Atlante

Domenico Cerabona

Lavora presso la Fondazione Giorgio Amendola di Torino. Ha tradotto, curato e introdotto per la casa editrice Castelvecchi il volume “La Rivoluzione Gentile”, una raccolta di discorsi del leader del Partito laburista Jeremy Corbyn. Sempre per Castelvecchi ha pubblicato il volume “Brexit - Cosa accadrà dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea”.

Pubblicazioni
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Il caso Thames Water e la crisi del paradigma inglese pro-privatizzazioni

 

La CEO della Thames Water si è dimessa la scorsa settimana per le polemiche sorte attorno al suo salario di 1,6 milioni di sterline. Una notizia che potrebbe sembrare interessante solo per addetti ai lavori del settore finanziario e che invece dà l’occasione per riflettere sul momento storico complicato che sta attraversando il Regno Unito. La Thames Water, infatti, è una delle più grosse aziende di fornitura d’acqua e gestione delle fognature d’Inghilterra, godendo sostanzialmente del monopolio nel settore per l’area metropolitana londinese e per buona parte del Sud-Est inglese. È un’azienda fondata nel 1989 a seguito della privatizzazione del settore voluto da Margaret Thatcher e sostanzialmente dall’inizio ha avuto problemi gestionali ma, soprattutto, è stata oggetto di attenzioni da parte di fondi di investimento e aziende straniere che ne hanno assunto il controllo all’inizio degli anni Duemila.

In questi anni la Thames Water, che nel frattempo ha continuato a passare di mano ed adesso è di proprietà principalmente di fondi di gestione stranieri, ha fornito un servizio sempre più scadente, aumentato costantemente i costi per l’utilizzatore finale e accumulato un debito gigantesco, di 15 miliardi di sterline. Tutto questo mentre nel frattempo venivano elargiti dividendi agli azionisti e stipendi stellari agli amministratori. Come se non bastasse, la Thames Water viene costantemente multata per le numerose perdite della propria rete fognaria, che scarica illegalmente nei fiumi e sulle spiagge d’Inghilterra acque reflue non trattate, a cui vanno aggiunti gli scarichi, sempre della rete fognaria, che vengono effettuati “legalmente” grazie alla deroga garantita dal governo britannico negli anni dell’emergenza Covid.

Ecco che allora la crisi della Thames Water assume caratteri più paradigmatici di come il sistema britannico sia per certi aspetti in crisi. Infatti, dopo anni di malagestione e di disastri ambientali, la Thames Water ha in questo momento due alternative, entrambe poco attrattive per la cittadinanza: o un ulteriore forte aumento dei prezzi che permetta di rientrare del debito e affrontare i costi di una maggiore manutenzione della rete fognaria, oppure una nazionalizzazione che porterebbe le casse dello Stato ad assumersi l’onere di appianare i debiti maturati da un’azienda privata che per anni ha distribuito utili a investitori stranieri.

Il governo, infatti, si sta preparando a questa seconda opzione, come è stato costretto a fare nel 2021, quando una vicenda simile riguardò Bulb, un’azienda fornitrice di energia elettrica.

Non c’è da stupirsi dunque se nei sondaggi sempre più britannici siano a favore della nazionalizzazione di alcuni settori chiave della fornitura di servizi essenziali; un favore però che non è ricambiato dalla classe politica: se, infatti, i Tories, eredi di Thatcher, sono dagli anni Settanta contrari alle nazionalizzazioni, il Labour guidato da Keir Starmer non sembra volersi sbilanciare su questo tema per paura di essere accostato alle proposte (quelle sì in favore delle nazionalizzazioni) di Jeremy Corbyn e più in generale venire dipinto come il classico laburista (nella vulgata) che crea debito pubblico incontrollato.

Quello che però è certo è che al momento i 15 milioni di utenti della Thames Water rischiano di affrontare un ulteriore aumento delle bollette (che già sono cresciute fortemente negli ultimi anni), e che sempre più spiagge britanniche non sono balneabili: un’amara ironia quella di un’isola che non può godere appieno delle sue spiagge, nel 2023, a causa degli scarichi fognari.

 

Immagine: Veduta aerea dei lavori di trattamento delle acque reflue nella zona est di Londra. L’enorme impianto sulle rive del Tamigi tratta i rifiuti di gran parte della capitale, Regno Unito. Crediti: Britain from Above / Shutterstock.com

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Il tabù della Brexit nella politica britannica

 

Per parafrasare un incipit di un certo successo “uno spettro si aggira nella politica britannica, lo spettro della Brexit”. A sette anni dal referendum e a più di tre dall’uscita formale del Regno Unito dall’Unione Europea (UE), non c’è argomento che sia più trattato ma allo stesso tempo più evitato nel dibattito pubblico britannico. Se dal punto di vista fattuale pare sempre più evidente che la Brexit abbia comportato degli oggettivi svantaggi al Regno Unito sotto tutti i punti di vista, a Westminster l’argomento è un assoluto tabù, sia per il governo che – paradossalmente – per l’opposizione. I dati sono infatti piuttosto evidenti e impietosi: rimasta da sola (e un po’ isolata) a fronteggiare i marosi del post-pandemia e della guerra in Ucraina, l’economia britannica è esposta ad attacchi speculativi e a crisi più gravi rispetto a quelli delle principali forze occidentali. L’FMI ha previsto infatti una crescita di appena lo 0,4% per il 2023, con l’inflazione che non accenna a diminuire ed è ben lontana dal dimezzarsi, come da obiettivo del primo ministro Rishi Sunak.

Dal punto di vista commerciale la Brexit, al contrario delle promesse fatte dal fronte del Leave, si sta rivelando un vero e proprio disastro: la burocrazia non solo non è diminuita, ma è aumentata, dovendo fronteggiare le nuove regole doganali nate attorno al commercio con il principale partner commerciale, l’Unione Europea… Molte aziende che avevano scelto di produrre in Gran Bretagna potendo contare sul doppio canale di accesso alla City di Londra sul piano finanziario e quello di avere facile accesso al Mercato unico europeo, stanno ricollocando le proprie produzioni o ridimensionando gli investimenti anche per i problemi di gestione della catena di distribuzione, con le ormai famose code a Dover e Calais, con i tir bloccati spesso per giorni in attesa di attraversare il confine.

L’ambito in cui il fallimento della Brexit pare più evidente è quello che più di tutti ha influenzato il voto referendario: l’immigrazione. Nonostante in questi anni il governo conservatore abbia introdotto una legislazione sempre più severa contro l’immigrazione sia legale che clandestina, il “problema” non accenna a diminuire, anzi: le coste sud dell’Inghilterra sono quasi quotidianamente soggette a sbarchi di migranti provenienti dalla Francia al punto che Sunak ha dovuto stringere un patto con il governo francese per finanziare maggiormente il controllo al confine sul lato francese.

Infine, sul piano geopolitico, soprattutto a causa del caos in Irlanda del Nord dove la Brexit si è dimostrata una sfida quasi insormontabile con uno stallo istituzionale che non accenna a risolversi tanto che da oltre un anno la condivisione dei poteri si è bloccata a causa dell’accordo siglato dal governo britannico con l’Unione Europea circa lo status dell’Irlanda del Nord, il nuovo assetto ha generato tensioni con Washington e il presidente Biden.

 

Di fronte a tutto questo nel mondo dei commentatori, giornalisti ma anche economisti, la Brexit è al centro del dibattito con continue richieste di affrontare i nodi più spinosi della questione, mentre sul fronte politico, come dicevamo all’inizio, c’è l’assoluta volontà di dare per chiuso l’argomento, considerato come tabù per la paura di riaprire il conflitto che ha contrassegnato il dibattito politico fino a tutto il 2020. Se è comprensibile il motivo per cui il Partito conservatore non ha intenzione di affrontare la questione, dovendo infatti riconoscere come errate le proprie posizioni, a partire da quelle di Rishi Sunak fervente sostenitore del Leave, meno comprensibile è la posizione del Partito laburista di Keir Starmer che, pur essendo stato sostenitore del Remain e vero e proprio volto dell’europeismo laburista, oggi si rifiuta di prendere in considerazione una qualunque riapertura del ragionamento sui rapporti con l’Unione Europea, tenendosi lontanissimo da qualsivoglia discorso su un rientro futuro nell’Unione doganale o – tantomeno – come membro dell’Unione Europea.

Il primo ministro e il suo corrispettivo laburista (e sempre più probabile prossimo inquilino di Downing Street secondo i sondaggi) sembrano vivere nell’illusione che la situazione britannica possa migliorare all’interno della cornice degli attuali accordi con l’UE, trattando migliorie su alcuni argomenti specifici (spostamenti dei cittadini da e per l’UE, più semplici accordi commerciali, accesso al programma Horizon per le università britanniche) senza però spiegare perché l’Unione dovrebbe accordare migliori condizioni ad uno Stato che ha tanto pervicacemente voluto interrompere i propri rapporti con l’Unione stessa.

Per aggiungere una nota ancora più paradossale va sottolineato come coloro che con più coraggio oggi affrontano l’argomento Brexit siano gli euroscettici come Nigel Farage e Jacob Rees-Mogg che ammettono che si sia rivelato un disastro ma solo perché il governo e il Parlamento britannici si sono rifiutati di fare una “vera” Brexit, cedendo cioè troppo alle richieste dell’Unione e alla volontà “europeista” di una parte del mondo politico britannico.

In tutto questo i comuni cittadini affrontano una realtà in cui viaggiare in Europa è più scomodo e costoso, i mutui sono andati alle stelle a causa della crisi economica generatasi dal combinato disposto di guerra in Ucraina e manovre fiscali di Liz Truss, i sindacati indicono da un anno scioperi continui nel vano tentativo di ottenere adeguamenti salariali che rispondano ad una crisi inflattiva che non accenna a fermarsi.

La campagna elettorale per le prossime elezioni politiche dell’autunno 2024 è di fatto già iniziata e sarà quasi del tutto incentrata sull’economia, vedremo se i partiti riusciranno a tenere la Brexit al di fuori dei loro ragionamenti o se la realtà dimostrerà di avere la testa più dura.

 

Immagine: Rishi Sunak (27 febbraio 2023). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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Tra Washington e Londra, una relazione speciale che si incrina

 

Se il viaggio in Irlanda del Nord e Irlanda del presidente degli Stati Uniti Joe Biden doveva aprire un nuovo capitolo della special relationship tra Washington e Londra, allora possiamo sicuramente dire che è stato un totale fallimento per il governo britannico. Il viaggio, immaginato per celebrare i 25 anni di pace in Irlanda in seguito agli Accordi del venerdì santo del 1998, infatti si è svolto in un clima di quasi aperto fastidio da parte della Casa Bianca che ritiene Downing Street non solo responsabile di aver incrinato, attraverso la Brexit, la delicata situazione di pace in Irlanda del Nord, ma di aver dimostrato di non avere sul tavolo una soluzione possibile.

La visita di Biden doveva avvenire in un clima di ritrovata concordia in Irlanda del Nord grazie alla stipula del Windsor Framework, il nuovo accordo tra Regno Unito (UK) e Unione Europea (UE) che avrebbe dovuto accontentare gli unionisti nordirlandesi del DUP (Democratic Unionist Party) e permettere la riapertura del Parlamento di Stormont, l’Assemblea legislativa dell’Irlanda del Nord. Il DUP invece ha annunciato la sua contrarietà e di conseguenza – a causa proprio di come sono strutturati i sistemi di condivisione del potere previsti dagli Accordi del venerdì santo – il Parlamento di Stormont rischia di rimanere chiuso almeno sino al 2024, con Londra costretta a “commissariare” il governo nordirlandese.

La cosa più grave, anche sicuramente dal punto di vista di Washington, è che Londra non ha più niente da offrire agli unionisti per sbloccare la situazione: dopo aver rinegoziato il protocollo per l’Irlanda del Nord, l’UE sicuramente non sarà disposta a fare ulteriori modifiche e concessioni circa lo status doganale dell’Irlanda del Nord, non a caso Sunak aveva puntato tutto sul Windsor Framework addirittura coinvolgendo direttamente la Corona, con re Carlo III in prima linea durante la visita della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in occasione della stipula degli Accordi.

 

Fallito questo estremo tentativo non si vedono soluzioni all’orizzonte e non è un caso se in queste settimane si è registrato un aumento della tensione in Irlanda del Nord con la violenza che, seppure ancora totalmente sotto controllo, torna ad affacciarsi per la prima volta dopo decenni.

Non c’è dunque da stupirsi se Joe Biden, cattolico di fiere origini irlandesi, non ha perso l’occasione per sottolineare il suo fastidio circa la situazione: se per Downing Street l’incontro tra Biden e Sunak era un bilaterale, nei briefing della Casa Bianca con la stampa si trattava di un semplice caffè. Se in Irlanda la limousine presidenziale esponeva la bandiera americana e quella della Repubblica d’Irlanda, durante la sua – brevissima – permanenza in Irlanda del Nord quella del Regno Unito non è stata esposta. Cosa che non è certo passata inosservata nella stampa britannica, specie quella conservatrice, che non ha perso l’occasione per dipingere Biden come un anti-britannico. Allo stesso modo non sono passati inosservati gli incontri, molto più che cordiali, con i leader del Sinn Féinn, il partito che in Irlanda rappresenta la causa repubblicana, con addirittura un gioioso selfie del presidente degli Stati Uniti con Gerry Adams, storico leader della causa repubblicana e figura molto controversa nel Regno Unito per i suoi sospetti stretti legami, da lui sempre negati, con l’IRA.

Diciamo dunque che durante il suo viaggio Biden non ha scelto la via della delicatezza diplomatica nei confronti di Downing Street anche perché, una volta appurato che era tramontata la possibilità di celebrare degnamente la ricorrenza dello “scoppio” della pace in Irlanda 25 anni fa, il presidente USA ha invece cercato foto opportunity per parlare soprattutto al suo elettorato negli Stati Uniti: sappiamo infatti che gli americani di origine irlandese sono una forte potenza elettorale negli Stati Uniti e che prima di annunciare – in procinto come sembra – la sua candidatura per altri quattro anni alla Casa Bianca, il presidente abbia voluto richiamare in toto le sue radici nell’Isola di Smeraldo incurante dei fastidi che avrebbe provocato nel Regno Unito che – dopo la Brexit – pare sempre più isolato e marginale sullo scacchiere geopolitico.

 

Immagine: Da sinistra, Joe Biden e Rishi Sunak (16 novembre 2022). Crediti: Salma Bashir Motiwala / SHutterstock.com

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Regno Unito, polemiche sulla nuova legge sull’immigrazione illegale

 

«Ho serie preoccupazioni sulle conseguenze di questo disegno di legge: la prima è l’arbitraria espulsione di coloro che subiscono persecuzioni ma arrivano nel Regno Unito illegalmente. Per fare un esempio tra gli altri: una donna in fuga dall’Iran che arrivasse qui in maniera illegale non avrebbe accoglienza. […] Ma la maggior parte di coloro che fuggono dagli abusi non riesce a farlo legalmente. […] Inoltre questa legge non permetterebbe l’assistenza delle vittime di traffico di schiavi perché, arrivando illegalmente, dovrebbero affrontare l’espulsione senza possibilità di aiuto».

A usare queste durissime parole nella House of Commons sul tanto discusso Illegal migration bill proposto dalla ministra dell’Interno Suella Braverman e sostenuto dal primo ministro Rishi Sunak, non è stato Jeremy Corbyn o un altro esponente della sinistra “radicale” del Regno Unito, ma Theresa May. La stessa Theresa May che, quando era all’Home Office, si fece promotrice di una politica severissima contro l’immigrazione clandestina al punto che l’obiettivo dichiarato della May era creare un “Hostile environment” e cioè letteralmente un clima ostile, nei confronti degli immigrati clandestini. Una legge a suo tempo talmente severa da aver generato il disastro della Windrush generation, cioè i cittadini nati e cresciuti nel Regno Unito, figli di immigrati dalle colonie, che hanno subito in alcuni casi addirittura la deportazione dal Paese in cui erano nati. Dal fatto che la promotrice dell’Hostile environment giudichi l’attuale disegno di legge, in discussione nelle commissioni ed approvato in prima lettura la scorsa settimana, troppo radicale, ci si può davvero fare un’idea di quanto il governo di Rishi Sunak abbia deciso di dare un segnale chiaro sul modo in cui intende affrontare la cosiddetta emergenza delle piccole imbarcazioni che arrivano sulle spiagge del Sud dell’Inghilterra attraversando La Manica in partenza dalla Francia.

 

Vediamo quali sono i punti principali e più controversi di questa proposta di legge che, se dovesse venire approvata dal Parlamento, entrerà in vigore retroattivamente dal 7 marzo (già questo è di per sé un aspetto controverso):

- salvo circostanze eccezionali i richiedenti asilo non potranno usare lo Human rights act per opporsi alla deportazione: questo permetterà di procedere più rapidamente all’espulsione degli immigrati illegali ma ovviamente contrae il diritto di asilo di coloro che ne abbiano diritto; infatti Braverman ha sottolineato che le richieste d’asilo verranno esaminate da remoto solo dopo l’espulsione, che avverrà nel Paese di origine se possibile o in un Paese terzo sicuro e cioè per il momento in Ruanda;

- i minori arrivati illegalmente nel Regno Unito potranno essere deportati una volta compiuta la maggiore età;

- coloro che arriveranno illegalmente nel Regno Unito non potranno appellarsi alla legislazione contro la schiavitù moderna;

- chi dovesse subire l’espulsione per immigrazione illegale verrà privato a vita della possibilità di rientrare nel Regno Unito;

- l’Home Office acquisirà due basi aeree dell’Aeronautica militare nel Sud dell’Inghilterra per trasformarle in centri di detenzione per coloro che arriveranno illegalmente dalla Manica;

- verrà stabilito un numero fisso di richiedenti asilo a cui sarà permesso di attendere nel Regno Unito che il loro caso venga esaminato, ma solo una volta che le attuali – lunghissime – liste d’attesa verranno liberate.

 

L’obiettivo dichiarato del governo britannico è fare in modo che nel mondo si sappia che arrivare nel Regno Unito illegalmente comporterà l’espulsione; questo perché – tali sono state le parole della ministra dell’Interno – con l’attuale legislazione britannica oltre cento milioni di persone avrebbero diritto ad essere accolte nel Regno Unito. È opportuno sottolineare un particolare degno di nota: dal 1998, tutti i disegni di legge del governo britannico includono una sezione in cui il ministro competente certifica la compatibilità tra la legge e la Convenzione europea dei diritti umani, prendendosene la responsabilità nel caso venga giudicata incompatibile. Questo disegno di legge include invece una dichiarazione della ministra Braverman nella quale questa afferma di non essere in grado di certificare tale compatibilità con il diritto internazionale, ma che nonostante ciò il governo vuole che il Parlamento discuta il disegno di legge. D’altronde la responsabile dell’Home Office non ha mai nascosto la sua intenzione di uscire dalla EHRC (Equality and Human Rights Commission) se questa dovesse mettersi di traverso rispetto all’obiettivo del governo britannico di applicare una legislazione più severa in materia di immigrazione.

 

Il disegno di legge è stato accolto da moltissime polemiche all’interno e all’esterno di Westminster: molti membri del Partito conservatore – la più eminente l’abbiamo già citata – hanno criticato fortemente il provvedimento, che infatti nel primo passaggio nella House of Commons è stato approvato con l’astensione di oltre quaranta MPs (Members of Parliament) conservatori.

Nell’opinione pubblica ha suscitato un enorme vespaio la serie di tweet dell’ex calciatore e famosissimo commentatore sportivo della BBC Gary Lineker, che ha paragonato il linguaggio del governo nei confronti dei migranti a quello del Germania degli anni Trenta. La BBC, su pressione del governo e dei media conservatori, ha inizialmente sospeso Lineker dal partecipare al programma Match of the Day (il corrispettivo del nostro 90° minuto) per poi reintegrarlo la settimana successiva senza che dovesse chiedere scusa o accettare limitazioni a suoi futuri commenti grazie all’enorme appoggio ricevuto dalla società civile, con moltissimi suoi colleghi che, in polemica, si sono rifiutati di andare in onda in assenza di Lineker.

Paradossalmente i meno aggressivi contro il governo sono stati i laburisti, con Keir Starmer più preoccupato di apparire favorevole all’immigrazione clandestina che non di criticare la nuova linea dura del governo: si avvicinano le elezioni amministrative, il primo test elettorale per Rishi Sunak, che sta puntando quasi tutto sul tema della lotta all’immigrazione; di conseguenza, il Labour probabilmente non vuole concedere alla campagna conservatrice la polarizzazione sul tema.

Il disegno di legge deve comunque ancora attraversare numerosi passaggi parlamentari e potrebbe arrivare ad un testo finale sostanzialmente diverso da quello attuale.

 

Immagine: Migranti portati a terra dopo essere stati soccorsi in mare dall’RNLI (Royal National Lifeboat Institution) dopo aver attraversato l’Europa, Dungeness, Regno Unito (6 febbraio 2023). Crediti: Sean Aidan Calderbank / Shutterstock.com

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Il Regno Unito tra aperture e timori per la variante indiana

 

Per commentare la situazione del Regno Unito forse è utile partire dai numeri. Per comodità prendiamo la giornata di martedì 18 maggio, considerando che il trend è stato costante nelle ultime settimane: i decessi attribuiti al Covid-19 sono stati 7, i nuovi pazienti ricoverati in ospedale 116 e le persone risultate positive ad un tampone 2.412. Al momento il dato più strabiliante è quello dei tamponi effettuati: in UK infatti si viaggia ad una costante di circa un milione di tamponi al giorno. Test che vengono spesso spediti gratuitamente a casa dal governo, che infatti invita la popolazione, se necessario, ad effettuare anche due tamponi alla settimana.

A questo si aggiungono i numeri dell’imponente piano vaccinale, che ha raggiunto il 70% della popolazione con almeno la prima dose e il 40% con un ciclo vaccinale completo.

Questi numeri spiegano come mai il 17 maggio Boris Johnson abbia dato il via libera alla “fase 3” delle riaperture con un ritorno alla quasi normalità per quanto riguarda ristoranti e pub che possono effettuare servizio anche al chiuso, la riapertura di hotel, B&B e altre strutture ricettive, così come di palestre, cinema, teatri o piscine.

Rimangono restrizioni per i viaggi all’estero con la suddivisione tra Paesi inseriti in tre liste: green, amber o red. Al rientro dai Paesi nella lista green è sufficiente effettuare un tampone entro il secondo giorno dall’arrivo. Per il rientro da un Paese inserito nella amber list (in cui si trova l’Italia al momento) è necessario effettuare preventivamente un tampone e prenotare due tamponi da ricevere in Inghilterra al secondo e all’ottavo giorno dopo il rientro, ma, soprattutto, effettuare dieci giorni di autoisolamento a casa o nel luogo scelto per la propria permanenza.

Ben più complesso (e oneroso) il rientro da un Paese inserito nella red list, che prevede infatti la permanenza in un “quarantine hotel” da scegliere e prenotare tra quelli indicati dal governo britannico che, in questo modo, si garantisce uno stretto controllo su chi arrivi da Paesi considerati a forte rischio.

 

Tale lista è in queste ore fonte di polemica nei confronti del governo che, secondo le accuse dell’opposizione, avrebbe ritardato sino al 23 aprile prima di inserire l’India nella red list, dando così il tempo alla cosiddetta variante indiana di arrivare nel Regno Unito.

Certamente la variante indiana sta suscitando molta preoccupazione, in particolare nelle città di Bolton e Blackburn, dove si sono sviluppati due importanti focolai. La variante indiana pare infatti ancora più trasmissibile di quella inglese (già di per sé molto più pericolosa del virus “originale”) e ha indotto il governo ad accelerare il piano vaccinale per gli over 50 e i pazienti vulnerabili che riceveranno la seconda dose di vaccino dopo 8 settimane anziché dopo le 12 previste normalmente nel Regno Unito sia per il vaccino Pfizer/BioNTech che per AstraZeneca.

Tuttavia, al momento, pare che non vi siano preoccupazioni circa l’efficacia del vaccino anche sulla variante indiana, sebbene la diffusione di questa nuova minaccia sia bastata per indurre Boris Johnson a mettere le mani avanti annunciando pubblicamente che se la diffusione di questa variante dovesse continuare in maniera pericolosa si potrebbero rendere necessarie nuove restrizioni in zone specifiche del Paese o ‒ anche se per ora pare una possibilità remota ‒ una frenata circa la prossima (e ultima) fase di riaperture che dovrebbe avvenire il 21 giugno prossimo.

 

Il primo ministro pare in ogni caso al momento veleggiare in acque tranquille dopo un aprile piuttosto turbolento a causa di scandali che hanno coinvolto sia la sua persona che il Partito conservatore in senso lato, scandali che però non hanno impedito ai Tories di ottenere una importante vittoria alla tornata elettorale del 6 maggio scorso, in cui – se si escludono le vittorie nelle grandi città come Londra, Manchester e Liverpool – i laburisti hanno fatto registrare pesanti sconfitte a partire da quella più evocativa della suppletiva del collegio di Westminster di Hartlepool dove, cosa davvero eccezionale, il partito di governo ha strappato all’opposizione un seggio. Keir Starmer, leader laburista, ha reagito alla sconfitta in maniera forse più dura di quanto fosse ragionevole aspettarsi: avviando un “rimpasto” del governo ombra che ha suscitato forti polemiche all’interno del Labour perché ha visto una ulteriore marginalizzazione della sinistra interna in favore di una maggiore prominenza dell’ala più centrista (blairiana) del partito.

Se dunque fino a qualche mese fa la posizione di Johnson poteva sembrare estremamente precaria, il turno elettorale ha contribuito a stabilizzare il quadro politico, quantomeno per quanto riguarda Westminster e in generale l’Inghilterra. Un altro paio di maniche invece è la situazione scozzese, dove l’SNP (Scottish National Party) ha sfiorato la maggioranza assoluta nel Parlamento di Holyrood in cui, grazie ad un incremento dei parlamentari eletti dai Verdi, la maggioranza indipendentista è ora più solida di prima. Questo ha portato la first minister Nicola Sturgeon ad annunciare la richiesta, nel prossimo futuro, di un nuovo referendum per l’indipendenza scozzese che Johnson non è obbligato a concedere, ma che ugualmente verrà chiesto a gran voce e che sicuramente ci darà materiale su cui continuare a discutere nei prossimi mesi e forse anni.

 

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Immagine: Studenti di una scuola secondaria tornano a casa nel secondo giorno di riapertura dopo il blocco per il Covid-19, Londra, Regno Unito (9 marzo 2021). Crediti: Yau Ming Low / Shutterstock.com

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Il ruolo del monarca secondo re Carlo

Nel suo tributo a Elisabetta II in Parlamento, l’ex prima ministra Theresa May ha ricordato di quanto apprezzasse gli incontri settimanali con la monarca: non solo per il confronto e i consigli, ma soprattutto perché era confortata dal fatto che quella era l’unica riunione della settimana che non sarebbe stata riportata alla stampa. Nel suo lungo regno, infatti, Elisabetta aveva avuto come caposaldo proprio il fatto di voler rimanere al di fuori di qualunque polemica e presa di posizione politica, interpretando in maniera integrale (addirittura integralista) il suo ruolo di monarca costituzionale. Questo si rifletteva non solo, e ovviamente, nella mancanza di prese di posizione pubbliche, ma anche e soprattutto nel fare in modo (come ricordava la May) che dal Palazzo non trapelasse nulla. L’unica volta in cui è trapelato un certo disappunto nei confronti del governo è stato nel giugno del 2017, quando Theresa May, dopo aver indetto le elezioni politiche e aver perso la maggioranza, “costrinse” la sovrana ad aprire il Parlamento il 21 giugno, giorno del Royal Ascot, facendo perdere alla regina alcune corse dei suoi amatissimi cavalli.

 

Carlo III, assurto al trono nel momento esatto in cui l’8 settembre scorso la regina è passata a miglior vita nonostante l’incoronazione avverrà solamente nel maggio 2023, si prospetta come un regnante molto differente rispetto alla madre, anche nella sua interpretazione meno rigida del concetto di monarca costituzionale. Innanzitutto sono molto diverse le condizioni con cui è asceso al trono: se Elisabetta era una giovane pressoché sconosciuta al suo popolo, scarsamente esposta all’opinione pubblica dell’epoca e arrivata a regnare inaspettatamente presto a causa dell’improvvisa morte di re Giorgio VI a soli 56 anni, Carlo III arriva al trono da anziano, dopo una vita passata sotto i riflettori, in una sovraesposizione mediatica sconosciuta a qualunque altro monarca della storia. Nel suo ruolo di principe del Galles, Carlo ha avuto in passato un’autonomia e una libertà impensabile per la regina che (per Costituzione) deve concordare ogni sua uscita pubblica con Downing Street: una libertà che Carlo ha sfruttato appieno con prese di posizione anche nette, soprattutto su temi che adesso diventano centrali nel dibattito pubblico come la lotta ai cambiamenti climatici; ma è noto anche il suo interesse per le religioni: famose sono le sue visite al Monte Athos, luogo di culto della religione ortodossa, le sue opinioni sulla pianificazione urbanistica e le sue pubblicazioni su arte e cinematografia.

Il fatto dunque che si sappia molto bene cosa pensi Carlo su alcuni argomenti rende molto più facili le speculazioni su eventuali contrasti tra Buckingham Palace e Downing Street da parte della stampa, cosa pressoché impossibile e impensabile con Elisabetta di cui, sostanzialmente, non si sapeva l’opinione su alcun argomento se non sul fatto che amasse tantissimo il suo Regno e in particolare il Commonwealth.

E infatti con il, pur brevissimo, governo Truss non sono mancate speculazioni quando Downing Street ha annunciato la sua intenzione di rimuovere il divieto alla concessione di nuovi permessi per l’estrazione di gas tramite fracking, un metodo fortemente contrastato dai movimenti ambientalisti.

Ancora più clamoroso e visibile a tutti è stato l’atteggiamento del monarca nei confronti della premier Truss in occasione nel loro primo incontro settimanale tra re e primo ministro. Il momento storico è stato – eccezionalmente – trasmesso dalle televisioni ed è stato possibile sentire chiaramente Carlo III accogliere la prima ministra – in quelle ore fortemente indebolita dagli attacchi speculativi sulla sterlina e dal caos politico all’interno del suo partito che infatti da lì a poco l’avrebbe sfiduciata – con un «So you’ve come back again?» «Dear oh dear». Due semplici frasi che sono state interpretate da tutti come una pietra tombale alla premiership di Liz Truss con il monarca che esprimeva tutto il suo sconforto per la gestione del governo. Forse questa interpretazione è stata fin troppo ingigantita, magari re Carlo non intendeva nulla di tutto questo, ma il fatto che sia stato possibile speculare sulle sue parole è totalmente nuovo nello scenario mediatico e pubblico britannico, impensabile fino a pochi mesi fa.

La prova definitiva che le cose siano cambiate è venuta con l’avvicinarsi della COP27 in corso in questi giorni in Egitto. Re Carlo, come abbiamo detto grande attivista ambientalista per tutta la vita, avrebbe voluto volare in Egitto per prendere parte alla Conferenza. Il governo Truss, che appunto proponeva di un approccio meno “green” come parte del suo piano di rilancio dell’economia britannica, ha frustrato le intenzioni del monarca di fatto impedendogli di recarsi all’appuntamento internazionale. Ancora una volta non si poteva non immaginare, e dunque speculare, sulle reazioni del nuovo re su questa decisione e addirittura, una volta cambiato il primo ministro con l’ascesa alla premiership di Rishi Sunak, sul Times sono apparsi virgolettati di “stretti collaboratori del Re” che riferivano di un monarca che “scalpitava” per partire al punto che, sempre sul Times, Sunak ha fatto trapelare che avrebbe voluto permettere al re di recarsi in Egitto ma che ormai fosse troppo tardi per cambiare la decisione presa da Truss.

Non va sottovalutato però che in queste sue prime settimane di regno, re Carlo ha potuto godere del fatto di avere il coltello dalla parte del manico, per così dire: mentre nei suoi confronti vi è in questo momento un affetto e un nuovo entusiasmo dovuti al periodo di lutto nei confronti della scomparsa della madre e l’effetto “luna di miele” per la novità di un nuovo monarca dopo settant’anni, la sua controparte sono stati due primi ministri arrivati a Downing Street con scarsissimo se non nullo appoggio popolare, in un periodo di grande caos all’interno del Partito conservatore e con alle spalle sondaggi disastrosi. Sarà ovviamente totalmente diverso quando il primo ministro arriverà a confrontarsi con il re in seguito ad un forte mandato popolare che ovviamente darebbe una più chiara legittimità al governo rendendo molto più problematici eventuali screzi con il Palazzo. E d’altronde Elisabetta non teneva nascoste le sue opinioni per caso, ma perché le vedeva come un pericolo per l’istituzione che rappresentava: se la monarchia britannica è sopravvissuta così a lungo è perché non ha mai dimenticato la lezione del 1600, quando il re fu giustiziato per il suo tentativo di imporre la propria volontà al Parlamento. Quel re si chiamava Carlo I Stuart, motivo per cui molti pensavano che il principe del Galles avrebbe scelto di riprendere il nome del nonno e diventare Giorgio VII una volta assurto al trono.

Certamente Carlo III aspira ad un regno meno turbolento del suo sfortunato omonimo, ma per ottenerlo probabilmente dovrà in futuro esercitare più prudenza rispetto a quella dimostrata nelle sue prime settimane sul trono.

 

Immagine: Re Carlo III e la regina consorte Camilla fuori Buckingham Palace, Londra, Regno Unito (9 settembre 2022). Crediti: I T S / Shutterstock.com

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La marcia indietro obbligata di Liz Truss

In office but not in power è un’espressione britannica molto calzante per la situazione attuale di Liz Truss che si potrebbe tradurre, in carica ma non al potere. Sarebbe difficile definire in altro modo la condizione dell’attuale leader del Partito conservatore, costretta nel giro di poche settimane a rimangiarsi tutto il suo programma di governo e a licenziare il suo più fedele alleato, il cancelliere dello Scacchiere Kwasi Kwarteng. Il tutto nel, per ora vano, tentativo di rassicurare i mercati circa la stabilità finanziaria e fiscale del Regno Unito, che sta affrontando un gigantesco “attacco” da parte dei mercati che hanno accolto in maniera drammatica la manovra di bilancio varata a fine settembre dall’appena insediato governo Truss. La promessa di garantire al contempo un gigantesco taglio di tasse alle aziende e ai redditi più alti e un imponente piano di aiuti a famiglie e aziende per il caro bollette hanno fatto crollare la sterlina e costretto la Bank of England a svariate decine di miliardi di acquisti di titoli di Stato britannici per evitare che fallissero i fondi pensione e che lo Stato andasse in crisi di liquidità. Allo stesso tempo la Banca centrale britannica è stata costretta ad alzare i tassi di interesse, generando una crescita significativa dei mutui.

 

La pressione politica generata da questa situazione è diventata intollerabile per Truss, che è stata costretta a rinunciare prima all’abolizione dell’aliquota del 45% per i redditi più alti e poi anche al mantenimento dell’aumento della tassa sui profitti delle aziende: i due punti chiave della campagna per la leadership conservatrice, in cui Truss contestava a Rishi Sunak proprio l’aumento delle tasse e l’impostazione troppo regressiva della sua politica fiscale da cancelliere dello Scacchiere. Questo ha fatto insorgere non solo buona parte dell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto il gruppo parlamentare conservatore che, vale la pena ricordarlo, non aveva appoggiato a maggioranza Liz Truss ma Sunak e che ora si domanda in maniera sempre più insistente quale legittimità abbia la prima ministra adesso che la sua politica fiscale si è dimostrata così disastrosa.

In un estremo tentativo di calmare i mercati e il proprio partito la prima ministra ha incaricato Jeremy Hunt di assumere il ruolo di cancelliere dello Scacchiere. Hunt è una delle figure più autorevoli dei Tories, già ministro degli Esteri e principale oppositore di Boris Johnson nella corsa alla leadership del 2019. Come prima azione da cancelliere Hunt ha sostanzialmente annullato tutto il programma del governo: ha cancellato nei fatti tutti i tagli di tasse e ridotto da due anni a sei mesi il contributo a sostegno delle famiglie e delle imprese per il caro bollette. E non sarà questa l’ultima tappa del nuovo corso: è previsto un nuovo periodo di austerità, con tagli alla spesa pubblica per far fronte alla crisi attuale. Insomma, l’inverso di quel “crescita, crescita, crescita” proposto appena due settimane fa alla Conference dei Tories dalla leader. Questo nell’estremo tentativo di restaurare un minimo di fiducia nei confronti del governo ed evitare che la Bank of England sia costretta ad aumentare nuovamente i tassi.

Vedremo se questa disperata manovra avrà successo, altrimenti è davvero difficile che Liz Truss possa mantenere il suo incarico a Downing Street, il che sarebbe davvero paradossale considerando che è al governo da poche settimane.

 

Immagine: Liz Truss (7 ottobre 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Retromarce e divisioni alla Conference dei Tories

Si è conclusa mercoledì scorso a Birmingham la Conference annuale del Partito conservatore, un appuntamento che doveva servire a consacrare la leadership della nuova prima ministra Liz Truss e dare l’occasione a lei e al suo governo di presentare al Paese la propria visione. La Conference però è stata preceduta da giorni di enormi turbolenze finanziare per il Regno Unito, con la sterlina crollata nel suo rapporto con il dollaro a livelli mai raggiunti negli ultimi cinquant’anni e la Bank of England costretta ad acquisti d’emergenza di buoni a lunga scadenza del governo per evitare che rimanesse senza liquidità. La sfiducia dei mercati, e persino del Fondo monetario internazionale nei confronti della sterlina è stata la reazione all’“evento fiscale” – così è stato definito dalla Truss – con cui il governo ha esordito nei suoi primi giorni a Downing Street, proponendo un imponente pacchetto di intervento a favore delle famiglie e delle imprese per calmierare i prezzi delle bollette fino al 2024 e al contempo un enorme taglio delle tasse, in particolare ai più ricchi e alle imprese. Un pacchetto dal valore totale di oltre 100 miliardi di sterline che non ha convinto i mercati e, soprattutto, ha spaccato il Partito conservatore che nel frattempo è crollato nei sondaggi che ora danno il Labour – reduce da una Conference molto tranquilla – di oltre venti punti avanti rispetto ai Tories.

 

La Conference si è dunque aperta in un clima molto teso, con una parte consistente del gruppo parlamentare che chiedeva una marcia indietro su uno degli aspetti più controversi della mini manovra finanziaria di Kwasi Kwarteng, il cancelliere dello Scacchiere, e cioè l’abolizione dell’aliquota massima del 45% per i più ricchi, una scelta fatta per riportare in auge i principi thatcheriani della trickle-down economics. E lunedì, nonostante Truss fosse stata adamantina sulla difesa dell’abolizione dell’aliquota, proprio nel giorno dell’intervento di Kwarteng alla Conference, il cancelliere dello Scacchiere ha annunciato ai giornali la marcia indietro: il taglio dell’aliquota massima sta diventando una distrazione, togliamolo dal tavolo e andiamo avanti con il nostro lavoro. Questo ha gettato ancora più incertezza nella Conference e nel Partito, con i dissidenti che hanno visto il cedimento come una conferma della debolezza della nuova leadership e i più fedeli a Truss che da un lato sono arrabbiati con i dissidenti e dell’altro credono che sia stato sbagliato cedere da parte della prima ministra.

