavano, si dissolvevano, si bloccavano, spesso ostacolate anche dall’interno della magistratura».

 

Conclude Gherardo Colombo, per quel che riguarda questo aspetto: «Non credo si faccia un servizio alla storia prospettando la vicenda come se quell’inchiesta fosse separata dalla realtà dell’epoca, nata in provetta e basata sul nulla. Ed è fuorviante sostenere che le indagini siano state la causa dell’implosione del sistema politico tradizionale». Un punto di vista su cui è difficile non concordare. Tuttavia, sarebbe ora che la storia ‒ quella svolta dagli storici di professione ‒ cominciasse ad avere la meglio sulla memoria, quella dei protagonisti. Leggere col metodo della ricerca storiografica quelle “italiche fatiche”, per dirla con Machiavelli, è diventato possibile. E forse indispensabile.

 

Bibliografia

Goffredo Buccini, Il tempo delle mani pulite. 1992-1994, Laterza, Bari 2021

Mario Consani, Tangentopoli per chi non c’era, Nutrimenti, Roma 2021

Piercamillo Davigo, L’occasione mancata. Mani pulite trent’anni dopo, Laterza, Bari 2021

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Laureati italiani: pochi, malpagati e spesso senza lavoro

 

“Qui comincia l’avventura del dottor Bonaventura…”. Basta sostituire il titolo di “signore” con quello di “dottore” per far sì che torni d’attualità il personaggio lanciato nel 1917 dall’artista Sergio Tofano sul Corriere dei piccoli e pubblicato fino al 1978. Infatti in Italia anche tra i laureati il tasso di occupazione è sotto la media dei 27 Paesi dell’Unione Europea (UE). Nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 64 anni la quota dei dottori che lavorano arriva all’80,8%, contro l’85,5% dell’UE. Insomma, l’avventura postlaurea in Italia è garantita. Un dato sul quale ha inciso anche il clima socio-economico determinato dalla pandemia, confermando tuttavia lo squilibrio col resto dell’Unione. La difficoltà nel trovare un’occupazione risulta massima «per chi è appena uscito dal percorso formativo e si trova nella fase di primo ingresso nel mercato del lavoro». Lo svela il Report Istat Ritorni occupazionali dell’istruzione. Anno 2020, diffuso a fine dicembre 2021.

Peraltro, nell’ottobre scorso lo stesso Istat riportava che nel 2020 solo il 20,1% della popolazione italiana (sempre tra 25 e 64 anni) possedeva una laurea, contro il 32,8% nell’UE; con una prevalenza nel Centro Italia (24,2%), seguito dal Nord (21,3%) e dal Mezzogiorno (16,2%). Secondo dati di Eurostat, l’istituto statistico europeo, l’Italia, con appena il 27,6% di laureati tra chi ha fra 30 e 34 anni, è penultima in classifica, seguita dalla Romania (25,8%). C’è una grande distanza dagli altri Stati comunitari anche per quel che riguarda la quota di popolazione con almeno un diploma (62,9% contro 79,0% nell’UE). Colpisce dunque molto il fatto che il nostro Paese non sia ancora in grado di garantire un lavoro in percentuali accettabili neppure ai pochi (rispetto alle media UE) che hanno titoli universitari: 78,3% è il tasso di occupazione dei 30-34enni laureati, contro l’86,5% comunitario. Infatti molti giovani italiani scelgono di andare all’estero.

Inoltre ci sono divari forti anche all’interno del Paese: «Nel 2020, la differenza tra Nord e Mezzogiorno nei tassi di occupazione dei 30-34enni laureati supera i 22 punti». In questo contesto pesa ovviamente anche l’attenzione nella scelta dell’indirizzo di studio universitario, viste le importanti differenze a seconda delle aree disciplinari: «Nel 2020, il tasso di occupazione delle persone tra i 25 ed i 64 anni, laureate nelle aree umanistica e dei servizi, è pari al 75,2%, in quelle socio-economica e giuridica sale all’80,1%, si attesta all’84,5% per gli ambiti scientifico e tecnologico e raggiunge il massimo valore per le lauree nell’area medico-sanitaria e farmaceutica (86,4%)».

Certo, l’Istat sottolinea che il vantaggio occupazionale «di un laureato rispetto a chi ha raggiunto al massimo la licenza media è di 29 punti percentuali», tuttavia le opportunità di lavoro «in Italia sono inferiori anche per i livelli di istruzione più elevati: …la differenza si riduce solo col crescere dell’età e si annulla nelle fasce più mature, dai 50 anni in su». L’Istituto di statistica aggiunge che il confronto con l’Europa conferma «come siano evidenti le criticità che caratterizzano la transizione dal percorso formativo al mercato del lavoro. I differenziali Italia-Ue27 nei tassi di occupazione dei 20-34enni che hanno conseguito il titolo 1-3 anni prima sono pari a -22,3 punti tra i diplomati e -19,6 punti tra i laureati».

Quindi è chiaro che in Italia c’è un mercato del lavoro che assorbe «con difficoltà e lentezza anche il giovane capitale umano più formato». Insomma, i giovani ‒ teoricamente quelli preparati alle nuove esigenze funzionali, digitali e tecnologiche ‒ restano i più svantaggiati. Per giunta, i neolaureati italiani sono, quando trovano lavoro, tra i meno pagati d’Europa: mediamente arrivano a poco più di 28.000 euro annui lordi, secondo la società di consulenza Mercer, citata dal Corriere della sera. Per farsi un’idea, in Francia si arriva a 35.000, a 50.000 in Germania e a 79.000 in Svizzera. I nostri laureati non sono soltanto scarsi, sono anche poco valorizzati sul fronte degli stipendi.

La situazione era già stata delineata nel giugno scorso dalla XXIII indagine del Consorzio interuniversitario AlmaLaurea, dedicata all’inserimento lavorativo dei laureati italiani fino ai primi 5 anni successivi al conseguimento del titolo. Ha coinvolto 655.000 persone di 76 atenei. È risultato che nel 2020 il tasso di occupazione è stato pari, a un anno dal conseguimento del titolo, al 69,2% tra i laureati di primo livello e al 68,1% tra quelli di secondo livello; tra i laureati magistrali biennali il tasso di occupazione è salito al 72,1%, mentre per i magistrali a ciclo unico si è attestato al 60,7%. A parità di altre condizioni, i più favoriti sono i laureati del gruppo informatica e tecnologie ICT, così come di quello di ingegneria industriale e dell’informazione, cui si aggiungono i laureati dei gruppi medico-sanitario e farmaceutico, educazione e formazione, architettura e ingegneria civile, scientifico. Meno favoriti, invece, sono i laureati dei gruppi disciplinari psicologico, arte e design, giuridico. La quota di chi è assunto con un contratto a tempo indeterminato raggiunge il 65,5% tra i laureati di primo livello e il 55,2% tra quelli di secondo livello.

 

Colpisce, nell’indagine di AlmaLaurea, il dato sull’arretratezza delle strategie di ricerca o offerta di lavoro anche sul fronte dei laureati. In Italia, in generale, si fa ricorso soprattutto a contatti informali, con amici e parenti prima di tutto: ha dichiarato di aver intrapreso questa strada il 77,5% dei disoccupati in Italia, rispetto al 66,1% della media europea. Altrettanto utilizzato è il canale diretto e informale, senza intermediari, con il datore di lavoro. Meno utilizzati sono, invece, i canali formali: pubblicazione o risposta ad annunci di lavoro ben strutturati, uffici pubblici o privati di collocamento (agenzie per il lavoro). Il risultato? Di fatto restano esclusi da questi meccanismi, piuttosto “artigianali” e familistici, coloro che non hanno una rete adeguata di relazioni.

 

La ricerca di Almalaurea sostiene che ‒ a maggior ragione, nel contesto di crisi pandemica ‒ «è fondamentale porre il capitale umano al centro delle riflessioni sulle direzioni di sviluppo del prossimo futuro: aumento dei livelli formativi, sviluppo sostenibile, innovazione, investimenti in R&S (ricerca e sviluppo) devono rappresentare i quattro punti cardinali verso cui indirizzare le politiche attive». «Ma», si legge nel rapporto, «per raggiungere questo ambizioso traguardo occorrerà intervenire anche dal punto di vista culturale, attraverso azioni di orientamento e di diffusione capillare delle informazioni». Un messaggio che qualcuno recepisce? In realtà anche nel 2021 abbiamo ascoltato la solita solfa: imprenditori grandi e piccoli che si lamentano di non trovare lavoratori adatti alle loro esigenze (magari senza specificare come li cercano, la retribuzione, il tipo di contratto). Su Atlante a questo aspetto è stato dedicato un articolo quando ‒ tra primavera ed estate del 2021 ‒ sui media era molto trendy il luogo comune sui giovani e meno giovani che preferirebbero vivere di sussidi.

 

L’auspicio è che, grazie al contributo del programma Next Generation EU e del Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’Italia possa guadagnare posti nelle graduatorie internazionali. I nostri dottor Bonaventura del XXI secolo ‒ pur dovendosi impegnare costantemente nell’adeguare competenze e studi alle esigenze del mercato ‒ ne sarebbero felici. Tanto più che nel fumetto di Tofano, citato all’inizio, il signor Bonaventura riusciva sempre a incassare, alla fine dell’avventura, una cifra che, di pari passo con l’inflazione, era passata nei decenni da 1.000 lire a 1 miliardo. Per i nostri laureati, che vantano gli stipendi tra i più bassi d’Europa e i contratti meno stabili, quello lieto fine per ora resta un miraggio.

 

Immagine: Giovani nell’area universitaria di Bologna, città sede della più antica università del mondo occidentale (12 novembre 2018). Crediti: Marija Vujosevic / Shutterstock.com

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L’acqua, risorsa sempre più scarsa e da preservare

“Affogare in un bicchier d’acqua” significa smarrirsi davanti a minime difficoltà. Questa espressione è presente nella voce acqua del Vocabolario Treccani. Ironia della sorte, c’è il pericolo che, in un futuro piuttosto prossimo, la maggior parte dell’umanità, inclusa la minoranza più ricca (italiani compresi), rischi di affogare in un bicchiere vuoto: per non aver saputo o voluto garantirsi l’opportunità di riempirlo con quel prezioso liquido.

 

In che senso? Già oggi non c’è abbastanza acqua per tutti (a cominciare da quella potabile, fino al settore agricolo) e, dove c’è, viene inquinata, sprecata e utilizzata malissimo. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha appena reso pubblico un rapporto in cui lancia un duro segnale d’allarme. Il titolo si commenta da solo: Lo stato delle risorse terrestri e idriche del mondo per l’alimentazione e l’agricoltura: sistemi al punto di rottura (SOLAW 2021). Segnala il palese peggioramento della disponibilità di acqua; questa situazione, in prospettiva, rende molto difficile nutrire un’umanità che entro il 2050 dovrebbe arrivare a 10 miliardi di persone, metà delle quali rischia di rimanere a secco.