Più in generale durante la Conference è stato possibile toccare con mano lo stato di profonda divisione che attraversa ormai da anni il Partito conservatore e che la leadership di Johnson era riuscita a mascherare durante la campagna elettorale del 2019 e con la conseguente grande vittoria alle politiche. Da un lato vi è una base sempre più radicalizzata, con posizioni sempre più di destra in tema di emigrazione, economia, post-Brexit e diritti delle persone LGBTQIA+, mentre dall’altro c’è il “corpaccione” del gruppo parlamentare, che è su posizioni molto più moderate e che, infatti, non aveva sostenuto Truss in occasione della corsa alla leadership. Inoltre, vi è una fetta importante di parlamentari, eletti per la prima volta nel 2019, provenienti da zone tradizionalmente laburiste, che sanno di essere spacciati (elettoralmente) se il governo non manterrà le promesse di investimenti fatte in zone deprivate del Paese per perseguire invece un taglio delle tasse ai più ricchi e un ruolo meno interventista dello Stato in economia.

Non è dunque un caso se uno degli interventi più applauditi di questa quattro giorni conservatrice sia stato quello della ministra dell’Interno Suella Braverman, che ha dichiarato di voler riprendere quanto prima il progetto di deportare in Ruanda i richiedenti asilo in attesa che la loro richiesta venga valutata e quindi, sostanzialmente, di voler abbandonare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo così che una Corte di Strasburgo non possa sovvertire una decisione della Corte suprema britannica (come accaduto qualche mese fa di fatto, con il blocco del piano di deportazioni in Ruanda previsto dal governo Johnson).

Anche durante il – brevissimo – discorso di Liz Truss, uno dei più corti della storia per un leader di partito, i passaggi più applauditi sono stati quelli più radicali, contro i sindacati in sciopero, sul tema del blocco dell’emigrazione clandestina e contro le associazioni ambientaliste che paralizzano il Paese; un discorso interrotto inoltre da due attiviste di Greenpeace che sono riuscite ad infiltrarsi nella sala con ben due cartelli contro il fracking. L’unico elemento che sembra unire al momento il Partito conservatore è l’incondizionato appoggio nei confronti dell’Ucraina e la conseguente avversione ostentata verso Vladimir Putin. Un po’ poco per pensare di governare a lungo un Paese in fase di crisi economica, sociale e identitaria.

Liz Truss ha poco tempo per dimostrare quanto il suo piano per “mettere in movimento la Gran Bretagna” come da slogan della Conference e creare “crescita, crescita, crescita” possa davvero dare qualche risultato. La pressione interna ed esterna rischia, altrimenti, di diventare insostenibile.

 

Immagine: Liz Truss (3 agosto 2022). Crediti: ComposedPix / Shutterstock.com

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Elisabetta II, il volto di un Paese che si immaginava grande

 

Circa quattrocento anni fa, con quasi centocinquanta di vantaggio rispetto ai francesi, gli inglesi tagliavano la testa al proprio monarca, Carlo I Stuart. Chissà se mentre il re, condannato per tradimento, veniva portato al patibolo a Whitehall poteva immaginarsi o sperare che la monarchia britannica non solo sarebbe sopravvissuta così a lungo, ma con una tale popolarità da rendere nel 2022 il decesso della sovrana un momento di lutto nazionale in grado di bloccare per ore un Paese intero che, seppur ormai consapevole della sua scomparsa, restava incollato al televisore in attesa che arrivasse il comunicato ufficiale. Novantasei anni di vita di cui settanta trascorsi sul trono sono troppo lunghi e troppo complessi da poter essere analizzati in poche righe.

 

Elisabetta II ha attraversato, da protagonista o quantomeno da figura di primo piano, sostanzialmente tutti i momenti più importanti della storia contemporanea, con una saga familiare che, sin dalla sua infanzia, ha interpretato tutte le contraddizioni, i difetti ma anche le straordinarie caratteristiche del suo popolo. Elisabetta soprattutto è stata la perfetta interprete di uno spirito nazionale che non ha mai fatto veramente i conti con la propria storia. La straordinaria lunghezza del suo regno, il cui principio era indissolubilmente legato alla Seconda guerra mondiale, ha permesso ai britannici (per la verità soprattutto agli inglesi) di poter perpetrare un’immagine imperiale di loro stessi, immaginandosi ancora il regno sul quale non tramontava mai il Sole, nonostante all’indomani del 1945 l’importanza geopolitica e militare di Londra fosse ormai enormemente ridimensionata. Tuttavia, la stabilità e lo stoicismo di Elisabetta, incoronata sotto la supervisione e con i preziosi consigli, niente di meno, di Sir Winston Churchill, hanno permesso fino ad oggi ai suoi sudditi di sentirsi direttamente collegati alla potenza imperiale che dominava il mondo in epoca vittoriana.

 

Tutta la vita di Elisabetta e persino la sua morte sono state uno straordinario sfoggio di “pegeantry”, quel complesso sistema di riti, tradizioni e sfarzo che come viene spiegato magistralmente nel libro L’invenzione della tradizione, a cura di Eric Hobsbawm e Terence Ranger, sono stati un grande strumento di promozione e dunque di sopravvivenza della monarchia britannica. Una monarchia in questo molto aiutata da una politica interessata a mantenere vivo il mito dell’eccezionalismo britannico e, soprattutto, a usare la figura della popolarissima monarca come scudo di fronte a momenti difficili della storia del Paese. Come tutti sanno, ma come altrettanti sono spesso inclini a dimenticare, pur essendo il capo dello Stato, il monarca britannico ha funzioni meramente cerimoniali, non ha alcun reale potere esecutivo né tantomeno di indirizzo politico. Anzi, è Downing Street a decidere nel dettaglio ogni mossa della vita pubblica del sovrano, a partire dalle regole di successione che dal 1701 con l’Act of Settlement – emendato varie volte ma sostanzialmente ancora vigente nella sua forma quasi originale – sono stabilite in maniera chiara.

 

Eppure, per volontà stessa di una politica che da ieri è tutta stretta nel cordoglio e nel lutto, si è voluto in questi settanta anni di regno di Elisabetta mantenere un manto di potere quasi mistico attorno alla sovrana, anche attraverso una stampa tanto pronta a sfruttare ogni minuto di gossip della vita privata della famiglia reale, quanto pronta a sostenere il senso del dovere, il sacrificio della regina al servizio della nazione e, financo, le – vere o presunte – antipatie e scontri con i vari primi ministri: Elisabetta ha chiesto a ben quindici primi ministri di formare un governo in proprio nome, dal già citato Winston Churchill – eroe della Seconda guerra mondiale molto amico del padre re Giorgio VI e, pare, suo mentore in occasione dell’ascensione al trono –, passando per il riformatore Harold Wilson negli anni della Swinging London e della nomina a Baronetti dei Beatles. Dai rapporti – racconta la stampa – litigiosi con Margaret Thatcher per concludersi con gli anni burrascosi della Brexit, vicenda sulla quale la Corona è stata assolutamente silente ma che deve aver vissuto con straordinaria preoccupazione per le forti divisioni all’interno del Paese e per essere in qualche modo stata tirata in ballo durante la vicenda incresciosa della chiusura del Parlamento nel 2019: quando la Corte suprema sospese l’ordine della regina di prorogare (di fatto chiudere) il Parlamento per cinque settimane perché il “consiglio” di Boris Johnson fu giudicato illegale. Non è difficile immaginare l’irritazione della monarca per un episodio tanto spiacevole che andava proprio in netto contrasto con la volontà adamantina espressa durante tutto il suo regno di stare quanto più lontana possibile dalle vicende di politica interna della nazione, probabilmente proprio perché aveva visto come, con lo zio, volersi ritagliare un ruolo da protagonista in tal senso avrebbe potuto molto facilmente portare alla fine della monarchia stessa.

È quasi incredibile pensare come solo martedì scorso la Elisabetta fosse riuscita a compiere il rito del passaggio di consegne tra Johnson e Liz Truss, la sua terza prima ministra donna, dimostrando ancora una volta uno stoicismo notevole e forse persino una certa dose di perfidia, negando a Johnson di essere il suo ultimo prime minister: per un uomo quasi ossessionato dal mito di Churchill non poter detenere questo record deve essere stato un brutto colpo.

 

Il testimone passa ora a Carlo III che ha il difficile compito di succedere ad una sovrana amatissima e che è riuscita a interpretare per sette decenni lo spirito del tempo di un popolo che adesso certamente si sente più povero di un pezzo della propria storia.

 

Immagine: La regina Elisabetta II e il principe Filippo, Buckingham Palace, Londra (giugno 2017). Crediti: Lorna Roberts / Shutterstock.com

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L’arrivo a Downing Street di Liz Truss, nuova leader dei conservatori

 

Liz Truss oggi incontrerà la regina Elisabetta II e diverrà la nuova premier del Regno Unito. È la terza volta che i conservatori consegnano le chiavi di Downing Street ad una donna, mentre il Labour rimane l’unico grande partito britannico a non avere mai eletto una donna come proprio leader (i Lib-Dem lo hanno fatto, così come l’SNP (Scottish National Party) dominato ormai da anni da Nicola Sturgeon).

Liz Truss, come ampiamente previsto sin dal momento in cui la palla è passata dai parlamentari alla base conservatrice, ha battuto il suo contendente Rishi Sunak, con una vittoria però meno netta del previsto, fermandosi al 57% dei circa 141.000 voti validi espressi. Da quando esiste questo tipo di elezione e cioè da quando i conservatori consultano anche la base per eleggere il proprio leader (da circa vent’anni) è la leader che ha ottenuto la più bassa percentuale, e questo riflette lo stato di profonda divisione del partito: d’altronde è anche la prima volta negli ultimi vent’anni che la base sceglie un leader che abbia perso la prima fase dedicata ai parlamentari invece di confermare la scelta del proprio MP (Member of Parliament).

 

Truss arriva a Downing Street con un Paese sull’orlo di una grande crisi sociale. L’ente regolatore del mercato energetico ha annunciato un aumento delle bollette che per molte famiglie rischia di essere devastante, l’inflazione è galoppante, quasi tutti i principali settori vedono durissime dispute sindacali (scioperi dei trasporti, delle poste, dei netturbini) e l’NHS (National Health Service) è in grande sofferenza da ben prima dell’ormai consueto periodo invernale di crisi. In questi due mesi di feroce campagna elettorale la Truss ha espresso il suo credo thatcheriano per fare appello alla base conservatrice, promettendo tagli di tasse in particolare ai più ricchi, rispolverando il mito della trickle down economy tanto caro alla Lady di ferro. Tuttavia, già nelle prossime ore potrebbe essere costretta ad annunciare pacchetti di sostegni alle famiglie e alle imprese per far fronte al caro energie che potrebbero essere del livello di quelli effettuati durante la crisi del Covid, in netto contrasto al credo ideologico thatcheriano.

Ad ogni modo, se una cosa ha caratterizzato la vita politica di Liz Truss è il suo, diciamo così, pragmatismo, che le ha permesso di rimanere al governo negli ultimi dieci anni con qualunque primo ministro conservatore, cambiando anche radicalmente posizione sui principali temi in discussione (la Brexit in primis). È stata definita una “survivor” e cioè una in grado di adattarsi alla situazione, quindi non ci sarebbe da stupirsi se anche a Downing Street si comportasse in maniera simile. Intanto dovrà rapidamente formare il proprio governo e, alla luce delle profonde divisioni all’interno del suo partito, non sarà un compito facile. Il primo siluro lo ha lanciato Priti Patel, la ministra dell’Interno, che dopo poche ore dall’annuncio della vittoria di Truss ha rassegnato le dimissioni nelle mani di Boris Johnson dichiarando di voler tornare nei backbenchers. Una scelta che ha fatto anche Nadine Dorries: insieme a Patel e alla stessa Truss una delle poche ad essere rimasta leale a Boris Johnson sino alla fine.

L’unico dato sicuro circa il prossimo governo è che il cancelliere dello Scacchiere, ruolo chiave perché gestisce i cordoni della borsa, sarà Kwasi Kwarteng banchiere, alleato di Liz Truss, allievo dell’esclusivissimo college di Eton e figlio di un immigrato ghanese. Agli esteri dovrebbe finire James Cleverly e, riporta il Times, Truss potrebbe condurre il primo governo della storia britannica in cui i grandi dicasteri non saranno guidati da un maschio bianco: sarebbe, già solo questa, una legacy importantissima per la nuova premier. Sulla nuova premiership aleggia però lo “spettro” di Boris Johnson. Truss infatti ha vinto proprio per aver tenuto insieme tutti coloro che erano contrari alla manovra di palazzo, guidata da Rishi Sunak, che ha portato alla defenestrazione di Johnson. Questo dimostra che sebbene abbia passato un periodo, molto lungo, di profonda crisi, l’appeal dell’ormai ex primo ministro in alcune fasce del Paese e all’interno dei Tories è tutto fuorché tramontato e infatti molti retroscena rappresentano un Johnson niente affatto intenzionato a lasciare la politica e anzi pronto a dare battaglia per tornare ai vertici del partito. Certo al momento pare fantapolitica, ma di sicuro Truss deve darsi rapidamente da fare per sovvertire i sondaggi che al momento sono terribili per i Tories, con il Labour che veleggia a oltre il 40% con distacchi a due cifre rispetto al partito da ieri guidato da Truss. Solo recuperando rapidamente in vista delle elezioni che, ha affermato ieri la nuova leader conservatrice, saranno nel 2024, Truss può pensare di rimanere tranquilla alla leadership, altrimenti la luna di miele con il suo partito rischia di essere corta o, addirittura, non cominciare mai.

 

Immagine: Liz Truss (15 settembre 2021). Crediti: Clicksbox / Shutterstock.com

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In lotta per la conquista della leadership conservatrice

 

Per riassumere lo stato totalmente imprevedibile e volubile dell’attuale politica britannica basterebbe partire da un fatto incredibile: nella corsa alla leadership conservatrice (e dunque al ruolo di primo ministro), Boris Johnson, l’uomo della Brexit, sostiene una candidata che nel 2016 ha fatto campagna perché il Regno Unito restasse nell’Unione Europea. Mentre cercate di metabolizzare questa informazione facciamo un breve riassunto delle puntate precedenti.

Travolto dalle polemiche e soprattutto dalle dimissioni di quasi tutti i membri del proprio gabinetto, Boris Johnson è stato costretto a rassegnare le proprie dimissioni da leader del Partito conservatore, dando il via alla corsa per la successione.

Il primo a lanciare la propria campagna è stato Rishi Sunak, cancelliere dello Scacchiere di Johnson e a tutti gli effetti il grande favorito della competizione. Sunak è figlio di due emigrati hindu nati nell’Africa dell’Est a loro volta figli di immigrati dal Punjab, la provincia indiana ex colonia britannica. Ha studiato economia a Oxford dove si è laureato con il massimo dei voti per poi andare a Stanford per conseguire un MBA (Master in Business Administration). Proprio a Stanford ha conosciuto sua moglie, Akshata Murty, figlia di uno dei più ricchi uomini dell’India. Dopo gli studi Sunak entra nel mondo della finanza come consulente della Goldman Sachs e successivamente come socio di altri grandi fondi di investimento. I patrimoni combinati della coppia li rendono tra le persone più ricche del Regno Unito. Nel 2015 Sunak viene eletto parlamentare in un collegio del North Yorkshire e nel 2016 appoggia la campagna per il leave nel referendum sulla Brexit. In seguito alla caduta di Cameron, dopo aver appoggiato Theresa May, nel 2018 ottiene la sua prima promozione da frontbencher con un sottosegretariato agli enti locali. Nel 2019 appoggia la candidatura di Boris Johnson che appena arriva al governo lo promuove, nominandolo sottosegretario al tesoro. Nel febbraio del 2020, relativamente sconosciuto al grande pubblico e non in predicato di divenire uno dei grandi segretari di Stato, Sunak viene promosso a cancelliere dello Scacchiere in seguito alle dimissioni di Sajid Javid, il potente ministro conservatore che va in rotta di collisione con Johnson e Dominic Cummings sulla gestione delle finanze: Javid vuole rimanere fedele al principio dell’austerità conservatrice “tasse basse e bassa spesa pubblica”, mentre Cummings e Johnson vogliono finanziare le proprie promesse elettorali anche a costo di creare debito. L’impressione è che Sunak venga scelto perché visto come fedelissimo di Johnson e in quanto figura di secondo livello, ancora inesperto della macchina pubblica e quindi più malleabile a partire dall’accettare all’interno del proprio staff, uomini di fiducia di Cummings, cosa che si era rifiutato di fare Javid. In pochi mesi Sunak si trova a gestire però la pandemia e la creazione di un debito pubblico gigantesco per far fronte al più grosso piano di spesa pubblica dai tempi della Seconda guerra mondiale. Diventa rapidamente una delle figure più conosciute e popolari della politica britannica, anche in virtù del programma di aiuti che sostiene la stragrande maggioranza di lavoratori britannici e che permette alle famiglie di superare il momento peggiore della crisi.

Sicuramente a favore di un approccio più “aperturista” alla pandemia, Sunak si afferma sempre di più come personalità di spicco dei conservatori e, mano a mano che la popolarità di Johnson declina per gli scandali e le polemiche, i commentatori britannici iniziano ad affibbiargli il ruolo, non sempre comodo, di successore naturale dell’ex sindaco di Londra. Quella che era una volta una salda collaborazione tra i due sembra incrinarsi con l’uscita dal periodo più acuto di pandemia: Sunak riprende l’approccio classico dei conservatori britannici ed inizia a stringere i cordoni della borsa per quanto riguarda la spesa pubblica. Non è disposto ad aumentare il debito pubblico in maniera incontrollata e anzi annuncia un impopolarissimo rialzo delle tasse. Johnson, invece, vorrebbe riprendere il suo piano di spesa pubblica e investimenti in infrastrutture e, contemporaneamente, non alzare le tasse. Gli scandali delle feste a Downing Street del dicembre 2020 e della festa di compleanno di Johnson nel 2021 sembrano l’occasione perfetta per il tentativo di defenestrazione, ma, purtroppo per Sunak, il cancelliere dello Scacchiere viene raggiunto lui stesso da una multa proprio perché testimoni lo hanno visto brindare per il genetliaco del primo ministro. Insieme a questo i giornali più fedeli a Johnson e che mal sopportano il tentativo di Sunak, iniziano a indagare nella vita privata del cancelliere e vengono rese note le enormi ricchezze della famiglia, alcuni conflitti di interesse dell’azienda della moglie che fa affari anche tramite il governo britannico e soprattutto che la famiglia non avrebbe la residenza fiscale in Gran Bretagna. Questa campagna ha un effetto pesante sulla popolarità di Sunak, che per qualche mese sembra addirittura intenzionato a lasciare la politica. L’ennesimo scandalo che travolge Johnson però ridà un’occasione a Sunak che guida la rivolta interna al governo con le proprie dimissioni e lancia immediatamente, forse un po’ troppo presto per non sembrare abbondantemente orchestrata, la propria corsa alla premiership. Se dovesse farcela Sunak sarebbe il primo politico di colore a raggiungere Downing Street, una vera rivoluzione nella politica britannica che sarebbe, ancora una volta, portata a compimento dal Partito conservatore, che ha già eletto due prime ministro donne, al contrario del Labour che non è mai stato neanche guidato da una donna.

 

Ambisce invece ad essere la terza donna conservatrice a raggiungere Downing Street Liz Truss, la seconda contendente del ballottaggio all’interno degli iscritti del partito dei Tories di cui sapremo il risultato il 5 settembre. Anche lei laureata ad Oxford (nel prestigiosissimo Merton College) ha una esperienza politica più consolidata rispetto a Sunak: è in Parlamento dal 2010 e sin dal 2012 è una frontbencher conservatrice con tutti i primi ministri. Campionessa del credo del libero mercato di rito thatcheriano ha però, come dicevamo all’inizio, fatto campagna per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, salvo poi riallinearsi con la posizione del partito diventando una delle più fedeli alleate di Boris Johnson, che appena arriva al governo infatti la promuove al ruolo di ministra per il Commercio internazionale e a settembre nel 2021, con un’altra grande promozione, le affida il ministero degli Esteri. In questo anno difficile ha sempre giurato lealtà a Johnson e, infatti, è stata uno dei pochissimi membri del governo a non aver appoggiato il colpo di mano e a non dimettersi dal suo incarico. Ed è stata anche l’unica candidata alla successione di Johnson ad essere presente nel frontbench in occasione dell’addio di Johnson alla House of Commons da primo ministro.

Se Sunak è entrato nella competizione come l’uomo da battere, inizialmente Liz Truss appariva come una candidata destinata a non arrivare fino in fondo. All’interno del gruppo conservatore che non si era già schierato con Sunak sembrava esserci voglia di un volto nuovo, non legato ai governi Johnson e alle sue gaffe. Infatti, per lungo tempo Penny Mordaunt sembrava essere destinata ad arrivare “in finale” con Sunak, forte del suo volto poco legato alla vecchia gestione, il grande eloquio nei dibattiti e posizioni molto nette e controverse in particolare sul tema dei diritti delle persone trans. Tuttavia, man mano che si svolgevano le votazioni e venivano esclusi concorrenti, Liz Truss continuava a guadagnare terreno, fino ad arrivare all’ultima decisiva votazione, a scavalcare la Mordaunt e guadagnarsi il diritto a sfidare Sunak, saldamente in testa dalla prima all’ultima votazione tra gli MP (Member of Parliament) tories. Attorno a Truss, sicuramente con l’aiuto dello stesso quasi ex primo ministro, si sono radunati tutti coloro che hanno visto con fastidio il golpe attuato nei confronti del leader e soprattutto verso chi è considerato l’organizzatore del “golpe”: Rishi Sunak. Proprio questo sembra essere l’asso nella manica di Truss, che è divenuta ora la favorita della competizione perché quest’ultima si svolge all’interno di quella base conservatrice in cui Johnson nutre ancora di una grande popolarità. Se infatti Sunak ha impostato la propria campagna sul parlare alla nazione e sul presentarsi come il candidato competente, in grado di poter immediatamente prendere le redini del governo e indirizzarlo verso una politica di contenimento del debito pubblico con un approccio prudente, Liz Truss invece ha ripreso l’impostazione johnsoniana di spesa pubblica finanziata con il debito proponendo svariati miliardi di sterline in tagli di tasse e investimenti.

 

La campagna ha preso dalle prime battute toni molto accessi in particolare proprio tra Sunak e Truss. Il primo ha sottolineato come la ministra degli Esteri abbia un approccio socialista all’economia (uno dei massimi insulti che si possa fare all’interno del partito della Thatcher), spingendosi dove neppure Jeremy Corbyn aveva osato spingersi: proponendo cioè di finanziare anche la spesa corrente con il debito. Truss invece ha accusato Sunak di aver causato la recessione con il proprio approccio troppo prudente nella gestione del ministero dell’Economia, in particolare con i forti aumenti delle tasse effettuati nell’ultima legge finanziaria. Insomma una battaglia senza esclusione di colpi all’interno di un partito fortemente diviso e che sa che deve riprendersi dagli attuali disastrosi sondaggi se vuole avere un’occasione alle prossime elezioni politiche che si terranno – teoricamente – nel 2024. Per il momento l’unica certezza è che Sunak è entrato papa in questa competizione e potrebbe uscirne senza neanche più il ruolo di cardinale.

 

Immagine: Liz Truss (9 giugno 2021). Crediti: ITS / Shutterstock.com

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Boris Johnson si è dimesso. Cosa accadrà ora?

Alla fine Boris Johnson ha ceduto: davanti a Downing Street l’altro ieri pomeriggio ha annunciato che il gruppo parlamentare conservatore ha deciso di scegliere un altro leader. L’ormai ex capo dei conservatori nel suo discorso ha ricordato più volte questo aspetto: si sente sfiduciato dai suoi parlamentari, ma non da quei 14 milioni di elettori che a dicembre del 2019 gli hanno consegnato una delle più grandi maggioranze della storia dei Tories. Dopo mesi in cui Johnson sembrava destinato a cadere a causa dei continui scandali personali, cede il passo di fronte alle polemiche scatenate dai comportamenti di un suo alleato, Chris Pincher, accusato di molestie nei confronti di due giovani. Johnson ha ammesso in Parlamento di sapere di precedenti comportamenti simili da parte dell’ex capogruppo dei Tories ma che credeva che avesse cambiato stile di vita dopo essersi scusato in passato. Questa, debolissima, difesa non ha convinto il gruppo parlamentare e buona parte del governo. Oltre cinquanta, tra ministri e sottosegretari, hanno annunciato le proprie dimissioni e chiesto che Johnson facesse altrettanto. Uno stillicidio certamente coordinato, a partire dalle dimissioni quasi contemporanee di Rishi Sunak e Sajid Javid (cancelliere dello Scacchiere e ministro della Sanità) che avevano dato il via alle danze. D’altronde i backbencher avevano recentemente espresso i propri dubbi circa la leadership di Johnson votando in massa una sfiducia che, pur non essendo maggioritaria in termini di numeri, era imponente in termini politici.

Tuttavia, l’ex sindaco di Londra non lascia il ruolo di leader senza confermarsi un personaggio refrattario a rispettare le azzimate consuetudini della politica britannica. Sceglie di non dimettersi da primo ministro ma “solo” da leader del partito e anzi ha annunciato di voler rimanere a Downing Street sino a quando i Tories non avranno trovato un nuovo leader. Questo vorrebbe dire, potenzialmente, anche fino alla conference conservatrice prevista a Birmingham la prima settimana di ottobre. Una situazione ai limiti della legittimità costituzionale, soprattutto considerando che buona parte del governo sarebbe da ricostruire nelle prossime ore, pur guidato da un primo ministro ormai sfiduciato dal suo stesso gruppo. Ciononostante, dal punto di vista giuridico e costituzionale non c’è niente che obblighi Johnson alle dimissioni e tecnicamente anche un voto di sfiducia proposto dalle opposizioni potrebbe non obbligarlo a dimettersi con effetto immediato (e comunque i Tories potrebbero non votare una sfiducia al governo, perché questo comporterebbe teoricamente lo scioglimento del Parlamento, eventualità che i conservatori non possono permettersi prima di eleggere un nuovo leader).

In questa situazione molto confusa la palla passa al 1922 Committee, che riunisce i backbencher Tories e che ha adesso il compito di stabilire i tempi di elezione del successore di Johnson. Il comitato si riunirà lunedì e le prime selezioni all’interno del gruppo parlamentare potrebbero già partire la prossima settimana. In teoria il processo porta a individuare due candidati che poi andranno sottoposti al vaglio degli iscritti del partito tramite voto postale a seguito di una – breve – campagna congressuale. Verosimilmente questo processo potrebbe terminare agli inizi di settembre, se il comitato dovesse scegliere delle tempistiche molto serrate. Tuttavia, è già successo recentemente, con la successione a David Cameron, che dal gruppo parlamentare uscisse un’unica candidatura tale da rendere superfluo il passaggio tra gli iscritti e rapidissima la selezione del nuovo primo ministro: in quel caso fu scelta Theresa May.

Per il momento in molti paiono voler partecipare alla corsa per la successione, a partire dai due sopracitati Sunak e Javid, oltre ad altre personalità come Liz Truss, attualmente ministra degli Esteri. Ci sono poi altre personalità “minori”, che però hanno il vantaggio di non essere legate a doppio filo alla leadership di Johnson, come i suoi ex ministri principali, in particolare Sunak, che al momento è di gran lunga il più popolare, stando ai sondaggi recenti. Vedremo dunque come evolverà questo vero e proprio terremoto scatenatosi all’interno dei Tories, che non si sono mai veramente ripresi dalle grandi divisioni generatesi attorno al dibattito sulla Brexit e che sono prepotentemente riemerse ora che nell’opinione pubblica quel tema non ricopre più nessun interesse, rimpiazzato dalle preoccupazioni per una crisi economica fortissima e dalla quale non paiono esserci rapide vie d’uscita.

 

Immagine: Boris Johnson (aprile 2022). Crediti: Shag 7799 / Shutterstock.com

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Irlanda del Nord, il Sinn Féin diviene primo partito

Giovedì 5 maggio si sono tenute le elezioni anticipate dell’assemblea dell’Irlanda del Nord causate delle dimissioni del first minister del DUP (Democratic Unionist Party) in protesta con il governo di Westminster e in particolare per l’attuazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord contenuto nell’accordo di uscita dall’Unione Europea del Regno Unito.

Il risultato è stato storico: per la prima volta nei suoi 101 anni di storia nell’Assemblea nordirlandese il primo partito sarà un partito nazionalista, il Sinn Féin, e non un partito unionista (e cioè contrario all’unificazione con la Repubblica d’Irlanda).

Questo non avviene per un’avanzata del Sinn Féin (che rimane fermo a 27 seggi con il 29% dei voti un guadagno di appena l’1%), ma per un vero e proprio tracollo del DUP che perde circa il 7%, fermandosi al 21,3%, e 3 seggi (attestandosi a 25 e non avendo più, dunque, la maggioranza relativa) avvantaggiandosi del sistema a voto alternativo o preferenziale. Una grande avanzata è quella di Alliance, il partito moderato, non apertamente né unionista né nazionalista, che guadagna il 4,5% ma soprattutto ben 9 seggi in più passando da 8 a 17. Il TUV (Traditional Unionist Voice), partito a destra del DUP, guadagna ben 5 punti percentuali ma elegge solamente 1 parlamentare a dimostrazione che il voto unionista si è separato ma non è andato disperso.

La complicata costituzione di Stormont adesso pone più di una sfida. Analizziamone gli aspetti più cruciali. All’interno degli accordi del Venerdì Santo e per garantire un equilibrio tra le varie anime del Paese, infatti, è previsto che per formare il governo è necessario che i primi due partiti dell’Assemblea esprimano il first minister e il deputy first minister: questo prevede dunque una coabitazione tra DUP e Sinn Féin senza la quale non è possibile dare vita all’esecutivo.

Fino ad oggi però è sempre stato il DUP il primo partito, non era mai capitato che il first minister fosse del partito che è di fatto considerato il braccio politico dell’IRA. Anzi possiamo dire che il sistema istituzionale nordirlandese fosse stato studiato specificatamente perché ciò non capitasse.

E infatti la partecipazione del DUP al governo non è affatto scontata: il 13 maggio l’Assemblea verrà convocata e in quella sede i partiti dovranno esprimere le loro intenzioni. Il leader del DUP ha già dichiarato che il suo partito non nominerà propri ministri fino a quando il governo del Regno Unito non prenderà provvedimenti chiari e decisi circa il Protocollo sull’Irlanda del Nord, adducendo come motivazione dunque la stessa che ha causato le elezioni anticipate.

Grazie ad una recente modifica istituzionale l’Assemblea nazionale potrà esercitare potere legislativo per sei mesi anche in assenza della nomina di un nuovo esecutivo; alla fine di questo periodo il governo di Londra dovrà decidere se convocare nuove elezioni o proporre una soluzione per il governo.

Il risultato ha dei riscontri importanti anche alla luce dei sondaggi nella Repubblica d’Irlanda, dove il Sinn Féin è dato al primo posto dopo l’eccezionale risultato alle elezioni del 2020, sottolineando così le sempre più forti tensioni verso l’unificazione irlandese che si respirano sull’isola.

Una situazione istituzionale e politica complicata e che, speriamo, non si trasformi in tensioni politiche e sociali in un Paese in cui l’equilibrio è già di per sé molto delicato.

 

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La lunga eredità politica della guerra delle Falkland

In queste settimane si celebra il 40° anniversario della guerra delle Falkland. O Malvinas: come dice il professor Alessandro Barbero scegliere quale nome delle isole usare è già di per sé una scelta di campo.

In Gran Bretagna l’anniversario è passato in sordina, non ci sono state per ora grandi celebrazioni e non sembrano essercene in vista: forse perché con questi venti di guerra non pareva opportuno celebrare la memoria di un passato coloniale e una guerra, è vero, cominciata in risposta ad un’aggressione, ma fatta per difendere un remoto arcipelago che si trova – letteralmente – dall’altra parte del mondo.

Forse più probabilmente non si ricorda con trasporto la ricorrenza perché, come ha svelato recentemente il Times, secondo un sondaggio solo il 4% degli intervistati era in grado di rispondere correttamente alle domande su quanto avvenuto 40 anni fa, il 25% dei più giovani non aveva mai sentito parlare del conflitto, il 10% della fascia tra 18 e 34 anni pensa addirittura che siano stati i britannici a scatenare la guerra e un numero simile pensa perfino che le Falkland siano isole della Manica. Insomma un conflitto dimenticato, per delle isole remote, contro un regime traballante e molto modesto sul piano militare come quello dei generali argentini.

Eppure la guerra delle Falkland ha sicuramente avuto un peso cruciale nella storia del Regno Unito. È possibile infatti tracciare un’eredità politica e sociale di quel conflitto, che ha una importanza ben maggiore della trascurabile vittoria militare.

La storia non si fa con i se e con i ma, però non è così assurdo pensare che senza la guerra delle Falkland molto probabilmente non sarebbe nato con così grande forza il mito della Lady di ferro, al secolo Margaret Thatcher.

Allo scoppiare del conflitto, il 2 aprile del 1982, il primo ministro britannico infatti era tutto fuorché sull’orlo di una imponente vittoria elettorale. L’economia era in piena recessione, la disoccupazione alle stelle e la popolarità della leader del Partito conservatore tutt’altro che buona.

La campagna militare, gestita con inusitata fermezza dalla prima donna a Downing Street, risvegliò l’orgoglio imperiale e churchilliano del popolo britannico, in particolare di quello conservatore, che dopo anni di lento ma costante declino anche del prestigio internazionale del Regno Unito, ritrovò la fierezza della vittoria per giunta su una guerra anche e soprattutto navale.

Il rapido successo sulla giunta militare argentina permise a Thatcher di recuperare la popolarità perduta e la spaccatura avvenuta nel Labour, con la destra del partito che si unì ai Lib-Dem, fece il resto: alle elezioni del 1983 la Signora Thatcher ottenne una maggioranza schiacciante, con 149 seggi di vantaggio alla House of Commons. Uno strapotere parlamentare che permise al primo ministro di imporre la propria visione della società con una forza inaudita, a partire dall’epocale scontro con il sindacato dei minatori fino ad arrivare all’imposizione a livello globale del modello neoliberista assieme all’alleato storico Ronald Reagan.

La grande vittoria elettorale del 1983 pose le basi per il lungo “regno” conservatore che sarebbe andato oltre la stessa Thatcher, che dopo essersi riconfermata nel 1987, venne defenestrata nel 1990 senza che questo impedisse ai Tories di vincere nuovamente le elezioni nel 1992, portandoli dunque a ben diciotto gli anni consecutivi al governo. Anni in cui i Tories cambiano profondamente la struttura della società britannica, attraverso privatizzazioni, liberalizzazioni, cessioni di patrimonio pubblico e l’inseguimento dell’ideale secondo il quale “la società non esiste, esistono solo gli individui”.

La stessa Thatcher, malignamente, aveva sottolineato nel 2002 come Tony Blair (della cui vittoria si celebra in questi giorni il 25° anniversario, a proposito di ricorrenze) e cioè lo spostamento a destra del Labour, fosse il suo più grande risultato (una citazione forse apocrifa ma se non vera quantomeno verosimile), a dimostrazione di quanto l’eredità del thatcherismo sia ben più durevole dei suoi già longevi anni a Downing Street.

Tutto riconducibile alla sciocca decisione dei generali argentini di attaccare un arcipelago sperduto? Forse no, il dubbio che abbia influito pesantemente è però più che legittimo averlo ed è sicuramente una delle eredità più importanti di quel conflitto.

 

Immagine: Busto di Margaret Thatcher all’esterno della sede del governo, Stanley, Isole Falkland (31 dicembre 2018). Crediti: Birdiegal / Shutterstock.com

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I legami profondi tra gli oligarchi russi e Londra

Il governo britannico è stato incredibilmente netto nel condannare l’aggressione russa all’Ucraina, imponendo sanzioni stringenti alla Russia e a tutte le aziende russe operanti in Gran Bretagna.

Tuttavia, in queste ore diverse testate giornalistiche stanno indagando su quanto profondo fosse il legame degli oligarchi russi con l’establishment britannico. Un caso in particolare sta facendo molto discutere ed è quello dello strettissimo legame tra Boris Johnson ed Evgeny Lebedev.

Evgeny Lebedev è figlio di Alexander, una ex spia del KGB operante a Londra negli anni Ottanta e poi del FIS (Foreign Intelligence Service, il successore del KGB). Lebedev Senior diventa poi a tutti gli effetti un oligarca, diventando miliardario attraverso la proprietà della National Reserve Bank, che controllava una grossa fetta di Gazprom, Aeroflot e altre aziende militari. Evgeny ha studiato e vissuto in Inghilterra sin da piccolo e dal 2010 ha una doppia cittadinanza russa e britannica.

Dal 2009 Evgeny e Alexander entrano pesantemente nel mondo dei media britannici acquistando l’Evening Standard, trasformandolo in un giornale distribuito gratuitamente in particolare nella città di Londra e che ha un impatto importante nel dibattito pubblico britannico anche grazie alla sua grande circolazione (circa 500.000 copie al giorno).

È proprio in veste di editore di uno dei più importanti giornali di Londra (e del Regno Unito) che Boris Johnson, allora sindaco della capitale, diventa amico intimo di Evgeny Lebedev. L’attuale primo ministro diventa ospite fisso delle famose feste londinesi di Lebedev e addirittura viaggia spesso in Italia presso la sua sontuosa dimora umbra, un castello medievale nella provincia di Perugia: Palazzo Terranova.

Il Times di Londra ha rivelato che già nel 2013 l’MI6, il servizio segreto britannico, aveva espresso dubbi sui tentativi di Lebedev di approfondire i suoi legami con l’establishment londinese, al punto che uno dei dirigenti dei servizi, John Sawers, si era rifiutato di incontrare il magnate russo-britannico.

Se non ci sono prove concrete del fatto che Johnson fosse stato messo a parte di questi dubbi del MI6 già nel 2013, è noto tuttavia che Lebedev sia stato uno degli alleati (e finanziatori) chiave di tutti i passaggi politici più importanti della carriera di Boris Johnson, in particolare nella fondamentale campagna a favore del Leave in occasione del referendum della Brexit.

Il Guardian riporta addirittura che Lebedev sia stato presente alla ristrettissima cena in cui Johnson e Michael Gove presero la decisione di disobbedire a David Cameron e sostenere il Leave in aperta rottura con la leadership dei Tories.

Sia chiaro, Johnson non era il solo, tutto l’establishment britannico omaggiava periodicamente il magnate. Alle sue feste partecipavano regolarmente star del cinema e della musica, così come figure importanti del Partito laburista quali Sadiq Khan, attuale sindaco di Londra, Tony Blair e suoi ex consiglieri Peter Mandelson e Alistair Campbell.

Direttore dell’Evening Standard è diventato addirittura George Osborne, già cancelliere dello Scacchiere di David Cameron (spodestato insieme al primo ministro proprio a causa del successo della campagna del Leave) con scarsissima esperienza giornalistica.

Insomma, negli anni, grazie anche all’acquisizione di un’altra importante testata giornalista, The Indipendent, il legame di Lebedev con l’establishment britannico è divenuto profondo, anche se nessuno sembra essergli vicino come Boris Johnson, che ha continuato a frequentarlo assiduamente anche da ministro degli Esteri e, successivamente, da primo ministro.