 

Il rapporto è una sintesi (82 pagine) dei principali risultati e delle raccomandazioni contenuti in quello completo (più corposo) e negli studi di base, che saranno pubblicati all’inizio del 2022. Lo scopo: spingere chi prende decisioni politiche a intervenire in fretta a livello globale, continentale e nazionale. Si legge nel report, proposto in sei lingue e altrettante versioni: «La risposta all’aumento della domanda di cibo sta aumentando la pressione globale sull’acqua, sulla terra e sulle risorse del suolo. L’agricoltura ha un ruolo da svolgere nell’alleviare questa pressione e nel raggiungere gli obiettivi climatici e di sviluppo. Le pratiche agricole sostenibili possono portare a miglioramenti diretti delle condizioni del suolo e dell’acqua, ma possono anche avvantaggiare gli ecosistemi e ridurre le emissioni (quelle di CO2, determinate dalle tecniche di coltivazione, ndr) dal suolo».

 

«Tutto ciò richiede», si legge poi, «che si disponga di informazioni accurate e che cambi radicalmente il modo in cui gestiamo le risorse. Sono necessarie misure complementari anche in aree diverse dalla gestione delle risorse naturali, allo scopo di sfruttare al massimo gli effetti sinergici e di realizzare i necessari compromessi». A giudicare dall’analisi, l’aumento del 50% della produzione di alimenti necessari per sfamare la popolazione mondiale tra 28 anni, nel 2050, richiederà fino al 35% di incremento di acqua per scopi agricoli. Questa esigenza a sua volta potrebbe provocare disastri ambientali, inasprire la concorrenza per lo sfruttamento delle risorse e alimentare nuove crisi e conflitti sociali. Un modo diplomatico per evocare persino future (ma neanche troppo) guerre per il controllo delle fonti di acqua.

 

Che fare? La FAO, nel sottolineare che la superficie terrestre coltivabile è limitata e che la quantità di acqua dolce lo è anche di più, sostiene che è indispensabile programmare il contrattacco. Come? Occorre utilizzare e potenziare al massimo i mezzi forniti dalla scienza e dalla tecnologia informatica e digitale per elaborare miliardi di dati e informazioni, in modo da fornire soluzioni utili a un’agricoltura capace di rispondere alle esigenze di cibo, per pianificare gli interventi, per avere un impatto neutro sul fronte climatico e per contrastare la deforestazione.

 

Ovviamente, non potrà essere un’agricoltura fatta su misura per le maxi-multinazionali del settore. Semmai, occorrerà venire incontro alle esigenze di decine di milioni di piccoli agricoltori in giro per il mondo, comprese le popolazioni indigene. Secondo la FAO, questa massa di persone è la più vulnerabile. L’istituzione dell’ONU si mette subito a disposizione per sostenere governi, contadini e ogni protagonista in questo campo nell’elaborazione di strumenti legali e politiche finanziarie e nella fornitura di risorse tecniche per migliorare la gestione del suolo e dell’acqua.

 

È una sirena d’allarme che senza dubbio fa venire la pelle d’oca. Per giunta, secondo altre valutazioni, la situazione è già a livello di guardia. Per esempio, a giugno del 2021, in occasione della Giornata mondiale della lotta alla desertificazione e alla siccità, è stata diffusa in lingua italiana un’altra indagine delle Nazioni Unite, il Rapporto mondiale sullo sviluppo delle risorse idriche 2020, intitolato Il valore dell’acqua (curato da Fondazione UniVerde, Istituto italiano per gli Studi delle politiche ambientali e UNESCO). Vi si legge che potremmo affrontare una carenza idrica globale del 40% entro il 2030, a causa del riscaldamento planetario e dell’aumento dei consumi.

 

Non solo: circa 4 miliardi di persone già vivono in condizioni di grave carenza idrica almeno per trenta giorni all’anno. L’uso globale dell’acqua è aumentato di sei volte nell’ultimo secolo e continua a crescere costantemente dell’1% annuo, per l’aumento della popolazione e il cambiamento dei modelli di produzione e consumo. Appare arduo, in questo contesto, aumentare la quantità di acqua dolce utilizzata per l’irrigazione (ora siamo al 69% del totale). Intanto i cambiamenti climatici, secondo il rapporto, influiscono sul numero di inondazioni, da un lato, e di casi di siccità, dall’altro (in base a valutazioni relative al solo 2017, ciò ha provocato 18,8 milioni di nuovi sfollati interni in 135 Paesi e territori). Nel complesso durante gli ultimi vent’anni sono stati colpiti 3 miliardi di persone, con tantissime vittime.

 

Pure l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ‒ altro organismo delle Nazioni Unite ‒ a ottobre del 2021 ha segnalato in un rapporto che la situazione sta peggiorando rapidamente: nell’ultimo ventennio l’accumulo di acqua terrestre è diminuito di 1 centimetro ogni anno e oggi solo lo 0,5% è utilizzabile come acqua dolce (il resto è nei ghiacciai, soprattutto in Artide e Antartide). «A partire dagli anni Duemila – precisa la WMO – il numero di catastrofi legate alle inondazioni è aumentato del 134%, mentre la durata delle ondate di siccità del 29%». Quindi «il numero di persone che soffrono… continua a crescere, mentre i sistemi di gestione e di previsione meteorologica e di allerta sono ancora insufficienti».

Ovviamente, l’Italia non è estranea a questo disastro: i danni subiti dalla popolazione, dalle infrastrutture e dall’agricoltura, a causa di nubifragi o siccità, sono aumentati tantissimo. Nel frattempo sprechiamo l’acqua potabile. Il dossier di Legambiente Acque in rete - 2021, diffuso a marzo scorso, segnala che quella «che preleviamo non viene trattata adeguatamente e in modo sostenibile»; in compenso è «spesso dispersa…, con un gap tra acqua immessa nelle reti di distribuzione e quella effettivamente erogata che va da una media del 26%, nei capoluoghi del Nord, a quella del 34% in quelli del Centro, fino al 46% nei capoluoghi del Mezzogiorno».

Dunque conviene intervenire prima possibile, cominciando dagli acquedotti-colabrodo che alimentano malamente i rubinetti di casa, per arrivare, come sostiene la FAO, a progetti efficaci, sostenibili e tecnologicamente avanzati di carattere globale. Potremmo anche riuscirci: in fondo ‒ come segnala Roberto Della Seta nel suo recente libro Ecologista a chi? (Salerno Editrice, Roma, 2021) ‒ siamo capaci di imprese ciclopiche: l’umanità negli ultimi 150 anni ha costruito «più di 800.000 dighe, alterando… il 60% dei fiumi del mondo». Verrebbe da scrivere, tornando ai modi di dire, che occorre intervenire subito, prima di trovarci “con l’acqua alla gola”; sebbene sembri una semplificazione amara, anche perché di acqua davvero utilizzabile ce n’è ‒ soprattutto per “merito” nostro ‒ sempre meno.

 

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L’Italia del 2021 attraverso Facebook e Instagram

Ascoltare certi genitori che elencano le esternazioni dei figli può sembrare un’attività stucchevole. Però capita soltanto se ci si limita alla superficie degli elogi. Perché, cercando di scavare, si capisce un po’ meglio qual è la filosofia di vita in famiglia. Proviamo così a sostituire i figli con i social network, Facebook e Instagram, rispettivamente al primo e quinto posto tra quelli più usati nel mondo. Poi scambiamo i genitori con Meta, la maxi-impresa statunitense che li controlla, fa i miliardi con gli introiti pubblicitari e ha tra i pargoli pure WhatsApp e Messenger. Ebbene, l’elenco delle parole più usate nei due social in salsa italiana è stato appena diffuso. Se si ha l’ardire di prendere in prestito, 197 anni dopo, il titolo del libro scritto da Giacomo Leopardi nel 1824, emerge un interessante, seppur conciso, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, rivisto attraverso gli strumenti digitali disponibili in questi anni Venti del XXI secolo.

 

Va fatta una premessa: a qualcuno Meta forse non dice niente, eppure si tratta solo della metamorfosi della Facebook Inc, fondata nel 2004. La società, legata soprattutto all’amministratore delegato (CEO) Zuckerberg, ha assunto il nome attuale il 28 ottobre 2021. Perché? È accaduto dopo molte polemiche intorno alla creatura originale. Sono quelle capitate a causa, per esempio, del modo in cui sono trattati i dati di chi usa Facebook (2,8 miliardi di utenti medi al mese nel mondo) o Instagram (più di 1 miliardo); dei pericoli che quei social rappresenterebbero per i più giovani; della mancanza di censura nei confronti di utilizzatori scomodi (razzisti, negazionisti, no vax, neofascisti o neonazisti, per esempio); oppure, al contrario, sotto tiro c’è l’eccesso di censura a colpi di algoritmi non particolarmente “intelligenti” (quelli che cancellano persino i “nudi” della Madonna d’Alba di Raffaello, delle Tre Grazie di Canova o del Bacio di Auguste Rodin). Cambiare nome alla società ha significato liberare le varie branche del gruppo dai sospetti che talvolta la parola “Facebook” suscita. Così ora abbiamo Facebook from Meta, Instagram from Meta e via elencando; dove Meta sta per metaverso, il nuovo business su cui punta Zuckerberg: un mondo virtuale in cui «saremo in grado di sentirci presenti come se fossimo proprio lì con le persone», ha spiegato.

 

Una volta delineato il contesto globale in cui si consuma la saga di Meta, vediamo quali sorprese ci riservano, in Italia, Facebook (38.200.000 utenti) e Instagram (29.600.000). Partendo dalla consapevolezza del peso di questi mezzi: nel 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2021, diffuso all’inizio di dicembre dal Censis, il capitolo Comunicazione e media svela che ‒ se i telegiornali sono al primo posto come fonte d’informazione (per il 60,1% degli italiani) ‒ subito dopo, sebbene ben distanziata, la seconda fonte è proprio Facebook, con una penetrazione media del 30,1%, che sale al 39,5% per chi ha tra 30 e 44 anni. Datamediahub rileva che «complessivamente Facebook come fonte d’informazione ha una penetrazione di circa il doppio rispetto ai siti web d’informazione e di quasi il triplo rispetto a quotidiani cartacei e quotidiani online».

 

Con questa consapevolezza, vediamo qual è stato il 2021 italiano, visto attraverso il binocolo di Facebook e Instagram. Meta ha individuato, divise per aree tematiche, le cinque parole «che hanno registrato picchi di utilizzo nel corso del 2021 all’interno dei post e dei commenti sulle proprie piattaforme, spesso rispecchiando fedelmente i temi che hanno mobilitato maggiormente l’opinione pubblica nell’ultimo anno». Un frullato di interessi che testimonia generi molto variegati di sensibilità in un campione di cittadini enorme, capace di suscitare l’invidia di qualsiasi sondaggista.

 

Sul fronte dell’attualità, ci sono ovviamente due espressioni: vaccini e stato di emergenza. Colpisce il fatto che, nel pieno della pandemia, abbiano suscitato molto interesse anche bitcoin, ibernazione e intelligenza artificiale; forse considerati come ancore di salvezza da chi teme un futuro seccante, per non dire angosciante. Senza dubbio ha colpito il focoso dibattito, politico e non solo, sul ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia, accantonato dal Senato a fine ottobre. Nell’apposita area tematica tra le parole più postate e commentate del 2021 troviamo: eterosessualità, identità di genere, lesbismo, orientamento sessuale, transfobia. I temi sociali vanno forte; i termini più ricorrenti sono stati: disabilità, diritti umani, divorzio, femminicidio e genocidio.

 

Anche i timori per il cambiamento climatico, raggruppati nell’area “sostenibilità”, hanno tenuto banco. Lo testimoniano le citazioni dedicate a: auto elettrica, mobilità sostenibile, pannello solare termico, pompa di calore, risparmio energetico. Testimonianza del fatto che la gente, al di là dei grandi discorsi di carattere politico, cerca mezzi pratici per affrontare in prima persona la questione. Comunque, il futuro ambientale del pianeta in generale suscita molto interesse e preoccupazione. Capita sull’onda della fama della giovane ambientalista Greta Thunberg, delle manifestazioni del movimento Fridays for Future, della conferenza COP26 dedicata ai rimedi contro il riscaldamento globale. Lo segnalano i cinque concetti più usati nell’area tematica Terra: biodiversità, clima, delfini, livello del mare e “ora della Terra” (Earth Hour è la mobilitazione globale del WWF contro i cambiamenti climatici).

 

Nel 2021 anche la necessità di benessere è stata al centro dell’interesse, soprattutto in chiave ludica o salutistica. Ecco le 5 parole in testa: pilates, pole dance, psicoterapia, respirazione, vegetarianismo; sono una testimonianza delle tante strade che la gente immagina per ritrovare un equilibrio in questo periodo difficile. Chi si rifugia nell’area “arte e cultura” ha puntato sul gettonatissimo Banksy, uno dei maggiori esponenti della street art, e anche su Eurovision, Frida Kahlo, MAR (Museo d’Arte della città di Ravenna) e I pagliacci (l’opera di Ruggero Leoncavallo). Sul fronte dei viaggi, come citazioni sono andate alla grande, tra le mete italiane, Cesenatico, Costiera amalfitana, Eolie, Monte Conero e Polignano a Mare. Oltre confine ‒ considerando che i viaggi all’estero sono stati ostacolati dalla pandemia ‒ la cinquina prediletta è stata: Corfù, Lisbona, Monte Carlo, Parigi e Praga (insomma, luoghi assai a portata di auto o di aereo).

 

Per finire, ecco due aree tematiche “leggere”: sport e colonne sonore. Nell’anno in cui lo sport italiano ha dato una grande prova di sé, tra Europei di calcio, Olimpiadi e altri campionati internazionali, nelle discussioni e nei post sono stati citati soprattutto: le Olimpiadi, l’allenatore José Mourinho, i calciatori Leonardo Bonucci e Paulo Dybala e la UEFA Europa League. Per quel che riguarda i brani musicali postati su Facebook e Instagram nel 2021? Ecco Cold Heart di Elton John feat. Dua Lipa & PNAU, Finché non mi seppelliscono di Blanco, La più bella dei rapper Mecna e CoCo, Mammamia dei Måneskin e My Heart Goes (La Di Da) di Becky Hill.

 

La morale? Tornando al nuovo discorso sui costumi degli italiani che emerge da questo spaccato di vita (on-line e reale), sembra emergere un’umanità un po’ frastornata, che se la gioca tra i timori per il futuro e la voglia prepotente di evasione. In fondo, forse, vale sempre quel che scrisse Leopardi nel 1824: «Gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa».

 

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COP26, dove anche la promessa di piantare alberi si scontra con la realtà

 

Preparatevi a due domande semplici. C’è terra sufficiente sulla Terra per piantare i miliardi di alberi teoricamente necessari allo scopo di assorbire il carbonio che riversiamo nell’atmosfera usando i combustibili fossili, responsabili del surriscaldamento globale? E se tutta quella terra ci fosse, basterebbero 10 anni (o 20 o 30) per raggiungere l’obiettivo? La risposta del professor Francesco Ferrini, ordinario di Arboricoltura generale e Coltivazioni arboree all’Università di Firenze, è altrettanto semplice: «No, non ci sono né terra né tempo sufficienti. Gli alberi sono necessari, certo. Ma prima di tutto occorre che l’umanità, da subito, inquini meno e immetta meno carbonio nell’atmosfera».

Il “No” del professor Ferrini è un fulmine a ciel sereno. Perché trasforma in una favola un mega progetto spacciato per realizzabile: “coprire” il pianeta di alberi è uno degli obiettivi dei grandi Paesi, annunciato con le fanfare dalla “Dichiarazione di Glasgow sulle foreste e la terra”. È stata sottoscritta pochi giorni fa durante la COP26 da oltre cento Stati, quelli che ospitano l’85% delle foreste del mondo, fra i quali Russia, Cina, Indonesia, Colombia, Congo e Brasile. Obiettivo: conservare e ripristinare le foreste entro il 2030, nell’ambito del piano contro la deforestazione.

Prima di capire perché abbiamo una Terra senza terra a sufficienza, è il caso di fare un passo indietro. Nella tragedia Il conte di Carmagnola, alla fine del II atto, Alessandro Manzoni inserisce il coro che canta la battaglia di Maclodio (1427), quella in cui i veneziani sconfissero il Ducato di Milano e i Visconti: «S’ode a destra uno squillo di tromba/ A sinistra risponde uno squillo / D’ambo i lati calpesto rimbomba / Da cavalli e da fanti il terren…». Quel tono epico ricorda la prosopopea con cui i potenti del mondo ‒ durante il G20 romano e la successiva COP26 a Glasgow ‒ hanno annunciato di volere investire 19,2 miliardi di dollari per porre fine entro il 2030 alla strage di foreste e per avviare la riforestazione.

 

Gli squilli di tromba non sono mancati, a Glasgow. Si è udito il presidente Vladimir Putin (collegato da remoto) spiegare che la Russia fa affidamento sulle sue vaste foreste e sulla «loro significativa capacità di assorbire anidride carbonica e produrre ossigeno» per raggiungere l’obiettivo di emissioni zero entro il 2060. Si è sentito il premier britannico Boris Johnson proclamare: «Dobbiamo fermare la devastazione delle foreste». Il presidente USA Joe Biden ha annunciato l’impegno a stanziare fino a 9 miliardi di dollari entro il 2030. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è stata «lieta di annunciare che la Commissione europea destinerà un miliardo di euro al Global forest pledge (Impegno globale per le foreste, ndr)» e ha aggiunto che dovranno essere piantati 3 miliardi di alberi in Europa (sempre entro il 2030). Il ministro della Transizione ecologica (MiTE) italiano, Roberto Cingolani, il 9 novembre ha firmato il progetto per la tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano: circa 330 milioni di euro per piantare almeno 6,6 milioni di alberi col coinvolgimento di 14 città metropolitane («Questo è uno degli importanti impegni previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza», si legge in un comunicato del MiTE).

 

Insomma, come ne Il conte di Carmagnola, durante la COP26 il coro dei 20 leader ha decretato epicamente la rinascita delle foreste. Con la differenza che il condottiero Carmagnola sconfisse davvero i veneziani, mentre i potenti della Terra per ora giurano di voler sconfiggere il riscaldamento globale. Per giunta, l’epica della forestazione a tempo di record ‒ nonostante i 15,3 miliardi di alberi abbattuti ogni anno e le poche decine di milioni piantati nello stesso arco di tempo ‒ trova conforto nell’iniziativa One Trillion Trees lanciata nel 2020 dal World Economic Forum allo scopo di fornire supporto al Decennio delle Nazioni Unite sul ripristino dell’ecosistema (2021-30). L’obiettivo: «Far crescere, ripristinare e conservare 1 trilione di alberi in 10 anni entro il 2030» in tutto il mondo, nel tentativo di evitare «il collasso della biodiversità» e contrastare «la crisi climatica». Ebbene, un trilione è l’equivalente di mille miliardi di piante.

 

Professor Ferrini, quindi mille miliardi di alberi non possono salvarci dal cambiamento climatico?

Gli alberi fanno il loro dovere. Però tra il dire e il fare, tra gli slogan a proposito della riforestazione e la realtà, c’è un baratro. Una cosa è piantare numeri, come fanno i leader del pianeta; un’altra è piantare alberi. E per capirlo non occorre essere geni, è sufficiente un calcolo elementare.

 

Quale calcolo?

Guardiamo al progetto One trillion trees. Ammesso e non concesso che si possano trovare le piantine necessarie (quali vivai dovrebbero fornirle?), piantandone 100 milioni ogni settimana, obiettivo tecnicamente molto ambizioso, per giungere a mille miliardi quanti anni servirebbero? Ben 192. Si arriverebbe al 2213, troppo tardi per salvare il pianeta. Ovviamente, 192 anni valgono se si immagina che tutti gli alberi piantati sopravvivano. Però, nella realtà, va già bene quando ne sopravvive la metà: quindi realisticamente si arriva a 384 anni per centrare l’obiettivo. La questione diventa ancora più complessa se si considera che la stagione adatta per piantarli non copre 12 mesi: in Europa, per esempio, i giorni adatti non sono più di 120 in un anno. Non esistono soltanto questi problemi. Manca, come dicevo, la quantità di superficie terrestre sufficiente per accogliere mille miliardi di alberi adulti.

 

In che senso?

Prendiamo un tiglio. Il raggio della sua chioma mediamente arriva a 5 metri, quando è adulto, e la sua area occupa più o meno 78 metri quadrati. Per mantenerlo verde e attivo sul fronte della fotosintesi di metri quadrati ne occorrono 113, con circa una novantina di piante per ettaro, necessarie per garantire una capacità ottimale di fissazione di CO2. Però supponiamo di riuscire a far stare in un ettaro 100 tigli. Per arrivare a 1.000 miliardi di tigli  servirebbero 100 milioni di km quadrati, poco meno di tre quarti dei 149 milioni occupati dalle terre emerse. Considerando che circa 50 milioni di km quadrati ospitano deserti, dovremmo coprire di alberi tutto il resto. Per rendere ancor di più l’idea, possiamo dire che occorrerebbe uno spazio vasto almeno come 10 Canada o 330 Italie.

 

Insomma, le cifre sparate a raffica dai potenti della Terra sono inverosimili?