Al punto che Johnson, una volta arrivato a Downing Street, ha immediatamente annunciato la volontà di nominare Lebedev alla House of Lords, uno dei massimi riconoscimenti che un primo ministro possa conferire. Sempre il Guardian rivela che ancora una volta i servizi di Intelligence avrebbero sconsigliato la nomina di Lebedev, alla luce dei legami del padre con il KGB e il suo ruolo poco chiaro nel regime di Putin. Tuttavia, il primo ministro ha tirato dritto e nel novembre del 2020 Lebedev è stato nominato Lord Lebedev of Hampton in the London Borough of Richmond upon Thames and of Siberia in the Russian Federation, ma, rivela il Times, da allora non è mai intervenuto in Aula né ha espresso un singolo voto.

 

Questo di Lebedev è solamente uno, sebbene forse il più clamoroso, dei tanti esempi di oligarchi russi (ma non solo) che negli ultimi trent’anni sono divenuti parte importante dell’economia britannica sfruttando le maglie larghe che regolano il mercato finanziario della City di Londra e che permettono, anzi incoraggiano, l’ingresso di importanti capitali stranieri. Capitali che poi, attraverso l’acquisizione di istituzioni storiche come le squadre di calcio o le testate giornalistiche, entrano in stretto contatto con l’establishment britannico. Un fenomeno che però in queste settimane drammatiche dimostra tutti i suoi limiti e i suoi rischi.

 

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La solitudine di Boris Johnson

Il 2022 ritrova Boris Johnson dove lo avevamo lasciato alla fine dello scorso anno, alle prese con i continui scandali attorno alle feste tenutesi nel 2020 a Downing Street. Il primo ministro non sembra riuscire a divincolarsi dal gorgo di polemiche che lo hanno travolto e che lo costringe ad una linea di difesa sempre più complicata da reggere sia sul piano dell’opinione pubblica che su quello della tenuta del suo stesso partito.

Se di primo acchito Johnson aveva rassicurato tutti che non vi era stata nessuna violazione del lockdown, in seguito ha iniziato a sostenere di aver partecipato ad eventi a Downing Street ma che era sicuro fossero eventi di lavoro e non occasioni di socializzazione (illegali al momento dei fatti per via delle regole imposte ai tutti i cittadini dallo stesso governo). Quando anche questa linea di difesa iniziava a mostrare più di una crepa Johnson ha affidato alla macchina amministrativa di Downing Street il compito di indagare sui fatti e stilare un rapporto che portasse alla luce eventuali violazioni. L’indagine è stata affidata a Sue Gray, membro di alto rango del civil service britannico. A quel punto Johnson ha chiesto ai suoi detrattori (e alla sempre più insistente fronda interna del suo partito) di attendere il rapporto di Sue Gray prima di trarre conclusioni affrettate. L’indagine del civil service però si è incrociata con quella della polizia di Londra che ha aperto una propria indagine penale, chiedendo a Sue Gray le prove raccolte nella sua indagine e allo stesso tempo di non pubblicare il proprio rapporto in forma completa prima della conclusione del lavoro della polizia.

L’attesissimo rapporto è stato dunque pubblicato in forma ridotta e con pochissimi dettagli resi di pubblico dominio. L’unica cosa che si evince dal rapporto è che nel 2020 si sono tenute a Downing Street più di dieci feste, compresa quella di compleanno del primo ministro. Tali feste sono oggetto di indagine e dunque il primo ministro è formalmente sotto investigazione da parte della polizia.

Lo scandalo ha fatto alzare la polemica interna al Partito conservatore con una sfida alla leadership di Johnson che pare sempre più imminente anche se per il momento solo quattordici MP (Member of Parliament) hanno inviato (pubblicamente) una lettera di sfiducia al proprio leader al capo del 1922 Committee, il gruppo che raccoglie i parlamentari conservatori non membri del governo. Ne servono cinquantaquattro perché si avvii formalmente la sfida alla leadership in carica.

Il “partygate” ha però azzoppato anche lo sfidante più accreditato del primo ministro, il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak che in questi mesi ha sempre cercato di presentarsi come alternativo a Johnson sia su alcune posizioni politiche (la politica economica e fiscale in primis) sia sulle prese di posizione circa le feste a Downing Street. Tuttavia, venerdì scorso il Mirror ha rilevato che la polizia sarebbe in possesso delle foto della festa di compleanno di Boris Johnson tenutasi nel giugno 2020 in cui il primo ministro è intento a brindare con una pinta di birra a fianco del proprio ministro delle Finanze, immortalato mentre sorseggia una bevanda analcolica. Questo smentisce quanto affermato da Sunak, ossia di non aver partecipato ad alcuna festa, e ne indebolisce di molto le aspirazioni nel prossimo futuro.

Che il clima attorno a Boris Johnson sia molto teso lo si capisce anche dal fatto che tutti i suoi principali collaboratori abbiano lasciato Downing Street. In una serie impressionante di dimissioni Johnson ha infatti perso: capo gabinetto, capo delle comunicazioni, responsabile del protocollo e consulente politico. Se le dimissioni delle prime tre figure non sono una grande sorpresa ma anzi erano in qualche modo previste in quanto protagoniste, più o meno indirettamente, del partygate, la sorpresa deriva dalla tempestività dell’abbandono, che quasi certamente è un tentativo di rendere meno drammatica la scelta di Munira Mirza, la consulente politica che si è dimessa in polemica con il primo ministro. Mirza è una delle più vecchie alleate e sodali di Johnson, al suo fianco da ben quattordici anni. Era giudicata “il cervello” di Boris Johnson ed era l’ideatrice di alcune delle idee politiche più di successo del primo ministro dai tempi della sua campagna per diventare sindaco di Londra. Mirza ha rassegnato le dimissioni in polemica con l’attacco effettuato da Johnson al leader laburista Keir Starmer in occasione del dibattito in Parlamento in cui veniva presentato il rapporto Sue Gray. Il primo ministro, visibilmente irritato dai pesanti attacchi del leader dell’opposizione che ne chiedeva le dimissioni, ha accusato Starmer di non aver indagato sui crimini di Jimmy Savile quando il leader laburista era a capo del Crown Prosecution Service (CPS). L’accusa, ampiamente smentita in più occasioni e da più indagini pubbliche e giornalistiche, si riferisce al caso di Jimmy Savile, DJ e figura televisiva inglese di primo piano, che solo dopo la sua morte è stato dimostrato essere artefice di un numero elevato di abusi sessuali su donne e bambini. Nel 2007 e nel 2008 quattro accuse di abusi sessuali avvenute negli anni Settanta per mano di Savile sono state oggetto di indagine da parte della polizia e nel 2009 il Crown Persecution Service, al tempo capitanato proprio da Starmer, era stato interpellato per un parere circa la sostenibilità delle accuse nei confronti di Savile. I funzionari del CPS avevano ritenuto di non procedere con il processo e un rapporto nel 2012 ha evidenziato come Starmer non ebbe ruolo alcuno nella decisione dei funzionari del CPS e che infatti furono i testimoni a non rendersi disponibili a portare la propria testimonianza in tribunale e che comunque l’indagine non era stata portata all’attenzione di Starmer.

L’attacco di Johnson ha portato per diversi giorni i media a parlare del caso Savile associato al nome del leader dell’opposizione anche se lo stesso Boris Johnson ha dovuto in parte ritrattare quanto detto, chiarendo che si riferisse al fallimento di Starmer di guidare efficientemente la macchina di cui era a capo e non di aver avuto un diretto coinvolgimento nella decisione specifica.

Ad ogni modo la perdita di Munira Mirza è stato un colpo pesante per il primo ministro che dopo Dominic Cummings perde un’altra delle figure chiave della sua ascesa al potere. Una perdita che ha suscitato in molti commentatori l’impressione che Boris Johnson sia in fase discendente e che chiunque possa se ne stia distanziando per sopravvivere politicamente alla caduta del leader che tuttavia (come la scelta di attaccare Starmer sul caso Savile dimostra), non ha nessuna intenzione di andarsene in silenzio e di sicuro lotterà fino all’ultimo per rimanere a Downing Street nella speranza che la ripresa economica – rallentata però da una fortissima inflazione schizzata al 7% –  possa far dimenticare gli scandali e che la polizia non lo ritenga colpevole di violazioni penali nella sua indagine sulle feste del 2020.

 

Immagine: Boris Johnson (29 luglio 2021). Crediti: Ilyas Tayfun Salci / Shutterstock.com

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Il difficile momento di Johnson, tra scandali e variante Omicron

 

Per sottolineare il momento difficile di Boris Johnson basterebbero le prime pagine dei giornali del 10 dicembre 2021. Il giorno prima, infatti, la moglie del primo ministro, Carrie Symonds, dava alla luce il suo secondo figlio. Una nascita al numero 10 di Downing Street viene sempre celebrata con grande risalto, un’attenzione del tutto negata al nuovo arrivato a causa degli scandali che hanno travolto Boris Johnson la scorsa settimana.

Una serie di indagini giornalistiche hanno infatti rivelato una quantità non ancora precisata di violazioni delle normative anti-Covid imposte dal governo proprio nel cuore di Downing Street, dove nel dicembre 2020, mentre il Paese veniva posto in lockdown e ai cittadini venivano vietate cene e feste di Natale, si sono tenute – è emerso – diverse feste natalizie.

Lo scoop più grosso è stato ottenuto dalla rete televisiva ITV, che ha pubblicato il video di una conferenza stampa di prova in cui Allegra Stratton, la portavoce di Johnson, intervistata da membri del suo staff scherzava su una festa tenutasi a Downing Street in violazione delle regole che proibivano in maniera assoluta incontri tra persone non conviventi. La festa in oggetto pare coinvolgesse almeno cinquanta persone, molte delle quali giornalisti, anche se non è ancora chiaro se tra i partecipanti ci fosse lo stesso inquilino di Downing Street. Quello che è certo è che il video ha scosso alle fondamenta la politica e l’opinione pubblica britanniche, al punto da costringere Boris Johnson a scusarsi in Parlamento per le parole della sua portavoce e la Stratton a dimettersi dal suo importante ruolo.

Gli scandali sulle feste natalizie sono gli ultimi di una lunga serie che sta martoriando la premiership di Johnson, che qualche settimana fa ha tentato invano di difendere un proprio alleato, Owen Paterson, sospeso dal Parlamento per aver ricoperto impropriamente l’incarico di lobbista per due grandi corporation, salvo poi dover cedere di fronte ad una House of Commons e una opinione pubblica in rivolta.

La forte messa in discussione dell’autorevolezza del primo ministro, condannato dalla commissione elettorale per violazione delle regole di finanziamento pubblico ai partiti per le donazioni ottenute per restaurare il suo appartamento a Downing Street, non potrebbe arrivare in un momento peggiore. La variante Omicron nel Regno Unito sta facendo infatti schizzare in alto i nuovi casi, al punto da indurre gli esperti ed il governo ad avviare il cosiddetto “piano b”.

Da lunedì scorso sono tornate obbligatorie le mascherine in tutti i luoghi pubblici (provvedimento sospeso da molti mesi nel Regno Unito) e tutti i lavoratori sono invitati ad operare da casa se il proprio lavoro lo permette. Da mercoledì 15 dicembre è stato introdotto l’equivalente del Green Pass per discoteche, eventi al chiuso con più di cinquemila persone ed eventi all’aperto con molto pubblico. Quest’ultimo provvedimento ha scatenato le ire di moltissimi backbenchers conservatori, ferocemente contrari all’attestato di vaccinazione, al punto che la proposta di legge è passata solo grazie al voto favorevole del Partito laburista di Keir Starmer, che ha annunciato di sostenere il provvedimento per dovere patriottico.

Non c’è da stupirsi dunque se più di un commentatore ha storto il naso di fronte alla decisione di Johnson di rivolgersi con un solenne messaggio alla nazione, domenica 12 dicembre, in cui il primo ministro annunciava che, a causa del rischio che la variante Omicron travolga l’NHS (National Health Service), è necessario accelerare il piano di distribuzione della terza dose del vaccino, portando l’obiettivo di vaccinare tutti i cittadini sopra i 18 anni entro il 31 dicembre 2021 invece che entro il 31 gennaio dell’anno prossimo. Un piano che prevede la distribuzione di circa un milione di dosi al giorno a partire dal 13 dicembre, un obiettivo quantomeno ambizioso.

Intanto nei sondaggi i Tories sono in caduta libera, con un trend che vede tutti i principali istituti demoscopici attestarli sotto il 35%, con il Labour che si sta stabilizzando attorno al 40% e, soprattutto, con la sfiducia nei confronti di Johnson che sta raggiungendo livelli record per un primo ministro in carica. Questo è il dato che sicuramente più deve preoccupare l’inquilino di Downing Street: il gruppo parlamentare Tories, storicamente, è disposto ad ingoiare molti rospi ma se c’è una cosa verso cui si è sempre dimostrato spietato è un leader che non sembri in grado di vincere le successive elezioni. E i pretendenti alla carica di Johnson non mancano, a partire dal suo cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e dal suo eterno amico/nemico Michael Gove.

 

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Regno Unito, le privazioni della Brexit

Poche cose possono riassumere la contraddittorietà della premiership di Boris Johnson come la situazione della carenza di benzina nel Regno Unito di questi giorni. Se da un lato infatti il primo ministro e suoi colleghi di Gabinetto hanno dichiarato in lungo e in largo che non ci sono problemi reali di approvvigionamento di carburante nel Paese, dall’altro da lunedì scorso e per almeno trentuno giorni, l’esercito è stato incaricato di aiutare nella distribuzione di benzina, specialmente a Londra e nel Sud dell’Inghilterra, dove un benzinaio su cinque è a secco.

Visitando Londra si può facilmente capire quale sia la situazione reale, con i distributori aperti presi d’assalto da automobilisti che creano lunghe code che congestionano il traffico già difficile della capitale. Come mi raccontava infatti un autista di autobus turistico, le strade londinesi sono diventate un incubo, specie quelle più strette nelle quali in concomitanza dei benzinai si formano code che bloccano le corsie e rendono impossibile il passaggio, in particolare quello dei mezzi più grossi. Lo stesso autista, dal forte accento esteuropeo, ha addirittura “confessato”, per essere sicuro di non rimanere senza benzina, di farsi portare da un collega autista una tanica di benzina ogni qual volta rientra dalla Polonia…

Questi racconti, che riportano alla memoria gli anni dello shock petrolifero del 1979 e le sue conseguenze sulla carenza di benzina in tutto l’Occidente, fanno il paio con la carenza di altri prodotti di largo consumo che sta colpendo il Regno Unito, che vede gli scaffali di molti supermercati vuoti o comunque con grosse difficoltà lungo la catena di distribuzione, con un rischio concreto che il prossimo Natale sia caratterizzato da seri problemi di approvvigionamento. Al punto che si inizia a evocare per la Gran Bretagna un “inverno del malcontento”, con riferimento – ancora una volta – alla fine degli anni Settanta, quando la crisi inflattiva associata ad un inverno particolarmente rigido provocò una serie di scioperi che misero in ginocchio il Paese e il governo laburista di James Callaghan che nella primavera del 1979 perse le elezioni contro la Signora Thatcher.

Non a caso in queste ore Johnson, dalla Conference del Partito conservatore, prova a calmare gli animi promettendo un aumento del salario minimo e allo stesso tempo spiegando, con l’aiuto del suo cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, che l’attuale crisi del mercato del lavoro britannica potrebbe avere un effetto positivo, obbligando le aziende ad aumentare la propria produttività creando lavori maggiormente specializzati e remunerati.

Nel frattempo 120.000 maiali rischiano di dover essere abbattuti (senza essere macellati) perché gli allevatori britannici non hanno personale a sufficienza per trasportare e macellare il proprio bestiame.

Il tratto comune, infatti, di questa crisi è proprio la carenza di manodopera a basso costo. I cosiddetti “unskilled workers” come vengono definiti dal nuovo sistema di immigrazione instaurato dal governo Johnson in seguito alla Brexit. Il nuovo modello, mutuato da quello australiano, prevede infatti un sistema a punti per poter ottenere il visto di ingresso nel Regno Unito e ai lavoratori scarsamente professionalizzati viene attribuito un punteggio basso che rende più improbabile la concessione del permesso di vivere e lavorare in Gran Bretagna. Dal 31 dicembre 2020 questo nuovo sistema si applica anche a tutti i cittadini europei che non fanno parte dell’“EU settlement scheme” e cioè precedentemente residenti nel Regno Unito. Questo evidentemente rende molto complicato per i cittadini europei lavorare e vivere in Gran Bretagna, con il risultato che molti, in particolare provenienti dall’Est Europa, abbiano deciso di abbandonare il Paese nel combinato disposto delle nuove regole post-Brexit e della crisi pandemica che ha bloccato per lunghi mesi l’economia di tutta Europa.

La categoria più colpita da questa carenza di manodopera è proprio quella degli autotrasportatori, dominata da una forte presenza di autisti esteuropei che hanno scelto di non affrontare più viaggi da e per il Regno Unito. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto le già citate difficoltà di ottenere il visto di ingresso, a cui si sommano le lunghe code ai controlli doganali che spesso bloccano per ore le merci in entrata e in uscita dal Regno Unito e che influiscono negativamente sulle condizioni di lavoro degli autisti, costretti ad aspettare fermi nel piazzale in attesa che vengano risolti i problemi burocratici causati dalle nuove complicatissime regole commerciali dell’accordo tra Unione Europea (UE) e UK. Un tema inoltre da non trascurare e che sta certamente influendo molto sulla crisi è quello salariale.

Fare l’autista di Tir a lunga percorrenza da e per il Regno Unito non è solo un lavoro molto faticoso, ma è anche estremamente sottopagato. Non a caso era un mercato del lavoro che si appoggiava pesantemente sulla manodopera a basso costo di lavoratori esteuropei che accettavano un salario più basso potendo contare però su una sterlina forte che rendeva comunque il salario accettabile in termini reali una volta convertito nella moneta del proprio Paese. Questo è il caso, ad esempio, dei lavoratori polacchi che potevano contare su un cambio molto favorevole zloty/sterline.

La Brexit ha provocato un crollo significativo del cambio sugli zloty, accompagnato da una robusta crescita dell’euro, il che ha influito in maniera significativa sul salario reale dei lavoratori polacchi che, non sorprendentemente, preferiscono dunque lavorare in Unione Europea.

Non stupisce infatti che nonostante il governo abbia offerto visti d’emergenza per autisti, pochissimi abbiano risposto all’appello, evidentemente poco interessati ad andare a lavorare nel Regno Unito.

Al momento l’opposizione britannica non sembra in grado di capitalizzare le difficoltà del governo, con un Partito laburista che pare più impegnato a regolare faide al proprio interno, con un acceso scontro tra la destra e la sinistra del partito, che a contestare l’operato di Johnson: e infatti i sondaggi non mostrano un calo dei consensi del partito del primo ministro. Sappiamo però che la società britannica non è nuova a rapidi capovolgimenti, anche violenti, in tempi di forte crisi: quindi Johnson deve sperare di risolvere in fretta questa emergenza per non incappare in un altro inverno shakespeariano.

 

Immagine: Un cartello annuncia la mancanza di carburante sul piazzale di una stazione di servizio ESSO in East Street, Warminster, Wiltshire, Regno Unito (28 settembre 2021). Crediti: Andrew Harker / Shutterstock.com

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Dalla disfatta afghana, un duro colpo anche per Londra

 

A quasi venti anni dall’inizio della guerra in Afghanistan in cui il Regno Unito – guidato dal primo ministro Tony Blair ‒ è entrato in appoggio agli Stati Uniti in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, il 29 agosto 2021 l’ultimo aereo britannico ha lasciato l’aeroporto militare di Kabul riportando in patria gli ultimi soldati rimasti sul territorio afghano.

Una ritirata disordinata, che ha prestato il fianco a numerose polemiche nei confronti della gestione tenuta da parte del governo di Boris Johnson e in generale nei confronti di queste due decadi di conflitto, costate svariati miliardi di sterline e ben 456 vittime britanniche. Sacrifici che sembrano andati in fumo in poche ore con la riconquista del potere da parte di quelli stessi Talebani che le forze britanniche erano andate a combattere ormai venti anni fa.

La polemica più grossa che si è scatenata nei confronti del governo ha riguardato proprio come l’escalation abbia colto completamente impreparati i britannici a tutti i livelli. Sebbene da più di un anno si sapesse del ritiro delle forze armate americane, i servizi di intelligence sino a poche ore dalla caduta di Kabul non sono stati in grado di prevedere un avvento così rapido dei Talebani, al punto che il ministro degli Esteri Dominic Raab, proprio mentre il governo di Kabul capitolava, si trovava in vacanza a Malta, da dove si rifiutava di rispondere al telefono persino al suo omologo afghano che voleva organizzare la fuga dei traduttori afghani che avevano collaborato con i militari britannici.

Quella dell’evacuazione degli afghani che hanno lavorato con governo ed esercito britannici è stata forse la vicenda più drammatica in questi giorni ricchi di avvenimenti tragici. Il governo infatti sul finire del 2020 aveva istituito un programma di trasferimento chiamato ARAP (Afghan Relocations and Assistance Policy) studiato proprio per lo staff afghano che si ritenesse a rischio. La procedura è accessibile solo attraverso una richiesta on-line e prevede quattro categorie di valutazione di rischio della richiesta. Come è facile intuire nelle drammatiche ore di escalation afghana migliaia di persone in condizioni diventate precarie si sono trovate nella condizione di dover accedere a questo programma e a questa procedura burocratica piuttosto farraginosa.

Quindi, sebbene Johnson abbia dichiarato che la stragrande maggioranza di quanti hanno fatto richiesta attraverso il programma ARAP sono stati evacuati, al momento non è ancora chiaro quanti di coloro che ne avrebbero avuto diritto non sono riusciti a fare domanda. Tanto più che negli ultimi giorni almeno cinquemila mail inviate al ministro della Difesa da deputati e organizzazioni umanitarie in merito a segnalazioni di situazioni di emergenza, sono rimaste inevase.

Il contingente britannico ha addirittura anticipato di due giorni l’evacuazione rispetto a quella americana, per il timore di un nuovo attentato all’aeroporto come quello avvenuto il 26 agosto e che è purtroppo costato la vita anche a tre cittadini britannici (incluso un bambino).

Il governo di Sua Maestà si è impegnato ad accogliere 20.000 rifugiati dall’Afghanistan ma solo 5.000 nel corso del 2021, lasciando aperte però molte questioni: innanzitutto sul numero esiguo di persone da accogliere e soprattutto sulle tempistiche perché è chiaro che più i Talebani prenderanno in mano le redini del governo del Paese, più difficile sarà per le persone sfuggire dal regime, specie ora che le forze occidentali hanno abbandonato il campo.

Di fronte a questa situazione drammatica Johnson e il suo governo, paradossalmente, hanno visto una opposizione più dura da parte di parlamentari conservatori che dai laburisti.

Keir Starmer, infatti, pur sottolineando la cattiva gestione dell’emergenza da parte del governo, ha difeso la ratio dell’intervento in Afghanistan voluto e mantenuto per lunghi anni dai governi laburisti di Blair e Brown, ringraziando in Parlamento – riunitosi d’emergenza il 18 agosto, in piena pausa estiva, come non avveniva dal 2013 – le forze armate per il loro prezioso lavoro che, a giudizio del leader laburista, non è stato vano.

Molto più duri invece sono stati gli MP (Member of Parliament) dei Tories, alcuni dei quali veterani della guerra in Afghanistan, che hanno apertamente accusato Johnson di aver tradito chi come loro ha combattuto una guerra costata enormi sacrifici vanificati in poche ore dai Talebani. L’ex primo ministro Theresa May ha addirittura chiesto a Johnson di non abbandonare l’Afghanistan indipendentemente dalle decisioni degli americani. Proprio in risposta a questo l’inquilino di Downing Street ha dovuto, forse involontariamente, ammettere la posizione di debolezza del Regno Unito, che non sarebbe stato in grado di mantenere la propria posizione militare sul campo senza la protezione dell’esercito e soprattutto dell’aviazione americana.

Da qui la richiesta, fatta a Biden anche durante il G7 straordinario convocato dallo stesso Johnson, di rinviare a oltre il 31 agosto il ritiro delle truppe americane, richiesta respinta al mittente con decisione dall’amministrazione americana che – ancora una volta – non si è dimostrata molto sensibile alle richieste di Londra.

Insomma, se per gli americani quello che è successo in Afghanistan è certamente portatore di un forte ridimensionamento del proprio peso geopolitico, lo è ancora più drammaticamente per il Regno Unito che dopo la Brexit appare sempre più isolato ma soprattutto a corto di opzioni senza una sponda da una Washington troppo concentrata sulle proprie emergenze interne e internazionali per occuparsi della “special relationship” con Londra.

 

Immagine: Il ricordo dei membri delle forze armate che hanno perso la vita in Afghanistan. Papaveri al Giardino della Rimembranza dell’abbazia di Westminster, Londra, Regno Unito (11 novembre 2015). Crediti: Malcolm P Chapman / Shutterstock.com

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Regno Unito, un Freedom Day amaro per Boris Johnson

 

È un Freedom Day amaro quello di Boris Johnson. Dopo tante settimane ad attendere il giorno in cui il governo britannico avrebbe eliminato tutte le restrizioni e gli obblighi (compreso quello di indossare la mascherina e mantenere le distanze al chiuso), il primo ministro passerà questo 19 luglio in quarantena presso la residenza di campagna di Chequers, costretto all’isolamento per essere venuto a contatto con un positivo al Covid: il suo ministro della Sanità Sajid Javid, risultato positivo sabato nonostante la doppia vaccinazione. Identico destino anche per Rishi Sunak, cancelliere dello Scacchiere, anche lui presente all’incontro a Downing Street.

Questa disavventura è l’ennesima tegola in una estate che si sta rivelando parecchio difficile per Boris Johnson. La tanto sperata vittoria della Nazionale inglese a Wembley avrebbe dovuto sancire la consacrazione del primo ministro, capace di rompere la maledizione che non vede i “Tre leoni” alzare una coppa dal lontano 1966, quando vinsero un contestatissimo campionato mondiale in casa con il “gol fantasma” più celebre della storia del calcio, con grande gioia del laburista Harold Wilson che consegnò la coppa alla Nazionale inglese.

La settimana di festeggiamenti avrebbe appunto dovuto condurre al Freedom Day di oggi, sebbene alcuni sindaci come quelli di Londra e Manchester rimangano fermi nella loro intenzione di far rispettare l’obbligo di mascherina quantomeno sui mezzi pubblici, così come accadrà in Galles.

La finale, come sappiamo bene, non è andata nella maniera sperata e Johnson e il suo governo hanno anche subito pesanti critiche circa gli abusi a sfondo razziale patiti dai tre giocatori di colore (Rashford, Sancho e Saka) che hanno sbagliato i rigori decisivi contro gli azzurri. Ad inizio torneo, infatti, la Nazionale inglese era stata fischiata dai suoi stessi tifosi per la decisione di inginocchiarsi ad inizio partita per testimoniare la propria adesione alla campagna Black lives matter e sia Boris Johnson che Priti Patel, la ministra dell’Interno, avevano usato frasi sibilline circa i fischi alla Nazionale e addirittura avevano criticato la squadra per aver scelto di fare “gesture politics”. Di fronte alla violenza on-line scatenatasi nei confronti dei tre giocatori della Nazionale subito dopo la finale di Wembley, le parole di condanna di Johnson e Patel sono dunque risultate poco credibili sia agli occhi di molti commentatori sia addirittura di alcuni membri della Nazionale, come il giocatore Tyrone Mings che ha apertamente criticato il governo per essere in parte responsabile del clima che ha portato ai gesti razzisti.

Se si esclude la parentesi del sogno europeo, le ultime settimane sono state molto difficili per Boris Johnson, che ha dovuto subire un pesante scandalo attorno al suo (ex) ministro della Sanità Matt Hancock nel pieno della nuova ondata di contagi che sta attraversando il Regno Unito. A fine giugno, infatti, la testata scandalista The Sun (roccaforte della destra conservatrice) ha pubblicato foto e video imbarazzanti di Hancock impegnato in scambi amorosi con un membro del suo staff, Gina Coladangelo. La relazione extraconiugale tra i due ha sollevato scandalo politico per il ruolo di consulente svolto dalla Colandangelo all’interno del ministero della Sanità e soprattutto perché, nel momento in cui sono state scattate le foto, vigeva un ferreo divieto di avere contatti con persone che non appartenessero al proprio nucleo familiare. La somma di queste polemiche, nonostante l’iniziale difesa da parte del primo ministro, ha portato Hancock a dare le dimissioni e al ritorno nel governo del sopra citato Sajid Javid, già ministro sotto Cameron, May e lo stesso Johnson, dimessosi in polemica a fine 2019 per i suoi scontri con l’allora consigliere del primo ministro, Dominic Cummings. Per uno scherzo del destino Javid è un grande sostenitore delle riaperture e del ritorno alla normalità, un appuntamento per lui purtroppo rimandato vista la sua positività anche se con lievi sintomi.

Lo scandalo di Hancock ha certamente influito sull’andamento dell’elezione suppletiva di Batley and Spen, collegio dello West Yorkshire tradizionalmente laburista ma che, esattamente come Hartlepool qualche settimana prima, rischiava fortemente di passare ai Tories. La sconfitta avrebbe certamente significato la fine della leadership laburista per Keir Starmer, ma la candidata Kim Leadbeater è riuscita a conquistare il seggio anche se per soli 300 voti (con una perdita di voti importante per il Labour sia in termini assoluti che percentuali, con un problema rilevante nella comunità musulmana, che ha disertato le urne in un collegio in cui storicamente ha sempre sostenuto i laburisti). La Leadbeater è la sorella di Jo Cox, la parlamentare laburista assassinata da un fanatico di estrema destra mentre faceva campagna per il referendum sulla Brexit proprio nel suo collegio di Batley and Spen.

Insomma, un inizio estate burrascoso e di speranze infrante quello di Boris Johnson che dunque, non a caso, sta cercando di andare avanti a spron battuto verso il ritorno alla normalità nonostante i nuovi casi da Covid-19 nel Regno Unito siano in fortissimo aumento (oltre 50.000 al giorno nelle ultime rilevazioni, come non se ne registravano da gennaio) con le previsioni dello stesso Javid che vedono plausibile per i prossimi giorni il raggiungimento di quota 100.000 nuovi casi al giorno. Per fortuna le ospedalizzazioni – grazie ai vaccini – non stanno seguendo la curva dei contagi, anche se pure questo dato si sta muovendo lentamente verso l’alto con l’NHS (National Health Service) che rischia di andare nelle prossime settimane in difficoltà anche a causa della quarantena imposta a un numero crescente di suoi operatori che, inevitabilmente, con un aumento così importante dei casi, hanno contatti diretti con i nuovi positivi, così come centinaia di migliaia di cittadini britannici che in queste ore stanno ricevendo segnalazioni di contatto (e dunque obbligo di quarantena) da parte dell’app dell’NHS.

Tutto questo non ha fermato Johnson dal confermare le riaperture per oggi e, giovedì scorso, tentare di spostare il dibattito politico dall’emergenza Covid ad un altro punto dell’agenda di governo.

Da Coventry, sul finire della scorsa settimana Boris Johnson ha tenuto un lungo discorso programmatico sul tema del “Levelling Up” e cioè su livellamento verso l’alto della condizione economica e sociale delle aree più arretrate del Paese (in particolare il Nord-Est inglese e alcune aree rurali), un tema endemico in UK come lo è la questione meridionale nel nostro Paese e sul quale si sono confrontati – quasi sempre fallendo – quasi tutti i governi britannici del secondo dopoguerra.

Il “Levelling Up” era da tempo uno degli slogan preferiti di Boris Johnson, dietro al quale però tutti i commentatori avevano visto poca sostanza e poche politiche concrete. Il discorso di giovedì non ha di certo dissipato le critiche, non delineando politiche chiare e rimandando tutto ad un disegno di legge che verrà presentato fra qualche mese. Genericamente Johnson ha parlato di una maggiore devoluzione verso gli enti locali, ma senza dare particolari dettagli. Il discorso non è stato dunque accolto con particolare entusiasmo, in un clima in cui l’attenzione rimane rivolta alla giornata di oggi, nella speranza che la libertà garantita dal governo non duri per poco e che a molti cittadini inglesi – così come al primo ministro – non capiti in sorte, insieme alla riapertura definitiva, anche una notifica della app dell’NHS che li inviti all’isolamento.

 

Immagine: Boris Johnson (28 maggio 2021). Crediti: Ilyas Tayfun Salci / Shutterstock.com

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Quale legame tra la Brexit e la variante indiana in UK?

 

Pressato sugli strascichi della Brexit durante le conferenze stampa in occasione del G7 tenutosi la scorsa settimana in Cornovaglia, il primo ministro britannico – colorito come al solito – ha cercato di mettere a tacere la questione dichiarando che quell’argomento ormai fosse stato risolto ed esaurito: «we sucked that lemon dry» è stata la dichiarazione “ufficiale” dell’inquilino del n. 10 di Downing Street.

Come spesso accade con Johnson però, la realtà è un po’ diversa dalla narrazione. L’onda lunga della Brexit è infatti tutto fuorché esaurita. Lo abbiamo visto durante il G7, dominato dalle polemiche sul protocollo sull’Irlanda del Nord, che non solo ha creato tensioni con i capi di Stato e governo europei, ma addirittura con lo stesso Joe Biden, irlandese di origine e dunque interessatissimo al mantenimento della pace sull’isola.

Il governo britannico ritiene il protocollo sull’Irlanda del Nord (e più in generale l’accordo commerciale con l’Unione Europea (UE) siglato dopo la Brexit e recentemente entrato in vigore) più come una traccia per ulteriori trattative che un documento definitivo, mentre l’UE lo giudica un documento legale vincolante ed immediatamente applicabile in tutte le sue parti.

E i nodi stanno arrivando al pettine con il termine del cosiddetto grace period, un periodo di transizione prima dell’entrata in vigore del protocollo e dunque dei controlli doganali tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito.

Ma, senza eccedere in dietrologia, si può dire che l’onda lunga della Brexit è più o meno direttamente responsabile anche dell’insorgere della variante Delta (anche conosciuta come variante indiana) nel Regno Unito, arrivo che ha causato un aumento esponenziale delle nuove infezioni al punto di costringere Johnson a rinviare di un mese (dal 21 giugno al 19 luglio) le riaperture definitive in tutto il Paese.

Bisogna infatti tornare ai primi giorni di aprile, quando in India infuriava una feroce ondata di infezioni che stava mettendo il colosso asiatico in ginocchio, con un livello di contagi giornalieri cinquanta volte più alto rispetto a quello del Regno Unito. Eppure fino al 19 aprile il governo non decise di inserire l’India nella lista rossa, quella con le più severe restrizioni circa i viaggi da e verso un Paese straniero. Perché, nonostante gli esperti lo chiedessero a gran voce, Downing Street è stata così lenta nel prevedere misure restrittive per i viaggiatori in arrivo dall’India?

Non è difficile pensare che il ritardo sia stato dovuto alla volontà di non fare uno sgarbo istituzionale al colosso commerciale con il quale il governo di Sua Maestà stava siglando un importante trattato commerciale, il primo grande accordo commerciale nell’era post-Brexit. Un accordo talmente importante che ancora all’alba del 17 aprile, nonostante la situazione drammatica in India, Johnson assicurava che il suo viaggio diplomatico (il suo primo da primo ministro) a Mumbai si sarebbe svolto regolarmente.

Non è infatti sicuramente un caso che il 19 aprile arrivino in contemporanea la decisione di annullare il viaggio in India e quella di inserirla nella red list, quella che prevede per i viaggiatori in arrivo un periodo di quarantena da svolgersi in strutture predisposte dallo Stato britannico.

Una decisione però tardiva: attraverso le decine di voli diretti provenienti dall’India la variante dominante in quel Paese, divenuta poi nota come variante Delta, era ormai arrivata generando focolai importanti nel Regno Unito, diffondendosi in maniera esponenziale e causando un aumento consistente delle nuove infezioni.

L’accordo commerciale tra UK e India è stato poi finalizzato attraverso un incontro da remoto, ma a quale costo?

Fortunatamente per Downing Street (e in generale per tutti noi) il vaccino sembra essere efficace anche sulla variante Delta, permettendo – per citare lo stesso Johnson – di indebolire il legame tra infezioni e ospedalizzazioni. Un legame che, ha aggiunto sempre il premier, non è ancora del tutto reciso, soprattutto perché larghe parti della popolazione non hanno ad oggi ricevuto la seconda dose del vaccino.

Da qui la decisione di rallentare di un mese il piano di riaperture in modo di dare tempo all’NHS (National Health Service) di raggiungere almeno due terzi della popolazione con una copertura vaccinale completa.

L’estrema attenzione di Johnson alla diffusione del vaccino è comprensibile: se in qualche modo il primo ministro è sopravvissuto politicamente a due drammatiche ondate di infezioni e morti da Coronavirus, difficilmente sopravvivrebbe ad una terza causata (un sospetto più che fondato come abbiamo rilevato) da una diretta scelta politica del governo.

 

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Immagine: Boris Johnson, Londra, Regno Unito (20 maggio 2021). Crediti: Ilyas Tayfun Salci / Shutterstock.com

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Sull’onda della Brexit riprendono le violenze in Irlanda del Nord

 

Come era purtroppo prevedibile, il nuovo status dell’Irlanda del Nord in seguito agli accordi della Brexit ha causato un riaccendersi della violenza in quella già martoriata regione delle Isole Britanniche. Il protocollo per l’Irlanda del Nord siglato tra Unione Europea e Regno Unito prevede infatti la permanenza dell’Irlanda del Nord nel mercato unico e l’istituzione di un confine di fatto con il resto del Regno Unito, questo per impedire l’istituzione di un “hard border” con la Repubblica di Irlanda e proprio per evitare di riaccendere tensioni che hanno generato decenni di violenza e che si sono spente solo grazie agli Accordi del venerdì santo firmati il venerdì di Pasqua del 1997.

Proprio in occasione della ricorrenza della firma degli accordi nella zona di Londonderry però sono iniziate violenze quando il 29 marzo scorso una manifestazione per la permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito è sfociata nel lancio di una bottiglia incendiaria contro una vettura della polizia. Nei giorni seguenti la violenza si è allargata nelle città di Carrickfergus, Ballymena, Newtownabbey e soprattutto di Belfast, dove nella notte di mercoledì scorso gli scontri si sono concentrati lungo la “peace line”, la linea che divide la parte cattolica della città da quella protestante. La violenza ha coinvolto anche giornalisti e polizia, fino ad arrivare al sequestro e all’incendio di un autobus di linea.

Anche se formalmente gli atti di violenza non sono stati “rivendicati” da nessuna organizzazione, gli analisti attribuiscono la violenza quantomeno alla compiacenza dei gruppi paramilitari “lealisti” (e cioè protestanti che si oppongono all’unificazione dell’Irlanda del Nord alla Repubblica di Irlanda), in particolare l’UDA (Ulster Defence Association) e UVF (Ulster Volunteer Force).

La violenza si è arrestata solo in seguito alla morte del principe Filippo, che ha fermato le campagne elettorali, l’attività del governo e del Parlamento, e – pare – appunto anche gli atti di violenza in Irlanda del Nord.

I fatti della scorsa settimana hanno visto la condanna unanime di tutti i partiti britannici e irlandesi, con appelli al dialogo da parte di Boris Johnson, Micheál Martin taoiseach dell’Eire e anche di Arlene Foster, first minister dell’Irlanda del Nord e leader del DUP (Democratic Unionist Party), il partito lealista nordirlandese.