Esatto. Per quel che riguarda gli alberi, sono slogan senza una prospettiva concreta di realizzazione. Nel frattempo la COP26 ha tergiversato sulla data entro la quale arrivare all’azzeramento delle emissioni nette globali di gas serra. Si sta parlando in modo generico della metà del XXI secolo.

 

Quindi non serve piantare alberi?

Serve. Però vanno piantati in modo corretto nelle aree in cui sono indispensabili, per esempio quelle urbane e suburbane. Altrove occorre far sì che la natura torni a colonizzare tantissime zone disboscate e lasciate a se stesse. Magari chiedendo prima come muoversi a chi è veramente esperto in materia di gestione delle foreste, per evitare di combinare disastri. Di certo, non si può far credere alla gente che gli alberi possano eliminare da soli, nel giro di pochi anni, il carbonio fossile che noi mettiamo in circolo nell’atmosfera. Né si può far credere che sia possibile piantarne centinaia di miliardi nel giro di pochi anni. Semmai bisogna capire, e far capire a tutti, che occorre prima di tutto eliminare le fonti di inquinamento, a livello industriale e anche individuale.

 

Perché sostiene che, piantando alberi a caso, si rischia di combinare disastri?

Bisogna proteggere gli interi ecosistemi per riuscire a catturare e immagazzinare carbonio. Limitarsi a piantare alberi può essere disastroso, perché imporli nelle savane e nelle torbiere distrugge la biodiversità e rischia di far finire nell’atmosfera più carbonio di quello sottratto.

 

Per giunta, ci sono popolazioni che vivono nei territori candidati a eventuali riforestazioni. Rischia di farne le spese soprattutto il Sud del mondo, con i Paesi meno ricchi?

Sì. È indispensabile garantire i diritti delle popolazioni rurali e di quelle indigene. La rigenerazione naturale assistita delle foreste, là dove esistevano, offre più stoccaggio del carbonio, più biodiversità e maggiori benefici per le comunità locali. Invece il tentativo di raggiungere obiettivi non realistici nella piantagione di alberi rischia di far commettere gravi errori: possono essere piantati in modo errato, nei posti sbagliati e senza il consenso delle popolazioni, che vedono minacciata la propria sopravvivenza. Non a caso, gli attivisti indigeni durante la COP26 hanno definito gli schemi di compensazione del carbonio elaborati dai potenti come ‘una nuova forma di colonialismo’. Insomma, si rischia di spingere la gente, dalle nostre parti, a credere nelle favole, a campare di slogan e a non fare nulla per proteggere il pianeta.

 

Bibliografia

Francesco Ferrini, Ludovico Del Vecchio, La terra salvata dagli alberi, Elliot, Roma 2020

Francesco Ferrini, Ludovico Del Vecchio, Resistenza verde. Manuale di autodifesa ambientale, Elliot, Roma 2021

 

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Disinformazione e false credenze sul cambiamento climatico e sulle sue cause

 

Il clima cambia, fa sempre più caldo (o meno freddo), violenti nubifragi e periodi di siccità si susseguono in modo anomalo, provocando disagi e disastri. Che ansia… Cosicché moltissimi italiani sono assai preoccupati per le conseguenze dei cambiamenti climatici sulla qualità della vita e sull’economia (come testimonia una recente ricerca svolta dall’Istituto Affari internazionali e Università di Siena); non solo, parecchi cercano di dare un contributo personale alla tutela dell’ambiente. Però spesso i cittadini sono poco informati sulle cause di questi fenomeni; così come conoscono poco i loro possibili effetti e le scelte necessarie per ridurre le emissioni dei gas serra, responsabili del surriscaldamento.

Tutto ciò emerge da un sondaggio promosso dall’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) attraverso un’iniziativa intitolata in modo curioso: SalloQuiz. Con una deroga al linguaggio formale, che strizza l’occhio ai social e a un vecchio film di Woody Allen, il titolo completo è “Se non lo sai, SALLO! Tutto quello che avreSte voluto sApere suL cambiamento cLimaticO (e non avete mai osato chiedere)”. I risultati ‒ frutto delle risposte a vari quesiti proposti on-line ‒ sono stati divulgati in occasione della COP26 di Glasgow, la conferenza delle Nazioni Unite dedicata all’emergenza-clima, iniziata il 31 ottobre scorso e in programma fino al 12 novembre 2021.

«Questo sondaggio ci ha permesso di raccogliere informazioni interessanti sulle convinzioni più diffuse nel campo del cambiamento climatico, evidenziando errori di interpretazione e luoghi comuni», sottolinea Melania Michetti; è una ricercatrice dell’ENEA nella divisione “Modelli e tecnologie per la riduzione degli impatti antropici e dei rischi naturali” e ha ideato l’indagine. «Il questionario, composto da venti domande suddivise in 5 sezioni, è stato compilato da oltre 1.300 persone, per la maggior parte di nazionalità italiana, con un’età tra 10 e oltre 80 anni e una media di 34 anni, con il 60% che non superava i 40. Con nostra soddisfazione, circa il 30% è stato di un’età fra i 10 e i 20 anni. Le regioni più partecipi sono state Emilia-Romagna, Lazio e Puglia, mentre le province che hanno risposto di più sono state Roma e Bologna», spiega la dottoressa Michetti.

Un esempio dei risultati? L’84% crede (sbagliando) che il settore industriale sia il più inquinante, mentre il primato negativo spetta a quello energetico; quest’ultimo insieme ai trasporti, secondo le rilevazioni svolte nel 2019 dalla IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia), incide per due terzi sulle emissioni totali di gas serra e per l’80% delle emissioni di CO2 e di inquinanti atmosferici. Inoltre, appena il 21% delle persone è consapevole del fatto che il settore agricolo (inclusi gli allevamenti intensivi) è tra quelli che hanno maggiore impatto a causa delle emissioni di carbonio, subito dopo l’energetico.

Qual è dunque la pagella che meritano i cittadini italiani sul fronte di questa delicata e inquietante questione? Per quanto riguarda “Clima e riscaldamento globale”, 9 su 10 hanno risposto “Vero” all’asserzione «I cambiamenti climatici esistono da sempre ma hanno subìto una notevole accelerazione dagli inizi del ’900». Quasi tutti sono convinti che lo scioglimento dei ghiacciai (97%) e l’innalzamento del livello medio del mare (86%) siano provocati dal calore in aumento. Però soltanto il 32% ha messo la crocetta su “Vero”, la casella corretta, leggendo: “Cambiamento climatico e crescente pressione antropica sull’ambiente sono tra le cause della pandemia da COVID-19”.

Per quel che riguarda “Politiche e strategie per il contrasto al cambiamento climatico”, quasi il 50% non conosce l’accordo di Parigi. Non lo conoscete neppure voi? È stato concepito nel 2015 e vi aderiscono, dal 2018, 195 Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC); riguarda la riduzione dell’emissione di gas serra e gli opportuni investimenti, a partire dal 2020. Lo scopo: contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2 °C oltre i livelli preindustriali e di limitare tale incremento a 1,5 °C. Il 50% sa che esiste in Italia un Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, però non è consapevole degli obiettivi italiani di decarbonizzazione entro il 2030.

Per quel che riguarda “Aspettative e buone pratiche”, emerge che molti italiani fanno la raccolta differenziata (94%), cercano di usare meno imballaggi di plastica (53%) e plastiche monouso (74%), stanno attenti a consumare meno acqua ed energia (71%), preferiscono il cibo locale e di stagione (79%). Però 21 su 100 non hanno alcuna intenzione di diminuire i viaggi in aereo e il 19% non è disposto a mangiare un po’ meno carne, alleggerendo l’impatto degli allevamenti intensivi.

Nella sezione “Impatti e costi del cambiamento climatico”, il 94% ha risposto correttamente, segnando la casella “Falso”, all’affermazione “Animali e piante non subiranno gli effetti del cambiamento climatico grazie alla loro capacità di adattamento”; però soltanto 43 su 100 sono consapevoli del fatto che, “in Italia, l’impatto dei cambiamenti climatici può incidere fino all’8% del prodotto interno lordo (Pil) pro capite”. In compenso, ben l’81% sa che il surriscaldamento del pianeta provocherà un aumento dei migranti in fuga per fame e provenienti dai Paesi più poveri.

A livello di “Contributi di settore alle emissioni di gas a effetto serra”, tantissimi sanno che la Cina è tra i Paesi che emettono la maggior quantità di gas serra in termini assoluti e che gli Stati Uniti “vantano” le più alte emissioni pro capite. Tuttavia, pochi conoscono una circostanza: in realtà, la Cina può contare su emissioni pro capite relativamente contenute in relazione al numero dei suoi abitanti, così come Unione Europea e India. Semmai, i Paesi con più emissioni pro capite sono, nell’ordine, Stati Uniti, Russia e Giappone.

«Ci aspettiamo che nella COP26 di Glasgow i leader delle economie più forti, che guidano la classifica dei grandi emettitori di gas serra, suggeriscano azioni concrete e misurabili per la riduzione delle emissioni», afferma Gianmaria Sannino, responsabile del Laboratorio di modellistica climatica e impatti dell’ENEA. Aggiunge: «Attualmente gli impegni presi da tutti i Paesi del mondo per il 2030 si traducono in una riduzione delle emissioni di gran lunga inferiore a quella necessaria per non superare il limite di guardia dei 2 °C. Non c’è tempo da perdere: la temperatura media della Terra è già aumentata di 1,1 °C».

Comunque, alle preoccupazioni dell’ENEA si associano quelle di molti enti e organizzazioni con radici in Italia. Oltre agli ambientalisti, anche Slow Food ‒ l’associazione internazionale fondata da Carlo Petrini e impegnata a ridare valore al “cibo buono, pulito e giusto” ‒ e Slow Food in the UK, presenti a Glasgow per la COP26, hanno lanciato la Dichiarazione climatica. Proprio l’impatto di agricoltura e allevamenti intensivi sull’ambiente, segnalato anche nel SalloQuiz, è al centro dell’allarme: «Diventa urgente procedere verso sistemi alimentari agroecologici, quelli che mantengono il carbonio organico nel terreno», aveva dichiarato Federico Varazi, vicepresidente di Slow Food Italia, prima del dibattito. Purtroppo Slow Food ha bocciato la qualità del confronto svoltosi il 6 novembre nella città britannica. Marta Messa, direttore di Slow Food Europa, commenta: «Una transizione agricola giusta non può basarsi sulle innovazioni tecnologiche proposte dalle grandi multinazionali».

Insomma, la strada imboccata a Glasgow non sembra del tutto corretta. Non resta che attendere scelte sensate e pure rapide. Perché l’ansia per il futuro, da sola, non serve granché, se non a far aumentare il consumo di ansiolitici.