Tuttavia, non ci si illude che le tensioni non riprenderanno proprio perché le frange più estreme dei lealisti continueranno ad utilizzare il tema della Brexit per gettare benzina sul fuoco e riaccendere la violenza nella regione, con una escalation che si teme potrebbe avere il suo apice nel mese di luglio, quando si tengono le tradizionali manifestazioni “orangiste” che spesso portano a scontri violenti.

Per il momento il fronte della cosiddetta “new IRA” non ha risposto alle violenze, ma anche qui, se gli scontri e le violenze per mano delle organizzazioni paramilitari lealiste dovessero continuare, non si può escludere una escalation anche in questo senso.

Insomma, la situazione nordirlandese è una polveriera, specie con i governi di Londra e Dublino impegnati anima e corpo nel gestire la pandemia e senza un intervento autorevole che sia in grado di risolvere rapidamente la situazione rischiamo di veder tornare violenze in una regione che, tra alti e bassi, dal 1997 era tornata alla tranquillità dopo decenni di violenza e migliaia di morti.

 

Immagine: La People's Vote March, manifestazione per chiedere un secondo referendum sulla Brexit, Londra, Regno Unito  (20 ottobre 2018). Crediti: Gina Power / Shutterstock.com

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La via inglese (con cambio di paradigma) al post-pandemia

 

Mercoledì 3 marzo il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak ha presentato il “Budget 2021”, la legge finanziaria. Un documento molto atteso perché arriva in un momento cruciale per la società britannica: il governo ha infatti negli scorsi giorni tracciato il “lento ma irreversibile” processo di uscita dall’emergenza sanitaria. Dopo più di tre mesi di lockdown totale, dall’8 marzo, lentamente, le restrizioni diminuiranno gradualmente fino ad essere, se tutto procederà secondo le previsioni, del tutto eliminate nella seconda metà di giugno. Questo grazie, appunto, al rigidissimo lockdown instaurato prima di Natale e all’impressionante campagna vaccinale che ha raggiunto ormai quasi un terzo della popolazione con almeno una dose di vaccino.

Il documento di programmazione economica e finanziaria presentato da Sunak ha dunque il compito di indicare la strada che intende percorrere il governo per gestire il post-pandemia.

Quello che è stato portato alla House of Commons è un documento per certi aspetti dirompente, sorprendente, che rischia di cambiare in maniera sostanziale il panorama politico britannico per i prossimi anni.

Contrariamente a quanto molti si aspettavano vista la formazione “thatcheriana” di Sunak e di molti del Gabinetto di Johnson, il Budget 2021 non reagisce alla crisi così come fece il governo Cameron nel 2010 in occasione della crisi finanziaria: non taglia le spese e contemporaneamente le tasse, anzi esattamente l’opposto.

Il Chancellor of the Exchequer ha infatti prorogato tutto il piano di sussidi a lavoratori dipendenti (con un sistema di cassa integrazione all’80%), lavoratori autonomi (con un allargamento ad una platea di 600.000 lavoratori in più), disoccupati e aziende fino a settembre ed ha addirittura previsto un aumento – seppure minimo – del salario minimo garantito a livello nazionale.

Tutto questo in un quadro finanziario assolutamente eccezionale, specie per un governo conservatore: nel 2020 infatti l’economia britannica si è contratta del 10% con la previsione (attraverso una crescita del 4% nel 2021 e del 7.4% nel 2022) di ritornare a livelli pre-Covid solo nella seconda metà del prossimo anno. Sebbene le previsioni sulla disoccupazione siano meno drammatiche di quanto detto inizialmente, oltre 700.000 lavoratori hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi, con una disoccupazione che per l’anno prossimo è previsto raggiunga il picco del 6.5% (al contrario dell’11.9% temuto).

Il livello di indebitamento del governo è senza precedenti in tempi di pace, con 335 miliardi di sterline prese a debito nel 2020 e ulteriori 234 previsti nel biennio 2021-22.

In questo quadro, come dicevamo, ci si sarebbe aspettati un approccio più “classico” da Sunak, con un mix di tagli alla spesa importanti e di un tentativo di stimolo all’economia attraverso la riduzione delle tasse ad aziende e cittadini. Sunak invece ha proposto – non prima di aver preso un lungo respiro e un grosso bicchiere d’acqua – un aumento della Corporation Tax, la tassa sui profitti netti delle aziende che passa dal 19% al 25%. Per dare un’idea di quanto eterodossa sia questa proposta per i Conservatori, occorre tenere presente che il Manifesto del Partito laburista del 2019, un documento considerato quanto di più radicale comparso sulla scena politica britannica negli ultimi decenni, prevedeva un aumento della Corporation Tax al 26%.

Ma l’aumento delle tasse prospettato dal governo non si ferma a quello previsto per le aziende: attraverso un sistema di congelamento degli scaglioni di reddito personale, si prevede per i prossimi anni fiscali un aumento anche delle tasse sul reddito dei singoli cittadini.

Come dicevamo prima, un enorme cambio di paradigma rispetto alle linee che hanno marcato la politica britannica dal 2010 sino al 3 marzo 2021, un periodo in cui i governi conservatori a guida Cameron e May hanno fatto della “responsabilità fiscale” e dell’austerità un punto quasi dogmatico, attaccando sistematicamente come irresponsabile e intollerabile l’approccio laburista di indebitamento, tassazione e spesa incontrollata.

Il clima è divenuto quasi surreale quando, in tutta risposta, il Partito laburista, per voce del suo leader Keir Starmer e della cancelliera ombra Anneliese Dodds, si è detto contrario ad un aumento della tassazione, invertendo completamente i ruoli storicamente “recitati” su questo argomento. Il Labour sostiene infatti che non sia questo il momento di aumentare le tasse con aziende e cittadini che stanno affrontando una situazione drammatica dal punto di vista economico. Una linea però che sembra essere del tutto contraria al sentire comune: tantissimi sondaggi in queste ore rappresentano un estremo favore dei cittadini britannici per un aumento della tassa sulle aziende con, secondo l’ultimo sondaggio di YouGov, addirittura il 73% degli elettori laburisti favorevole a un tale aumento.

Questo cambio di paradigma rischia di avere un effetto esplosivo sulle elezioni locali che si terranno nel prossimo maggio. Se fino a qualche mese fa Johnson sembrava indirizzato verso una sconfitta pesante, ora invece pare – anche in virtù di questo Budget 2021 – che il governo veleggi verso un vero e proprio trionfo con un Labour, alla prima prova elettorale per il nuovo leader eletto esattamente un anno fa, che rischia di subire una sconfitta molto pesante.

 

Immagine: Rishi Sunak lascia il n. 11 di Downing Street con la “cassetta rossa” prima di presentare il bilancio alla Camera dei Comuni, Londra, Regno Unito (3 marzo 2021). Crediti: Ilyas Tayfun Salci / Shutterstock.com

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Le ragioni della rinnovata popolarità di Johnson

Analizzando i dati drammatici dell’andamento della pandemia nel Regno Unito ci si aspetterebbe una leadership in ginocchio e un governo fortemente contestato dall’opinione pubblica.

Le cifre sono infatti impietose: al 7 febbraio le morti accertate per Covid-19 sono 112.465 e di fatto sia in termini di contagio che di decessi il Regno Unito è entrato nella seconda ondata a inizio ottobre senza mai uscirne e anzi subendo a fine dicembre un’impennata drammatica che ha messo in ginocchio l’NHS (National Health Service). Dalla fine di dicembre Johnson ha istituito un lockdown che durerà almeno sino alla fine di febbraio con le scuole che, il governo spera, non riapriranno prima dell’8 marzo, con i contagi che stanno scendendo insieme ai decessi, ma che sono ancora vicini a quelli dei picchi più alti della prima ondata. Anche in termini economici il Regno Unito è il fanalino di coda dei grandi Paesi occidentali, con una perdita di PIL di oltre l’11% nel 2020 e una contrazione economica che non si registrava da trecento anni.

 

Il governo di Sua Maestà sembra dunque arrivato in ritardo o in maniera inefficace in quasi ogni passaggio della gestione della pandemia, eppure da tutti i sondaggi il Partito conservatore è dato saldamente in testa rispetto al Partito laburista che non solo rimane quasi sempre distante quattro o cinque punti dai Tories, ma che non accenna a nessun recupero nel prossimo futuro. Al punto che i laburisti hanno già iniziato a mandare messaggi allarmati in vista delle elezioni locali, previste per il prossimo maggio dopo il rinvio dello scorso anno, dove il partito di Starmer (anche nel tentativo di controllare lo spin mediatico) si aspetta che il governo registri addirittura un effetto “rimbalzo” nelle urne. Come è possibile che Johnson sia tornato così popolare nonostante gli scandali che si sono susseguiti in questi mesi e le decine di migliaia di morti?

 

Al centro della tenuta del consenso di Johnson c’è certamente quello che al momento sembra il clamoroso successo della campagna vaccinale: il Regno Unito ha infatti potuto cominciare prima dell’Europa a distribuire il vaccino Pfizer e, soprattutto, quello AstraZeneca, realizzato dall’Università di Oxford. Al momento sono oltre 12 milioni i cittadini britannici che hanno ricevuto la prima dose di vaccino, grazie anche ad un accordo con AstraZeneca che ha consegnato regolarmente nel Regno Unito, scatenando le ire dell’Unione Europea (UE) che invece ha visto fermare le consegne da parte della casa farmaceutica che ha sviluppato la formula di concerto con Oxford.


E qui c’è probabilmente un altro dei motivi della popolarità di Johnson: proprio in polemica sulla distribuzione dei vaccini AstraZeneca, l’Unione Europea ha minacciato di bloccare le esportazioni di dosi dei vaccini nell’Irlanda del Nord chiedendo l’applicazione dell’art. 16 del Protocollo firmato in occasione della Brexit. Dal punto di vista di Bruxelles c’era il rischio che l’Irlanda del Nord venisse usata come “porta di servizio” per importare nel Regno Unito dosi provenienti dall’Unione Europea. Il solo paventare un’azione del genere da parte dell’Unione ha ingenerato una pesantissima reazione da parte dell’opinione pubblica britannica e irlandese. In poche ore è avvenuto l’impensabile: dichiarazioni di condanna all’UE sono arrivate ovviamente dal governo britannico, ma anche da quello irlandese e, addirittura, dall’arcivescovo di Canterbury che ha definito la scelta dell’Unione un attacco alle proprie «basi etiche». In un momento a suo modo storico l’Unione è addirittura riuscita a mettere d’accordo tutto l’arco costituzionale nordirlandese, con – cosa più unica che rara – tutti i partiti, dallo Sinn Fein agli unionisti, unanimi nel condannare la mossa di Bruxelles. La Commissione europea ha in fretta fatto marcia indietro sull’art. 16, consegnando a Johnson una vittoria clamorosa, quantomeno di fronte alla propria opinione pubblica.

 

Non è però tutto oro quello che luccica, ci sono infatti alcuni elementi che spingono a porsi qualche domanda sul futuro prossimo del Regno Unito. In primis c’è il tema dell’entrata in vigore della Brexit: i primi dati circa le esportazioni verso l’Unione sono per Londra preoccupanti, con una diminuzione del 68% nel mese di gennaio 2021 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Certo i dati sono influenzati dalla pandemia, ma questo non basta per evitare che le aziende britanniche si allarmino circa gli effetti nel breve e medio periodo. Anche la campagna vaccinale presenta dei punti interrogativi. Sebbene il numero di vaccini distribuiti per la prima dose sia impressionante, solo 550.000 britannici hanno ricevuto la dose di richiamo. Questo perché il governo ha deciso di puntare sulla distribuzione della prima dose e ritardare il richiamo fino a 12 settimane nonostante non ci siano dati certi sull’effettiva efficacia di questo metodo. L’Università di Oxford ha pubblicato un primo studio che parrebbe corroborare la strategia del governo britannico, ma – per ora – non sono dati definitivi. Al momento l’unico elemento certo è che la sperimentazione non è stata effettuata per una somministrazione delle dosi così distanti l’una dall’altra. Inoltre, a questo si aggiunge il fatto che, come è noto, l’EMA ha sconsigliato l’utilizzo del vaccino AstraZeneca nella popolazione over 55, mentre nel Regno Unito il vaccino è stato distribuito a tutte le fasce d’età a partire proprio dai più anziani. Occorre dunque attendere per capire se “l’azzardo” di Johnson e dei suoi consulenti pagherà.

Se così dovesse essere certamente il Regno Unito sarà uno dei primi Paesi ad uscire dall’emergenza sanitaria in virtù dei numeri straordinari che si stanno facendo segnare in queste settimane in termini di vaccini e questo non potrà che soffiare ulteriore vento nelle vele del primo ministro, che solo prima di Natale sembrava destinato ad un inesorabile calo di popolarità.

 

Immagine: Boris Johnson poco prima di volare a Bruxelles per i colloqui commerciali sulla Brexit, Londra, Regno Unito (9 dicembre 2020). Crediti: Ilyas Tayfun Salci / Shutterstock.com

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Brexit, cosa prevede l’Accordo di Natale

Il 24 dicembre si è celebrato quello che in Gran Bretagna è stato definito il “Brexmas”, l’ennesima crasi tra Brexit e Christmas. Il tanto discusso e atteso accordo tra Regno Unito (UK) ed Unione Europea (UE) è finalmente arrivato proprio alla vigilia di Natale, quando la presidente della Commissione europea e il primo ministro britannico hanno tenuto due conferenze stampa separate per annunciare il “Deal” con toni tanto trionfali quanto diametralmente opposti. Ma su questo torneremo fra qualche riga, intanto chiariamo meglio le tempistiche del nuovo trattato di libero scambio tra UE e UK.

La prima cosa che è importante sottolineare è che il trattato non è ancora formalmente ratificato. Né von der LeyenJohnson avevano infatti l’autorità di firmare l’intesa: per quanto riguarda il lato europeo è necessario il sì formale (all’unanimità) del Consiglio europeo formato dai 27 capi di Stato e di governo (che a loro volta devono avere il nulla osta dai rispettivi Parlamenti in base alle Costituzioni degli Stati membri). Questo dovrebbe avvenire entro il 1° gennaio, solo a quel punto l’UE firmerà il trattato che però prima di essere ufficialmente ratificato deve passare il vaglio del Parlamento europeo. Solo in seguito a questa ulteriore approvazione il Consiglio europeo potrà ratificare in via definitiva l’accordo. Dal lato britannico invece l’accordo deve ottenere il sì della House of Commons, che è riunita in seduta straordinaria il 30 dicembre proprio per discutere e votare sul “Deal”.

Se questo ultimo passaggio sembra una mera formalità vista la grande maggioranza di cui gode Boris Johnson – a cui si aggiunge il voto favorevole da parte del Labour annunciato dal leader Keir Starmer – l’iter di approvazione da parte dei singoli Stati membri e del Parlamento europeo potrebbe essere leggermente più accidentato anche se al momento non ci sono notizie di problemi in vista. Ad ogni modo, proprio alla luce di questi passaggi da espletare, l’accordo per il momento entra in vigore solo in via provvisoria sino al 28 febbraio 2021, data entro la quale dovrebbe avere ottenuto tutti i sì necessari.

Tornando invece alle conferenze stampa, come dicevamo avevano toni trionfali per ragioni opposte. Se Johnson ha esultato annunciando di aver portato a compimento il percorso iniziato con il referendum del 2016, avendo riconquistato per il proprio Paese la totale sovranità, von der Leyen ha sottolineato come l’Unione Europea fosse riuscita a preservare la propria integrità e a far accettare al Regno Unito l’idea dell’armonizzazione normativa come conditio sine qua non per la realizzazione di un trattato commerciale di libero scambio tra l’UE e il suo ex Stato membro.

L’accordo è di oltre 1.500 pagine e al momento quasi nessuno lo ha letto e – soprattutto – compreso sino in fondo (ovviamente neanche chi scrive). Analizzando però i documenti pubblicati e facendo la tara con i paletti messi in campo in questi anni dai negoziatori britannici e quelli europei, non vi è dubbio che le concessioni maggiori siano state fatte dal Regno Unito.

Partiamo da quella più clamorosa: lo status dell’Irlanda del Nord. L’idea di un “backstop” in caso di mancato accordo commerciale, e cioè la sola evenienza di una condizione che differenziasse l’Irlanda del Nord dal resto dell’UK, era stata la ragione per cui la corrente di Johnson, l’ERG (European Research Group), aveva affossato il Withdrawal Agreement di Theresa May. L’idea stessa che l’accordo mettesse in discussione l’integrità del Regno Unito era considerata inaccettabile. Ebbene l’accordo trattato dall’attuale primo ministro (che aveva in questo senso ceduto su tutta la linea già nel dicembre 2019) prevede che dal 1° gennaio 2021 l’Irlanda del Nord rimanga di fatto più in Europa che in Gran Bretagna, al punto che formalmente i beni in arrivo dal Regno Unito in Irlanda del Nord vengono considerati di importazione e sono soggetti a verifiche e controlli che garantiscono il rispetto delle regole europee. Questo perché, per salvaguardare gli Accordi del Venerdì santo e dunque evitare l’istituzione di un confine fisico tra le due Irlande, l’Irlanda del Nord rimarrà dunque di fatto con un piede nell’Unione Europea, anche perché il governo britannico ha sostanzialmente ritirato tutti gli elementi controversi dell’Internal Market Bill, una legge pensata (e ormai appunto di fatto ritirata) proprio per bypassare gli accordi presi dal governo nel trattato di recesso dall’Unione.

Altro punto cruciale su cui il Regno Unito ha ceduto è sicuramente quello della pesca, uno dei temi che – ci si creda o no – ha scaldato di più i cuori britannici fino all’ultimo minuto. Il governo di Sua Maestà voleva a tutti i costi annunciare di aver ripreso il controllo totale delle proprie acque e delle proprie coste a partire dal 1° gennaio 2021, cosa che assolutamente – in tutta onestà – non può fare. Sul tema l’accordo prevede infatti un lungo periodo di “transizione” di almeno cinque anni e mezzo in cui ai pescatori europei verrà garantito di poter continuare a pescare nelle acque britanniche alle stesse condizioni, per poi essere gradualmente ridotto con accordi annuali che vedranno una graduale diminuzione dell’accesso europeo alle acque britanniche. Anche su questo tema pare chiaro che il governo britannico sia stato respinto su tutta la linea.

Il tema su cui si concentrano le maggiori zone grigie è quello dell’allineamento normativo tra i due contraenti. Questo era, soprattutto per l’Unione Europea, il tema centrale di scontro e il punto in cui fino all’ultimo vi sono state le maggiori distanze tra le parti. Da un lato, l’UE non poteva garantire l’accesso al mercato unico senza prevedere dazi o quote ad uno Stato che non si impegnasse a rispettare le normative europee e, dall’altro, il Regno Unito non poteva accettare di uscire dall’Unione per dover poi continuare a rispettarne le leggi. Su questo punto possiamo individuare alcuni passi indietro anche da parte dell’Unione: non tanto sul rispetto dell’allineamento normativo, che è previsto dall’accordo, ma sull’organo preposto a risolvere eventuali controversie a riguardo.

La richiesta iniziale dell’UE infatti non era solamente che il Regno Unito dovesse proseguire nel rispettare le regole dell’Unione per poter continuare a godere dell’accesso al mercato unico, ma che eventuali violazioni dovessero essere giudicate dalla Corte di giustizia europea. È proprio su questo punto, non a caso annunciato trionfalmente dal primo ministro britannico, che le due parti si sono dovute incontrare a metà strada prevedendo che le controversie dovranno essere risolte attraverso un arbitrato istituito in maniera indipendente.

Per quanto riguarda la circolazione delle persone ci sono poche novità rispetto a quando già sapevamo: lo status dei cittadini europei residenti nel Regno Unito sino al 31 dicembre 2020 era regolato nel trattato di recesso ed è garantito secondo il “settlement and pre-settlement scheme”, un sistema che sostanzialmente permette a chi già è residente di mantenere invariata la propria condizione. Totalmente rivoluzionata sarà invece la possibilità di spostarsi nel Regno Unito per motivi che non siano turistici, con un nuovo sistema di immigrazione “a punti” sullo stile australiano che dal 1° gennaio 2021 verrà applicato anche ai cittadini comunitari.

Al termine di questa disamina, necessariamente parziale, dell’accordo si può certamente dire che se da un lato rende meno traumatica del previsto l’uscita definitiva del Regno Unito dall’Unione Europea, essendo riuscito nell’obiettivo di evitare un’interruzione brusca di tutti i rapporti commerciali, dall’altro è senza dubbio un raro caso di trattato di libero scambio che produca un sensibile peggioramento dei rapporti commerciali preesistenti tra i due contraenti.

Infatti, al di là dei toni trionfalistici, dal 1° gennaio 2021 UE e UK saranno più deboli rispetto a prima, anche se – a parere di chi scrive – i danni maggiori causati da questa nuova condizione saranno subiti a Londra.

 

Immagine: Ursula von der Leyen accoglie Boris Johnson prima di un incontro presso la sede dell’UE a Bruxelles, Belgio (9 dicembre 2020). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/L_Inghilterra_del_lockdown_2_0.html

L’Inghilterra del lockdown 2.0

 

Da oggi l’Inghilterra è in quello che la stampa britannica ha definito un “lockdown 2.0”. La principale differenza rispetto a quello svoltosi la scorsa primavera è che le scuole di ogni ordine e grado rimarranno aperte così come i luoghi di lavoro in cui non è possibile sostituire la presenza con lo smart working. Tutti i negozi non essenziali, pub, ristoranti e bar saranno chiusi. Non ci potranno essere contatti tra membri di diversi gruppi familiari e uscire di casa è vietato se non per attività sportiva individuale e per necessità essenziali. Le misure varranno sino al 2 dicembre, quando il Parlamento verrà invitato a prendere una decisione sul futuro in base alla situazione epidemiologica.

 

Abbiamo parlato non a caso di Inghilterra, perché la decisione annunciata domenica dal governo e ratificata ieri sera dalla House of Commons non si applica a tutte le nazioni del Regno Unito. Il governo laburista del Galles, godendo dell’autonomia che è propria delle singole “devolved nations” (Galles, Scozia e Irlanda del Nord) ha optato per il lockdown già dal 19 ottobre con la previsione di uscirne il 9 novembre, mentre la Scozia per il momento ha adottato un proprio protocollo che non prevede l’attuazione di restrizioni severe come quelle previste in Inghilterra. Anche l’Irlanda del Nord aveva introdotto già nelle scorse settimane misure più stringenti rispetto all’Inghilterra, misure valide sino al 13 novembre e che per il momento non vengono adeguate ai nuovi parametri inglesi.

 

Johnson arriva a questa decisione, dopo aver cercato in tutti i modi di scongiurarla, in seguito a dati epidemiologici descritti come drammatici da Chris Whitty e Patrick Vallance (rispettivamente chief medical officer e chief scientific advisor del governo) i quali domenica, nella conferenza stampa che ha annunciato le nuove misure, hanno dichiarato che senza una forte azione di contrasto della diffusione dell’epidemia, le proiezioni di diversi gruppi di epidemiologici prevedevano per la seconda metà di novembre un numero di morti drammatico, con un picco ben più alto di quello fatto registrare durante la prima ondata. E d’altronde i dati reali mostrano chiaramente un aumento esponenziale dei contagi e soprattutto delle morti che sono state 492 nella giornata di ieri e oltre 2.000 nell’ultima settimana.

 

Il SAGE (Scientific Advisory Group for Emergencies, il comitato tecnico scientifico del governo britannico) aveva chiesto un “circuit breaker lockdown” di due o tre settimane già il 21 settembre, proprio per interrompere la catena del contagio ed evitare che si arrivasse a questo punto, una proposta fatta propria anche dal Partito laburista di Keir Starmer. Il Labour proponeva di cominciare il lockdown nell’ultima settimana di ottobre anche per “agganciare” l’half-term, una pausa scolastica di una settimana che si teneva proprio dal 26 al 30 ottobre. Ma il governo ha tentato sino all’ultimo di evitare il provvedimento di chiusura generale, attivando un sistema a zone definito “three tiers system”, con livelli di allerta e restrizioni diverse in base alla condizione epidemiologica delle singole aree geografiche. Un sistema che aveva posto in lockdown una parte consistente del Nord del Paese, generando non poche polemiche con le autorità locali, in particolare con il sindaco di Manchester, il laburista Andy Burnham, che riteneva gli aiuti del governo previsti per l’area metropolitana attorno alla grande città del Nord-Ovest inglese troppo esigua, in questo accompagnato anche da molti amministratori locali conservatori.

 

Le ripercussioni politiche per la decisione di un nuovo lockdown sono duplici. Da un lato il Labour accusa il governo di aver aspettato che la situazione degenerasse troppo prima di prendere una decisione inevitabile e che durerà più a lungo di quanto sarebbe stato necessario a fine settembre, dall’altro Johnson vede montare all’interno del proprio partito e nel Paese una opposizione alle nuove restrizioni. Infatti ieri, in occasione del voto decisivo sulle nuove misure tenutosi in Parlamento, ben 38 parlamentari conservatori hanno votato contro la proposta del governo: questo vuol dire che, potenzialmente, se tutte le opposizioni avessero votato contro, Johnson avrebbe rischiato di perdere la maggioranza nella House of Commons: un segnale indicativo della crisi di leadership che sta vivendo il primo ministro in occasione di uno dei voti più importanti degli ultimi mesi.

 

L’insofferenza per le misure restrittive sta montando anche nell’opinione pubblica e non è un caso che Nigel Farage, di ritorno dal suo tour americano dove ha fatto campagna elettorale per Donald Trump, abbia drizzato le sue sensibilissime antenne politiche e abbia iniziato a cavalcare l’onda anti-lockdown. “L’uomo della Brexit” ha infatti annunciato un “aggiornamento” del suo partito, che non si chiamerà più Brexit Party ma Reform UK e dalle pagine del Daily Telegraph, uno dei principali giornali della destra conservatrice britannica, ha lanciato la sua piattaforma programmatica che trasforma quello di Farage in un partito anti-lockdown.

 

Insomma, non sono giornate facili per Boris Johnson che, con la sempre più probabile vittoria di Joe Biden, vede allontanarsi la prospettiva di un nuovo accordo commerciale con gli Stati Uniti in tempi brevi: sia per una minore affinità politica rispetto a quella con Trump (che aveva definito Johnson il suo alter ego inglese), sia per le ferme dichiarazioni di condanna di Biden e dei democratici sulla gestione del post-Brexit. Non è un caso che Johnson ieri in Parlamento sia apparso piuttosto stanco e preoccupato per una conclusione di 2020 che si preannuncia molto complicata su tutti i fronti.

 

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Immagine: Boris Johnson lascia 10 Downing Street per partecipare alla sessione settimanale delle domande del primo ministro alla Camera dei Comuni, Londra, Regno Unito (4 novembre 2020). Crediti: T Salci / Shutterstock.com

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Coronavirus in Gran Bretagna. Nuove misure per fermare i contagi

 

Settembre non è mai un buon mese per Boris Johnson. La scorsa fine estate aveva portato al neonominato primo ministro una serie di pesanti di sconfitte parlamentari e la clamorosa figuraccia sulla riapertura del Parlamento con tanto di sentenza contraria dell’Alta Corte dopo la sospensione “consigliata” impropriamente alla regina.

Quest’anno invece Boris Johnson ha visto sgretolarsi attorno alla pressione esterna e interna la sua strategia sulla Brexit e, come se non bastasse, un drammatico ritorno del Coronavirus in Gran Bretagna.

Ieri sera, in diretta da Downing Street, il primo ministro ha dovuto infatti annunciare una nuova serie di pesanti misure restrittive per impedire che, secondo le previsioni del governo, le infezioni crescano in maniera esponenziale arrivando a superare i 50.000 casi al giorno entro la fine di ottobre. Per evitare questo, Johnson ha annunciato che da giovedì tutti i pub, ristoranti e take away dovranno tassativamente chiudere entro le ore 22, senza eccezioni. Negli orari di apertura sarà permesso il solo servizio al tavolo.

Inoltre, tornando indietro rispetto alle indicazioni date sino a pochi giorni fa, il governo chiede a tutti coloro che possono farlo, di ritornare a lavorare esclusivamente da casa, riducendo al minimo gli spostamenti. Diviene inoltre obbligatorio l’uso della mascherina in tutti i luoghi chiusi e si estende la “regola del 6” (e cioè il divieto di incontrarsi al chiuso o all’aperto in gruppi maggiori di 6 persone) anche agli sport di squadra.

Questi provvedimenti diventano leggi la cui violazione comporta dunque la comminazione di pene sino a 10.000 sterline e verranno fatti rispettare dalle forze dell’ordine con la collaborazione dell’esercito, se necessario. Tutto questo, ha affermato Johnson, serve a bloccare l’insorgenza esponenziale del virus e a evitare un secondo lockdown nazionale, che per ora si esclude ma che non è inevitabile. I provvedimenti che entreranno in vigore nella giornata di domani, ha affermato ieri il primo ministro in Parlamento, potrebbero durare per i prossimi sei mesi perché quello che preoccupa gli esperti medici e scientifici britannici è l’avvento dell’inverno, che favorirà la diffusione del Coronavirus e che, con le normali malattie di stagione, “basta” da solo a mettere in forte crisi il Servizio sanitario nazionale.

Johnson arriva a questo momento drammatico della gestione della seconda ondata travolto dalle polemiche per le inefficienze del sistema di test e tracciamento dei contagi. Il sistema, che è stato esternalizzato ad un operatore privato, non è in grado di soddisfare la richiesta giornaliera di tamponi e non riesce a dare risultati in tempi rapidi. Inoltre il Regno Unito (UK) non è ancora dotato di una applicazione in grado di tracciare i contagi, una app che ha subito forti ritardi e che uscirà nei prossimi giorni senza però, pare, avere un sistema di tracciamento dei contatti tramite Bluetooth come l’italiana Immuni e altre app gemelle approntate in altri Paesi.

Ovviamente questa nuova crisi sanitaria ha oscurato le feroci polemiche sulla Brexit che si erano scatenate la scorsa settimana a livello internazionale a seguito della presentazione da parte del governo britannico dell’Internal Market Bill: un disegno di legge che ha lo scopo di regolare il mercato britannico all’indomani della Brexit e che, per stessa ammissione del governo, è in aperta violazione degli accordi siglati meno di un anno fa con l’Europa in occasione della ratifica del Withdrawal Agreement.

L’accordo prevede di fatto che, in mancanza di un nuovo trattato commerciale entro il 31 dicembre 2020, l’Irlanda del Nord venga separata dal Regno Unito e rimanga a far parte del mercato unico europeo. Questo permetterebbe di evitare l’istituzione di un nuovo confine tra nord e sud e, soprattutto, non renderebbe necessaria l’istituzione di nuove dogane per le merci in viaggio tra le due Irlande. Come conseguenza però ci sarebbe la necessità di controlli doganali per i prodotti britannici in ingresso in Irlanda del Nord perché, appunto, entrerebbero all’interno del mercato europeo. Allo stesso tempo questo rende più complicate anche le esportazioni dall’Irlanda del Nord al resto del Regno Unito. L’Internal Market Bill in discussione viola apertamente questo accordo e prevede che il governo britannico possa valutare con propria discrezionalità quali esportazioni debbano rispettare tali regole e quali no. Così come prevedrebbe una discrezionalità anche sugli aiuti di Stato alle aziende nordirlandesi, altra fattispecie espressamente vietata dall’accordo siglato.

Questo atteggiamento ha ovviamente causato una reazione violentissima da parte dell’Unione Europea (UE) che ha intimato al Regno Unito di ritirare immediatamente la proposta di legge che sarebbe una aperta violazione del diritto internazionale e causerebbe il crollo della fiducia verso il governo britannico con la conseguente interruzione delle trattative per un futuro accordo commerciale. Ciliegina sulla torta, la polemica ha attraversato l’Atlantico: la speaker del Congresso americano, Nancy Pelosi, ha infatti minacciato di bloccare qualunque futuro accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito se il governo britannico dovesse così platealmente mettere a rischio la pace raggiunta con gli accordi del Venerdì Santo, e il candidato democratico Joe Biden è entrato a piedi uniti nella discussione dichiarando che non sosterrà mai un accordo commerciale con il Regno Unito se la Brexit dovesse mettere a rischio la pace in Irlanda. Non occorre ricordare infatti l’importanza, anche simbolica, che ha l’Irlanda per gli Stati Uniti e infatti il governo irlandese in questi mesi ha fatto opera di lobbying per assicurarsi l’appoggio americano nella tutela della pace nell’isola, in particolare proprio all’interno del Congresso, che ha il compito di ratificare i trattati internazionali e che dunque dovrà vagliare il nuovo accordo commerciale tra USA e UK.

Questo è stato un duro colpo per Johnson e la sua spavalda strategia negoziale con l’UE perché è inutile rammentare quanto sia centrale l’ottenimento di un favorevole accordo commerciale con gli Stati Uniti per poter “sostituire” il pezzo di economia che sicuramente verrà persa con il compiersi della Brexit e l’interruzione di rapporti privilegiati con un mercato importante come quello europeo.

Ma il primo ministro ha dovuto affrontare pesanti colpi anche sul fronte interno a causa della sua nuova proposta sull’Irlanda del Nord. La polemica contro la violazione dei trattati internazionali è infuriata sia all’interno del Civil Service, con il capo dell’ufficio legale del governo dimessosi in polemica con Downing Street, che dello stesso Partito conservatore. Importanti esponenti, anche dell’ala più euroscettica, che si sono espressi con sdegno all’idea della perdita di reputazione che subirebbe il Regno Unito se si dovesse macchiare della violazione così palese di un accordo siglato non più tardi di un anno fa.

Insomma è un settembre molto complicato per Boris Johnson che, ha riportato il Times in un suo lungo articolo di domenica scorsa, starebbe passando un difficile momento anche dal punto di vista personale a causa addirittura di una precaria situazione finanziaria. Da quando è primo ministro, infatti, Johnson guadagna molto di meno rispetto a prima, non potendo contare sui redditi derivati dai suoi pungenti articoli su varie testate né dalle apparizioni pubbliche. Questo darebbe qualche grattacapo a Johnson che deve sostenere le spese per un costosissimo divorzio e il mantenimento di quattro dei suoi sei figli, uno dei quali ha pochi mesi e vive, insieme alla compagna di 32 anni (Johnson ne ha 56), in quello che viene descritto come un piccolo appartamento al numero 11 di Downing Street. Probabilmente non era come si immaginava di passare i suoi anni da primo ministro quando Johnson, sin da bambino, sognava di varcare la soglia del n. 10 come il suo idolo Winston Churchill.

 

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Immagine: Boris Johnson lascia il n. 10 di Downing Street per aggiornare la House of Commons sulle nuove restrizioni sul Covid-19, Londra, Regno Unito (22 settembre 2020). Crediti: I. Salci / Shutterstock.com

 

 

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Regno Unito, un parziale ritorno alla normalità

 

«Il nostro lungo periodo di ibernazione sta per terminare»: così ieri Boris Johnson ha definito nella House of Commons la fase che partirà dal 4 luglio prossimo quando l’Inghilterra comincerà a riaprire progressivamente. Parliamo di Inghilterra e non di Regno Unito perché le misure annunciate ieri dal primo ministro non riguarderanno tutti i Paesi britannici, poiché sarà compito dei singoli governi gallese, scozzese e nordirlandese decidere come e quando attuare misure di allentamento del lockdown nei rispettivi Paesi.

Le restrizioni erano partite il 23 marzo scorso ed erano state parzialmente allentate l’11 maggio, lasciando però sostanzialmente tutti gli esercizi commerciali, bar, pub e ristoranti chiusi.

Dal 4 luglio, invece, sarà possibile un progressivo ritorno alla normalità.

Innanzitutto sarà permesso visitare amici e familiari anche al chiuso, contrariamente a quanto previsto al momento, in cui le visite erano permesse solo all’esterno e con il mantenimento della distanza di almeno 2 metri.

Anche il distanziamento sociale viene ridotto a “one metre plus” e cioè ad un metro dove non sia possibile mantenere una distanza maggiore a patto di utilizzare dispositivi di protezione. Questo permetterà la riapertura di pub, ristoranti, alberghi e bed & breakfast che possano garantire l’applicazione del distanziamento sociale attraverso l’esclusivo servizio ai tavoli e con il minimo contatto tra clienti e personale, fermo restando l’obbligo per pub e ristoranti di tenere traccia dei propri clienti con apposito registro.

Riaprono con le stesse regole anche musei, cinema, parchi a tema, così come le palestre all’aperto e i parrucchieri. Rimangono invece chiuse le palestre, teatri e altri esercizi al chiuso.

Continua ad essere sconsigliato l’uso dei mezzi pubblici che eventualmente devono essere frequentati con l’obbligo di indossare la mascherina.

Questo importante passo verso un parziale ritorno alla normalità è permesso, ha spiegato Johnson, dall’abbassamento del livello di allerta che passa da 4 a 3 (in una scala da 1 a 5) secondo i cinque test stabiliti dal governo stesso: 1) certezza che l’NHS (National Health Service) possa far fronte ai ricoveri; 2) un significativo e costante calo delle morti giornaliere; 3) livello di infezioni sceso ad un “livello sostenibile”; 4) sicurezza che la disponibilità di dispositivi di protezione personale e di tamponi sia in grado di fare fronte alla domanda; 5) sicurezza che ogni ammorbidimento delle restrizioni non causi una seconda ondata che faccia collassare l’NHS.

I dati sono effettivamente incoraggianti, con un sempre decrescente calo di infezioni e decessi al netto di un costante aumento dei numeri di tamponi effettuati, anche se il famoso numero R rimane tra 0.7 e 0.9 secondo i dati dello stesso governo.

Quello della capacità di effettuare un elevato numero di tamponi è certamente il più grande successo della gestione britannica del Covid-19. Al momento i test sono disponibili gratuitamente per chiunque abbia dei sintomi associati al Coronavirus e ad oggi sono stati effettuati oltre 8 milioni di tamponi, una cifra che pone il Regno Unito saldamente in testa nella classifica europea in questa specifica categoria.

Colossali sono invece i ritardi riscontrati nell’avvio del sistema di tracciamento delle infezioni.

Il 18 giugno il New York Times ha pubblicato  una durissima inchiesta a riguardo, riportando che a differenza di quanto promesso le infrastrutture digitali sono lontanissime dall’essere pronte per effettuare un lavoro capillare e la app, che doveva essere pronta entro metà maggio, non sarebbe stata pronta prima dell’inverno. Questo anche perché il governo aveva optato per la creazione di una app basata su un protocollo proprietario invece che sui protocolli Apple-Google su cui si basa la italiana Immuni o il suo corrispettivo tedesco. Un sistema, quello britannico, che però ha fallito i primi test sul campo e che, anche in seguito alle polemiche scaturite dall’indagine del New York Times, è stato abbandonato in favore della creazione di una app realizzata sul modello di Immuni.

Il sistema di tracciamento è stato affidato ad una azienda privata, la Serco, già al centro di polemiche in passato per le inefficienze (per cui è stata anche multata) sul sistema di tracciamento dei detenuti in libertà vigilata.

Questo getta qualche dubbio sull’effettiva capacità del governo britannico di gestire una eventuale seconda ondata che in ogni caso Johnson ha per il momento escluso anche se si è detto pronto in qualunque momento a premere il freno e tornare a chiusure selettive del Paese.

Il governo vuole dare un chiaro segnale di abbassamento dell’allerta ponendo fine all’appuntamento con la conferenza stampa quotidiana effettuata alle 17 di ogni giorno dall’inizio della crisi a marzo. Quello di ieri è infatti stato l’ultimo appuntamento con i giornalisti che da oggi verranno convocati solamente in caso di novità.

Le buone notizie date ieri da Johnson saranno sicuramente una boccata d’aria per Downing Street che da settimane è assediata per continue polemiche. La più grossa è certamente stata quella attorno al consigliere politico di Johnson, Dominic Cummings, accusato di aver violato il lockdown: una vicenda che ha dominato le prime pagine di tutti i giornali per giorni facendo crollare la fiducia nel governo e la popolarità del primo ministro.

La scorsa settimana poi è diventata virale la campagna lanciata dall’attaccante del Manchester United Marcus Rashford che chiedeva al governo di continuare ad assicurare pasti gratuiti a oltre un milione di bambini britannici, non sospendendo un provvedimento che era entrato in vigore per garantire almeno un pasto completo ai figli delle famiglie più povere del Paese nonostante non potessero recarsi a scuola attraverso l’assegnazione di voucher per l’acquisto di pasti gratuiti. Il governo aveva annunciato che durante l’estate, finito l’anno scolastico, il programma sarebbe stato sospeso, ma in seguito al grande successo della campagna di Rashford (che viene da una famiglia povera di Manchester), appoggiata attraverso una mozione parlamentare anche dal Partito laburista, il governo è stato costretto ad una clamorosa inversione a U che ne ha ulteriormente minato la popolarità.

Insomma un governo che ha un forte bisogno di buone notizie anche perché presto si dovrà di nuovo riaprire il fronte delle trattative post-Brexit, trattative che si devono chiudere entro il 31 dicembre 2020 e che, per ammissione dei negoziatori di ambo le parti, non stanno facendo grandi progressi.

 

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Immagine: Incrocio tra Charlotte e Goodge street, Londra, Regno Unito (14 giugno 2020). Crediti: Tania Volosianko / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Regno_Unito_un_incerta_fase_2.html

Regno Unito, un’incerta fase 2

 

Ieri sera alle 19, ora del meridiano di Greenwich, Boris Johnson ha pronunciato un attesissimo discorso alla nazione. Forse dire pronunciato non è esatto visto che il discorso era registrato e non in diretta e, qualcuno sostiene, addirittura registrato in momenti differenti a causa dei continui cambiamenti apportati alla scaletta. La comunicazione alla nazione era stata annunciata la settimana scorsa e aveva sollevato molte aspettative, tanto che alcuni giornali avevano previsto (e titolato in prima pagina) un ritorno già da oggi alla “libertà”.

 

Il primo ministro ha invece raggelato la nazione circa la possibilità di un rapido allentamento delle misure di distanziamento sociale. Annunciando una nuova scala di valutazione del rischio dove 1 sarebbe la completa assenza del virus e 5 un grado di diffusione tale da far collassare il servizio sanitario nazionale, Johnson ha dichiarato il Regno Unito ad un livello di pericolo equivalente al 3.5, ancora troppo elevato per pensare di allentare la presa sulle restrizioni (considerando che in questa scala il momento più alto della crisi sarebbe stato il 4 secondo il governo).

 

Tuttavia, il premier ha a sorpresa comunicato alla nazione che – e questo è l’aspetto più paradossale – da oggi chi non può lavorare da casa (prendendo ad esempio chi lavora nel settore manifatturiero e in quello edilizio) dovrà tornare a lavoro. E per raggiungerlo è invitato a farlo con mezzi propri: in macchina, in bici o a piedi, proprio perché, a causa della situazione ancora difficile, i mezzi pubblici continueranno ad applicare rigidi protocolli di distanziamento sociale e viaggeranno dunque con pochi passeggeri a bordo. Un problema enorme, specie in una città come Londra, dove una grande percentuale di cittadini non possiede una macchina, lavora molto distante da dove abita e non può che spostarsi con i mezzi pubblici.

 

Questa è la parte del discorso che sta suscitando le maggiori polemiche, perché con pochissime ore di preavviso si invitano milioni di persone a tornare a lavoro pur annunciando che il rischio di diffusione del virus è ancora elevato e senza aver approntato protocolli definitivi di sicurezza sui luoghi di lavoro, a partire dall’uso delle mascherine, di cui lo stesso Johnson ha ammesso la carenza e che sono fondamentali per un rientro sicuro sul posto di lavoro. Le uniche concessioni circa le libertà personali riguardano la possibilità – da mercoledì ‒ di fare esercizio fisico senza limiti di tempo (fino a domani si potrà fare solo un’ora di esercizio al giorno) e di frequentare i parchi pubblici al fine di prendere il sole e giocare con altri coinquilini. Sarà inoltre possibile incontrare amici e familiari all’aperto mantenendo però la distanza di almeno 2 metri.

Per quanto riguarda la riapertura di alcuni negozi e anche di alcune scuole, Johnson ha vincolato un piano più dettagliato all’analisi dell’andamento del contagio, ma ha già annunciato che non potrà avvenire prima del 1° giugno, sempre che le condizioni lo permettano. Per quanto riguarda invece ristoranti, pub e altri luoghi pubblici, non sarà sicuramente possibile procedere ad una progressiva riapertura prima della metà di luglio.

 

In generale, dunque, un discorso che ha ritrovato tutti i commentatori abbastanza perplessi, perché ha lasciato in sospeso molti interrogativi e che è stato dominato dai “se”. L’unica certezza è che il governo ha cambiato slogan: dal “Stai a casa, proteggi l’NHS (National Health Service, ndr), salva vite” a “Stai attento, controlla il virus, salva vite”. Un messaggio che è stato fortemente criticato dai governi della Scozia e del Galles che ritengono sbagliato abbandonare l’idea di dover restare a casa quanto più possibile. Al punto che la Scozia, senza nemmeno aspettare il discorso di Johnson, ha annunciato un prolungamento di altre tre settimane del lockdown totale e il Galles ha escluso la possibilità di una riapertura delle scuole prima dell’estate. D’altronde i dati britannici non sono per niente confortanti: questa settimana, infatti, il Regno Unito ha strappato all’Italia il record del più alto numero di morti, sfiorando ieri la cifra di 32.000 decessi, con oltre 28.000 morti nella sola Inghilterra, nonostante – e questo è uno dei punti più controversi – i britannici siano stati colpiti dall’epidemia diverse settimane dopo rispetto all’Italia, avendo dunque più tempo per cercare di reagire con prontezza.

 

Infine, si sta discutendo molto di come, nello slogan, sia stato messo da parte l’invito a proteggere l’NHS, il servizio sanitario nazionale: vanto britannico, primo servizio sanitario al mondo – istituito nel 1948 – totalmente gratuito per tutti i cittadini. Quella che, secondo tutti i sondaggi, è l’istituzione più amata del Paese (qualcuno dice addirittura più della stessa Regina) è stata tremendamente provata da questa crisi, anche perché in estrema difficoltà già sul finire del 2019 per le “normali” malattie stagionali, con delle performance disastrose registrare in dicembre: le peggiori da quando vengono effettuate rilevazioni statistiche sul sistema sanitario.

 

Decimato da anni di privatizzazioni e austerità, l’NHS ha affrontato l’emergenza Covid-19 quasi esclusivamente grazie alla dedizione dei propri dipendenti (tantissimi dei quali europei) che hanno denunciato in queste settimane la carenza drammatica di dispositivi di protezione e di respiratori.

Tutti i giovedì i cittadini britannici si sono affacciati al balcone per applaudire lo sforzo degli operatori sanitari che hanno pagato un prezzo pesante anche in termini di vite perdute.

Ha fatto storcere più di un naso, dunque, la scelta di togliere il riferimento all’NHS dal nuovo slogan governativo, proprio perché, nonostante abbia in qualche modo retto l’urto, il sistema sanitario rimane comunque un osservato speciale.

 

In generale un quadro molto incerto quello britannico, che Johnson tenterà di chiarire questa settimana in un Parlamento che si riunisce a ranghi ridotti, ma che, irritato (a partire dallo speaker) per la mancanza di comunicazioni preventive circa il piano da parte del governo, non sarà certo intenzionato a fare sconti al primo ministro.

             

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Immagine: Manifesto in Piccadilly Circus in cui la regina Elisabetta II d’Inghilterra in ringrazia l’NHS durante la pandemia del virus Covid-19, Londra, Regno Unito (11 aprile 2020). Crediti: Matteo Roma / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Il_cambio_radicale_di_strategia_del_Regno_Unito.html

Il cambio radicale di strategia del Regno Unito

 

Sembrano passati mesi da quando, come riportato su Atlante, il governo britannico aveva deciso di tenere nei confronti del Covid-19 un atteggiamento del tutto dissonante da quello italiano circa le misure di contenimento. Eppure era solamente il 10 marzo quando, in una trasmissione televisiva, Boris Johnson diceva che una delle possibilità era quella di “prendere il toro per le corna” e lasciare che il Coronavirus facesse il suo passaggio attraverso la popolazione, così come ancora l’11 marzo il sindaco di Londra Sadiq Khan invitava i londinesi a seguire le indicazioni del chief medical advisor del governo e cioè continuare a svolgere una vita normale. C’è voluta ancora una settimana (intorno al 18 marzo) perché Boris Johnson decidesse di mettere da parte la strategia dell’immunità di gregge per adottare misure più aggressive e del tutto simili a quelle a cui ci siamo abituati in queste settimane qui in Italia.

 

Il cambio di strategia è stato dovuto all’impatto sull’opinione pubblica della pubblicazione di uno studio dell’Imperial College di Londra che evidenziava come, senza attuare misure di contenimento della diffusione del virus, il conteggio dei morti per Covid-19 in Gran Bretagna si sarebbe attestato intorno alle 250.000 persone con un conseguente collasso del servizio sanitario nazionale. Finalmente, solo il 20 marzo, Johnson ha imposto un lockdown quasi totale del Paese, con la chiusura di scuole, bar, ristoranti e tutti i negozi non essenziali, invitando la popolazione a rimanere a casa tranne che per urgenti necessità ed un’ora di esercizio fisico al giorno.

 

Nei giorni immediatamente successivi il Regno Unito ha avuto un incremento drammatico delle infezioni e del numero di decessi, con una curva simile o addirittura peggiore di quella italiana tenendo conto che si ritiene che l’infezione sia “indietro” di circa due settimane rispetto al nostro Paese. E d’altronde la drammaticità del momento è stata resa palese dalle infezioni avvenute in seno alle figure chiave del governo britannico: il 27 marzo il primo ministro ha dichiarato di aver sviluppato i sintomi del Coronavirus e di essere risultato positivo al test. Identica sorte è toccata alle due figure apicali della lotta al virus: Matt Hancock, ministro della Sanità, e Chris Whitty, chief medical advisor, il più alto consulente medico del governo britannico. Anche la casa reale è stata coinvolta con la positività del principe del Galles ed erede al trono Carlo.

Un po’ ironicamente è risultato positivo anche Dominic Cummings, il consigliere di Boris Johnson che, secondo il Times, è stato uno dei principali sostenitori della teoria dell’immunità di gregge. Il Times ha riportato un virgolettato di Cummings in cui lo stratega politico di Johnson sosteneva che quella dell’immunità di gregge era la strada migliore per difendere l’economia del Paese «e se questo vuol dire sacrificare qualche pensionato, così sia».

 

L’incremento dei contagi e lo stress a cui è sottoposto l’NHS (National Health Service) hanno portato dunque il governo ad adottare misure straordinarie in ogni campo: sono state rinviate di un anno le elezioni amministrative del 7 maggio (era previsto il voto per il sindaco della città di Londra e di altri grandi centri); è stata rinviata ad ottobre la Maratona di Londra, una delle più importanti e più partecipate del mondo così come del torneo di Wimbledon e tutti i grandi eventi estivi come il famosissimo festival musicale Glastonbury.

 

Notizia di due giorni fa è che si è deciso di rinviare anche la COP 26, la conferenza sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, che avrebbe dovuto tenersi a novembre a Glasgow, in Scozia. Un rinvio importante per due motivi. Da un lato ci dice qual è la prospettiva temporale che il governo britannico (e le Nazioni Unite) danno all’emergenza, arrivando ad annullare un evento previsto per la seconda metà di novembre. Ma – e questo secondo punto è per noi molto interessante – una delle motivazioni dell’annullamento dell’evento è stata che – vista l’emergenza – sarebbe impossibile pensare di svolgere il pesante lavoro diplomatico preliminare previsto per una conferenza internazionale di tale livello.

 

E questo ci porta, ormai ve lo aspettavate, all’elefante nella stanza: la Brexit. Come abbiamo più volte riportato, in queste settimane e per tutta l’estate, avrebbero dovuto svolgersi le trattative per stabilire i nuovi rapporti tra Regno Unito e Unione Europea. Se tali accordi non dovessero concludersi il risultato sarebbe un’uscita “disordinata” entro il 31 dicembre o un prolungamento dell’attuale periodo di transizione. Se si ritiene impossibile svolgere la fase negoziale per la COP 26 viene difficile pensare che si possa svolgere quella – forse ancora più complicata – per la Brexit. Dunque il Regno Unito dovrà decidere se richiedere un’estensione del periodo di transizione oppure se avventurarsi in una uscita senza accordo nel mezzo di una crisi sanitaria e sociale di tale portata. Tanto più che le premesse non sono propriamente incoraggianti, considerando che sia Boris Johnson che il capo negoziatore per l’Unione Michel Barnier (risultato egli stesso positivo) stanno al momento combattendo con il Covid-19 in prima persona.

 

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Immagine: Effetto Coronavirus, Apple Market in una Covent Garden deserta, Londra, Regno Unito (27 marzo 2020). Crediti: rodwey2004 / Shutterstock.com

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Coronavirus nel Regno Unito, nulla per impedire il contagio

 

In queste ore le tre parole più discusse in Gran Bretagna sono: “immunità di gregge”.

Boris Johnson ha puntato tutta la sua strategia in risposta al Coronavirus sul principio che, invece di contenerlo, il virus vada quasi aiutato a fare il suo corso all’interno della popolazione, creando così l’immunità allo stesso. I consulenti medici e scientifici del primo ministro sostengono che questo sia il metodo migliore per minimizzare l’impatto del virus sulla società ed impedire che le misure restrittive vengano assunte quando non servono.

 

In virtù di questa “scommessa” il governo britannico sostanzialmente non sta facendo niente per impedire il contagio: il Regno Unito è l’unico Paese occidentale in cui non vi è alcun tipo di limitazione, di nessuna natura. Sono aperte scuole, ristoranti e pub. Non sono vietati concerti o eventi sportivi di nessun tipo, né al chiuso né all’aperto. Non sono previste restrizioni per viaggi da o verso la Gran Bretagna. L’unico consiglio ripetuto ossessivamente è quello di lavarsi spesso le mani con acqua calda per almeno 20 secondi. La città di Londra rimane aperta in tutto e per tutto, senza nessun tipo di restrizione: il sindaco laburista Sadiq Khan invita i suoi cittadini a non cambiare le proprie abitudini, continuando a prendere la metro, a frequentare i locali pubblici e gli eventi al chiuso e all’aperto.

 

Ieri sera, in una tanto attesa conferenza stampa in cui ci si aspettavano provvedimenti più forti Boris Johnson ha semplicemente detto che il Paese è entrato nella seconda fase (la prima era quella del “contenimento” ossia lavatevi le mani) quella del “rallentamento”: in questa fase il primo ministro ha chiesto a tutti coloro che dovessero avere tosse persistente o febbre di restare a casa immediatamente in autoisolamento, per almeno una settimana. Ha inoltre invitato le scuole a evitare gite scolastiche internazionali e gli over 70 a evitare le crociere. Niente di più di questo.

 

Il primo ministro, parlando ad una nazione sempre più disorientata dalla differenza di approccio rispetto sostanzialmente a tutto il resto del mondo (persino gli USA hanno introdotto, per quanto in maniera bizzarra, limiti agli ingressi dall’Europa e in alcuni Stati chiuso le scuole), ha annunciato ai propri cittadini che questa malattia causerà molte vittime. Un approccio quasi burocratico che lascia abbastanza basiti considerando che potenzialmente si parla di migliaia di persone.

 

D’altronde che la situazione si preannunci estremamente difficile il governo non cerca di nasconderlo, al punto che nella giornata di mercoledì, in occasione della presentazione della legge di bilancio da parte del nuovo cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, è stato annunciato lo stanziamento straordinario di almeno 30 miliardi di sterline per fronteggiare la crisi: una parte destinata al Servizio sanitario (NHS, National Health Service), una parte a pagare il congedo per malattia dal primo giorno a quasi tutti i lavoratori che dovranno restare a casa, una parte in sussidi per piccole e medie imprese, in particolare dei settori quali alberghi, pub e in generale del settore dell’accoglienza. Il provvedimento era stato anticipato in mattinata dall’annuncio della Banca d’Inghilterra di tagliare del 0,5% i tassi di interesse, portandoli così allo 0,25%, il livello più basso della storia.

 

Questo approccio molto pesante dal punto di vista economico, che anticipa dunque una grande crisi economica e sociale tale da – parole del cancelliere Sunak –  prevedere che ad un certo punto almeno un quinto della forza lavoro sarà costretto a rimanere a casa per via della malattia, cozza con l’approccio assolutamente inverso in tema di restrizioni alla socialità o al normale stile di vita dei cittadini britannici: persino il governo e il Parlamento continuano – almeno in apparenza – a funzionare come se niente fosse nonostante siano arrivati già i primi casi di positività. Nadine Dorries, sottosegretaria alla Salute, è risultata positiva al virus nella serata di martedì, presentando i primi sintomi venerdì scorso. In questo periodo ha incontrato centinaia di persone tra parlamentari, membri del governo e lo stesso Johnson, ma questo non ha portato all’isolamento sostanzialmente di nessuno di coloro con i quali sia venuta a contatto.

 

Le sedute in Parlamento continuano normalmente nonostante la condizione stessa del luogo costringa i suoi membri ad accalcarsi l’uno su l’altro in una promiscuità ideale alla propagazione del virus (e nonostante alcuni dei membri siano componenti della fascia di popolazione più soggetta a soffrire danni gravi dal Coronavirus, non essendo propriamente giovanissimi).

 

Insomma, la scommessa di Boris Johnson pare essere quella di voler adottare misure restrittive e dannose per l’economia quanto più tardi possibile e per il minimo tempo necessario: ieri infatti ha dichiarato che eventuali divieti di assembramento o chiusura delle scuole verranno valutati in futuro. In questo modo Johnson spera di avere un vantaggio enorme in termini di prestazioni economiche rispetto agli altri Paesi, in primis europei, che in queste ore si stanno via via sempre più autolimitando e dunque mettendo in crisi le proprie performance economiche.

 

Questa scommessa però mette in conto la perdita di molti cittadini, soprattutto tra i più anziani e residenti in zone svantaggiate del territorio nazionale (fasce di popolazione che già in condizioni normali in inverno pagano un prezzo altissimo alla “regolare” influenza stagionale) e rischia di avere conseguenze sociali e politiche gigantesche in un Paese che non è solito rispondere con gentilezza ad errori clamorosi del governo come i ricorrenti “riots” ci ricordano, l’ultimo avvenuto nel 2011 a seguito dell’omicidio di un ragazzo di 29 anni da parte della Polizia che scatenò violente proteste a Londra e in altre grandi città.

 

Insomma, Johnson sta rischiando moltissimo nel prendere la strada solitaria dell’immunità di gregge prendendosi la responsabilità enorme lasciare che il Covid-19 viaggi liberamente per il Paese per ancora molte settimane.

 

In tutto questo non poteva mancare un piccolo capitolo della saga Brexit: la settimana prossima era previsto un incontro bilaterale a Londra per proseguire con le trattative sui futuri accordi tra Regno Unito e Unione Europea. L’incontro è stato rinviato e c’è da aspettarsi che nelle prossime settimane tutti gli attori coinvolti nelle trattative avranno problemi più stringenti da affrontare: entro luglio è necessario decidere se prolungare l’attuale periodo di transizione o se procedere spediti verso un’uscita senza accordo, ma cosa deciderà di fare il governo britannico se le trattative non potranno andare avanti per causa del Coronavirus?

 

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Immagine: Alcuni passanti indossano mascherine per combattere il contagio da Coronavirus, Londra, Regno Unito (marzo 2020). Crediti: MARCIO DELGADO / Shutterstock.com

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Il Regno Unito delle beghe interne e del confronto con l’UE

Dopo il trionfo elettorale di dicembre e un gennaio dominato in gran parte dal compimento della Brexit, avvenuto il 31 gennaio, tutti a Londra aspettavano il tanto atteso rimpasto di governo per capire quali sarebbero stati i nuovi equilibri all’interno del Partito conservatore e, soprattutto, per scoprire se la pace scoppiata all’interno del gruppo parlamentare Tory in seguito alla grande vittoria ottenuta da Boris Johnson e dal suo stratega Dominic Cummings sarebbe durata.

Il rimpasto è arrivato alla metà di febbraio e ha fatto delle vittime eccellenti tra le figure più in vista del Partito conservatore, anche se la notizia più clamorosa è stata quella delle dimissioni di Sajid Javid, il cancelliere dello Scacchiere di Boris Johnson sino al 13 febbraio scorso. L’addio del ministro del Tesoro è stato clamoroso ed è stato dettato, a detta dello stesso Javid, da una richiesta irricevibile da parte del primo ministro e del suo consigliere politico: quella di sostituire il suo intero staff di consulenti e collaboratori con un gruppo di lavoro scelto direttamente dal n. 10 di Downing Street. Javid ha dichiarato di considerare una tale eventualità un commissariamento di fatto del suo ministero da parte di Cummings e ha dunque deciso di abbondonare la carica che è ora ricoperta da Rishi Sunak, trentanovenne parlamentare dal 2015, già gestore di hedge funds della Goldman Sachs, ovviamente laureato ad Oxford con un MBA (Master of Business Administration) a Stanford.

La rottura tra primo ministro e cancelliere dello Scacchiere è un fatto piuttosto insolito nel panorama politico britannico, le due figure infatti sono legate a doppio filo visto che il n. 11 di Downing Street (sede del ministero del Tesoro) è il dicastero attraverso il quale il primo ministro sviluppa la propria politica, essendo quello che gestisce i fondi con cui tutti gli altri ministri svolgono la loro attività. Non è un caso infatti che il cancelliere dello Scacchiere di David Cameron fosse il suo più grande alleato e amico George Osborne; stessa cosa si può dire del ruolo ricoperto da Philip Hammond nei confronti di Theresa May, solo per ricordare gli ultimi due casi.

La rottura tra Javid e Johnson ha però ragioni più profonde: innanzitutto l’ex cancelliere viene dalla scuola “thatcheriana” in termini di intervento statale in economia, che vorrebbe ridurre al minimo. Johnson e Cummings invece hanno intenzione di guidare l’azione di governo verso un maggiore uso di fondi pubblici e un aumento del deficit. Hanno infatti già nazionalizzato un gestore ferroviario in crisi e sbloccato la costruzione del progetto di linea ad alta velocità fermo da anni e che collegherà il Sud con il Nord dell’Inghilterra. L’obiettivo del primo ministro è quello di consolidare attraverso investimenti pubblici la sua presa sul Nord, un tempo feudo laburista, in modo da garantirsi un vantaggio impossibile da colmare, in termini di seggi parlamentari, sul Labour.

Un altro grande punto di rottura con Javid è stato sicuramente il futuro dei rapporti del Regno Unito con l’Unione Europea: l’ex cancelliere infatti era il più esposto “pontiere”, contrario cioè allo scenario dell’uscita senza un accordo di libero scambio firmato entro il 31 dicembre 2020. Una eventualità che invece non spaventa affatto e che è anzi incoraggiata da Boris Johnson, che in queste settimane ha sottolineato come, qualunque cosa accada, il 1° gennaio 2021 il periodo di transizione finirà e il Regno Unito sarà a tutti gli effetti un Paese terzo rispetto all’Unione Europea.

In generale il rimpasto di governo ha dunque consolidato la presa di Johnson sul governo, che ha promosso figure più radicali soprattutto in termini di Brexit, politica economica e immigrazione.

Non a caso il primo grande progetto presentato al Parlamento è stato quello di un nuovo sistema di immigrazione basato sul modello “a punti” australiano. Tuttavia, al di là dei proclami, le modifiche che verranno apportate saranno più “cosmetiche” che sostanziali rispetto al già rigidissimo modello attuale. La vera grande novità è che nel progetto presentato dal governo si specifica che dal 1° gennaio 2021 i cittadini europei verranno equiparati a quelli di tutti gli altri Paesi stranieri.

Per il resto il sistema si basa su sette requisiti che assegnano 0, 10 o 20 punti. Per ottenere il permesso di soggiorno è necessario raggiungere 70 punti e tre requisiti sono obbligatori: un’offerta di lavoro approvata dal sistema, una professionalità adeguata al lavoro e una buona conoscenza della lingua inglese. Gli altri parametri (salario, titoli di studio o carenza di professionalità in un campo specifico) sono combinabili per l’ottenimento dei fatidici 70 punti. Ad esempio, si può avere un’offerta di lavoro con salario sotto il minimo previsto se in quel settore c’è necessità di manodopera, oppure se si ha un titolo di studio elevato.
È inoltre previsto un piano di aggiustamento per i cittadini europei già residenti che hanno fino al giugno 2021 per fare richiesta di cittadinanza e ai quali verrà assegnato un visto elettronico. 
La novità sostanziale è che i lavoratori non altamente formati non avranno più, teoricamente, modo di immigrare legalmente nel Regno Unito con due grandi eccezioni: agricoltura e assistenza sanitaria. E non è detto che rimarranno le uniche da qui all’approvazione della legge, considerando che interi settori dell’economia britannica, a partire appunto dal sistema sanitario, si reggono quasi esclusivamente sul lavoro degli stranieri, in particolare di cittadini europei.

Proprio il ministero che si troverà a gestire la delicata transizione del nuovo rapporto con l’Unione Europea e con il resto del mondo per quanto riguarda l’immigrazione è però al centro di grosse polemiche, scatenatesi lo scorso sabato a seguito delle clamorose dimissioni di Philip Rutnam, il più alto dirigente dell’Home Office, il ministero dell’Interno.

Rutnam ha accusato la ministra Priti Patel di aver compiuto nei suoi confronti, ed in generale del personale del ministero, atti di bullismo. Rutnam, in una conferenza stampa infuocata tenutasi strategicamente di sabato in modo da dominare i giornali di domenica, giorno di maggiore diffusione, ha annunciato una causa per mobbing nei confronti del governo.

I conflitti tra governo e alti funzionari ministeriali (che hanno una carriera indipendente e che sono dunque autonomi rispetto ai cambiamenti politici) non sono una novità, specie quando vi è un cambio radicale di linea politica a Downing Street, mai però avevano raggiunto un grado così elevato di conflittualità e un tale clamore, e sono certamente rappresentativi del livello di radicalità che Johnson e Cummings hanno portato a Downing Street.

Nelle prossime settimane si preannunciano sfide importanti per il governo, innanzitutto la gestione dell’epidemia del Coronavirus, il cui arrivo pare essere solo questione di tempo, e, soprattutto, il dipanarsi della fase più calda delle trattive per il futuri rapporti con l’Unione Europea: tutti e due i fronti hanno infatti dichiarato che se entro giugno non si dovesse ravvisare quantomeno la possibilità di firmare un accordo entro il mese di dicembre, allora dovrebbero cominciare i preparativi per una uscita “disordinata” e cioè con la riproposizione dello scenario del No Deal.

Vedremo dunque se Boris Johnson avrà la volontà e la forza politica per imporre quella che chiaramente è la sua visione di un Regno Unito che abbia con l’Unione Europea un rapporto molto lasco, privilegiando invece la “special relationship” con gli Stati Uniti e i rapporti con i Paesi del Commonwealth.

 

Immagine: Boris Johnson (13 dicembre 2019). Crediti: Cubankite / Shutterstock.com

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Il nuovo inizio della Gran Bretagna secondo Boris Johnson

Nella giornata di lunedì, a Greenwich, Boris Johnson ha presentato il suo piano per il futuro del Regno Unito all’indomani dall’uscita dall’Unione Europea (UE). Il primo ministro ha, anche simbolicamente, bandito dal suo discorso la parola Brexit, che deve essere da ora in poi considerata un fatto del passato. Per la Gran Bretagna, ha spiegato Johnson, è un nuovo inizio.

Fedele al suo stile arrembante, l’ex sindaco di Londra, ha tracciato il percorso che intende intraprendere per affrontare le trattive con l’Unione Europea per quanto riguarda i futuri rapporti, commerciali e non solo, tra i ventisette Paesi membri e il Regno Unito.

Particolarmente spavaldo è stato il passaggio sul tema più cruciale delle trattative, e cioè quello dell’allineamento normativo tra Regno Unito e Unione Europea, specie in materia commerciale. Tale allineamento è un prerequisito da rispettare per poter avere accesso al mercato unico europeo. Tuttavia, Johnson, con una variazione sul tema del vecchio detto “nebbia sulla Manica, il continente è isolato”, ha evidenziato come su molte normative il Regno Unito avrebbe una legislazione più avanzata di quella dell’Unione Europea: «non porremmo mai all’Unione, come prerequisito per un futuro accordo commerciale, l’obbligo di allinearsi alla nostra normativa e non siamo dunque disposti ad accettare una simile richiesta da parte dei nostri amici europei». Questa brillante disquisizione retorica si tradurrà tuttavia, c’è da scommetterlo, in una immediata partenza in salita per le trattive.

Il primo ministro britannico ha poi aggiunto che per l’accordo con l’Unione lui preferirebbe come modello quello al momento vigente tra UE e Canada. A parte il fatto che anche il trattato con il Canada prevede, in alcuni campi, un allineamento normativo, in questo caso il convitato di pietra sarebbe il tempo: tale accordo ha richiesto diversi anni per essere concluso e, nonostante questo, non è ancora al 100% operativo. Ciò si scontra con la volontà, espressa in più occasioni da Johnson, di concludere le trattative entro il 31 dicembre 2020, una tempistica che è già stata considerata irrealistica dalla presidente della Commissione europea von der Leyen.

Se un accordo di stile canadese non dovesse essere possibile, allora Johnson – sempre a Greenwich – ha detto che sarebbe soddisfatto anche di un accordo simile a quello che l’Unione ha con l’Australia. Tuttavia, tale evenienza sarebbe poco più che un’assenza di accordi commerciali tra UE e Regno Unito, con una normativa solo leggermente più avanzata rispetto a quella “base” che vige con i Paesi membri della WTO (World Trade Organization). Il che sarebbe coerente con l’affermazione più schietta del primo ministro: «non vedo nessuna necessità di legarci ad un accordo con l’Unione».

Infine, nel culmine della sua abilità retorica, Johnson ha escluso l’eventualità di un No Deal: «Un accordo ce lo abbiamo, è stato siglato», ha detto facendo riferimento al Withdrawal agreement ratificato la scorsa settimana. Tuttavia, come il governo britannico sa bene, tale accordo tratta solamente le condizioni del divorzio del Regno Unito dall’Unione e prevede un periodo di transizione che durerà sino al 31 dicembre 2020, data fino alla quale i britannici – pur essendo usciti dalle istituzioni europee – faranno ancora parte del mercato unico e dell’Unione doganale. Dal 1° gennaio 2021, in assenza di un nuovo accordo commerciale e senza il rinnovo del periodo di transizione, la Gran Bretagna diventerebbe formalmente un Paese straniero rispetto all’Unione e i rapporti verrebbero interrotti bruscamente, reintroducendo tutti i pericoli del No Deal evidenziati in questi anni dagli analisti, compresi quelli del governo di Sua Maestà.

Non è un caso infatti che i toni dell’Unione Europea, che con il suo capo negoziatore Michel Barnier ha nelle stesse ore di lunedì presentato il proprio piano per le trattative, siano diametralmente opposti rispetto a quelli britannici. Dal lato europeo si respira molto scetticismo sulla possibilità di chiudere un accordo in tempi brevi e si evidenzia la necessità di decidere circa un rinvio del periodo di transizione entro il 1° di luglio. Nel suo comunicato l’Unione invita esplicitamente gli operatori economici a prepararsi all’eventualità del No Deal.

Su uno dei temi più spinosi, quello del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, l’Unione ha specificato che il protocollo approvato insieme al Withdrawal agreement è indipendente dalle trattative che partiranno nei prossimi giorni, essendo stato studiato proprio per essere una soluzione durevole. Questo vuol dire che, accordo o non accordo, tra le due Irlande verranno ristabiliti dei controlli doganali che potranno essere evitati solo se si raggiungerà un accordo tra Regno Unito e UE che renda tali controlli non necessari.

Analizzando dunque queste primissime “schermaglie” pare evidente che la saga della Brexit non si è affatto conclusa, che a Johnson piaccia o meno, e che nei prossimi mesi le trattative domineranno il dibattito pubblico britannico e non solo.

 

Immagine: Boris Johnson e Angela Merkel, Berlino, Germania (21 agosto 2019). Crediti: 360b / Shutterstock.com

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La corsa per la conquista del Labour

Nel Regno Unito il 13 gennaio si è conclusa la prima fase delle elezioni per la leadership del Partito laburista, quella riservata al gruppo parlamentare. Per potere superare questo passaggio era necessario ottenere il sostegno di almeno il 10% dei membri del PLP (Parliamentary Labour Party). In cinque hanno superato questo ostacolo: Keir Starmer con 89 voti, Rebecca Long-Bailey con 33, Lisa Nandy 31, Jess Phillips e Emily Thornberry entrambe con 23 voti.

Contemporaneamente, e con le stesse identiche regole, si stanno svolgendo le elezioni per il ruolo di deputy leader, il vicesegretario, resesi necessarie dalla decisione di Tom Watson ‒ annunciata nel novembre scorso ‒ di dimettersi dal ruolo e non candidarsi per un seggio in Parlamento. La figura del vice non è niente affatto formale in tale contesto, gode anzi di molta autonomia politica, tanto che, sia storicamente che nel passato recentissimo, attorno al ruolo di deputy leader si sono svolti feroci scontri politici e, addirittura, una scissione dolorosa all’inizio degli anni Ottanta.

Per il ruolo di vice hanno superato il primo passaggio Angela Rayner con 88 voti, Ian Murray con 34, Dawn Butler con 29, Rosena Allin Khan 23 e per ultimo Richard Burgon con 22 voti, il minimo necessario per accedere alla competizione.

La fase successiva, che durerà dal 15 gennaio al 14 febbraio, sarà dedicata agli iscritti del partito, dei sindacati e delle associazioni affiliate. Per passare al terzo e ultimo step dell’elezione, infatti, ciascun candidato dovrà ottenere in questa fase il sostegno di sezioni locali del partito (CLP, Costituency Labour Party) che rappresentino almeno il 5% degli iscritti oppure di due sindacati o associazioni affiliate che rappresentino almeno il 5% degli iscritti del Labour. Si tratta di un passaggio tutt’altro che formale, che potrebbe rappresentare un’insidia per più di un candidato delle due competizioni, specialmente per quelli centristi come Jess Phillips e Ian Murray, considerando quanto la base laburista abbiamo dimostrato di essersi spostata su posizioni più radicali.

I candidati che supereranno questo secondo vaglio saranno inseriti nella scheda elettorale sulla quale dovranno esprimersi gli iscritti al partito (c’è tempo fino al 20 gennaio per iscriversi al Labour e avere diritto di voto), gli iscritti ai sindacati affiliati e i “sostenitori”, cioè coloro che – pur non essendo iscritti al partito ‒ tra il 14 e il 16 gennaio si siano registrati pagando una quota di 25 sterline per ottenere il diritto di voto.

Le votazioni si terranno a mezzo posta tra 21 febbraio e il 2 aprile con il sistema del voto alternativo, ossia con la possibilità di indicare l’ordine di preferenza tra i vari candidati: in questo modo se al primo scrutinio nessuno dovesse raggiungere il 50% delle preferenze si procederà a scrutinare nuovamente le schede dell’ultimo classificato ridistribuendole in base alla seconda preferenza sino a quando uno dei candidati non ottenga la maggioranza assoluta. I risultati definitivi verranno annunciati il 4 aprile 2020.

Al momento la campagna elettorale non è ancora entrata del tutto nel vivo perché i candidati sono stati più concentrati sull’ottenere il sostegno dei propri colleghi parlamentari, ma alcune tendenze iniziali paiono già delinearsi.

La prima è che l’alleanza elettorale e sociale che ha supportato Jeremy Corbyn non sosterrà compattamente nessuno dei candidati in nessuno dei due ruoli apicali del Labour.

I due più grandi sindacati britannici, infatti, Unite e Unison, quasi sicuramente prenderanno strade differenti, diversamente da quanto avvenuto nel 2015 e nel 2016, con il secondo che ha già annunciato il suo sostegno per Keir Starmer, mentre il primo, che al momento non si è ancora schierato, potrebbe appoggiare Rebecca Long-Bailey. Alcune figure apicali della campagna di Jeremy Corbyn stanno poi convergendo sulla candidatura di Starmer, mentre altre si schiereranno sulla Long-Bailey.

Più in generale molte anime della sinistra britannica che si erano riunite nella campagna di Corbyn, si stanno dividendo in queste ore su più candidati per vari motivi: il primo è che, a differenza che nel 2015 e nel 2016, ci sono più candidati che rappresentano – seppure in maniera diversa – la sinistra interna del Labour e che si posizioneranno dunque in base a scelte politiche più che meramente identitarie.

A prima vista proprio Starmer, ministro ombra della Brexit e la Long-Bailey, ministro ombra per lo Sviluppo economico, paiono essere i due destinati a contendersi la vittoria finale: il primo è dato in testa ai sondaggi e ha ottenuto il maggior numero di voti nel gruppo parlamentare, ma sa bene di avere davanti a sé una strada molto lunga per assicurarsi la vittoria. La base del partito, infatti, è molto più radicale del PLP e in quella base la Long-Bailey potrebbe godere di un appoggio molto più ampio di quanto i sondaggi riescano a percepire, specie se gli iscritti di Momentum dovessero decidere di confermare la decisione del comitato centrale dell’associazione nata attorno alla campagna del 2015 di Corbyn di sostenere la Long-Bailey.

Potrebbe poi esserci una terza incomoda, Emily Thornberry, ministro ombra degli Esteri, entrata per il rotto della cuffia con 23 voti nel gruppo parlamentare, ma che è donna di grande esperienza e abilità politica, con una straordinaria capacità oratoria dai banchi dell’opposizione e molto efficace nei dibattiti televisivi; Thornberry potrebbe rubare la scena ai due favoriti, che hanno minore esperienza politica e parlamentare della meno quotata avversaria.

Per quanto riguarda il ruolo di deputy la favorita pare Angela Rayner, ministro ombra dell’Istruzione, non solo perché ha ottenuto un grande appoggio dal proprio gruppo parlamentare, ma soprattutto perché il sostegno alle sue spalle è trasversale a tutte le anime del Labour, compreso lo stesso comitato centrale di Momentum. Inoltre, Angela Rayner e Rebecca Long-Bailey sono molto amiche e, entrate insieme in Parlamento nel 2015 ed essendo state elette in collegi della zona di Manchester, condividono un appartamento a Londra e hanno entrambe annunciato la loro candidatura in ticket, dandosi dunque reciprocamente forze.