 

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Quanto è diseguale la distribuzione dei vaccini tra Paesi ricchi e Paesi poveri

 

Sembra una barzelletta, del tipo “Lo sai cosa fanno un italiano, un canadese, un inglese e un giapponese….”. Invece è una storia serissima, basata su numeri che riflettono i privilegi dei Paesi ricchi. Come gestiscono questi le vaccinazioni contro la pandemia? Dunque, attualmente le dosi pro capite di vaccini anti-Covid-19 distribuite in Italia sono 13 volte più alte rispetto a quelle pro capite arrivate in Uganda. Ogni canadese ne ha 32 volte di più rispetto a un sudanese. Un britannico ne ha a disposizione 12 volte in più rispetto a un kenyota. Ciascun giapponese può contare su 12 dosi in più rispetto a un etiope. Finora, in media, i membri del G20 (appena riunitosi a Roma) hanno ricevuto 15 volte più dosi rispetto all’Africa subsahariana (escluso il Sudafrica, che fa parte del forum). Da soli, hanno avuto a disposizione il triplo delle dosi pro capite che sono arrivate a tutti gli altri 188 Paesi del mondo messi assieme; negli Stati ad alto reddito oltre il 70% della gente ha ricevuto almeno una dose, in quelli a basso reddito si crolla tra il 3% e il 5%.

 

Questi numeri sono frutto di un’analisi voluta dall’UNICEF (il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), condotta da Airfinity e diffusa pochi giorni fa. La circostanza è stata fatta notare per l’ennesima volta ai grandi della Terra anche da papa Francesco, alla vigilia del summit romano. Tanto che il 29 ottobre ‒ in un comunicato della Casa Bianca successivo all’incontro del pontefice col presidente degli USA ‒ si leggeva che il cattolico Joe Biden, tra l’altro, ha anche elogiato l’impegno del papa «per garantire che la pandemia finisca per tutti attraverso la condivisione dei vaccini e un’equa ripresa economica globale». Peccato che i forzieri di quei farmaci non siano in Vaticano, ma, a parte qualche donazione simbolica, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa; idem i produttori.

 

Cosicché l’UNICEF ha messo i punti sulle i, nei limiti del proprio spazio di manovra diplomatico e politico. «La diseguaglianza nell’accesso ai vaccini non sta solo frenando i Paesi più poveri, sta frenando il mondo intero», ha sbottato la direttrice generale, Henrietta Holsman Fore. Poi: «Mentre i leader si incontrano per definire le priorità della prossima fase della risposta al Covid-19, è fondamentale ricordare che, nella corsa al vaccino, vinciamo insieme o perdiamo insieme… Troppe comunità nel continente africano erano già alle prese con sistemi sanitari in affanno. Non possono affrontare un altro anno di questa crisi globale sopportando così tante morti prevenibili e malattie prolungate». L’UNICEF riconosce che, quando si tratta di promettere, gli Stati più benestanti sono generosissimi: visto che hanno più scorte di quante gliene servono, si sono «impegnati a donare queste dosi ai Paesi a basso e medio reddito attraverso Covax», il programma internazionale per l’accesso equo ai vaccini anti-Covid-19.

 

Tuttavia, i vaccini donati sono trasferiti «troppo lentamente», si legge nel comunicato dell’UNICEF: «Dei 1,3 miliardi di ulteriori dosi che i Paesi ricchi si sono impegnati a donare, ne sono state fornite a Covax appena 194 milioni». Il comunicato si riferisce ovviamente alle promesse pre-summit romano. Mentre le conclusioni cui è arrivato il G20 sono queste, nelle venti pagine del comunicato finale: non bisogna dimenticare gli «sforzi per garantire un accesso tempestivo, equo e universale a vaccini, terapie e diagnostica sicuri, convenienti, di qualità ed efficaci, con particolare riguardo alle esigenze dei Paesi a basso e medio reddito» e quelli «per contribuire ad avanzare verso gli obiettivi di vaccinare almeno il 40% della popolazione in tutti i Paesi entro la fine del 2021 e il 70% entro la metà del 2022». Con la prospettiva di avviare «iniziative per aumentare la fornitura di vaccini e prodotti medici essenziali nei Paesi in via di sviluppo e rimuovere i relativi vincoli di approvvigionamento e finanziamento». Vedremo.

 

Resta il fatto che per ora quasi ogni promessa fatta dai Paesi ricchi è stata disattesa, quindi lo scetticismo è lecito. In che senso? Si guardino i risultati concreti. Considerando che gli abitanti dell’Africa subsahariana sono 1,1 miliardi (dato del 2020) e che i vaccini dovrebbero essere inoculati almeno due volte per persona, significa che attualmente i 194 milioni di dosi citati poc’anzi ‒ anche se fossero già stati usati tutti e fossero finiti esclusivamente da quelle parti, tralasciando aree disagiate di altri continenti ‒ sarebbero bastati teoricamente per immunizzare meno di 100 milioni di africani, il 10% scarso. Limitandosi dunque all’Africa centro-meridionale, non si può che concordare con l’UNICEF quando scrive che, in pratica, oggi «meno del 5% della popolazione africana è completamente vaccinata»; quindi il virus può imperversare. Eppure, al di là delle considerazioni solidaristiche e umanitarie, l’esperienza di questi ultimi 20 mesi ci ha insegnato che le mutazioni galoppano dove la malattia non è frenata dalle vaccinazioni, per poi diffondersi altrove.

 

Che fare? Ai leader del G20 romano è stata rivolta una lettera aperta firmata da 48 ambasciatori e testimonial dell’UNICEf in Africa: sono persone scelte per notorietà, affidabilità, professionalità e credibilità. Cosa chiedono ai potenti? «Di onorare le loro promesse e di distribuire urgentemente le dosi di vaccino entro dicembre» del 2021, insieme ai mezzi necessari. «Ogni giorno l’Africa rimane non protetta, la pressione si accumula sui già fragili sistemi sanitari dove ci può essere una sola ostetrica per centinaia di madri e bambini», si legge nella lettera. «Mentre la pandemia provoca un picco di malnutrizione infantile, le risorse vengono sottratte ai servizi sanitari salvavita e alle vaccinazioni infantili. I bambini già orfani rischiano di perdere i nonni. Il disastro incombe sulle famiglie dell’Africa sub-sahariana, 4 su 5 delle quali si affidano al settore informale per il loro cibo quotidiano. La povertà minaccia il ritorno a scuola dei bambini, la protezione dalla violenza e aumenta il rischio di matrimonio precoce». Non solo. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima che in Africa meno di un operatore sanitario su 10 (già rarissimi nel continente) sia stato completamente vaccinato; oltre 128.000 sono stati contagiati dal virus, tanti sono morti. Inoltre solo un contagio su 7 viene tracciato, a causa di test limitati. 

 

Tra i firmatari della lettera aperta, ci sono la cantante beninese Angelique Kidjo, la cantautrice afrobritannica Arlo Parks, il cantante afroamericano Davido, il rugbista zimbabwese Tendai Mtawarira (è una star in Sudafrica), il musicista nigeriano Femi Kuti, la pugile somala Ramla Ali, l’economista nigeriano Tony Elumelu, la politica, diplomatica, ingegnera aeronautica e operatrice umanitaria Winnie Byanyima, ugandese. Tutte persone famosissime in Africa; meno dalle nostre parti; men che meno, si presume, tra la maggior parte dei leader del G20. C’è da augurarsi che l’appello contenuto in quella lettera venga preso in seria considerazione. Prima che sia troppo tardi, per gli africani e non solo.

 

 

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L’emergenza climatica come principale minaccia percepita dagli italiani

 

Non è il tipo che lesina le critiche, però in questo caso potrebbe essere parzialmente soddisfatta. Chi? Greta Thunberg, la giovane leader ambientalista svedese, che fustiga i bla-bla-bla, spesso inconcludenti, per quel che riguarda la lotta contro i cambiamenti climatici. Infatti, dovrebbe ricredersi almeno per quel che riguarda gli italiani: una recente indagine dimostra che nel 2021, nonostante lo stress provocato dalla pandemia di Covid-19, in Italia l’emergenza climatica è percepita come la principale minaccia alla sicurezza del Paese dall’89% delle persone; un dato che cresce rispetto al 2020, quando le persone in ansia erano “solo” l’84%.

Queste percentuali emergono da una ricerca, compresa in uno studio più ampio, dedicata alle opinioni su emergenza climatica, attività del governo e scelte dell’Unione Europea (UE) in campo ambientale. L’indagine ‒ commissionata dal programma di Politica estera italiana dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo ‒ è stata condotta tra il 2 e il 10 settembre 2021 su un campione di 2.049 individui, rappresentativo della popolazione di nazionalità italiana, dal Laboratorio analisi politiche e sociali (LAPS) del Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive (DISPOC) dell’Università di Siena (gli autori sono Rossella Borri, Pierangelo Isernia,  Silvia Colombo,  Andrea Dessì ed  Ettore Greco).

Come interpretare quei dati? Dunque, è vero che tra il dire e il fare, quindi tra la fifa e la volontà di rimediare, ce ne corre. Però, di sicuro, dalle nostre parti le persone in allarme per gli effetti della crisi ecologica sono più di quelle preoccupate per future pandemie, nonostante la pessima esperienza che si sta ancora vivendo. Infatti, lo spettro di nuove epidemie globali è al secondo posto, con l’85% delle preferenze; al terzo ci sono gli attacchi cibernetici (70%). Il podio conquistato dal timore per un disastro ambientale è un dato significativo: forse proprio lo shock dell’emergenza sanitaria, capitata tra capo e collo e proveniente dall'altro capo dell’Eurasia, contribuisce a far lievitare l’angoscia per il futuro. Una spia potrebbe essere stata accesa proprio dalla consapevolezza che lo sconvolgimento dell’ecosistema è la concausa dell’“evasione” di virus sconosciuti da nicchie biologiche in cui erano confinati.

La gravità dei problemi provocati dall’emergenza climatica non è, per giunta, una preoccupazione limitata a fasce d'età più sensibili, come la “generazione Greta”. Sono allarmati tutti: dai giovanissimi agli over 55. Insomma, la sensibilità è diventata, almeno in Italia, intergenerazionale. Cosicché l’80,1% ritiene che l’UE dovrebbe sanzionare gli Stati che violano la sua legislazione ambientale; mentre una minoranza pensa che non dovrebbe punire i responsabili (9,3%) e il 10,6% nega che l’UE possa interferire con questa questione, ritenuta una competenza riservata ai governi nazionali (10,6%). Comunque il fatto che 8 italiani su 10 siano a favore di una linea dura da parte dell’Unione è importante, se si considera che l’Italia è il Paese in cui si verificano più violazioni delle norme comunitarie, tanto che ha già dovuto versare 500 milioni di euro per quelle accertate fino al 2018.