Anche in questo caso, però, i giochi non sono fatti, perché ci sono candidati come Richard Burgon ministro ombra della Giustizia, e Dawn Butler, ministro ombra per i Diritti e l’Eguaglianza, che pur avendo ottenuto pochi consensi nel gruppo parlamentare sono sicuramente molto popolari nella base del partito e venderanno molto cara la pelle nella seconda e terza fase dell’elezione.

Il panorama di questo congresso pare dunque molto più frastagliato di quanto potesse sembrare qualche settimana fa, quando sembrava destinato a segnare una sostanziale continuità con la leadership di Corbyn, anche se appare chiaro che la linea politica del Labour si sia definitivamente spostata su posizioni più radicali, tanto che anche i candidati più “moderati”, se si escludono gli esponenti di “bandiera” della destra del partito Jess Phillips e Ian Murray, sono comunque espressione della sinistra del Labour e stanno presentando linee politiche in sostanziale continuità con la svolta radicale imposta al partito dall’ascesa a sorpresa di Corbyn nel 2015.

 

Immagine: I deputati del Partito laburista alla Conferenza di Brighton, Regno Unito (24 settembre 2019). Crediti: Wanderscot / Shutterstock.com

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La mappa della sconfitta del Labour

Le elezioni del 12 dicembre sono state un vero e proprio trionfo per il primo ministro uscente Boris Johnson, che sperava di incrementare la propria maggioranza di “soli nove seggi”, come chiedeva nel suo ultimo spot elettorale, e che invece tornerà giovedì in Parlamento con una maggioranza effettiva di ben 80 parlamentari.

Il merito va in gran parte al suo stratega, Dominic Cummings, che è riuscito a trasformare questa elezione in una riedizione del referendum sulla Brexit e, in tal modo, a portare molti elettori del Labour a non votare seguendo l’asse destra-sinistra, ma quello Leave-Remain.

Questo esito è stato certamente favorito dalla compattezza del fronte anti-Brexit: l’alleanza tra Boris Johnson e Nigel Farage ha aiutato in maniera decisiva i Tories a sconfiggere il Labour in quei collegi del Nord in cui il Leave aveva ottenuto grandi maggioranze, zone in cui infatti il Brexit Party ha ricevuto molti voti erodendo il consenso dei candidati laburisti.

Al contrario, la divisione del fronte del Remain ha danneggiato tutti i partiti, in primis il Labour e i Liberal Democrats (LibDems) che, competendo ferocemente gli uni con gli altri, hanno finito per favorire, nei singoli collegi, il candidato conservatore: un esempio su tutti è dato dal collegio di Kensington, a Londra, vinto per 20 voti – per la prima volta in decenni – dal Labour nel 2017 e perso per 200 questa volta anche grazie ad un 20% di voti conquistati dai LibDem, con il risultato di consegnare il collegio ad un candidato pro-Brexit.

Un vero cataclisma per il Labour è stato però il crollo del cosiddetto “Red Wall”, una fascia di collegi nel Nord-Est inglese ex minerario che da sempre garantiva maggioranze agevoli al Partito laburista e che in questa elezione sono passati per la prima volta da più di 50 anni al Partito conservatore. In quelle zone la crisi del Partito laburista era endemica almeno dal 2005, ma, nonostante ciò, la fedeltà al Labour non era mai venuta meno. Questa volta, complice il messaggio “Get Brexit Done”, la muraglia rossa è crollata, con risultati anche clamorosi come la perdita del seggio di Dennis Skinner, la Bestia di Bolsover, parlamentare ex minatore eletto a Westminster in quel collegio sin dal 1970. Così come clamorosa è stata la sconfitta di Laura Pidcock, giovane astro nascente del Labour indicata da più parti come possibile successore di Jeremy Corbyn alla leadership che però è stata sconfitta nel suo seggio di North West Durham. Entrambi questi seggi, da sempre laburisti, avevano dato grandi maggioranze al Leave nel 2016 ed erano rimasti fedeli al Labour e alla sua promessa di una soft Brexit nel 2017, ma questa volta hanno voltato le spalle alla proposta di un secondo referendum fatta dai laburisti.

Forte della vittoria ottenuta, Boris Johnson non ha ora più avversari, interni o esterni, in grado di impedirgli di perseguire la sua strategia per una Brexit il più rapida possibile. È facile immaginare che già dalla prossima settimana il Parlamento inizierà a votare l’accordo trattato da Johnson con l’Unione Europea e che non ci saranno problemi per il primo ministro a ratificare il compimento dell’abbandono dell’Unione entro il 31 gennaio 2020.

Johnson avrà inoltre una grande libertà nelle trattative successive, che saranno ancora più decisive per modellare il futuro dei rapporti tra l’Unione e il Regno Unito negli anni a venire e soprattutto per stabilire i nuovi rapporti commerciali con gli Stati Uniti di Donald Trump, che si è subito congratulato con il suo amico Boris per l’elezione.

La vittoria di Johnson, infatti, è stata così netta da consegnarli una maggioranza tale da renderlo immune a qualunque veto incrociato interno, proprio perché l’annichilimento quasi totale del Labour – che ha subìto la peggiore sconfitta in termini di seggi dal 1935 – e dei LibDem – che hanno addirittura perso la loro leader, Jo Swinson, sconfitta nel suo seggio e non più presente a Westminster – rende qualunque fronda interna inefficace per i prossimi quattro anni.

L’unico fronte sul quale Johnson potrebbe trovare difficoltà è quello scozzese. Sopra il Vallo di Adriano lo Scottish National Party (SNP) di Nicola Sturgeon ha ottenuto una vittoria clamorosa, conquistando 48 dei 59 seggi a disposizione; una grande avanzata che può essere considerata come un mandato diretto ad ottenere un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia. Una eventualità che Boris Johnson ha escluso categoricamente, ma che, c’è da scommetterlo, sarà un tema ricorrente nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

Il più grande partito di opposizione, il Labour, dovrà ora affrontare una lunga traversata nel deserto che partirà con l’elezione di un nuovo leader in seguito alle già annunciate dimissioni di Jeremy Corbyn: il processo di elezione del nuovo segretario dovrebbe partire il 7 gennaio 2020 e vede al momento favorita Rebecca Long-Bailey, quarantenne parlamentare di Manchester, membro del gabinetto ombra di Corbyn e sua storica alleata, sostenuta fortemente anche da John McDonnell e da Momentum, il movimento nato nel 2015 attorno alla candidatura di Jeremy Corbyn.

A meno di grandi sorprese, comunque, chiunque sarà il prossimo leader del Labour continuerà a provenire dalla “sinistra” laburista, confermando la linea voluta dagli iscritti sin dal 2015.

 

Immagine: Jeremy Corbyn (7 dicembre 2019). Crediti: ComposedPix / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Il_Regno_Unito_alla_vigilia_del_voto.html

Il Regno Unito alla vigilia del voto

Si concluderà domani una delle più strane campagne elettorali della storia britannica. Innanzitutto perché erano quasi 100 anni (dal 1923) che non si teneva una elezione nel mese di dicembre e soprattutto per il clima politico che ha circondato questa brevissima corsa alle urne.

È impossibile fare previsioni sul risultato finale, nella storia recente del Regno Unito l’unica costante è stata infatti l’assoluta fallacia delle previsioni dei sondaggisti. Nel 2015 si dava per scontato un pareggio tra Cameron e Miliband, mentre gli elettori consegnarono il Paese ai conservatori con una larga maggioranza. Nel 2016 il Remain era dato per favorito e sappiamo tutti come è finito il referendum sulla Brexit. Nel 2017 Theresa May era convinta di ottenere una delle più grandi vittorie della storia dei Tories e si è ritrovata invece con una maggioranza risicata, con Jeremy Corbyn dato per spacciato che invece è arrivato ad un passo dalla vittoria.

Oggi quindi nessuno può dire con certezza se, come appare dai sondaggi, Boris Johnson possa dormire sonni tranquilli. Tuttavia, dall’analisi generale dei sondaggi e dall’andamento della campagna si può fare già adesso una analisi di quello che è accaduto.

Il dato principale e sicuramente più interessante è che i due grandi vincitori delle elezioni europee di maggio, il Brexit Party e i Liberal Democrats (LibDems), sono stati – come al solito – risucchiati dalla forza polarizzante del sistema elettorale britannico.

Il sistema del first-past-the-post che, alle elezioni politiche, consegna ciascuno dei 650 collegi elettorali al candidato che abbia ottenuto anche un solo voto in più rispetto agli altri senza nessun recupero proporzionale, tende a favorire enormemente i partiti più grandi a scapito di quelli “minori”. E così Nigel Farage (leader del Brexit Party) e Jo Swinson (leader dei LibDems) sono stati espunti dal dibattito politico polarizzato tra Johnson e Corbyn.

Questo, va detto, anche per ragioni politiche: entrambi i partiti hanno incentrato la loro campagna sulle sponde opposte della discussione sulla Brexit, Farage invocando un’uscita incondizionata dall’Unione Europea (UE) e la Swinson con una revoca unilaterale della Brexit. Queste due posizioni sono state fagocitate dall’approccio “get Brexit done” di Johnson e dall’offerta di un secondo referendum fatta da Corbyn e dal Labour.

E così abbiamo assistito ad un calo costante nei sondaggi dei due vincitori indiscussi del maggio 2019 che, verosimilmente, saranno pressoché ininfluenti nel prossimo Parlamento di Westminster.

Il primo ministro, come ampiamente prevedibile, ha condotto una campagna elettorale tutta centrata sulla promessa di condurre il Regno Unito fuori dall’Unione entro il 31 gennaio 2020 attraverso l’approvazione in Parlamento dell’accordo da lui trattato con i 27 membri dell’UE. Il manifesto elettorale dei Tories, il programma di governo, a differenza del 2017 – quando fu un vero e proprio disastro mediatico e politico – è stato molto generico e molto poco “pubblicizzato”, anche perché su temi cruciali per la vita dei cittadini britannici, dopo 9 anni di governo conservatore era pericoloso annunciare grandi promesse. E infatti, specie in tema di servizio sanitario nazionale, non sono mancate le polemiche nei confronti di Johnson e il suo partito, specie perché in piena campagna elettorale sono stati pubblicati da organismi indipendenti dati disastrosi sul Servizio sanitario nazionale (NHS, National Health Service) e in queste ore, come sempre d’inverno, stanno fioccando casi di profonda crisi di posti letto e liste d’attesa interminabili in molti ospedali del Regno Unito.

Ad ogni buon conto, Johnson fino ad oggi è riuscito ad evitare grandi gaffe (uno dei pericoli più temuti dai Tories, visto il profilo imprevedibile che si è costruito negli anni l’ex sindaco di Londra) e veleggia oltre il 40% secondo tutti gli istituti demoscopici.

Corbyn ha avuto una campagna elettorale più “avventurosa”, partendo da grande sfavorito e dovendo darsi molto da fare per recuperare il gap tra il suo Labour e i Tories.

Il leader laburista ha cercato di parlare il minimo indispensabile della Brexit, concentrandosi invece su due grandi temi: l’emergenza climatica da affrontare e l’NHS da “salvare”. Sul primo punto, al quale è dedicata una importante parte del manifesto elettorale laburista, ha proposto un imponente piano di investimenti pubblici che favoriscano la riconversione dell’industria britannica e lancino una rivoluzione industriale verde, nella speranza di mobilitare l’elettorato giovane che nello scorso anno ha dato seguito agli scioperi del venerdì e al movimento Extinction Rebellion.

Ma è sul tema dell’NHS che Corbyn ha giocato quasi tutte le sue carte, rivelando al pubblico in due occasioni documenti riservati del governo britannico impegnato a trattare con gli Stati Uniti un presunto accesso delle grandi industrie farmaceutiche statunitensi nel “mercato sanitario” britannico. Eventualità smentita con forza, ma non senza qualche imbarazzo, da Johnson.

La Brexit è stato uno dei punti più controversi dell’approccio laburista. Ad inizio di campagna elettorale c’è stato l’annuncio della posizione ufficiale: la volontà di trattare un nuovo accordo con l’Unione che – tradotto in poche parole – sia simile a quello che vige adesso tra UE e Norvegia, e di sottoporre tale accordo ad un referendum confermativo che abbia come opzione alternativa il Remain e cioè l’annullamento della Brexit. Nelle prime settimane di campagna elettorale Corbyn si è rifiutato di dire quale sarebbe stata la sua posizione in un simile referendum. Solo qualche giorno fa il leader laburista ha chiarito che la posizione del suo governo sarebbe di neutralità, per permettere al dibattito di svolgersi in maniera più libera possibile.

Secondo i sondaggi sarà proprio sul tema Brexit che si giocherà il futuro della prossima legislatura: se Johnson riuscirà a sfondare nel Nord e nel Galles in quei collegi storicamente “rossi” che però hanno dato maggioranze bulgare al Leave, allora i Tories si garantiranno una grande maggioranza parlamentare. Se invece il Labour riuscirà nell’impresa già riuscita nel 2017 di reggere nelle sue zone tradizionali rosse e al contempo mantenere il controllo del voto delle grandi città (a partire da Londra) con elettorato europeista, allora si potrebbe aprire lo scenario di un nuovo Parlamento “appeso” e cioè senza una maggioranza chiara. In quel caso si aprirebbero scenari inediti con un possibile protagonismo dell’SNP (Scottish National Party), i nazionalisti scozzesi, che seppure hanno avuto pochissima rilevanza nella campagna elettorale nazionale, saranno sicuramente confermati come il primo partito in Scozia, accaparrandosi quasi tutti i collegi a nord del Vallo di Adriano, confermandosi il terzo partito a Westminster per la terza elezione in fila.

Occorre infatti ricordare che, secondo tutte le previsioni, se i Tories dovessero avere un vantaggio di “soli” sei o sette punti percentuali sul Labour, difficilmente saranno in grado di formare un governo senza una coalizione. E questa volta non potranno contare sui voti degli unionisti irlandesi del DUP (Democratic Unionist Party) che si sono già rifiutati a ottobre di votare l’accordo di Johnson.

Insomma, come avvenuto ultimamente, per sapere cosa accadrà in Gran Bretagna non possiamo fare altro che aspettare.

 

Immagine: Jeremy Corbyn durante la campagna elettorale, Barry, Galles, Regno Unito (7 dicembre 2019). Crediti: ComposedPix / Shutterstock.com

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Lindsay Hoyle, il nuovo speaker della Camera dei Comuni inglese

Oggi il Parlamento di Westminster verrà sciolto per essere riconvocato il 13 dicembre, il giorno dopo le elezioni politiche che ne sceglieranno la nuova composizione. Prima di “dissolversi”, però, la House of Commons ha eletto il suo nuovo presidente.

Nel panorama istituzionale continentale, e in particolare italiano, è un fatto totalmente impensabile che una Camera elegga il proprio presidente come ultimo atto di una legislatura, ma questo deriva dal fatto che – almeno in linea teorica – nel Regno Unito lo Speaker della House of Commons è una carica “immune” dai cambiamenti politici ed elettorali della Camera che presiede e, anzi, la durata stessa del suo mandato è, per consuetudine, slegata dalle legislature parlamentari.

Come spesso accade nel Regno Unito, però, non esiste una normativa scritta precisa sulla figura dello speaker, per cui la durata stessa del mandato è totalmente affidata alle consuetudini parlamentari. Consuetudini che, in caso di una crisi istituzionale come quella che sta vivendo dal 2016 la Gran Bretagna, vengono piegate e divengono teatro di polemica politica.

Lo Speaker della House of Commons è un parlamentare che viene eletto in due fasi, la prima con uno scrutinio segreto che ha il compito di fare una selezione tra tutti i candidati (si sono presentati ai nastri di partenza in sette, cinque laburisti e due conservatori). Una volta conclusa questa fase – in cui viene escluso ad ogni votazione il candidato con il numero minore di voti sino a quando non ne rimangano solo due o uno dei candidati non ottenga la maggioranza assoluta dei voti espressi – il Father of the House (il parlamentare più “anziano” e cioè con più anni in Parlamento che ha l’incarico di presiedere la fase di elezione dello speaker) chiede alla Camera di eleggere con voto palese – e per consuetudine unanime – il vincitore della fase a scrutinio segreto.

Non appena eletto lo speaker rinuncia alla propria affiliazione politica e diventa un parlamentare indipendente che non partecipa ai voti della House of Commons a meno che questa non arrivi allo stallo di un “pareggio”. A quel punto lo speaker esprime il suo voto che, per consuetudine, è sempre in favore della posizione del governo.

Per garantire la sua imparzialità (e la sua rielezione) i principali partiti del Paese non presentano candidati nel collegio di elezione del presidente, che viene indicato sulla scheda elettorale come “Speaker seeking re-election”. Formalmente il presidente decade insieme alla Camera e alla riapertura della House of Commons in seguito alle elezioni è necessaria una nuova elezione, ma questa volta – sempre per consuetudine – la rielezione è automatica e si procede per acclamazione con voto palese. Questo fino a quando lo stesso speaker non decida di dimettersi, innescando così la procedura di selezione di cui sopra.

D’abitudine lo speaker rimane in carica per un periodo non superiore ai nove anni, ma, come detto, la durata stessa del mandato non è normata in maniera formale. A causa del subbuglio parlamentare provocato dalla Brexit, quella di John Bercow – in carica per dieci anni – è stata la presidenza più lunga del dopoguerra e, nel Novecento, i due presidenti che sono rimasti in carica oltre i nove anni lo hanno fatto in periodi in cui il Regno Unito era in guerra o impegnato ad evitarne una.

John Bercow, tuttavia, è stato un presidente controverso in molti aspetti della sua presidenza e anche la decisione di dimettersi dalla carica è stata conseguente al suo “personaggio”. Il 9 settembre 2019 l’ormai ex speaker aveva infatti annunciato l’intenzione di non ricandidarsi se il Parlamento avesse votato per nuove elezioni (come chiedeva per la prima volta Johnson in quell’occasione) e – provocatoriamente e sapendo che quella mozione sarebbe stata bocciata – aveva dichiarato che in ogni caso il 31 ottobre (data all’epoca prevista come termine ultimo per compiere la Brexit), si sarebbe dimesso dal ruolo di speaker. Nel suo discorso, Bercow aveva espresso la precisa volontà che il suo successore fosse eletto da questo Parlamento invece che da una nuova legislatura più influenzabile dalla nuova maggioranza e composta da parlamentari meno esperti. Bercow, centrando in pieno la previsione, immaginava che in ogni caso intorno alla data del 31 ottobre il Parlamento e il governo avrebbero in un modo o nell’altro concordato di indire nuove elezioni politiche, lasciando però una finestra di tempo per eleggere il nuovo speaker.

Questo spiega perché due giorni fa si è proceduto all’elezione di Sir Lindsay Hoyle alla carica di Speaker della House of Commons. Come consuetudine (parola ricorrente, ce ne rendiamo conto) ad un parlamentare conservatore ne succede uno laburista.

Hoyle è infatti dal 1997 un MP (Member of Parliament) della constituency di Chorley, eletto nelle file del Partito laburista. Il nuovo presidente è un figlio d’arte, poiché suo padre Doug è stato parlamentare del Labour quasi ininterrottamente dal 1974 al 1997, anno in cui, mentre il figlio varcava le soglie della House of Commons, veniva nominato Lord e dunque membro a vita dalla House of Lords, la Camera alta nella quale ancora oggi siede.

Hoyle è sin dal 2010 vicepresidente della Camera che da ieri sera presiede, e in questi anni si è conquistato la reputazione di uomo delle istituzioni, costruendo attorno a sé un consenso diffuso e una reputazione di imparzialità che lo hanno reso sin dall’inizio il favorito alla successione a Bercow. La sua candidatura è frutto infatti di una collaborazione anche con eminenti esponenti del Partito conservatore e questo spiega perché sin dalla primissima votazione Hoyle si sia assicurato quasi la maggioranza assoluta ad ogni scrutinio segreto nonostante ‒ come detto ‒ i candidati ai nastri di partenza fossero ben sette, inclusa una sua collega vicepresidente ed eminente esponente Tories, Eleanor Laing.

Il nuovo speaker, per indole, ma anche per volontà politico-istituzionale, si preannuncia come un presidente molto diverso rispetto a Bercow. Il presidente uscente infatti, favorito certamente dall’aver presieduto la Camera in un periodo politicamente così instabile e con governi senza maggioranza su aspetti cruciali del proprio operato, si è contraddistinto per il grande interventismo, in particolare nell’ostacolare il governo nei suoi tentativi di bypassare passaggi parlamentari che si prevedevano difficili. Bercow ha anche rivoluzionato il Prime Minister’s Questions Time del mercoledì, che prima consisteva nel confronto tra primo ministro e leader dell’opposizione e poche altre domande da parte di altri parlamentari, trasformandolo in una seduta fiume in cui il governo, per la gioia dei backbenchers (e cioè i parlamentari “semplici”, non membri né del governo né del gabinetto ombra dell’opposizione), era obbligato a rispondere anche per ore a tutte le domande del Parlamento. Inoltre, Bercow ha riscoperto vecchie pratiche parlamentari che favorivano l’approvazione di provvedimenti legalmente vincolanti per il governo anche se provenienti dall’opposizione, così come favorito l’utilizzo delle domande urgenti (urgent questions) per permettere ai parlamentari di obbligare il governo a rispondere anche al di fuori del Questions Time. D’altronde Bercow ereditava un Parlamento travolto dallo scandalo dei rimborsi elettorali, in cui decine di parlamentari sono stati “pizzicati” a inserire come spese di rappresentanza acquisti personali e del tutto slegati dall’attività parlamentare, e lo ha rimesso al centro della vita istituzionale del Paese. In questa opera ha piegato in proprio favore il malleabile impianto delle consuetudini parlamentari, inimicandosi il suo stesso partito che – infatti – non è scontato che (se dovesse tornare al governo) lo nomini Lord a vita, come accade sempre per gli speaker dopo le dimissioni.

Lindsay Hoyle si presenta dunque come uno speaker più imparziale e – soprattutto – meno protagonista della battaglia parlamentare, anche se questo dipenderà molto dalla conformazione del Parlamento che uscirà dalle urne il 12 dicembre.

Nel Regno Unito siamo infatti ora in piena campagna elettorale, con tutti i partiti che hanno ormai lanciato la loro corsa e iniziato a dispiegare le macchine elettorali. Si stanno poco a poco delineando le varie strategie, in maniera – per il momento – abbastanza prevedibile.

Johnson vuole centrare la sua campagna sull’ormai rodato slogan “Get Brexit done”: chiede ai cittadini britannici un mandato pieno per poter approvare in tempi brevi l’accordo da lui trattato con l’Unione Europea (UE), procedere ad una Brexit ordinata e alla stipula di nuovi trattati commerciali a partire da un nuovo accordo con gli Stati Uniti e il suo grande amico Donald Trump. Il primo ministro è arrivato addirittura a scrivere una provocatoria lettera a Jeremy Corbyn in cui chiede al leader laburista di dire chiaramente quale sia la sua posizione sul tema Brexit.

Di par suo il leader dell’opposizione vuole parlare il meno possibile dell’uscita dall’Unione Europea per concentrarsi, come nel 2017, su temi di politica interna quali la disuguaglianza, la crisi climatica e la carenza di fondi dell’NHS (National Health Service), il servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda la Brexit, la posizione è quella approvata alla conference laburista di settembre: negoziare un nuovo accordo con l’UE costruito attorno all’idea di fare parte di una unione doganale, e sottoporre l’accordo ad un referendum confermativo in cui l’alternativa sia l’opzione di annullare la Brexit.

I sondaggi, che sono da prendere con le pinze avendo fallito miseramente nel predire i risultati almeno dal 2015 in poi, per ora danno i Tories con un solido vantaggio nei confronti del Labour, anche se si nota una tendenza – man mano che ci si avvicina alla scadenza elettorale – alla polarizzazione nei confronti dei due partiti principali a scapito dei due vincitori delle elezioni europee dello scorso giugno: il Brexit Party di Nigel Farage e i LiberalDemocrats di Jo Swinson.

Per il 19 novembre è previsto sul canale ITV il primo confronto televisivo tra Corbyn e Johnson che, a differenza della May, ha annunciato che prenderà parte a questi scontri pre-elettorali confermando la presenza anche a quello che organizzerà la BBC con tutti i leader dei partiti che partecipano alle elezioni.

Su questi più grandi partiti britannici domina poi il convitato di pietra, l’SNP (Scottish National Party), il partito nazionalista scozzese, che quasi sicuramente farà nuovamente il pieno nella propria terra e che potrebbe confermarsi, con poco più o poco meno di un milione di voti, il terzo partito a Westminster.

Per quella data anche grazie alla pubblicazione del manifesto elettorale di ciascun partito, il programma elettorale che nel mondo anglosassone ha una valenza in qualche modo formale che gli attribuisce una importanza ben maggiore rispetto ai programmi elettorali italiani, sarà possibile farsi un’idea più chiara dell’andamento di questa breve campagna elettorale invernale che rischia di consegnare al Regno Unito un altro “hung parliament”. È concreta per l’appunto la possibilità che nessun partito sarà in grado di esprimere una maggioranza assoluta senza formare una coalizione o un governo di minoranza.

In quel caso il ruolo dello speaker sarà giocoforza centrale e potremmo imparare a conoscere meglio il mite – quantomeno in apparenza – Lindsay Hoyle.

 

Immagine: Lindsay Hoyle (1 giugno 2017). Crediti: Chris McAndrew (https://api20170418155059.azure-api.net/photo/aNmJtA7U.jpeg?crop=MCU_3:2&quality=80&download=true Gallery: https://beta.parliament.uk/media/aNmJtA7U) [CC BY 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0)], attraverso Wikimedia Commons, successivamente modificata

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Brexit, come si è arrivati a un nuovo rinvio

Ieri a Westminster abbiamo assistito all’ennesima giornata cruciale per la vicenda Brexit. Il Parlamento britannico, come ormai d’abitudine, ci ha consegnato un risultato per certi versi paradossale e che vale la pena di provare a decifrare.

I voti di ieri sera avvenivano a poche ore da un’altra giornata storica, quella della seduta di sabato 19 ottobre. La House of Commons infatti non si riuniva di sabato dai tempi della guerra delle Falkland e, nel secondo dopoguerra, solo un’altra volta era stata convocata nel fine settimana. Sabato scorso i parlamentari votando un emendamento a prima firma Letwin (parlamentare Tory) e sostenuto da mp (member of Parliament) di tutti i partiti, aveva di fatto deciso di non esprimersi sul nuovo accordo trattato da Boris Johnson fino a quando il governo non avesse sottoposto al Parlamento un pacchetto legislativo completo. Johnson si opponeva a questa eventualità perché rendeva improbabile, se non impossibile, approvare una legislazione così complessa in tempo per mantenere la promessa di far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea entro il 31 ottobre. Infatti, una volta approvato l’emendamento Letwin, Johnson è stato costretto a inviare una lettera all’Unione Europea, in ottemperanza alla legge Benn approvata un mese fa, in cui si faceva richiesta di una estensione alla scadenza prevista al momento del 31 ottobre. Tale lettera (non firmata) era però accompagnata da una seconda lettera (questa volta firmata) in cui il primo ministro spiegava di essere contrario all’eventualità di un nuovo rinvio e che sperava di riuscire a convincere il Parlamento a votare per l’accordo.

Per questa ragione lunedì, alla riapertura del Parlamento, Jacob Rees-Mogg, Leader of the House e cioè colui che ha il compito di annunciare all’Aula l’agenda con cui il governo intende procedere alla discussione dei propri provvedimenti, ha provato a riproporre la votazione dell’accordo “a scatola chiusa” con una mozione identica a quella di sabato. Il presidente della Camera John Bercow (che il 31 ottobre si dimetterà) ha negato al governo la possibilità di riproporre al Parlamento una mozione identica a quella appena discussa, cosa che aveva già fatto con Theresa May all’inizio di quest’anno.

A questo punto il governo, come già annunciato da Johnson sabato, ha deciso di procedere a tappe serrate con la discussione del pacchetto legislativo, il cosiddetto Withdrawal Agreement Bill (in seguito WAB) pubblicato nella tarda serata di lunedì. L’intenzione di Johnson era quella di procedere alle varie letture e approvazioni in Parlamento entro giovedì (cioè domani) sempre con l’idea di far entrare la legge in vigore prima del 31 ottobre, certo, ma in realtà anche per togliere ai parlamentari il tempo e il modo di proporre e votare emendamenti alla legge proposta dal governo.

Come ogni legge, infatti, il WAB è completamente emendabile e alla fine di tutti i passaggi parlamentari potrebbe diventare qualcosa di totalmente diverso da quanto proposto inizialmente dal governo, soprattutto considerando che Johnson è ormai un primo ministro di minoranza, in particolare ora che il DUP (Democratic Unionist Party, il partito degli unionisti nordirlandesi che fa – o forse faceva – parte della maggioranza di governo) si è schierato contro il WAB.

Tuttavia, il calendario dei lavori parlamentari su un disegno di legge (programme motion) è proposto dal governo, ma deve essere votato dal Parlamento che, bocciandolo, assume in capo a sé il calendario dei lavori. Pertanto per Johnson era cruciale una vittoria su questa mozione per poter mantenere il controllo dei tempi parlamentari per riuscire a disinnescare la richiesta di rinvio della Brexit da lui stesso inviata.

Questa lunga introduzione serve per illustrare meglio l’importanza dei due voti di ieri sera.

La prima votazione era sulla seconda lettura del WAB. Per quanto sia una procedura controintuitiva, la seconda lettura è la prima occasione per il Parlamento di esprimersi su di una legge, essendo la prima lettura una formalità in cui viene semplicemente letto il nome della legge e la stessa viene pubblicata. Nella seconda lettura (second reading) la legge viene dibattuta dal Parlamento – cosa avvenuta ieri – e viene votata per la prima volta: solo in seguito ad una eventuale approvazione si può poi procedere alla discussione nelle commissioni, alla discussione e votazione di emendamenti e, infine, a due altre votazioni (third and fourth reading). Occorre tenere a mente questi passaggi per comprendere dunque che l’approvazione del second reading è il primo di una serie di lunghissimi passaggi parlamentari propedeutici all’entrata in vigore di una legge. La votazione circa il second reading del WAB è stata vinta dal governo con una maggioranza di 329 voti contro 299. Come si è detto un primo passaggio non cruciale, ma che ha comunque segnato una piccola vittoria storica per Johnson che, a differenza della May, è riuscito ad ottenere un voto favorevole della House of Commons sul suo accordo.

Tuttavia, la votazione più importante della serata era quella sulla già citata Programme Motion: Johnson nel presentare il WAB nel pomeriggio aveva avvisato il Parlamento che se non avesse approvato i tempi da lui proposti per la discussione del provvedimento, sarebbe stato costretto ad accelerare i preparativi dall’uscita senza accordo e al contempo a ritirare l’accordo stesso dalla discussione. Questo perché, ha spiegato in più occasioni il primo ministro, non ha intenzione di essere trascinato in settimane – se non mesi – di dibattito parlamentare che renderà inevitabile un rinvio a tempi medio-lunghi dalla Brexit.

Le opposizioni, più compattamente di quanto non avvenuto in occasione del second reading, erano schierate contro la Programme Motion, potendo questa volta contare anche su alcuni dissidenti conservatori che invece avevano votato poco prima per il WAB. E così il governo è stato sconfitto con 322 voti contrari e solo 309 a favore della mozione.

Un buon numero di parlamentari, compresi alcuni laburisti, avevano infatti votato per il second reading perché in linea di principio favorevoli all’idea di procedere con la Brexit, ma erano contrari alla sostanza del provvedimento e volevano avere il tempo e il modo di emendarlo con proposte che sono già sul campo, come quella di introdurre un’unione doganale o l’eventualità di un referendum conservativo.

Jeremy Corbyn immediatamente dopo il voto ha offerto al primo ministro la disponibilità a lavorare insieme per stabilire l’agenda dei lavori e trovare un sentiero per procedere alla discussione dell’accordo.

La riposta di Johnson non si è fatta attendere: ha annunciato la volontà del governo di “mettere in pausa” la discussione sul WAB e attendere la decisione del Consiglio europeo sulla richiesta di rinvio fatta nella tarda serata di sabato.

Anche la riposta europea non si è fatta attendere: il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dichiarato che in seguito alla pausa annunciata da Johnson avrebbe consigliato ai leader dei ventisette Paesi membri di accettare la richiesta di rinvio, per evitare una Brexit senza accordo.

Ancora una volta, dunque, non ci resta che aspettare. Se i ventisette accetteranno la proposta di rinvio, verosimilmente al 31 gennaio 2020, allora quasi certamente Boris Johnson chiederà nuovamente le elezioni anticipate e, con il rinvio approvato dall’Unione, le opposizioni difficilmente questa volta si opporranno.

Si avvicina dunque la terza elezione politica nell’arco di quattro anni, uno scenario decisamente insolito per quello che una volta era considerato lo stabile sistema di Westminster; la data più probabile parrebbe essere quella del 12 dicembre.

 

Immagine: Boris Johnson (21 agosto 2019). Crediti: photocosmos1 / Shutterstock.com

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“Get Brexit done”, parola di Boris Johnson

Si è conclusa ieri a Manchester la conference del Partito conservatore. Un appuntamento dominato dall’imminente uscita dall’Unione Europea, a partire dallo slogan che campeggiava ovunque: “get Brexit done” (portiamo a termine la Brexit). Attesissimo era il discorso di Boris Johnson, alla sua prima conference da leader e da primo ministro. Sembrano passati anni luce dallo scorso appuntamento a Birmingham, dove Johnson era stato messo ai margini dall’allora leader Theresa May, ieri destinataria di ringraziamenti da parte di Johnson, anche se l’impressione è che non sia ora particolarmente amata dalla base conservatrice.
Il discorso del primo ministro ha avuto i contorni del comizio elettorale più che di una precisa linea programmatica. A partire proprio dalla Brexit. Sebbene l’ex sindaco di Londra abbia parlato di un nuovo accordo pronto per essere proposto, non è stato fatto cenno a nessuna precisa soluzione alternativa, soprattutto per quanto riguarda il tema cruciale: il confine con il Nord Irlanda.
In compenso Johnson è stato molto chiaro: non ci sono alternative ad un’uscita dall’Unione entro il 31 ottobre, con o senza accordo. Non è tuttavia chiaro come questa ferma intenzione possa essere tradotta nei fatti, in quanto ad oggi la legge impedisce al primo ministro di procedere ad un’uscita senza accordo e lo obbliga a chiedere un rinvio.
Il leader dei Tories ha attaccato duramente il suddetto provvedimento e, nonostante le dure polemiche che gli vengono rivolte per l’aggressività del suo linguaggio, lo ha nuovamente definito «Surrender bill»: la legge della resa. Molto duri sono stati anche gli attacchi al Parlamento e al suo presidente: seppure con il suo ormai proverbiale humor al vetriolo, Johnson ha definito la House of Commons come un luogo inefficiente e antidemocratico.
Come è ovvio anche il leader dell’opposizione Jeremy Corbyn è stato oggetto di passaggi assai duri (e applauditissimi) da parte del primo ministro, che ‒ seppure ironicamente ‒ si è augurato che venga «spedito in orbita spaziale».
Insomma Johnson è già in campagna elettorale e il suo discorso è sembrato avere proprio l’obiettivo di galvanizzare la base elettorale conservatrice per prepararla ad una competizione che si preannuncia molto dura nei toni.

A poche ore di distanza, nel pomeriggio, è poi stata consegnata a Bruxelles la proposta del Regno Unito per risolvere il problema del confine tra le due Irlande, secondo il quale l’Irlanda del Nord dovrebbe applicare le regole europee sul commercio, solo dopo, però, la loro approvazione da parte del Parlamento del Nord Irlanda al fine di permettere la loro entrata in vigore, e poi di nuovo ogni quattro anni. Considerando che in Nord Irlanda da mesi non si riesce nemmeno a formare un governo, sembra un ostacolo difficile da superare. Non si prevede, infine, un'unione doganale tra le due Irlande; il tema cruciale dei controlli al confine verrebbe evitato con quello che sembra essere un escamotage retorico più che una proposta concreta: i controlli verrebbero effettuati lontano dal confine e grazie a nuovi apparati tecnologici.

Nel complesso sembra una proposta che difficilmente l’Unione Europea potrà accettare, anche se la prima reazione di Jean-Claude Juncker non è stata del tutto negativa, pur evidenziando che a prima vista ci sono ancora dei problemi.

Infine, le opposizioni non hanno trovato una soluzione per sfiduciare Johnson senza consegnare il Paese all’incertezza delle urne. Il Labour propone un governo di unità nazionale guidato dal suo leader per chiedere un rinvio della Brexit e indire nuove elezioni. Un piano che ha trovato l’approvazione del secondo partito di opposizione, lo Scottish National Party (SNP), mentre i Liberal Democrats (LibDem) e i dissidenti Tories (decisivi per formare una maggioranza alternativa) sono disposti ad appoggiare un governo di coalizione solo se a guidarlo non sia Corbyn.
Siamo dunque ancora ad uno stallo, che però entro il prossimo Consiglio europeo dovrà trovare uno sbocco, anche se è praticamente impossibile, al momento, capire quale.

 

Immagine: Boris Johnson a Berlino, Germania (21 agosto 2019). Crediti: photocosmos1 / Shutterstock.com

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Brexit, tra Corte suprema e dilemmi politici

La politica britannica negli ultimi anni ci ha regalato talmente tanti colpi di scena che ormai si rischia di sembrare esagerati nell’usare termini come “giornata storica”. Eppure, come si potrebbe definire in altro modo una giornata in cui la Corte suprema, all’unanimità, giudica «illegittima, nulla e senza effetti» una decisione del governo?

Parliamo della decisione di Boris Johnson di “prorogare” la pausa del Parlamento per cinque settimane. Gli undici giudici della più alta corte del Paese hanno stabilito che il “consiglio” del primo ministro alla regina andasse contro la legge e, di conseguenza, hanno considerato nulla la sospensione del Parlamento che quindi, tecnicamente, non è stato mai sospeso. Di fatto, i giudici hanno stabilito che il primo ministro ha violato la legge.

La clamorosa decisione è stata annunciata nella mattinata di ieri causando una vera e propria rivoluzione dell’agenda politica. Johnson si trovava infatti a New York per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, mentre Jeremy Corbyn e tutto il Partito laburista erano impegnati nella conference annuale a Brighton.

Il presidente della Camera, il dimissionario John Bercow, ha immediatamente convocato il Parlamento per oggi alle 11.30 obbligando Johnson a rientrare da New York e Corbyn ad anticipare il suo discorso alla conference previsto per oggi.

Il leader laburista ha chiesto le dimissioni di Johnson mettendo però in chiaro che deve prima rispettare la legge approvata due settimane fa che lo obbliga a chiedere un rinvio della Brexit, per evitare quello che ha definito il disastro del No Deal. Sempre sul fronte della Brexit, Corbyn ha annunciato la nuova linea approvata lunedì in una conference piuttosto accesa sul tema: prima di tutto occorre impedire il No Deal e obbligare il governo a chiedere un’ulteriore proroga all’Europa. Dopodiché, una volta svoltesi le elezioni (che i laburisti si augurano di vincere), assicurare entro tre mesi un nuovo accordo con l’Unione Europea che preveda una soft Brexit, preservando cioè uno stretto legame con i ventisette Paesi membri. Entro i due mesi successivi questo accordo verrebbe sottoposto al vaglio dell’elettorato con un nuovo referendum che preveda la possibilità di scegliere di rimanere nell’Unione e annullare la Brexit. Il Labour deciderà quale linea adottare su quel referendum con una conference straordinaria di un giorno in cui verrà votata la posizione ufficiale.

Corbyn ha dovuto mettere tutto il suo peso su questa posizione, chiedendo anche il supporto dei sindacati (decisivi nel voto grazie ai milioni di iscritti e che “pesano” dunque più dei soli iscritti del Labour), questo perché molti, anche tra i suoi alleati, volevano che la conference approvasse una mozione che impegnasse già da subito il Labour a schierarsi per il Remain. Questa mozione è stata bocciata con una maggioranza non proprio schiacciante e tra le proteste dei sostenitori, che per diversi minuti hanno contestato la decisione della presidenza e chiesto che il voto non si tenesse per alzata di mano, ma con votazione attraverso le apposite schede. La protesta però è stata smorzata dalla grandissima maggioranza con cui la sala ha approvato le due mozioni a sostegno della linea di Corbyn, che è dunque uscito rafforzato da una situazione che sembrava poterlo mettere molto in difficoltà.

Per il momento il leader laburista potrà portare avanti la sua linea e in questo modo potrà, almeno questa è la sua intenzione, non rivolgersi solo ai sostenitori del Remain, ma anche a coloro che hanno votato per uscire dall’Unione. A loro, dice Corbyn, il Labour è in grado di proporre una valida alternativa al disastro del No Deal che sia però rispettosa del risultato referendario del 2016.

Molte personalità del Labour, a partire dai più importanti membri del suo gabinetto ombra, hanno però annunciato apertamente che quando arriverà il momento faranno campagna per rimanere nell’Unione. È dunque un tema sul quale il Labour continuerà a discutere e con una certa veemenza nei prossimi mesi.

Più difficile capire invece quali saranno le ripercussioni sui Tories di questo ennesimo sconvolgimento: Johnson formalmente non ha più la maggioranza in Parlamento, ha perso tutti i voti finora tenuti a Westminster ed è stato pesantemente smentito dalla più alta corte del Paese. Allo stesso tempo però le elezioni anticipate difficilmente potranno essere rimandate per più di qualche settimana e l’idea di sostituire Johnson in questo momento, a pochi mesi dalla sua elezione a furor di popolo, sicuramente è vista come molto rischiosa da parte del gruppo parlamentare conservatore.

C’è dunque la possibilità che questa novità venga utilizzata dal primo ministro come occasione per alzare ulteriormente i toni della retorica antisistema, dipingendosi sempre di più come unico difensore della volontà del popolo di uscire dall’Unione.

In fin dei conti l’intenzione di Johnson è chiara: ottenere l’uscita dall’Unione senza accordo oppure tenere delle elezioni che siano incentrate solo sulla Brexit. Che è l’esatto opposto di quello che vuole Corbyn, il quale però non può chiedere immediatamente la caduta del governo senza che questo prima chieda l’estensione dei termini di uscita dall’UE, altrimenti il No Deal sarebbe automatico.

Oggi riaprirà il Parlamento e ricomincerà una partita a scacchi molto complicata, in cui Johnson pare sotto scacco, ma nella quale ha dalla sua parte una delle risorse più preziose: il calendario. Che si avvicina a grandi falcate verso il 31 ottobre.

 

Immagine: Boris Johnson (24 luglio 2019). Crediti: Michael Tubi / Shutterstock.com

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Brexit, cronaca dell’ultimo giorno prima della sospensione del Parlamento

Si è svolta lunedì l’ultima seduta del Parlamento di Westminster prima della lunga (e contestatissima) sospensione che terrà l’Aula della House of Commons chiusa sino al 14 ottobre, quando riaprirà per ascoltare e votare il Queen’s Speech, il discorso scritto dal governo in cui la regina annuncia l’agenda del suo esecutivo. La riapertura avverrà a ridosso del Consiglio europeo del 17 ottobre che avrà come oggetto proprio la Brexit.

L’ultimo giorno di lavori parlamentari è stato ricco di emozioni e controversie.

L’evento più eclatante è stato certamente l’annuncio delle dimissioni del presidente della Camera John Bercow. L’eccentrico speaker, ormai famoso per le sue cravatte e per il suo già proverbiale richiamo “order”, in un discorso commosso ha dichiarato di voler fare fede alla promessa fatta alla sua famiglia di non prendere parte ad un’altra elezione, annunciando dunque all’Aula che se avesse votato per nuove elezioni in tarda serata, quella sarebbe stata la fine del suo mandato da presidente.

Il ruolo di speaker non ha una scadenza formale e nell’era moderna quella di Bercow è stata una delle presidenze più lunghe. L’annuncio arriva al termine di un lungo scontro tra lo speaker e quello che era il suo partito, i Tories, che gli ha contestato il modo di condurre i lavori parlamentari in occasione della Brexit. Bercow, infatti, applicando la discrezione che è propria del suo ruolo, ha favorito e anzi incoraggiato il Parlamento a vigilare e se necessario bloccare il percorso di trattative intrapreso dall’esecutivo per quanto concerneva l’uscita dall’Unione Europea. La May prima e Johnson dopo, attraverso i propri rappresentanti in Parlamento, hanno spesso contestato l’operato dello speaker e il conflitto è arrivato al punto che i conservatori, violando una consuetudine consolidata e antica, avevano nei giorni scorsi annunciato che in caso di elezioni avrebbero espresso un candidato nel collegio elettorale di Bercow. Per convenzione quando un parlamentare viene eletto Speaker of the House, rinuncia all’affiliazione politica per diventare un garante imparziale e, fino a quando non annunci le sue dimissioni, alle quali – sempre per consuetudine – segue la nomina a vita nella House of Lords, in caso di elezioni si ricandida nel proprio collegio senza che i principali partiti del Paese (Tories, Labour e LibDem) esprimano un candidato che gli contesti il collegio. L’annuncio dei Tories è stato dunque un attacco frontale a Bercow che certamente ha influito sulla sua decisione.

Tuttavia lo speaker dalle cravatte iridescenti non se ne va certo senza un colpo di teatro: prevedendo infatti che – come diremo in seguito – il Parlamento non avrebbe optato per elezioni anticipate, Bercow ha dichiarato nel suo discorso di commiato che si sarebbe dimesso il 31 ottobre. In questo modo non solo sarà lui stesso a gestire le delicate fasi di riapertura del Parlamento e del discorso della regina, ma soprattutto gestirà la confusa fase che sicuramente si aprirà con l’arrivo della scadenza per l’uscita dall’Unione prevista proprio per il 31 ottobre.

Infine, Bercow ha sostenuto di ritenere opportuno che ad eleggere il nuovo speaker sia questo Parlamento e non quello frutto di nuove elezioni, per evitare che nuovi parlamentari non esperti eleggano il nuovo presidente sotto una forte pressione del proprio capogruppo: e nel pronunciare questo auspicio Bercow guardava teatralmente verso i banchi di quello che fino a dieci anni fa era il suo partito.

Questa piccola rivoluzione parlamentare ha quasi fatto passare in secondo piano le ben tre sconfitte subite da Johnson in quello che per qualunque altro governo sarebbe stato considerato un lunedì nero. L’esecutivo è stato prima battuto su una mozione che gli chiedeva di pubblicare un documento governativo riservato nominato “yellowhammer” in cui sono descritte le conseguenze a breve termine di una Brexit senza accordo. La mozione, proposta da Dominic Grieve (conservatore e già protagonista con emendamenti anti-Brexit in passato), chiedeva anche alla regina di obbligare il governo a pubblicare le comunicazioni private in cui, ben prima di quando formalmente annunciato al Parlamento, l’esecutivo aveva optato per la sospensione dello stesso. Un voto non vincolante legalmente per il governo che ha però marcato la quinta sconfitta in altrettanti voti tenutisi alla House of Commons.

In seguito il leader del Labour Jeremy Corbyn ha proposto una mozione che ribadisse l’obbligo del primo ministro a rispettare le leggi. Una mozione che faceva riferimento alle dichiarazioni dei giorni scorsi di Boris Johnson secondo le quali affermava di non voler, in nessuna circostanza, chiedere un rinvio della Brexit. Questo è in aperto contrasto con la legge votata la scorsa settimana ed entrata in vigore formalmente proprio lunedì che sancisce, in caso di mancato accordo in occasione del Consiglio europeo del 17 ottobre, l’obbligo per il governo di chiedere una ulteriore estensione. La mozione di Corbyn è passata per acclamazione, senza che il governo chiedesse la “division”, il conteggio dei Parlamentari, proprio per evitare di valutare la portata di una nuova, la sesta, sconfitta del governo.

Sconfitta che tuttavia è arrivata nella notte quando il Parlamento ha votato sulla mozione del primo ministro in cui venivano nuovamente chieste elezioni anticipate. Ancora una volta Johnson ha ribadito di non voler in alcun caso chiedere un rinvio della Brexit e ha accusato il Parlamento di volerlo obbligare a condurre le trattative con le mani legate. Ha dunque chiesto di poter indire elezioni il 15 ottobre, in modo da essere in grado di dare al primo ministro un mandato pieno con cui andare a trattare al Consiglio europeo del 17. Le opposizioni, di par loro, hanno dichiarato di non voler cadere nella trappola del primo ministro il quale, a loro dire, indicendo elezioni in questo momento non lascerebbe al Paese alternative all’uscita dall’Unione Europea senza un accordo. Pertanto, non prendendo parte al voto, la mozione non ha ottenuto i due terzi di voti favorevoli necessari allo scioglimento della House of Commons.

I lavori di Westminster riprenderanno dunque il 14 ottobre, a sole due settimane dalla scadenza della Brexit e con uno scenario politico quanto più possibile diviso e infuocato, un Paese sempre più polarizzato e con istituzioni indebolite dagli attacchi e dalle accuse reciproche.

 

Immagine: John Bercow (14 febbraio 2018). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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Brexit, la sconfitta di Johnson che riapre i giochi

Se pensate che il vostro rientro dalle vacanze sia stato difficile, consolatevi pensando a quello di Boris Johnson. Il neo primo ministro del Regno Unito, infatti, al suo rientro in Parlamento ha vissuto una giornata molto difficile e, suo malgrado, storica.

Ieri sono state ore di passione a Westminster, cominciate nel pomeriggio con la relazione del primo ministro sul G7 di Biarritz. Proprio mentre parlava Boris Johnson ha visto fisicamente la sua maggioranza parlamentare collassare quando il parlamentare conservatore Phillip Lee è andato a sedersi non nei banchi della maggioranza, ma in quelli dell’opposizione, avendo deciso di lasciare i Tories per unirsi al gruppo parlamentare dei Liberal Democrats. La maggioranza di governo si reggeva con un solo voto e dunque ora, almeno matematicamente, Johnson non ha più i voti per far passare nessuna legge.

In seguito il presidente della Camera John Bercow ha dato spazio ad una mozione d’emergenza che proponeva di riprendere in mano l’agenda parlamentare e dare spazio alla presentazione di una legge che vietasse al governo di uscire dall’Unione Europea senza un accordo.

Si tratta di una procedura intricata che si può riassumere così: il Parlamento aveva in precedenza approvato una legge che stabilisce l’uscita dall’Unione Europea entro il 31 ottobre 2019 con o senza accordo. Scopo delle opposizioni era dunque quello di ottenere il tempo di approvare una legge che emendasse questo principio e che invece obbligasse il governo a chiedere un rinvio nel caso non si fosse raggiunto un accordo. Ovviamente Boris Johnson, che ha basato tutta la sua campagna per diventare leader dei conservatori e primo ministro proprio sulla promessa di non chiedere nessun rinvio, ha cercato in tutti i modi di opporsi a questa eventualità, addirittura sospendendo per cinque settimane i lavori parlamentari e minacciando di espulsione dal partito tutti quei parlamentari che avessero votato a favore di questa mozione.

Ciononostante, ieri sera una maggioranza di 328 voti contro 301 ha approvato la mozione e dunque oggi il Parlamento voterà una legge frutto di un accordo tra tutte le opposizioni che vieterà espressamente di uscire dall’Unione Europea senza un accordo, obbligando il governo ad agire di conseguenza. È la prima volta dalla fine del 1700 che un primo ministro viene sconfitto alla prima votazione tenutasi sotto la sua premiership: un ennesimo record fatto segnare dai Tories grazie alla Brexit… La minaccia di espulsione è stata rispettata già nella nottata di ieri: i Tories hanno espulso i 21 parlamentari conservatori che hanno votato contro l’indicazione del governo, inclusi Philip Hammond, ex cancelliere dello scacchiere di Theresa May, Ken Clarke, il più anziano del Parlamento, il cosiddetto Father of the House, nonché Nicholas Soames, pronipote di Winston Churchill, idolo di Johnson.

Boris Johnson, sia in un discorso tenuto lunedì davanti al n. 10 di Downing Street “assediato” dalle proteste contro la sospensione del Parlamento, sia durante il dibattito parlamentare di ieri, ha annunciato che in nessuna circostanza avrebbe chiesto un ulteriore rinvio e che dunque, se il Parlamento dovesse votare questa legge, non ci sarebbe alternativa a nuove elezioni.

Di par loro le opposizioni, con il laburista Corbyn in testa, hanno annunciato che non voteranno a favore di nuove elezioni sino a che la legge contro il No Deal non diventerà effettiva (e cioè dopo l’approvazione anche nella House of Lords e la successiva firma della regina).

Questo perché secondo il Fixed Term Parliament Act, una riforma costituzionale voluta dal governo di coalizione di David Cameron, il primo ministro non può sciogliere la House of Commons e indire nuove elezioni a meno che non ottenga il voto favorevole di due terzi della stessa.

Se dunque oggi, come è ampiamente previsto, la legge contro il No Deal dovesse passare, Boris Johnson sarebbe preso tra l’incudine e il martello, non essendo più in grado di dettare l’agenda né parlamentare né politica.

 

Immagine: Boris Johnson (24 luglio 2019). Crediti: Michael Tubi / Shutterstock.com

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Boris Johnson a Downing Street

Quando nel 2007, a sorpresa, Boris Johnson annunciò la sua intenzione di candidarsi a sindaco di Londra, si auto definì un «one man melting pot», facendo riferimento alle sue tortuose origini familiari. Johnson infatti ha avuto bisnonni musulmani, cristiani ed ebrei.

Boris addirittura nasce negli Stati Uniti, a New York, dove i genitori vivevano per una borsa di studio del padre, e seguendo i trasferimenti dei genitori vive (oltre che ovviamente in Gran Bretagna) anche a Washington e a Bruxelles, dove studia e impara il francese mentre il padre lavora (ironicamente) per la Commissione europea.

Dopo questa infanzia “raminga” Boris Johnson però affronta il college e l’università nella maniera più “classica” ed elitaria immaginabile in Gran Bretagna: viene infatti ammesso all’Eton College, il liceo dove hanno studiato i principi William e Harry e dove si sono diplomati ben diciannove primi ministri del Regno Unito (da oggi pomeriggio venti…). Nei suoi anni a Eton, Boris conosce David Cameron – uno dei diciannove – e altre future figure di primo piano dei Tories, tra cui il suo grande (ex) alleato Michael Gove, suo sodale brexiteer e ministro dell’Ambiente del governo May.

Dopo Eton tappa obbligata è Oxford, dove hanno studiato praticamente tutti i primi ministri di Sua Maestà dal dopoguerra oggi se si escludono Winston Churchill, John Major e Gordon Brown.

Si concentra negli studi classici (nel 2006 ha scritto anche un saggio sulla caduta dell’impero romano paragonandolo alla crisi europea) e, pur facendo politica universitaria, non è molto attivo nel Partito conservatore a differenza di altri suoi coetanei come il recente avversario Jeremy Hunt o lo stesso David Cameron.

Dopo Oxford il futuro leader dei Tories decide di intraprendere la carriera di giornalista: prova con il Times, ma viene licenziato per aver inventato una citazione; approda allora al Daily Telegraph, giornale conservatore in cui fa presto carriera diventandone il corrispondente da Bruxelles.

Nel 1997, tornato a Londra, prova per la prima volta a entrare a Westminster, ma in un collegio gallese impossibile per i Tories, dove infatti viene sconfitto. Nel 1999 diviene direttore di un altro giornale storicamente conservatore, The Spectator, che rilancia con una linea sempre più radicalmente conservatrice, diventando con il tempo un personaggio di punta della destra britannica. Nel 2001 infatti Johnson riesce a entrare in Parlamento, eletto questa volta nel sicuro seggio conservatore di Henley nell’Oxfordshire.

Negli anni da giornalista e nei primi da parlamentare Boris Johnson si fa sempre più la fama del personaggio imprevedibile ed eccentrico, usando sia sulla carta stampata che nelle apparizioni pubbliche un misto tra ironia, linguaggio desueto e battute tipiche di un vecchio aristocratico dell’Ottocento. È per questo che quando nel 2007 lancia la sua candidatura a sindaco di Londra non viene preso sul serio, accusato di essere troppo bigotto e fuori dal mondo reale per guidare una città dinamica e multiculturale come Londra. È qui che Johnson “sfrutta” la sua storia familiare tortuosa e la sua formazione cosmopolita. E grazie anche ad una grande abilità oratoria e un carisma innato riesce nell’impresa considerata quasi impossibile di battere il laburista Ken Livingstone diventando sindaco di una delle principali città del mondo e, soprattutto per merito delle Olimpiadi del 2012, uno dei politici più popolari del Paese.

L’ambizione del nostro però è nota a tutti, il suo obiettivo è seguire le orme del suo idolo: sir Winston Churchill, di cui ha scritto anche una biografia. Johnson punta al numero 10 di Downing Street ed è così che, sfruttando anche la tradizione euroscettica dei suoi editoriali giovanili, decide di puntare tutto sull’euroscetticismo. Nel 2014, a seguito del disastroso risultato elettorale dei Tories alle elezioni europee e al successo dell’UKIP (Uk Independence Party) di Nigel Farage, David Cameron decide di cedere alle spinte euroscettiche della destra del suo partito e promette, in vista delle elezioni del 2015, che se verrà eletto indirà un referendum per l’uscita dall’Unione Europea.

Quando il vittorioso Cameron nel 2015 conferma la volontà di indire il referendum nel giugno 2016, Johnson, nel frattempo rientrato in Parlamento eletto nel collegio di Uxbridge, si mette alla testa della campagna per il “Leave” con il suo alleato e sodale Michael Gove. I due sono convinti di perdere, ma di misura, acquisendo però un importante capitale politico da sfruttare per cercare di scalzare Cameron e il suo alleato George Osborne.

Il risultato del referendum però sorprende tutti, il Leave vince e i Tories si trovano impreparati: Cameron si dimette immediatamente, lanciando la corsa per la sua successione, Johnson è considerato a questo punto il favorito, ma Michael Gove lo tradisce, gli toglie il sostegno dei suoi parlamentari e Boris rimane senza i voti necessari a proseguire la corsa. È però molto scaltro: mette tutto il suo peso su Theresa May, con cui stringe un’alleanza che lo porterà nel Governo con un ruolo di primo piano, quello di ministro degli Esteri.

Punta ad una Brexit quanto più “hard” possibile e Theresa May inizialmente lo asseconda, fino a quando nel 2017 non perde la maggioranza in Parlamento ed è costretta a numerose concessioni che portano alle dimissioni di Boris Johnson, che la accusa di aver tradito il suo afflato iniziale per un’uscita vantaggiosa dall’Unione.

Da parlamentare semplice, grazie ai suoi alleati dell’ERG (European Research Group), la corrente degli euroscettici, compie un lavoro scientifico di logoramento della premier che, dopo numerose sconfitte parlamentari ed elettorali, si dimette a maggio. Questa volta l’ex sindaco di Londra non ha avversari; la sua vittoria è netta sia all’interno del gruppo parlamentare che tra i centosessantamila iscritti al partito conservatore.

Oggi vedrà la regina e verrà incaricato di formare il governo: non avrà tanto tempo per imparare come si guida il Paese, la scadenza del 31 ottobre (data prevista per la Brexit) si avvicina e lui ha promesso che, in un modo o nell’altro, la Gran Bretagna uscirà dall’Unione in quella data. Anche a costo di chiudere per qualche settimana il Parlamento. Una cosa certo difficile da immaginare, ma che Johnson non ha voluto escludere. Vedremo se aver raggiunto il sogno di eguagliare Churchill lo renderà un politico più moderato e cauto o se continuerà ad essere l’imprevedibile e istrionico leader capace di tutto.

 

Immagine: Boris Johnson (28 luglio 2016). Crediti: Frederic Legrand - COMEO / Shutterstock.com

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Svolta Labour sulla Brexit

Proprio mentre il Partito conservatore è nel pieno della corsa per la sostituzione di Theresa May, con la contesa tra il favoritissimo Boris Johnson e il ministro degli Esteri Jeremy Hunt, il Partito laburista compie una svolta clamorosa circa la sua posizione sulla Brexit.

In una serie di interviste e di interventi pubblici, il leader laburista Jeremy Corbyn ha annunciato che il Labour ritiene imperativo che la decisione di uscire dall’Unione Europea il 31 ottobre 2019 senza alcun accordo o con un qualunque accordo negoziato dal futuro primo ministro debba essere sottoposta ad un nuovo vaglio referendario. Fin qui nulla di nuovo rispetto a quanto già deciso nella conference del Labour di quasi un anno fa a Liverpool. La clamorosa novità è che Corbyn ha aggiunto che questa volta il Labour si schiererà a sostegno delle ragioni del “Remain” e dunque – di fatto – per l’annullamento del processo di uscita dall’Unione.

In questi anni Corbyn si era tenuto molto distante da una simile posizione, proseguendo in quella strategia che è stata definita di “ambiguità costruttiva” e che consisteva sostanzialmente nel combattere il procedimento della Brexit per come veniva impostato dai conservatori, ma senza mai mettere in discussione il fatto che il Regno Unito sarebbe uscito dall’Unione. Il mantra era “il Labour rispetterà il risultato del referendum”. Questa posizione ha permesso a Corbyn di tenere insieme il proprio elettorato rurale e in particolare quello del Nord, che aveva votato a grande maggioranza per il “Leave”, con quello delle grandi città, a partire da Londra che aveva votato in massa per restare. I primi rassicurati dall’idea di vedere rispettato il proprio voto i secondi dall’idea che il Labour avrebbe lottato per una Brexit il più “soft” possibile.

Con tutta evidenza il cambiamento di posizione si deve al deludente risultato alle elezioni europee, in cui il Labour è stato scavalcato dagli europeisti LibDem (Liberal Democrats), ma soprattutto alla radicalizzazione in seno al partito di governo.

I Tories, infatti, sono di fatto diventati il partito del “No Deal” e della hard brexit. Tutti i principali candidati alla leadership si sono espressi con decisione a favore dell’uscita rapida e anche unilaterale dall’Unione, con i due attuali contendenti che ‒ per la prima volta – parlano apertamente di “No Deal” non come soluzione da evitare, ma come opzione tutto sommato accettabile, nel caso di Johnson, quasi auspicabile.

È chiaro che una tale radicalizzazione da parte dei Tories, abbastanza imprevedibile anche solo sei mesi fa, non può che provocare una reazione forte e in direzione contraria da parte del principale partito di opposizione, un partito che – occorre ricordarlo – già guidato da Corbyn ha sostenuto le ragioni del “Remain” nel 2016.

Il leader del Labour arriva a questa posizione sulla spinta – e questa è una delle più interessanti novità – di tutti i grandi sindacati britannici, compreso quello storicamente euroscettico e principale sostenitore di Corbyn, Unite the Union. Su questa posizione Corbyn trova il sostegno non solo della “destra” del suo partito, ala storicamente a favore di un secondo referendum con l’opzione “Remain” sulla scheda, ma anche dei suoi principali sodali e membri del gabinetto ombra: John McDonnell (ministro ombra delle Finanze) e Diane Abbott (ministro ombra dell’Interno).

L’annuncio del Labour pare però un mero riposizionamento politico in chiave propagandistica, perché al momento non sembrano affatto esserci le condizioni per un nuovo referendum sulla Brexit. Il Parlamento ha infatti più volte respinto tale opzione e se, come sembra, Boris Johnson verrà eletto il 22 luglio a furor di popolo all’interno della base conservatrice, difficilmente il suo gruppo parlamentare avrà la forza di imporgli un nuovo referendum entro il 31 ottobre considerate le nette prese di posizione sull’argomento in occasione della campagna elettorale per la leadership.

Insomma quella di Corbyn pare più una mossa per iniziare a preparare la dura opposizione che il Labour dovrà fare al prossimo primo ministro conservatore. Un premier che in ogni caso sposterà a destra l’azione di governo dei Tories nel tentativo di recuperare i voti presi dal partito di Nigel Farage in occasione delle europee.

Dunque il Labour, con questa svolta, vuole lanciare un messaggio al proprio elettorato metropolitano nel tentativo di togliergli la tentazione, in caso di elezioni politiche anticipate, di votare per i LibDem, una opzione che, storicamente – e i Laburisti lo hanno imparato molto bene – ha favorito le grandi vittorie dei Tories.

 

Immagine: Jeremy Corbyn (4 marzo 2017). Crediti: Ms Jane Campbell / Shutterstock.com

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I conservatori inglesi in cerca di un nuovo leader

Il 7 giugno si è avviato il processo formale per eleggere il nuovo leader del Partito conservatore. Il vincitore diventerà, verosimilmente anche se non automaticamente, il prossimo primo ministro della Gran Bretagna. La prima fase della corsa alla leadership è tutta interna al gruppo parlamentare: questa è una pratica comune a tutti i grandi partiti britannici, proprio perché il leader di ciascun partito diventa automaticamente il candidato premier, ruolo che nel Regno Unito può essere ricoperto esclusivamente da un parlamentare.

Per “iscriversi” alla competizione era necessario ottenere il sostegno di almeno otto parlamentari: in dieci si sono presentati ai nastri di partenza con questi requisiti. Esther McVey, Mark Harper, Andrea Leadsom, Rory Stewart, Matt Hancock, Sajid Javid, Dominic Raab, Michael Gove, Jeremy Hunt e – ovviamente – Boris Johnson.

Il 13 giugno si è tenuta la prima votazione a scrutinio segreto all’interno del gruppo parlamentare. Per regolamento al primo turno si effettua una prima scrematura eliminando automaticamente dalla competizione chi non ottenga almeno 17 voti. Ci sono state dunque le prime tre esclusioni. Nessuna sorpresa per l’esclusione di McVey e Harper, mentre è stata abbastanza inaspettata l’eliminazione così rapida di Andrea Leadsom, potentissima Leader of the House of Commons durante il governo May, colei che di fatto ha portato – con le sue dimissioni – alla fine del suo premierato. Non sorprende neanche il primo posto di Boris Johnson, che però ottiene un numero molto importante e inaspettato di voti, ben 114: quasi il triplo del secondo, il ministro degli esteri Jeremy Hunt, che si è fermato a 43.

Ora la procedura riprenderà martedì 18 giugno: questa volta la soglia per evitare l’eliminazione sarà di 33 voti. Dopo questo secondo voto si procederà ad oltranza tra i rimanenti candidati, continuando il voto sino a giovedì 20 giugno ed eliminando ciascuna volta il candidato con meno voti fino che non rimarranno solo due candidati.

A questo punto la palla passerà ai circa 160.000 iscritti del Partito conservatore che a partire dal 22 giugno voteranno via posta. Il vincitore dovrebbe essere annunciato il 22 luglio.

Ovviamente il voto tra gli iscritti avverrà solo se il gruppo parlamentare, come avvenne nel caso della May, non troverà un accordo al proprio interno con il ritiro di tutti i candidati tranne quello prescelto.

Al momento, ovviamente, il favorito pare Boris Johnson: non solo per il grande numero di voti ottenuti e perché è il candidato più popolare all’interno della base conservatrice, ma soprattutto perché è il volto stesso della Brexit in Gran Bretagna, secondo forse solo a Nigel Farage. E dopo il clamoroso successo del Brexit Party alle elezioni europee, l’ex sindaco di Londra pare il leader naturale per i Tories, un partito alla disperata ricerca di riconnettersi con il proprio elettorato. Non a caso durante la sua campagna elettorale di questi giorni ha annunciato l’intenzione di uscire dall’Unione Europea il 31 ottobre 2019 senza nessuna possibilità di ulteriori rinvii e che il No Deal non può essere escluso e – anzi – deve essere usato come un «utile strumento negoziale».

Tuttavia, sostanzialmente tutti i candidati sono dei ferventi sostenitori non solo della Brexit, ma di una Hard Brexit, quasi tutti disposti ad uscire con un No Deal e con pochissime sfumature tra le singole posizioni.

L’unica possibilità di fermare Boris Johnson è data da una santa alleanza tra tutti i suoi avversari, un po’ come era capitato nel 2017 quando, a sorpresa, fu costretto a ritirarsi dalla competizione. Questa opzione però pare al momento remota, anche se è vero che Johnson, con il suo carattere istrionico e la sua passione per le battute controverse, è a volte il più grande nemico di sé stesso e dunque ogni sua partita politica è spesso contraddistinta da molta incertezza.

Tutto sembra comunque volgere a suo favore al momento, soprattutto dopo il voto parlamentare della scorsa settimana, ovviamente sul tema Brexit: il Labour aveva provato ad introdurre un emendamento che impediva per legge e dunque definitivamente la possibilità di un No Deal. L’emendamento è stato bocciato con 309 voti contrari e 298 a favore, grazie al voto (o all’astensione) decisivo di 21 parlamentari laburisti.

I risultati della corsa alla leadership Tories, uniti a questo voto parlamentare, sembrerebbero indicare che la Gran Bretagna si stia dirigendo verso una sempre più probabile Hard Brexit guidata da Boris Johnson. Ma se questi ultimi tre anni ci hanno insegnato qualcosa, è che fare previsioni per il Regno Unito è diventato sostanzialmente impossibile. Dunque, non ci resta che aspettare e seguire l’evoluzione dei fatti.

 

Immagine: Boris Johnson, Londra, Regno Unito (15 maggio 2018). Crediti: Bart Lenoir / Shutterstock.com

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Gran Bretagna, il terremoto elettorale che premia Farage

Un terremoto ha sconvolto la politica britannica. E non stiamo parlando della, seppur clamorosa, decisione di Theresa May di dimettersi dalla guida del Partito conservatore e, dunque, da primo ministro. Le dimissioni diventeranno effettive dal 7 giugno.

No, il terremoto elettorale è avvenuto nelle urne giovedì 23 maggio quando i due principali partiti britannici hanno subito una sconfitta storica. I Tories vengono clamorosamente relegati al quinto posto, con un misero 9%, sorpassati addirittura dai Verdi, assestatisi al 12%.

Solo terzi i laburisti di Jeremy Corbyn, che si devono accontentare del 14%, superati di 6 punti dai LibDem che conquistano un sorprendente 20% dei voti.

Vincitore indiscusso delle elezioni è il Brexit Party di Nigel Farage che conferma le previsioni conquistando quasi il 32% dei voti britannici.

Le urne puniscono il partito di governo evidentemente colpevole agli occhi dell’elettorato di non aver concluso il percorso di uscita dall’Unione Europea a ormai tre anni dal referendum promosso proprio dal Partito conservatore all’epoca guidato da David Cameron. Nei prossimi giorni, c’è da scommetterlo, la corsa per la successione di Theresa May si accenderà proprio su questo argomento. Tutti i candidati faranno certamente a gara nel promettere una Brexit quanto più rapida possibile, con Boris Johnson, leader assoluto dei Brexiteers conservatori che, a questo punto, pare il favorito naturale. Una partita che però potrebbe essere meno scontata del previsto perché la corsa alla leadership passa innanzitutto tra accordi di potere all’interno del gruppo parlamentare conservatore che, come già dimostrato nel 2016 quando elesse a sorpresa May, non risponde a logiche di popolarità pubblica quanto più a quelle dei vecchi e mai fuori moda accordi a porte chiuse.

Paradossalmente più complicata la posizione del Partito laburista che, fino a questo momento, era riuscito a barcamenarsi sull’argomento Brexit, non schierandosi apertamente né a favore né contro. L’alleanza elettorale laburista, infatti, era molto fragile e si basava grosso modo su metà elettorato, quello nelle zone rurali soprattutto del Nord, a favore della Brexit e metà ferocemente contrario, composto da elettori residenti nelle grandi città e soprattutto a Londra.

In questa tornata elettorale tale alleanza elettorale è saltata, con risultati anche sorprendenti. Due esempi su tutti: nel feudo laburista londinese (e personale di Corbyn) di Islington i LibDem diventano il primo partito. In un altro storico seggio “rosso”, questa volta nel Nord, Bolsover, stravince il Brexit Party. È forse superfluo evidenziare come in occasione del referendum a Islington avesse vinto il remain, mentre a Bolsover il leave.

Se dunque è piuttosto facile prevedere quale sarà la strada che da domani verrà percorsa dai conservatori, è più difficile prevedere quali siano le soluzioni a disposizione del Labour, che, se dovesse decidere di schierarsi nettamente contro la Brexit, rischierebbe di alienarsi intere fasce del proprio elettorato storico nei territori del Nord, così come – pare del tutto evidente – al momento pare essere stato abbandonato dal proprio elettorato cittadino e giovanile dei grandi centri urbani.

Sul piano più generale bisognerà poi valutare quali saranno i nuovi equilibri al Parlamento europeo e nella nuova Commissione per capire se e come cambieranno le strategie negoziali dell’Unione nei confronti del prossimo governo britannico.

Insomma, sembra che ancora una volta – come in un bizzarro gioco dell’oca – la vicenda Brexit riparta da zero. O quasi.

 

Immagine: Nigel Farage (28 giugno 2016). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Il voto europeo di chi dall’Europa era uscito

All’indomani della vittoria del Leave al referendum sulla Brexit – sono passati ormai quasi tre anni – nessuno poteva immaginare che si sarebbe arrivati alle elezioni europee del 2019 nello stato di confusione nel quale versa al momento il Regno Unito. Per la verità quasi nessuno immaginava che il Regno Unito avrebbe potuto prendere parte alla competizione elettorale. Nel Paese, infatti, a pochi giorni dal voto (nel Regno Unito, come da tradizione, si voterà di giovedì e quindi il 23 maggio) l’unica certezza è che non vi sono certezze.

Il risultato disastroso alle amministrative di inizio maggio ha dato il colpo di grazia alla già logorata leadership del primo ministro Theresa May, abbandonata ormai definitivamente dai suoi parlamentari che hanno già avviato le procedure per sostituirla entro il mese di giugno con una corsa alla leadership che sarà quanto mai infuocata.

Questa escalation conservatrice ha di fatto posto fine alle trattative con i laburisti di Jeremy Corbyn. Sebbene infatti gli incontri pare fossero stati fruttuosi e si fosse giunti sul punto di trovare un accordo per poter procedere al voto in Parlamento, l’incertezza sulla leadership ha fatto naufragare il tutto perché, sapendo che non sarà la May a gestire lo svolgimento della Brexit, Corbyn e i suoi non possono certo chiudere un accordo con l’attuale primo ministro, che peraltro sarà quasi sicuramente sostituito da un “hard brexiteer” e cioè un primo ministro contrario ai capisaldi delle trattative tra la May e Corbyn, un accordo che prevedeva una Brexit molto blanda. Al momento i papabili paiono Boris Johnson, Dominic Raab o Andrea Leadsom, tre personalità che non disdegnano l’idea di un No Deal.

La campagna elettorale per le europee, di conseguenza, si presenta come dominata dall’incertezza. I conservatori, storicamente debolissimi in questa competizione tanto da essere arrivati terzi nel 2014, sono in estrema difficoltà e paiono destinati ad una storica sconfitta soprattutto per mano del nuovo partito di Nigel Farage, il Brexit Party (un nome che è al contempo un programma), dato in testa in tutti i sondaggi soprattutto grazie al voto degli scontenti Tories.

Il Partito laburista di Corbyn sembra destinato a tenere nel risultato senza però sfondare, per merito anche di quella che pare una ripresa dei Liberal Democrats.

I sondaggi vanno certo presi con le molle, anche perché nella storia recente del Regno Unito hanno sempre fallito in maniera clamorosa, ma non è impensabile aspettarsi un nuovo successo di Farage, che già nel 2014 era riuscito a vincere le elezioni europee portando il suo ex partito, l’UKIP (UK Independence Party), ad essere il primo partito non Tories o Labour a vincere una elezione in oltre cento anni di storia britannica.

Un grande risultato del Brexit Party potrebbe avere delle importanti implicazioni sul futuro della Brexit, ovviamente, perché potrebbe spingere il Partito conservatore ad affrettare la cacciata della May e al contempo ad eleggere un leader disposto a concludere in fretta il processo e favorire lo scenario dell’uscita con il No Deal.

In tutto questo la premier sembra intenzionata a riportare in Parlamento il suo accordo per una ennesima votazione: sarebbe la quarta. Al momento tuttavia non pare esservi alcuna speranza per Theresa May, che rischia addirittura di essere spodestata prima di effettuare questo ennesimo strenuo tentativo di approvare un accordo in cui ormai, forse, crede solo lei.

 

Immagine: Manifesto del Brexit Party, Settle (Yorkshire), Regno Unito (14 maggio 2019). Crediti: Victoria M Gardner / Shutterstock.com

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La Brexit dell’incertezza

Ancora una volta, parlando di Brexit, occorre ammettere di non avere alcuna certezza. La situazione cambia anche drammaticamente di minuto in minuto. Per ora l’unica ragionevole certezza è che oggi, al Consiglio europeo straordinario convocato proprio per discutere della Brexit, ci sarà un ulteriore rinvio della scadenza – già prorogata rispetto al 29 marzo – del 12 aprile.

Nonostante Theresa May non sia riuscita a far approvare l’accordo chiuso a dicembre con l’Unione e bocciato tre volte dalla House of Commons, i ventisette sono orientati a concedere, come richiesto dalla stessa primo ministro, una ulteriore estensione.

E qui si entra nel mondo dell’incertezza: nella giornata di ieri la May ha incontrato alcuni leader europei a partire da Angela Merkel e Emmanuel Macron in quello che la stampa tedesca ha malignamente definito “begging tour”, il tour delle suppliche, nel tentativo di guadagnare tempo per trovare una soluzione alternativa. (Piccola nota a margine, l’Italia in questo giro di incontri bilaterali è mancata completamente, come se l’opinione di Roma sull’argomento non fosse decisiva).

La soluzione potrebbe arrivare grazie ad un accordo con il Labour di Jeremy Corbyn. Il voto dell’opposizione sarebbe l’unico strumento per superare l’impasse creatasi alla House of Commons. L’aula di Westminster al momento non è stata in grado non solo di approvare l’accordo della May, ma neanche una qualunque possibile alternativa. L’unica cosa su cui vi è una maggioranza schiacciante è la volontà di evitare un’uscita senza accordo.

All’indomani della terza bocciatura della sua intesa, dunque, la May ha avviato delle controverse – all’interno del suo partito – trattative con Jeremy Corbyn. Ovviamente si tratta di incontri a porte chiusissime dai quali escono solo scarni comunicati. Quello che si riesce a capire è che le trattative stanno procedendo, con la buona volontà delle due parti coinvolte di trovare realmente una soluzione, ma che vi sono ostacoli che al momento paiono difficilmente sormontabili.