Non solo. Il 48% degli italiani ‒ in aumento rispetto al 2020 ‒ si dimostra anche, saggiamente, “non venale”: preferisce una crescita economica meno galoppante, in cambio di un ambiente più ospitale; forse perché è poco consolante avere più soldi in un posto in cui l’aria di una volta non si può comprare. La consapevolezza di questa circostanza sembra rafforzare il sostegno della nostra opinione pubblica nei confronti di una crescita verde, con l'abbandono dei combustibili fossili (petrolio, gas, carbone, quelli che provocano il surriscaldamento del pianeta).

Secondo la ricerca, oggi gli italiani confidano nel ruolo del Belpaese nei vari vertici internazionali in cui si parla anche di emergenza ambientale; tanto più che l’Italia, in questo periodo, ha la presidenza del G20 e la copresidenza della Cop 26 (la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici). In quelle sedi si sta svolgendo anche un confronto non facile sulla cosiddetta "finanza climatica”: riguarda ciò che ogni anno i Paesi ricchi dovrebbero investire per aiutare quelli più esposti all’impatto del cambiamento climatico; questi ultimi, guarda caso, sono i più poveri. Servirebbero tra 80 e 100 miliardi ogni 12 mesi, ma i negoziati languono e i soldi non vengono versati. Comunque, a proposito del G20, il 35,9% degli intervistati (la maggioranza relativa) ritiene che l'emergenza ambientale debba avere la priorità. Il secondo posto, a buona distanza dal primo, spetta alla preoccupazione per i flussi migratori (21,2%), peraltro legati anche ai cambiamenti del clima.

Ovviamente, ci sono differenze sul fronte delle scelte ambientaliste da parte dei singoli cittadini, a seconda delle simpatie politiche. In particolare, gli elettori del centrosinistra e del M5S sono in maggioranza a favore di scelte ecologiste, mentre tra i simpatizzanti di destra e centrodestra questa tendenza è leggermente minoritaria. In compenso, buona parte degli intervistati non ritiene che i partiti siano particolarmente sensibili a queste questioni: più dell’80% pensa che sia opportuno sensibilizzare l’opinione pubblica, tuttavia il 42% è scettico per quel che riguarda la reale capacità di incidere sulle scelte politiche.

Insomma, è evidente a tutti che “non ci sono più le mezze stagioni” (modo di dire che nel 2019 è stato lo slogan nella campagna sugli effetti del cambiamento climatico); però a tanti sembra che anche le mezze misure siano passate di moda: nella convinzione che non possano servire per evitare il disastro ecologico globale entro pochi anni. Nelle stanze dei bottoni c’è chi ha voglia di ascoltare i cittadini e, soprattutto, di avviare azioni concrete e non dimezzate? Vedremo.

 

Immagine: Un uomo alla guida della sua auto in via San Giovanni Bosco durante un nubifragio che ha allagato la città, Soverato, Catanzaro (11 settembre 2021). Crediti: M.A.C. Maria / Shutterstock.com

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Era la stampa, bellezza

È la mattina di un giorno lavorativo, in una città italiana qualsiasi. Aprono scuole, uffici, fabbriche, negozi. Nel giro di poche ore, 5.200.000 persone comprano uno dei 93 quotidiani, pari a 104 copie ogni 1.000 abitanti; ovviamente ogni copia passa di mano in mano e il numero di lettori effettivi si moltiplica. Buone notizie per i giornali italiani? Macché. Abbiamo fatto un viaggio indietro nel tempo di 61 anni. Quei dati sono relativi a venerdì 1° gennaio 1960, ricavati dal libro di Paolo Murialdi La stampa italiana del dopoguerra (1943-1972) (Laterza, Bari 1974). Vanno considerati numeri ancor più rilevanti se si considera che all’epoca gli italiani erano poco più di 50 milioni, mentre ora siamo 59 milioni e qualcosa.

 

Oggi che cosa succede? A luglio del 2021, i 57 quotidiani italiani superstiti (diventati nel frattempo 56, perché purtroppo La Gazzetta del Mezzogiorno barese è chiusa dal 2 agosto, in attesa di nuovi editori) hanno venduto mediamente 1.398.642 copie al giorno, con un calo del 5,1% rispetto allo stesso mese del 2020 (1.472.680). Qualcuno potrebbe obiettare: il calo di vendite nelle edicole è compensato dall’incremento di copie digitali. Sbagliato. Sergio Carli su BlitzQuotidiano.it ha rilevato che nello stesso mese le versioni elettroniche vendute «sono passate da 396.275 nel 2020 a 431.689 nel 2021: 35.000 copie in più contro le 74.000 perse in edicola». Di fatto, negli ultimi 25 anni i quotidiani cartacei hanno perso oltre 5 milioni di copie vendute in un giorno. Parallelamente, chiudono circa 1.000 edicole all’anno. Vent’anni fa, nel 2001, erano oltre 36.000; oggi sono circa 22.000; per giunta, parecchie sono state trasformate in bazar che campano di gadget per bambini, dato che di carta se ne vende sempre meno.

 

In Italia, insomma, c’è una gigantesca crisi degli organi di informazione cosiddetti “tradizionali” e, in particolare, del settore dei quotidiani. Certo, c’entra lo sconvolgimento dei metodi di fruizione delle notizie: con i social network che stanno assumendo ‒ in modo più o meno affidabile e superficiale, tra news vere e fake news ‒ la funzione di fonte di informazioni per gran parte dei cittadini. Così com’è noto che il malessere dell’informazione vecchio stile è un fenomeno globale. Però c’è un problema prettamente italiano: altrove i media professionali stanno reagendo con relativa efficacia. Mentre in Italia giornalisti, direttori ed editori non sembrano consapevoli delle strade da percorrere, delle opportunità offerte dal web e delle figure professionali necessarie.

 

Il quadro della situazione nel Belpaese è stato fornito negli ultimi giorni da due ricerche. Ci sono, per cominciare, gli ultimi rilevamenti di Audipress (raccoglie i dati sulla lettura di giornali e periodici), forniti il 30 settembre con la rilevazione II/2021. Data Media Hub (think tank su editoria e digitale, guidato da Pier Luca Santoro) ha elaborato i dati dal 2014, anno cui risale la prima rilevazione omogenea con quelle successive, fino all’ultima rilevazione. Risulta che i lettori dei quotidiani nel giorno medio sono scesi del 40,81%: circa 7,9 milioni in meno tra 2014 e 2021. Nessun altro media italiano durante lo stesso periodo ha accusato un colpo così forte colpo così forte.

 

Mentre il 6 ottobre il Censis ha presentato il 17° Rapporto sulla Comunicazione, intitolato I media dopo la pandemia. Vi si legge che «per i media a stampa... si accentua la crisi ormai storica, a cominciare dai quotidiani venduti in edicola, che nel 2007 erano letti dal 67,0% degli italiani, ridottisi al 29,1% nel 2021 (-8,2% rispetto al 2019). La versione online di questi passa dal 21,1% al 28,3%, con una crescita inferiore a due punti percentuali negli ultimi due anni. I quotidiani cartacei non hanno mai conquistato i giovani (il 5,9% nel 2021, con un ulteriore decremento del 2,3% negli ultimi due anni) e si rivelano uno strumento di accesso alle notizie soprattutto per i più anziani (il 18,8% degli ultrasessantacinquenni)». Nei guai pure i settimanali (-6,5% nel biennio) e i mensili (-7,8%). Dal 2007 al 2021 scende di poco la fruizione della TV (tradizionale e satellitare, passata dal 93,1% all’87,9%); quella della TV via Internet ‒ web & smart TV ‒ avanza dal 10% al 41,9%, con una crescita di circa 7 punti solo nell’ultimo biennio. Idem per la radio: quella tradizionale va dal 53,7% al 48,8%, quella da telefono cellulare dal 3,6% al 23,8%, da Internet per mezzo del PC passa dal 7,6% al 20,2%.

 

Le fonti di informazione come sono state usate dagli italiani durante l’emergenza sanitaria? Il Censis scrive che «l’avanzata della pandemia e la successiva fase di reazione al Covid-19 sono stati periodi caratterizzati da un diluvio di informazioni, provenienti da fonti più o meno affidabili, che ci ha sommerso». La maggioranza degli italiani, però, ha privilegiato l’informazione istituzionale, quella dei Tg, utilizzati mediamente dal 60,1% per informarsi negli ultimi 7 giorni precedenti la rilevazione; ai due estremi ci sono i 66-80enni col 73,2% e i 30-44enni con il 39,5%. Segue il social network più popolare, Facebook (30,1%). I motori di ricerca (a cominciare da Google) sul fronte dell’informazione hanno attratto il 22,9% degli utenti (+2,2% tra il 2019 e il 2021) e quasi un terzo dei più giovani (il 30,5%, con un aumento del 3,7%). In coda i quotidiani.

 

Colpisce dunque quella che appare un’estrema vulnerabilità della stampa quotidiana, in tempo pilastro del sistema mediatico. Atlante ne parla con Pier Luca Santoro, grande esperto di media, consulente di marketing, comunicazione & sales intelligence, project manager di DataMediaHub.

 

Come mai i quotidiani crollano mentre altri media procedono, pur con qualche difficoltà, nel passaggio dal formato tradizionale a quello digitale?

Prima di tutto valutiamo questa circostanza: la penetrazione di utilizzo dei social passa dal 47,4% del 2012, primo dato disponibile, al 76,6% del 2021. Un’enormità. Di fronte a tale situazione è evidente che il problema dei giornali non è il formato, la versione cartacea o digitale con cui sono proposti. Semmai esiste il problema della scarsa qualità del prodotto.

 

Eppure i quotidiani usano in modo costante i social, in particolare Facebook. Non serve?

No. L’uso demenziale dei social da parte dei principali editori di quotidiani non paga affatto.

 

Perché?

Ogni giorno condividono migliaia di articoli ‒ spesso scritti male e titolati peggio ‒ nelle loro fanpage su Facebook, sperando di portare traffico di utenti verso il proprio sito.

 

Con quali conseguenze?

Pessime. Le persone leggono esclusivamente le anteprime sui social e si ritengono informate. D’altra parte è quello che capita con i giornali di carta: moltissimi guardano solo i titoli. Per notare questi problemi serissimi non bisogna essere geniali, basta ragionare su dati e risultati per qualche minuto. Evidentemente, però, editori e direttori preferiscono barcamenarsi.

 

Autolesionismo o impreparazione?

Vivono solo di parassitismo digitale. Se uno guarda i media francesi o inglesi o statunitensi vede che cercano figure professionali che in Italia manco si sa che esistono. Per esempio, l’altro giorno Le Monde cercava un engagement editor: figura professionale che si occupa espressamente del coinvolgimento dei lettori, al di là del social media editor. Gente che ha retribuzioni paragonabili a quelle dei giornalisti assunti nei grandi giornali, mica ragazzini da 500 euro al mese, come si usa qui. Insomma, dalle nostre parti si preferisce arrangiarsi e improvvisare. I risultati si vedono.

 

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Cercansi infermieri disperatamente

Negli ultimi due anni chi fa l’infermiere ‒ uno dei lavori più usuranti ‒ spessissimo si è sentito definire un eroe su media e social. In effetti abbiamo visto uomini e donne in camice bianco stringere i denti giorno e notte in prima linea, negli ospedali e nelle case di riposo, contro la pandemia e il resto, insieme ai medici. Però al netto della retorica ‒ e anche degli insulti che si sono beccati da qualche estremista no-vax ‒ molti di loro, nel corso dell’emergenza, hanno giustamente affermato: non siamo eroi, facciamo con dedizione il nostro lavoro; purtroppo siamo in numero insufficiente e mal pagati.

 

Effettivamente in Italia gli infermieri occupati e attivi sono pochi: circa 385.000 su 454.000 iscritti agli albi (gli altri hanno cessato l’attività); a conti fatti ‒ secondo il rapporto Italia. Profilo della Sanità 2019, pubblicato nel 2020 dalla Commissione europea con l’OCSE ‒ nel nostro Paese si impiegano meno infermieri rispetto a quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale (a eccezione della Spagna). Inoltre il loro numero è notevolmente inferiore alla media dell’Unione Europea (5,8 infermieri per 1.000 abitanti in Italia, contro gli 8,5 medi nell’UE e i 9 nei Paesi sviluppati aderenti all’OCSE).

 

Non solo, gli infermieri italiani “vantano” gli stipendi tra i più bassi dell’UE: il salario netto medio di coloro che lavorano nel settore pubblico, a metà carriera, è di 1.410 euro netti al mese (in quello privato spesso pure meno); arrivano a 2.000 esclusivamente coloro che sono a fine carriera e con una certa specializzazione. Mentre in Germania e nel Regno Unito lo stipendio medio è di circa 2.500 euro; in Francia 1.600, in Spagna 1.700, in Belgio 2.000, in Svezia 2.500, in Svizzera 3.300 (sempre netti, con un costo della vita molto alto). La media, nell’Unione, arriva a 1.900 euro mensili.

 

I risultati? Dedizione, professionalità e orari massacranti non bastano. In questi ultimi mesi i titoli sulla carenza di infermieri, negli ospedali e nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA), hanno invaso i media, anche perché i problemi, da Nord a Sud, si sono moltiplicati con la pandemia: ambulanze prive di personale, sale operatorie in parte chiuse per la stessa ragione, centri vaccinali con analoghi problemi. In difficoltà anche i servizi territoriali di base, quelli che rispondono alle esigenze di ambulatori, assistenza domiciliare e comunitaria.

 

Secondo un comunicato piuttosto duro della FNOPI (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche), che risale al 14 settembre scorso, sono oltre 63.000 gli infermieri che mancano in Italia, con le maggiori carenze al Nord (27.000), seguito da Sud e isole (23.500) e Centro (13.000). Tra le regioni il maggiore fabbisogno si ha in Lombardia (9.368), Lazio (6.992) e Campania (6.299). I giovani se ne sono accorti, così nel 2020 quella in Scienze infermieristiche è stata l’unica laurea, tra le sanitarie, per la quale le domande sono aumentate dell’8%. Mentre per le altre sono diminuite.

 

Che fare? La FNOPI propone soluzioni a breve, medio e lungo termine. Tra queste, l’aumento dei posti disponibili nelle facoltà triennali di Scienze infermieristiche e incentivi contrattuali ed economici per il rientro di oltre 20.000 infermieri italiani che lavorano all’estero. È chiaro comunque che i neolaureati, pur con un leggero aumento dei posti nell’anno accademico 2021/22, prima di tre anni non saranno pronti; così come ‒ se per miracolo tornassero in un solo colpo tutti gli “emigrati” ‒ nella sanità italiana mancherebbero ancora 43.000 professionisti. Un altro contributo al rinfoltimento delle file potrebbe venire, in modo limitato, da infermieri stranieri, comunitari ed extracomunitari, che sono già più del 10%. Tuttavia, la vera soluzione del problema non può che consistere in un rilancio della formazione universitaria ‒ oggi ancora bloccata da lacci economici, burocratici, organizzativi e strutturali ‒ e della sanità pubblica.

«Gli infermieri non ci sono anche a causa dell’imbuto formativo (ne vengono formati meno di quelli necessari, ndr)», aveva sostenuto già a gennaio 2021, nel pieno della pandemia, Giuseppe Carbone, segretario generale della FIALS (Federazione Italiana Autonomie Locali e Sanità). Aveva aggiunto: «Quelli che ci sono si sentono stanchi di essere trattati come professionisti di serie B. Ferma restando la reale necessità di reclutare infermieri e di assumerli con contratti non precari, servono proposte reali». Aveva precisato la FNOPI: «Solo un nuovo contratto su dieci è a tempo indeterminato. Non possiamo considerare come risorse aggiuntive e stabili infermieri che hanno contratti a scadenza».

Ci sarà una svolta in tempi sensati? Ecco il parere di Luigi Pais dei Mori, presidente dell’Ordine delle professioni infermieristiche (OPI) della provincia di Belluno, libero professionista e titolare di uno studio di Infermieristica legale. «Da almeno un decennio lanciamo l’allarme. La pandemia ha soltanto reso evidente la situazione», dice ad Atlante. «Abbiamo già visto che attualmente c’è una carenza di più di 60.000 infermieri; se non si rimedierà, saranno 70.000 in meno nel 2028 e nel 2033 ne mancheranno quasi 90.000». Pais dei Mori punta il dito contro «una sequela di intoppi generati dalla politica sanitaria italiana». Tra questi, «un sistema universitario incapace di permettere a un numero sufficiente di giovani di accedere alla formazione universitaria».

 

Di certo, viste le carenze, nonostante gli stipendi non alti Scienze infermieristiche permette di trovare un’occupazione in modo veloce: oggi il 97% dei rari laureati, a un anno dalla conclusione degli studi, ha un buon lavoro. Peccato che ‒ paradossalmente ‒ capiti quello che dice il presidente dell’OPI bellunese: non ci sono abbastanza posti disponibili negli atenei. All’inizio dello scorso agosto la FNOPI e la Conferenza permanente Stato-Regioni aveva trovato un accordo per chiedere 23.719 studenti al primo anno nel 2021-22: 6.322 in più di quelli decretati “provvisoriamente” dal ministero dell’Università e Ricerca (MUR) a metà luglio e 7.495 in più rispetto allo scorso anno accademico. Tuttavia il MUR subito dopo ha limitato l’offerta in base alle disponibilità strutturali e di bilancio degli atenei, tornando a 17.394 posti, più 264 pediatrici.

 

«Considerando che il 10% degli studenti, tra chi rinuncia e tra chi continua dopo il triennio, non sarà disponibile fra tre anni, nel 2024 avremo comunque assai meno laureati di quelli necessari», sottolinea Pais dei Mori. E nell’anno accademico 2022-23 come andrà? Mistero. Insomma, appare piuttosto limitata la capacità del sistema universitario, dello Stato e delle Regioni di programmare gli ingressi e di rispondere alle esigenze del mercato, pubblico e privato. Non è una novità. Però in questo caso c’è in gioco la salute di tutti noi e la qualità dei livelli di assistenza. Forse sarebbe il caso di fare suonare la sveglia.

 

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Nuove forme di mobbing, vecchie impunità

In Italia tanti assistono a un fenomeno inquietante, ma pochissimi ne parlano, perché c’è omertà. Viene definito con un inglesismo: mobbing. Identifica le vessazioni psicologiche subite da singoli lavoratori per iniziativa di colleghi o superiori. Da non confondere con lo stalking o le molestie sessuali sul luogo di lavoro: sia per le modalità diverse; sia perché ‒ al contrario degli ultimi due ‒ il mobbing non è sanzionato esplicitamente da alcuna norma, né penale né civile. In compenso sono nati alcuni neologismi, come il verbo “mobbizzare” (col participio passato, “mobbizzato”). Si usa anche “mobber” per indicare il responsabile delle vessazioni.

 

Sui media arriva ben poco, a parte casi clamorosi come quello di Sara Pedri, ginecologa scomparsa nel nulla a marzo del 2021 dopo la persecuzione subita, secondo gli inquirenti, nell’Ospedale Santa Chiara di Trento. Quanti sono i mobbizzati? Complice il fatto che tanti casi non vengono ufficializzati a livello giudiziario, sindacale o sanitario, le ricerche sono poche. Secondo un’indagine di Inail, «il 4% della forza lavoro (quindi oggi più di 900.000 lavoratori, ndr) è vittima di mobbing… senza contare il ‘sommerso’, che subisce in silenzio». Il numero effettivo quindi si può almeno raddoppiare. Più recente è l’indagine clinica su 1.675 delle numerosissime persone (età media 46 anni; 57,1% donne) seguite a Milano nel Centro stress e disadattamento lavorativo durante il triennio 2014-16: «Il settore maggiormente rappresentato è quello sanitario (13,4%), seguito da grande distribuzione (12,2%), servizi (11,2%), settore manifatturiero e edilizio (10,4%), amministrazione pubblica (9,1%) e alberghi, ristorazione, pulizie e mense (8,1%)».

 

Il fenomeno non si è placato in emergenza sanitaria, durante i mesi di lavoro a distanza: quello privo ‒ per ora ‒ di regole e impropriamente chiamato smart working, cioè “lavoro agile” (che invece richiede un progetto puntato sui risultati, non sugli orari). Parallelamente, si è fatto strada quello che potremmo definire, per analogia, smart mobbing, favorito proprio dal boom del telelavoro. Dice ad Atlante la dottoressa Giovanna Castellini, dirigente psicologa nel Centro stress e disadattamento lavorativo, che è nella Clinica del lavoro del Policlinico di Milano dal 1996: «All’inizio dell’emergenza molte persone si erano sentite sollevate, perché potevano lavorare lontano da chi li ha sotto tiro. Col passare del tempo, tuttavia, il meccanismo si è riprodotto anche a distanza: bombardamenti di telefonate e messaggi aggressivi, esclusione dalla condivisione del ciclo di lavoro, emarginazione, critiche immotivate. Per non parlare del timore di essere i primi, di questi tempi, a subire licenziamenti». Luisa Marucco ‒ presidente a Torino dell’associazione di volontariato “Risorsa”, fondata nel 2000 da ex mobbizzati ‒ conferma: «Il timore di finire per primi nella lista di licenziati o cassintegrati è espresso da coloro che ci chiedono aiuto ultimamente».

 

Nella metà dei casi il mobber è il capo diretto, in altri lo sono i colleghi, da soli o in gruppo. Cosa rischiano? Poco. Nel codice penale e in quello civile non c’è un riferimento esplicito. Così le vittime sono pressoché indifese e spesso isolate dai compagni di lavoro, che hanno paura a esporsi. Col risultato che quasi sempre le rare vertenze giudiziarie ‒ svolte in sede civile appigliandosi a norme che possono in qualche modo adattarsi ‒ finiscono in un nulla di fatto o in un accordo economico extragiudiziale, comunque svantaggioso. Inoltre i mobbizzati perdono spesso il posto di lavoro, per dimissioni o licenziamento.

Per capire meglio, è il caso di visitare il Centro stress e disadattamento lavorativo milanese. Fino a qualche anno fa seguiva circa 800 persone ogni anno, provenienti da tutta Italia; poi la minore disponibilità di personale ha costretto a una riduzione. Qualche altro centinaio si rivolge ad altri rari centri pubblici (come quelli di Monza, Pavia, Pisa e Roma). Solitamente i mobbizzati vanno lì su suggerimento dei loro avvocati. Per essere ammessi al servizio, fornito dal Sistema sanitario nazionale (SSN), occorre una richiesta sottoscritta da medici di famiglia o del lavoro; poi si devono aspettare 5 o 6 mesi per l’incontro con gli specialisti. Lo stress, intanto, si dà da fare. Le diagnosi descrivono: desiderio di fuga; grave senso di inadeguatezza; ansia, depressione, irritabilità e attacchi di panico; disturbi alimentari, sessuali e del sonno; abusi di vari di psicofarmaci o peggio; mancanza di forza di volontà; incapacità di reagire; difficoltà nei rapporti interpersonali e in famiglia; aggressività. A livello fisico le conseguenze sono altrettanto dure: malessere generalizzato, emicrania, cattiva digestione, disturbi cardiovascolari, calo delle difese immunitarie.

Chi si rivolge a un centro come quello di Milano desidera che un ente pubblico certifichi le sue condizioni: è indispensabile di fronte al giudice del lavoro. Però il suo avvocato può chiamare in causa solo l’azienda: per non aver tutelato la salute del dipendente. Il mobber non è giudicato (salvo casi estremi); anzi, può comparire persino come testimone contro la vittima. Quasi sempre le aziende, in grado di pagare potenti studi legali, stanno dalla parte dei persecutori; anche perché di solito sanno quello accade, ma fanno finta di non vedere. Sicuramente la via giudiziaria richiede al mobbizzato lucidità, spesso molto incrinata, e spese legali elevate. Remano contro anche le norme che negli ultimi anni hanno tagliato parte delle tutele garantite ai lavoratori del settore privato. Mentre a livello sindacale la questione non rientra tra quelle affrontate nelle trattative contrattuali collettive, come se fosse un fatto privato tra vittima e carnefice.

È evidente che serve una legge. Dal 2001 una risoluzione del Parlamento europeo, la A5-0283, invita a individuare una definizione standardizzata del mobbing che possa essere riconosciuta a livello comunitario; però la maggior parte degli Stati è ancora priva di norme. La Svezia è stata la prima a delineare nel 1993 una legislazione, seppur insufficiente. Dal 2002 la Francia ha introdotto il reato di harcèlement moral (molestie morali): è prevista la reclusione per un anno e multe fino a 15.000 euro. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito il mobbing viene punito perché è compreso nella categoria degli harassment (USA), le molestie, e del bullying at work (Regno Unito), il bullismo sul lavoro.       

In Italia abbiamo invece in cantiere, in questa legislatura, una proposta di legge del PD e due del M5S, in teoria unificabili. Vorrebbero punire chi ricorre ad atteggiamenti vessatori con la reclusione da 6 mesi a 6 anni e con la multa da 30.000 a 100.000 euro; prevedono pure l’obbligo, per le aziende, della prevenzione e di sanzioni disciplinari. Ci sono aggravanti del reato se gli atti sono commessi dal superiore gerarchico e se colpiscono minorenni, disabili e donne in gravidanza o con bimbi molto piccoli. A che punto è la discussione? Non è mai partita, le proposte sono ferme in qualche cassetto. Commenta Laura Marucco, di Risorse: «La caduta del governo Conte ha bloccato l’iter della legge in Parlamento. Bisogna sperare nel ministro del Lavoro Andrea Orlando: penso che possa essere sensibile al problema, ma è un po’ in difficoltà...». Nell’attesa, i fan del mobbing si godono l’impunità.

 

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Il lavoro che non si trova

Tra primavera ed estate, a tenere banco in Italia c’è stato un messaggio negativo: giovani e meno giovani preferirebbero vivere di sussidi, tanto che vari imprenditori cercano gente da assumere ma non la trovano; né per lavori stagionali nel settore turistico, né per impieghi a tempo indeterminato. Un (presunto) fenomeno assai stigmatizzato ‒ negli editoriali come nelle chiacchiere da bar ‒ perché quei nullafacenti remano contro il rilancio post-pandemia.

 

Qualcuno potrebbe ricordare che da alcuni anni, periodicamente, alcuni datori di lavoro denunciano la mancanza di candidati. Certo, però nel 2021 è stato tirato fuori il jolly: ci sarebbe chi non vuole lavorare perché preferisce godersi il reddito di cittadinanza, varato all’inizio del 2019 dal primo governo Conte. La tesi della sussidio-dipendenza è stata sostenuta anche da big dell’imprenditoria come Guido Barilla, presidente del gruppo omonimo.

 

Si tratta di racconti rilanciati dai media professionali, spesso senza fare verifiche. È quindi interessante riflettere sulla narrazione di questo strano caso. Tanto più strano se si considera che, secondo gli ultimi dati dell’Istat, in Italia oltre una persona su dieci non riesce a trovare lavoro, sebbene lo cerchi (il 10,5% a maggio 2021, nella fascia tra i 15 e i 64 anni); con un picco di oltre tre disoccupati su dieci tra chi ha fra 15 e 24 anni (il 31,7%).

 

Sul fronte degli impieghi stagionali, le grancasse hanno suonato grazie alle lamentele di gestori di bar e ristoranti, hotel, lidi balneari, discoteche e luoghi di ritrovo di tutte le riviere. Però le rare inchieste giornalistiche dedicate a un approfondimento hanno svelato che la stragrande maggioranza delle offerte di lavoro è illegale e sottopagata. Come ci racconta Osvaldo Danzi, esperto di risorse umane e social media recruiting, nonché editore di SenzaFiltro: «Tanti non trovano dipendenti perché li pagano molto poco e in modo illegale. Però divulgano notizie sulla gente che non ha voglia di lavorare per farsi pubblicità sui media compiacenti. Basterebbe che andassero in un Centro per l’impiego, cui ci si può rivolgere gratis, per dichiarare di quale tipo di lavoratore hanno bisogno, quanto intendono pagarlo, con quale contratto, eccetera. Forse c’è chi teme proprio di dover fare un contratto regolare».

 

La situazione è così surreale che, a un certo punto, hanno fatto notizia proprio le imprese che assumono rispettando le norme. Come l’Hotel Aros di Rimini, certificato della start up Ethicjobs. «Abbiamo fatto questa scelta: sostanzialmente, seguire le leggi. Che poi, onestamente, non dovrebbe suscitare scalpore, dovrebbe essere la normalità. Invece è così: sfruttare i dipendenti, farli lavorare in nero, sono cose date per scontate», ha detto Daniele Ciavatti, che col fratello Maurizio gestisce l’albergo, in un’intervista all’HuffPost

 

Tuttavia anche le aziende che offrono contratti a tempo indeterminato sostengono di avere difficoltà nel reperire dipendenti. Secondo le analisi mensili del Sistema informativo per l’occupazione e la formazione Excelsior (sostenuto da Unioncamere e Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro) ‒ elaborate in base a informazioni fornite autonomamente da un campione di 1.300.000 aziende ‒ ogni mese ci sono decine di migliaia di offerte di lavoro. Ebbene, gli imprenditori dichiarano di scovare in media solo 2 dipendenti su 3; in alcuni settori sarebbe difficile trovarne addirittura uno su due. Per esempio, nel rapporto Excelsior di luglio 2021 le imprese hanno dichiarato di essere pronte ad assumere nel corso del mese 534.250 persone, ma dichiarano di avere difficoltà a trovarne il 31%, cioè più di 150.000. Mancherebbero all’appello operai specializzati (-42,6%), tecnici (-40,7), dirigenti e professioni intellettuali, scientifiche e con elevata specializzazione (-38,4%), conduttori di impianti e operai di macchinari fissi e mobili (33,4%), professionisti in attività commerciali e servizi (-28,3%); si cercano, ma si trovano poco, persino impiegati (-20,77%) e lavoratori non qualificati (-17,8%).

 

Come mai? Ammesso e non concesso che la disponibilità ad assumere sia davvero quella dichiarata, la situazione dimostra che il sistema formativo italiano non risponde alle esigenze del mercato del lavoro: in Italia manca chi sappia indirizzare nella scelta del corso universitario, della scuola superiore, del mestiere. Tuttavia ogni anno sono a disposizione circa 300.000 laureati (290.772 nel 2020, secondo AlmaLaurea) e circa 450.000 diplomati. Possibile che manchino così tante persone da assumere? In realtà esistono, ma è difficile saperlo. Perché? Le aziende non sanno trovarli, tanto meno sfruttando il web (solo il 3% delle imprese, secondo l’ultimo rapporto Istat, è maturo dal punto di vista digitale); si affidano solo al passaparola o al massimo a qualche agenzia di lavoro interinale. Mancano pure ricerche di talenti negli atenei e programmi di sostegno agli istituti tecnici, come capita invece in altri Paesi dell’Unione Europea (UE).

 

Inoltre, in Italia non c’è una banca dati nazionale, in cui domanda e offerta di lavoro si possano incontrare. Ciò ha contribuito a rendere poco efficace il ruolo dei cosiddetti “navigator”, assunti per individuare, tra i percettori di reddito di cittadinanza, chi può avere un’occupazione. Per giunta, le politiche attive per il lavoro sono gestite dalle Regioni, però i siti non sono connessi tra loro. Così chi non trova lavoro in Puglia non può sapere se nel Veneto ci sono opportunità lavorative adatte a lui.

 

Veniamo proprio al reddito di cittadinanza. Se il sistema per la ricerca di un lavoro destinato a chi ne usufruisce zoppica, questa forma di sussidio ha aiutato e aiuta molte persone prive di risorse economiche. Ha un valore tale da giustificare la rinuncia a un posto di lavoro? Come ha scritto Francesco Seghezzi (presidente della Fondazione ADAPT, fondata dal giuslavorista Marco Biagi), «la polemica che vede il reddito di cittadinanza come concorrente dei lavori stagionali», non rivela altro che «il livello inaccettabile dei salari proposti a questi lavoratori, così bassi da poter competere con il sussidio, che ha un valore medio mensile inferiore ai 500 euro». Più chiaro di così...

 

Immagine: Cameriere che allestisce i tavoli del ristorante all’aperto, Torino (5 maggio 2021). Crediti: Antonello Marangi / Shutterstock.com