Il principale è dato dall’Unione doganale: da sempre un punto fermo della strategia del Labour, la Customs Union sarebbe la soluzione perfetta per risolvere gran parte delle ragioni di opposizione al deal negoziato dalla May. Supererebbe infatti qualunque timore circa la situazione dell’Irlanda del Nord, prevedendo un’unica area di scambio tra il Regno Unito e l’Unione, e assicurerebbe una quasi certa continuità – lasciandoli sostanzialmente invariati – degli attuali accordi commerciali con l’Unione.

Tuttavia, questa soluzione è da sempre vista come la peggiore possibile dall’ala più dura del Partito conservatore, proprio perché costituirebbe una Brexit molto molto soft, una cosiddetta “Brexit in the name only” e cioè una finta uscita dall’Unione. Perché va da sé che l’Unione Europea, che si è detta favorevole sin da subito ad una soluzione del genere, legherebbe alla Customs Union una serie di vincoli che sarebbero molto simili a quelli previsti per uno Stato membro. Non c’è dunque da stupirsi se Boris Johnson, Jacob Rees-Mogg e addirittura membri del governo si stiano opponendo in maniera durissima ad una soluzione del genere.

Ed è proprio l’opposizione di queste prominenti figure dei Tories a preoccupare il Partito laburista: Corbyn e la sua squadra chiedono rassicurazioni che è difficile avere circa l’impegno per una Unione doganale. Infatti, l’accordo trattato dalla May è composto da due documenti: il Withdrawal Agreement e la Political Declaration. Il primo documento costituisce il piano di divorzio dall’Unione e sarebbe un atto legislativo vincolante nel momento in cui venisse approvato dalla House of Commons. Il secondo, invece, prevede delle linee guida all’interno delle quali, in seguito all’approvazione del primo, avviare le trattative per definire le relazioni tra Regno Unito e Unione nel futuro.

E qui sta il punto: il Labour sa bene che una volta approvato il Withdrawal Agreement con un accordo con il primo ministro, la maggioranza della May potrebbe sfaldarsi al punto da obbligarla alle dimissioni (ma non necessariamente alle elezioni). In caso di un cambiamento di leadership con un personaggio anti-Europa come Boris Johnson, non ci sarebbe nessun vincolo legislativo – dice il Labour – al perseguimento dell’Unione doganale, da qui la riluttanza a regalare una vittoria importante alla May senza avere in mano niente di veramente vincolante in mano propria.

Oltre a questo ostacolo, di per sé già molto complicato da superare, c’è la richiesta di buona parte del gruppo parlamentare laburista di inserire come clausola obbligatoria a qualunque accordo lo svolgimento di un referendum confermativo di ciò che venisse approvato a Westminster: un argomento divisivo all’interno dello stesso Labour, figurarsi nel Partito conservatore.

Insomma, come si può ben intuire la May non ha molto da portare al tavolo del Consiglio europeo per chiedere una ulteriore breve estensione del periodo entro il quale cercare di far approvare un accordo al suo Parlamento. Proprio per questo il primo ministro è ormai quasi rassegnata all’idea di svolgere le elezioni per il Parlamento europeo il 23 maggio 2019 (in Gran Bretagna tradizionalmente si vota il giovedì). Michel Barnier, capo negoziatore dell’Unione, ieri ha detto che il Consiglio è orientato a concedere un’estensione sino a fine 2019, ma altre fonti parlano di una ulteriore breve estensione solo fino alla fine di giugno 2019.

Come anticipato, dunque, il quadro è molto complicato e varia di minuto in minuto. Ripensando, con un po’ di ironia, al famoso motto della May “Brexit means Brexit” (Brexit vuol dire Brexit), viene da pensare che non abbiamo proprio più idea di cosa sarà questa Brexit.

 

Immagine: Incontro tra il primo ministro del Regno Unito Theresa May e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker presso la sede della Commissione europea a Bruxelles, Belgio (21 novembre 2018). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Brexit, la settimana più difficile

Prima di parlare dei tre giorni di intense votazioni nella Camera dei Comuni, con oggetto ovviamente la Brexit, è necessario fare una premessa: sono stati tra i più rocamboleschi della storia parlamentare britannica. Abbiamo visto succedere letteralmente di tutto, a partire dalla violazione di una serie di prassi parlamentari che, in qualunque altro momento, avrebbero avuto delle precise e scottanti conseguenze. Nel commentare quello che è accaduto e, soprattutto, per provare a capire cosa accadrà nel prossimo futuro è quindi necessario tenere conto che viviamo tempi assolutamente imprevedibili.

Ma andiamo con ordine: fino alla più tarda notte di lunedì 11 marzo e nelle prime ore di martedì 12, Theresa May ha cercato di strappare dall’Unione Europea un impegno legalmente vincolante sul backstop. Un qualche scritto anche solo vagamente riconoscibile dal punto di vista legale in cui si dicesse che l’Unione Europea non può tenere imprigionata la Gran Bretagna nel limbo di cui abbiamo parlato l’altra settimana. Nelle conferenze stampa e in tutte le dichiarazioni pubbliche a poche ore dal secondo “meaningful vote” e cioè il voto vincolante con cui il Parlamento di Westminster avrebbe dovuto approvare il piano concordato dalla May, si è tentato di dare rassicurazioni circa le nuove concessioni ottenute. Le speranze della leader conservatrice di vedere approvato il suo accordo si sono infrante quando il suo stesso ministro della giustizia Geoffrey Cox ha dovuto esporre al Parlamento il suo parere legale sugli impegni presi dall’Unione circa il backstop: Cox infatti ha messo nero su bianco che non erano sopraggiunte modifiche significative rispetto al precedente accordo e che dunque era obbligato a sottolineare che i rischi di rimanere intrappolati nel backstop continuavano a sussistere. Di conseguenza il voto sull’accordo è stato netto quasi quanto quello di gennaio, con una maggioranza di no di 150 voti, la quarta peggiore sconfitta governativa della storia britannica. Non un bel record, per la May, essere al primo e al quarto posto di quella triste classifica.

Tenendo fede a quanto promesso il governo ha dunque immediatamente presentato una mozione per chiedere al Parlamento di escludere o meno l’eventualità di un’uscita dall’Unione senza accordo il 29 marzo 2019. La mozione doveva essere discussa, eventualmente emendata e votata nella giornata di mercoledì 13 marzo. Quella di mercoledì è stata la giornata più turbolenta e imprevedibile di tutte. In primis perché la May, provata da giornate estenuanti di trattative su tutti i fronti si è presentata al dispatch box senza voce e visibilmente stanca.

È apparso evidente quanto la sua leadership fosse ormai logora e al contempo quanto il suo partito e il suo governo stessero implodendo alle sue spalle. E infatti, durante la discussione e la votazione sugli emendamenti, sono successe cose assolutamente irrituali e che hanno visto, di fatto, consumare un “congresso lampo” per la successione di Theresa May. Tutto è accaduto molto velocemente durante la votazione dell’emendamento proposto dalla conservatrice Caroline Spelman. L’emendamento cambiava radicalmente la mozione del governo trasformandola non più in una mozione che evitasse il No Deal il 29 marzo senza però escluderlo del tutto, ma in un impegno a rifiutare il No Deal in qualunque circostanza. La mozione non ha valore vincolante secondo il regolamento parlamentare, ma è certamente una indicazione importante della volontà della Camera dei Comuni. L’emendamento viene un po’ a sorpresa selezionato dallo speaker John Bercow, tanto a sorpresa che la prima firmataria – capendo che si sarebbe trasformato in una trappola per il suo partito – ha tentato immediatamente di ritirarlo. Bercow però ha comunque messo ai voti l’emendamento che è passato a sorpresa per soli 4 voti.

A questo punto il Partito conservatore ha cominciato la sua lotta interna. Se infatti inizialmente il governo aveva concesso ai suoi parlamentari la libertà di coscienza sul voto di questa mozione, a seguito dell’emendamento che legava in maniera sostanziale l’operato dell’esecutivo, la May ha chiesto al suo gruppo di bocciare la mozione da lei stessa presentata. E proprio su questa votazione si è consumata la rottura fratricida, con moltissimi esponenti del governo che si sono astenuti senza rispettare le indicazioni del capogruppo il quale, per quanto paradossale possa sembrare, dopo aver imposto una “three-line whip”e cioè l’indicazione più vincolante di tutte per il gruppo, si è lui stesso astenuto dal voto. Il risultato è stata una cocente sconfitta del governo che ha subito, ancora una volta paradossalmente, l’approvazione di una mozione da lui stesso presentata.

Per sottolineare la gravità di quanto accaduto occorre tenere conto che in qualunque altro momento dell’attività parlamentare, un membro del governo che si ribellasse all’indicazione del primo ministro si dovrebbe dimettere spontaneamente dal suo gabinetto o quantomeno subire il licenziamento immediato da parte del leader. Così come per prassi un parlamentare che si dovesse ribellare alla three-line whip verrebbe espulso dal proprio gruppo. Invece niente di tutto questo è successo, ognuno è rimasto al suo posto, tra lo sgomento degli azzimatissimi commentatori politici britannici che su Twitter sottolineavano l’assurdità di quanto accaduto.

La ribellione dei Tories è stata guidata dalla parte più oltranzista del partito che evidentemente ha deciso di dare la spallata definitiva a Theresa May. Pare infatti che dopo la sconfitta di mercoledì i brexiteers capitanati da Rees-Mogg, Boris Johnson e al momento soprattutto da Michael Gove e Sajid Javid, abbiano proposto alla May un baratto: l’approvazione del suo deal in cambio delle sue immediate dimissioni una volta che lo stesso venga definitivamente siglato.

Potrebbero sembrare rumors di palazzo, certo. Pettegolezzi che però hanno trovato un risconto nella giornata di giovedì 14 marzo, ieri, quando improvvisamente il Partito conservatore ha trovato una insperata compattezza ed è riuscito a respingere, seppur di poco, tutti gli attacchi al governo.

Dopo aver subito l’approvazione della mozione che escludeva il No Deal, infatti, il governo ha portato in Parlamento una mozione che proponeva un breve rinvio della Brexit. La formulazione era estremamente vaga e prevedeva, di fatto, l’evenienza della richiesta di estensione all’Unione solo al fine di sottoporre al Parlamento – per la terza volta – l’accordo trattato dalla May. Anche questa volta le opposizioni hanno tentato di presentare emendamenti che stravolgessero il contenuto della mozione. Una prevedeva il rinvio al fine di effettuare un secondo referendum, respinta non solo per l’astensione del Partito laburista, ma soprattutto perché 334 parlamentari, e cioè la maggioranza assoluta, hanno votato contro. L’emendamento più importante era però quello presentato dal laburista Hilary Benn (figlio del leggendario Tony e storico esponente – al contrario dell’ultra radicale padre – dell’ala più moderata del Labour). L’emendamento Benn aveva lo scopo di consegnare il controllo della Brexit al Parlamento in caso di una ulteriore bocciatura dell’accordo May. L’emendamento, appoggiato da tutte le opposizioni, è stato bocciato per solo 4 voti, grazie appunto ad una ritrovata compattezza del Partito conservatore. La mozione del governo è arrivata al voto senza nessun emendamento ed è stata approvata a larghissima maggioranza, con un’ultima immancabile stranezza: 188 parlamentari conservatori hanno votato contro la mozione del governo e solo 112 hanno votato a favore dell’estensione dell’art. 50 per un breve periodo tecnico. Tra i voti contrari c’è stato quello di Steve Barclay, il ministro per la Brexit che pochi minuti prima, dai banchi del governo, aveva presentato al Parlamento la mozione…

Ora cosa succederà? Difficile prevederlo. L’unica cosa certa è che entro il 20 marzo la May sottoporrà nuovamente il suo accordo al Parlamento per poi chiedere, se dovesse passare, una breve estensione tecnica – si dice per il mese di giugno ‒ dell’art. 50.

Pur con mille incertezze è parere di chi scrive che questa volta Theresa May riuscirà a farsi approvare l’accordo. In parte perché ormai è evidente che anche se dovesse farcela non è più in grado di controllare il suo partito e dunque non uscirebbe vittoriosa da questa partita. Inoltre perché l’unica altra alternativa sarebbe una estensione lunga dell’art. 50, una estensione però che difficilmente verrebbe concessa dall’Unione senza la promessa di azioni concrete quali nuove elezioni o nuovo referendum, evenienze che nessuno all’interno del Partito conservatore vuole affrontare.

È possibile dunque che per inerzia e contro le previsioni di quasi tutti la May finisca per ottenere quello per cui sta lottando da mesi: la Brexit da lei trattata.

 

Immagine: Theresa May (8 dicembre 2017). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Brexit, la grande confusione

Più si avvicina la data prevista per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (EU) e più, paradossalmente, aumenta la confusione su quale sarà il risultato finale di queste lunghe ed estenuanti trattive.

Di ritorno dal vertice tenutosi in Egitto nella giornata di lunedì, Theresa May ha per la prima volta prospettato al Parlamento la possibilità di un rinvio della Brexit attraverso l’estensione dell’ormai famoso articolo 50. Nella giornata di martedì ha infatti annunciato al Parlamento la decisione del governo di tenere entro il 12 marzo (cioè a poco più di due settimane dalla data prevista per l’uscita) un altro “meaningful vote” dell’Aula. Un voto, cioè, che abbia il potere di porre il veto sulla chiusura dell’accordo, “gemello” di quello tenutosi il 15 gennaio con il quale la Camera dei Comuni ha bocciato il piano del primo ministro infliggendole la più pesante sconfitta – per un governo in carica – della storia parlamentare britannica. Se, come largamente pronosticato, anche questa volta il piano del governo dovesse essere bocciato, la May ha preso l’impegno di invocare un nuovo voto del Parlamento per il 13 marzo. Questa volta i parlamentari dovrebbero esprimersi sulla volontà di procedere con una Brexit “No Deal”, portando dunque avanti un’uscita unilaterale dall’Unione. Se il Parlamento dovesse esprimersi contro quest’ipotesi, il 14 marzo il governo chiederà al Parlamento di votare una “breve” estensione dell’articolo 50 al fine di poter svolgere ulteriori trattative.  

Lo scenario che prevede l’estensione dell’articolo 50 si fa dunque sempre più concreto perché la May non ha ottenuto alcuna nuova garanzia circa il backstop sul confine tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda, uno dei punti più cruciali, e che rende l’accordo della May inviso alla maggioranza dei suoi stessi parlamentari. Allo stesso tempo, in più occasioni la Camera dei Comuni ha espresso la sua contrarietà all’opzione del No Deal. Tuttavia, il rinvio della Brexit esprime a sua volta tantissime incognite. La prima, ovviamente, è che non è chiaro il suo scopo ultimo: se il primo ministro non è disposto a cedere sulle richieste dell’Unione e viceversa, il rinvio non avrebbe nessun senso.

E d’altronde il rinvio dell’uscita dall’Unione avrebbe come clamorosa conseguenza quella di obbligare il Regno Unito a partecipare alle elezioni del Parlamento europeo che si terranno il 26 maggio 2019. A quasi tre anni dal referendum sulla Brexit sarebbe un risultato incredibilmente imbarazzante per il governo e allo stesso tempo metterebbe in difficoltà l’Unione che, nel frattempo, ha già provveduto a redistribuire i seggi al momento occupati a Strasburgo da parlamentari europei britannici.

La confusione nella politica britannica è resa ancora più grande, se possibile, dalle turbolenze in atto all’interno del Partito laburista guidato da Jeremy Corbyn. Il Labour ha subito una, seppur piccola, scissione, con otto parlamentari “moderati” che hanno abbandonato il partito di Corbyn e fondato un nuovo gruppo per il momento denominato Indipendent Group. Gli “scissionisti”, capitanati da Chuka Umunna, sono da sempre oppositori di Corbyn e della sua linea politica e hanno dichiarato di abbandonare il Labour per la sua posizione poco chiara circa la Brexit e per aver fatto troppo poco per contrastare l’antisemitismo all’interno del partito. Gli otto laburisti sono stati raggiunti anche da tre parlamentari dimessisi dal gruppo dei Tories, anche loro per la volontà di opporsi apertamente alla Brexit.

Sotto pressione all’interno e all’esterno, la leadership laburista ha annunciato la propria decisione di porsi a favore di un nuovo referendum sulla Brexit. Un annuncio che ha avuto molto risalto e che è stato presentato come una grossa novità, anche se in realtà tale posizione era stata espressa chiaramente durante la Conference laburista di settembre.

Corbyn infatti ha annunciato che il Labour proporrà un secondo referendum come extrema ratio, tanto è vero che proprio ieri ha presentato una mozione che presenta il piano per la Brexit del proprio partito: un piano che prevede, come punto centrale, l’istituzione di una unione doganale con l’UE e – sostanzialmente – la partecipazione britannica al mercato unico. Se il Parlamento dovesse bocciare questo emendamento laburista e invece approvare l’accordo proposto dalla May, allora il Labour chiederà un nuovo referendum per scegliere tra l’opzione di lasciare l’Unione con l’accordo della May (o addirittura con il No Deal) e quella di annullare la Brexit.

Come detto all’inizio e come si è cercato di spiegare, al momento gli interrogativi sono tantissimi e le risposte scarseggiano. E ora anche l’unica certezza, quella della scadenza del 29 marzo 2019, pare sfumare.

 

Immagine: Manifestazione di Brexit supporters e brexiteers. Londra, Regno Unito (15 gennaio 2019). Crediti: Ink Drop / Shutterstock.com

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Brexit, il giorno del voto in Parlamento

Questa settimana potrebbe essere decisiva per il futuro della Brexit. Non si può fare a meno del condizionale perché di questi tempi la politica di Westminster è quasi totalmente imprevedibile.

Siamo però pressoché certi che oggi, martedì 15 gennaio, la House of Commons voterà sull’accordo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea negoziato dal primo ministro conservatore con la Commissione ed il Consiglio europeo.

Sulla carta Theresa May non ha speranze di ottenere un successo considerando che tutte le opposizioni (Labour, Scottish National Party e LibDem) hanno annunciato il voto contrario insieme al Democratic Unionist Party (l’alleato di governo dei Tories necessario alla May per avere una maggioranza) e a decine di parlamentari del Partito conservatore, oltre cento dei quali hanno a dicembre espresso un voto di sfiducia verso la leader del proprio partito.

Le premesse per una bocciatura ci sono tutte; e infatti il 2019 è cominciato per la May come era finito il 2018, con un susseguirsi di pesanti sconfitte parlamentari che ne hanno minato la strategia.

La prima sconfitta è avvenuta martedì scorso, quando il Parlamento ha approvato un emendamento alla legge di bilancio della laburista Yvette Cooper che impedirà al governo di avere autonomia finanziaria in caso di No Deal. In sostanza l’emendamento – che in realtà ha un valore più politico che strettamente giuridico – obbliga il governo a chiedere il parere del Parlamento prima di prendere qualunque decisione sulle finanze statali in caso di uscita unilaterale dall’Unione, legando di fatto le mani dell’esecutivo. L’obiettivo però era soprattutto quello di mostrare al governo che i parlamentari non sono assolutamente favorevoli all’eventualità di un No Deal e che dunque il governo non può pensare di usare quella eventualità come ricatto nei confronti della Camera bassa.

La seconda sconfitta, ancora più importante, è avvenuta su una proposta di Dominc Grieve, parlamentare conservatore e già ministro della Giustizia del governo Cameron. Grieve – che già prima della pausa natalizia aveva proposto e fatto approvare un emendamento che dà al Parlamento la possibilità di emendare completamente l’accordo trattato dal governo in seguito ad un eventuale voto contrario sullo stresso – ha questa volta proposto un ordine del giorno che, in caso di sconfitta del governo nel voto di oggi, obbliga la May a presentare un piano alternativo entro tre giorni (e non i previsti ventuno come si aspettava Downing Street).

L’ordine del giorno è stato sostenuto da tutte le opposizioni e da molti “ribelli” conservatori che hanno inflitto una cocente sconfitta al governo. Sconfitta che è stata preceduta da furiose polemiche nei confronti del presidente della Camera John Bercow che – a sorpresa – aveva deciso di mettere ai voti la proposta di Grieve. Pare infatti che gli stessi funzionari della Camera responsabili dell’interpretazione dell’esoterico regolamento parlamentare (ricordiamo infatti che nel sistema britannico non vi sono che tracce procedurali, in generale regna il rispetto di consuetudini a volte secolari ma del tutto informali) si fossero espressi contro la messa in votazione del dispositivo. Quella di oggi potrebbe essere dunque la terza sconfitta parlamentare in una settimana per Theresa May, peraltro sull’accordo sul quale ha speso tutto il suo capitale politico (e forse anche umano).

Dall’altro lato del Parlamento, Jeremy Corbyn e il Partito laburista sono di fatto già in campagna elettorale. In un discorso tenuto a Wakefield, roccaforte laburista nello Yorkshire, ex zona mineraria che ha votato in massa per il leave, il leader laburista ha chiesto al governo di indire nuove elezioni in caso sconfitta nel voto parlamentare. Non ci sono, secondo Corbyn, soluzioni che siano altrettanto pratiche e, allo stesso tempo, democratiche.

Corbyn, in un discorso che sembra ormai dare per scontata la sconfitta, parla già all’elettorato – in particolare laburista – spiegando che le divisioni nel Paese non sono tra coloro che hanno votato leave o remain, ma tra coloro che fanno fatica ad arrivare a fine mese, lottano con un sistema di welfare sempre più vittima dei tagli, con salari stagnanti e una crescente disuguaglianza e coloro che invece negli ultimi dieci anni hanno visto aumentare a dismisura la propria ricchezza.

Così come nel 2017, il Labour sta cercando dunque di non farsi schiacciare dalla polarizzazione sulla Brexit, che spaccherebbe a metà il proprio elettorato (e ancora di più il Paese, probabilmente), per presentare una visione più ampia in cui la Brexit sarebbe solo uno dei vari elementi chiave. Dal punto di vista pratico il Labour chiede nuove elezioni politiche in seguito alle quali riprendere le trattative con l’Unione per ottenere innanzitutto una unione doganale che agevoli gli scambi commerciali con l’Europa. Per fare questo Keir Starmer, ministro ombra per la Brexit, ha evidenziato che molto probabilmente – visti i tempi – sarà necessario estendere le procedure previste dall’articolo 50 del Trattato di Lisbona e posticipare la data di uscita fissata per il 29 marzo 2019.

Tuttavia, se l’ultimo anno e mezzo ci ha insegnato qualcosa è proprio che Theresa May, anche quando è data per spacciata, trova sempre un modo per sopravvivere. Non è infatti totalmente da escludere che, anche questa volta, il primo ministro possa farsi forza della mancanza di alternative per i suoi avversari interni. Ricordiamo infatti che, a seguito del voto tenutosi all’interno del gruppo conservatore nel mese di dicembre, secondo le regole interne dei Tories fino alla fine del 2019 nessuno può contestare la leadership alla May. Dunque, in caso di sconfitta, l’unico modo che avrebbero i ribelli conservatori per sbarazzarsi del primo ministro sarebbe quello di votare una mozione di sfiducia proposta dal Partito laburista, eventualità che renderebbe del tutto scontata la necessità di nuove elezioni. Ma visti i sondaggi, che danno il Labour in testa – seppure di poco – avranno i Tories il coraggio di votare contro il loro governo obbligando il partito a scegliere in fretta e furia un nuovo leader per affrontare una campagna elettorale breve e dominata da una sconfitta storica per il Partito conservatore?

Ancora una volta, dunque, conviene non sottovalutare le capacità di sopravvivenza di Theresa May e lo spirito di conservazione dei Tories, un partito che è abituato a gestire il potere – e le relative crisi annesse - da diversi secoli.

 

Crediti immagine: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Brexit, May supera la mozione di sfiducia

Nella serata di ieri si è tenuto il voto all’interno del gruppo parlamentare del Partito conservatore. Il voto era stato richiesto, come da regolamento interno dei Tories, da almeno quarantotto MP (Member of Parliament). A mandare la lettera di sfiducia al Capogruppo (Chief Whip) era stata la corrente dei Brexiteers, capitanati in questa fase da Jacob Rees-Mogg. Il tentativo di spallata è arrivato in seguito al rifiuto da parte del primo ministro di sottoporre al voto del Parlamento il testo dell’accordo trattato con l’Unione Europea che si sarebbe dovuto tenere l’11 dicembre.

Theresa May, ancora una volta, lottando con le unghie e con i denti, è riuscita a sopravvivere e – sempre secondo il regolamento dei Tories – per un intero anno non potrà vedere la sua leadership contestata dal suo gruppo parlamentare. Tuttavia, il risultato del voto segreto tenutosi ieri sera è tutt’altro che confortante per il premier britannico. Su 317 parlamentari, infatti, ben 117 hanno votato per sfiduciarla. Quasi un terzo del suo gruppo parlamentare. Per rendere l’idea della drammaticità della spaccatura all’interno dei Tories vale la pena di ricordare che Margaret Thatcher quando si dimise dalla leadership del Partito conservatore ottenne la fiducia di 204 parlamentari, una cifra non ritenuta sufficiente dalla Lady di ferro per mantenere la guida del partito e del governo. Theresa May si è fermata a 200 voti a favore. Un numero molto esiguo se si tiene inoltre conto che la May, per ottenerlo, ha dovuto promettere di rinunciare a guidare il partito alle prossime elezioni, previste nel 2022. Sostanzialmente, la May avrebbe chiesto un mandato limitato al conseguimento della chiusura della Brexit, ma nonostante questo ha subito una ribellione molto più ampia del previsto e – numeri alla mano - non limitata all’ala più oltranzista del suo partito.

Insomma, una vittoria che per la May rischia di essere di Pirro, perché – a meno di clamorosi colpi di scena – testimone di come non ci siano assolutamente i numeri in Parlamento per approvare il suo accordo sull’uscita dall’Unione, poiché ai ribelli Tories vanno aggiunti i voti contrari di tutte le opposizioni e dell’alleato di governo della May, il DUP (Democratic Unionist Party).

Un voto che, a questo punto, non si sa neanche esattamente quando avrà luogo. Sappiamo solo che, obbligatoriamente, si dovrà tenere entro il 21 gennaio, a poco più di due mesi dalla data in cui – secondo l’articolo 50 del Trattato di Lisbona – la Brexit entrerà in vigore, anche in caso non si sia raggiunto un accordo.

Il primo ministro sta continuando a trattare con l’Unione Europea, ricevendo però risposte molto secche da parte di tutti. Merkel, Juncker e Tusk hanno infatti tenuto la stessa posizione: “non ci sono margini di trattativa, l’accordo non può più essere cambiato”. La speranza di ottenere ulteriori concessioni circa la complicata situazione del “backstop” per quanto riguarda il confine tra Nord Irlanda e Irlanda del Nord pare dunque molto vana. Nelle giornate di oggi e domani si terrà un Consiglio europeo in cui è stata inserita in agenda una ulteriore discussione sulla Brexit, ma difficilmente la May riuscirà a riportare in Parlamento qualcosa che possa cambiare la situazione che – al momento – pare per lei disperata. Ancora una volta appare troppo debole per andare avanti ma, allo stesso tempo, si fa forte della mancanza di valide alternative all’interno di un Partito conservatore, sempre più spaccato e sempre più timoroso all’idea di nuove elezioni anticipate. Una eventualità che, invece, è richiesta a gran voce dal Partito laburista guidato da Jeremy Corbyn che, da settembre, chiede di tornare al voto.

La crisi politica che attanaglia ormai da anni il Regno Unito è dunque molto lontana dall’essere risolta, nonostante la scadenza per la Brexit si avvicini a grandi falcate ricca di incognite e incertezze.

 

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La tesa vigilia del vertice UE sulla Brexit

Come ampiamente prevedibile l’accordo che Theresa May sta per chiudere con l’Unione Europea è stato accolto in maniera turbolenta nel suo Paese. Mentre il primo ministro annunciava alla nazione che il 25 novembre si sarebbe riunito un Consiglio europeo straordinario per approvare (da parte europea) la bozza di accordo chiusa la settimana scorsa, il suo governo perdeva svariati ministri – a partire proprio dal ministro per la Brexit Dominic Raab, il secondo a dimettersi dall’incarico in pochi mesi – e, virtualmente, la maggioranza in Parlamento.

Infatti, appena è stato annunciato il testo dell’accordo vi è stato l’immediato annuncio della contrarietà del DUP (Democratic Unionist Party), partito unionista nord-irlandese fondamentale per la tenuta del governo in Parlamento dove – occorre ricordarlo – i Tories non hanno la maggioranza. Il DUP si è detto non soddisfatto di quanto previsto dall’accordo in termini di sicurezza per il futuro del Nord Irlanda e, soprattutto, si è sentito poco coinvolto nelle trattative. Inoltre tutta l’area dei “Brexiteers” del partito ha annunciato la sua assoluta contrarietà all’accordo trattato dal primo ministro. Le ragioni sono le stesse, se possibile ancora più negative, per cui Boris Johnson e soci erano contrari all’accordo di Chequers: l’accordo della May è una “Brexit in the name only” e cioè una finta Brexit. I legami con l’Unione, dicono, rimangono troppo forti. Queste defezioni da parte di molti parlamentari conservatori, sommate a quelle del DUP, fanno pensare che il Parlamento boccerà l’accordo. Un assaggio di questo nuovo assetto parlamentare lo abbiamo già avuto in alcune schermaglie parlamentari in occasione dei voti su alcuni emendamenti alla legge di bilancio: in seguito all’annuncio dell’astensione da parte del DUP, il governo ha preferito accettare gli emendamenti dell’opposizione perché era certo che sarebbe stato sconfitto da un voto parlamentare.

Non esattamente un precedente confortante per la May che si appresta a portare a Westminster l’accordo sul quale ha investito praticamente tutto il suo capitale politico. La leader conservatrice, però, ancora una volta ha mostrato una tempra impressionante, difendendo a spada tratta il suo accordo sia in Parlamento che in televisione, dichiarando fermamente che questo accordo rispetta il mandato popolare del referendum dando risposta a tutte le richieste fatte dall’elettorato con quel voto: fine della libera circolazione, controllo giudiziario esclusivo dei tribunali inglesi e pieno controllo delle proprie finanze.

Di tutt’altro avviso, ovviamente, è il leader del Labour Jeremy Corbyn che ha definito questa intesa un monumento ai fallimenti del governo, che non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte – dice Corbyn – e ha chiuso un accordo molto generico che lascerebbe quasi tutti i nodi da sciogliere, con in più dei meccanismi automatici in caso di mancati accordi futuri che porterebbero il Regno Unito a stare in un limbo: né fuori né dentro l’Unione. A ben guardare, però, certamente la cosa che più preoccupa il Labour è che l’accordo del governo prevede il mantenimento di alcune regole europee in tema di divieto ad aiuti pubblici alle aziende e contro le nazionalizzazioni, due punti chiave del programma di governo del Labour. Non è dunque un caso che il Labour chieda con forza nuove elezioni per poter eleggere un governo che abbia la forza di trattare un accordo migliore. Corbyn sa, infatti, che se dovesse passare l’accordo, anche andando al governo avrebbe le mani legate su molti temi cari alla leadership laburista. Una linea, questa di nuove elezioni come prima opzione (e non la richiesta di nuovo voto popolare sulla Brexit), approvata alla conference annuale laburista a settembre.

In ogni caso ci sono decine di interrogativi che devono ancora essere risolti, a partire innanzitutto dal prossimo Consiglio europeo: l’accordo infatti è ancora una bozza ed è necessario che venga votato dal 72% dei ventisette stati membri che rappresentino il 65% della popolazione europea. Dunque un voto per nulla scontato, specie se si considera che ci sono questioni spinose sul tavolo: ovviamente quella del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, ma anche i rapporti con la Spagna per quanto riguarda Gibilterra solo per citare i più macroscopici. La May passerà le ore che la separano dal Consiglio europeo a trattare ininterrottamente con i suoi omologhi europei nella speranza di strappare qualche altra concessione e, soprattutto, di non doverne fare alcuna e portare, finalmente, l’accordo al voto in Parlamento. Si parla addirittura del mese di gennaio per il voto finale. Un tempo, alla velocità con cui cambiano le cose in queste ore a Londra, che pare lontanissimo per poter fare una qualunque previsione.

Ma d’altronde il primo ministro britannico dall’8 giugno 2017, quando perse la maggioranza in Parlamento in occasione delle elezioni anticipate, cammina su di un filo e sopra un burrone. È più di un anno che tutti sostengono che cadrà da un momento all’altro, ma la May invece rimane imperterrita a Downing Street: vedremo se riuscirà a resistere anche questa volta.

 

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Brexit: raggiunto l’accordo tra i negoziatori

Nella giornata di martedì 14 novembre Theresa May – o meglio, il tavolo tecnico dei negoziatori britannici e dell’Unione Europea – ha chiuso l’accordo per l’uscita del Regno Unito dall’Unione. Un testo composto da 585 pagine che, se dovesse essere ratificato, andrà studiato nel dettaglio. Ad una prima occhiata l’accordo pare una soluzione norvegese mascherata. Infatti, nella sostanza, la Brexit in esso prefigurata porterebbe pochi cambiamenti rispetto alla situazione attuale dal punto di vista della struttura dei rapporti, tanto più che l’accordo prevede la libera circolazione dei cittadini dei Paesi membri senza la necessità di un visto per visite brevi. Anche dal punto di vista del commercio la situazione resterebbe molto simile a quella attuale: rimarrà attiva una zona di libero scambio senza tariffe, quote o altre limitazioni in cambio del rispetto di vincoli ambientali, di concorrenza e in generale di rispetto delle normative comunitarie. Questo accordo doganale serve non solo a preservare le aziende britanniche che vendono sul mercato europeo e viceversa, ma soprattutto a garantire che non ci sia bisogno di un “hard border”, un confine reale, tra Irlanda e Irlanda del Nord, come detto più volte su queste pagine, uno dei problemi più spinosi da affrontare in sede di trattative.

Insomma, per la Gran Bretagna questo accordo pare una Caporetto: infatti, da un lato rimangono in piedi tutti gli aspetti “controversi” dell’appartenenza all’Unione senza però avere più alcun potere decisionale in seno alle istituzioni europee.

Tuttavia, questo accordo è ben lungi dall’essere approvato. Nella giornata di ieri, infatti, la May ha incassato il via libera da parte del suo Consiglio dei ministri, ma questo è stato solo il primo passo del lungo iter che porterà all’approvazione dell’accordo che alla fine dovrà essere ratificato dal Consiglio europeo. Innanzitutto perché già in seno al suo stesso governo, ci dicono le indiscrezioni, l’approvazione della bozza di accordo non è stata affatto unanime anzi: si è evitato di votare formalmente l’accordo proprio per non sancire la spaccatura del governo. Pare, insomma, il riproporsi di quanto successo a luglio in occasione della proposta di Chequers: la May aveva annunciato l’accordo nel governo e il giorno dopo diversi ministri si sono dimessi.

Ad ogni modo ora la May deve presentare l’accordo in Parlamento e ottenerne l’approvazione. Approvazione tutt’altro che scontata visto che sono sul piede di guerra moltissimi dei suoi stessi parlamentari, fedeli a Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg che hanno promesso battaglia, così come il DUP (Democratic Unionist Party), l’alleato di governo – fondamentale per ottenere una maggioranza –, che ha già annunciato di non essere a favore dell’accordo. Ovviamente anche il Partito laburista ha annunciato di volersi opporre e dunque la May potrebbe non avere in numeri per portare a casa il sì della House of Commons.

Proprio per questo nella conferenza stampa di ieri sera il primo ministro ha drammatizzato la scelta che si pone di fronte al Paese e al Parlamento, specificando che l’accordo attuale è l’unico che possa evitare un No Deal o l’annullamento della Brexit. In questo ha smentito piuttosto clamorosamente uno dei suoi slogan principali di questi mesi e cioè che “no deal is better then a bad deal” e cioè che un’uscita unilaterale sarebbe stata uno scenario migliore di un brutto accordo.

Ancora una volta la May sembra giocarsi il tutto per tutto nella speranza di superare la nottata, confidando nello spirito di sopravvivenza del suo partito che, per paura di perdere il potere, potrebbe superare di nuovo le proprie spaccature interne e, pur protestando e sbattendo i piedi, una volta di più premiare la capacità del primo ministro di sopravvivere alla burrasca.

 

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Regno Unito, l’ultimo bilancio prima della Brexit

Lunedì 29 ottobre Philip Hammond, il cancelliere dello Scacchiere – il ministro dell’Economia britannico – ha presentato la legge di bilancio 2018. Un documento molto atteso per due ragioni. La prima è ovviamente il fatto che si tratta dell’ultima legge di bilancio prima della Brexit, il cui processo dovrebbe concludersi il 29 marzo 2019: era dunque forte la curiosità di sapere quale sarebbe stato l’approccio del governo May alle varie eventualità legate alle trattative che, vale la pena di ricordarlo, al momento sono in una fase in cui qualunque cosa può ancora succedere, da un’uscita unilaterale senza accordo ad un rinvio dell’uscita dall’Unione.

L’altro motivo di curiosità era legato alla grande promessa fatta da Theresa May alla Conference di ottobre del suo partito, durante la quale il primo ministro aveva annunciato la fine dell’austerità varata nel 2010 dall’allora leader conservatore David Cameron.

Per quanto riguarda la Brexit, Hammond per ora ha rimosso il problema. Infatti, a parte un ulteriore aumento del fondo di emergenza in caso di No Deal e cioè risorse dedicate ai vari dipartimenti governativi per approntare piani emergenziali, la legge di bilancio si basa sul presupposto che la Brexit sarà un successo che lascerà le previsioni economiche sul futuro del Regno Unito sostanzialmente invariate e che nel 2019 tutto procederà “business as usual”. Una situazione forse paradossale, considerando che siamo ad oltre due anni dal voto popolare e sostanzialmente alla fase terminale delle trattative, ma – come detto – al momento è impossibile prevedere con certezza quale sarà il loro esito e, dunque, quale sarà l’impatto della Brexit sull’economia reale. Lo stesso OBR (Office for Budget Responsibility), l’ufficio governativo indipendente che ha il compito di valutare la sostenibilità delle proposte di bilancio del governo, ha ammesso di non essere in grado di fare previsioni utili sull’economia britannica per il 2019.

A questo punto capiamo un po’ meglio le ragioni per cui Hammond, cancelliere dello Scacchiere dei due governi di Theresa May, ha introdotto la novità della legge di bilancio in autunno anziché a primavera. Tradizionalmente, infatti, la legge di bilancio veniva presentata alla House of Commons in primavera. Philip Hammond, a partire dal 2017, ha spostato la presentazione del budget all’autunno, mantenendo però un aggiustamento di bilancio primaverile. Lunedì scorso Hammond ha annunciato che, nell’eventualità di un No Deal o di una Brexit particolarmente “disordinata”, quella di autunno potrebbe essere una manovra finanziaria a tutti gli effetti, «a full fiscal event» ha detto il cancelliere dello Scacchiere. Insomma, il budget 2018 che sarà vagliato dal Parlamento in queste settimane, sarà valido solamente in caso di un buon accordo tra Regno Unito e Unione, altrimenti si dovrà ricominciare da capo nella primavera del 2019.

La più grande novità del budget 2018 è però un’altra e cioè che, per la prima volta dal 2010, il Regno Unito vara una legge di bilancio in cui il deficit torna a salire, seppur di poco. Dopo otto lunghi anni di austerità, fatta di tagli pressoché in ogni settore del bilancio dello Stato, i Tories presentano alla House of Commons una legge che aumenta la spesa rispetto all’anno precedente. Certo, niente di eccessivo, ma sicuramente una inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti. Una novità già annunciata dalla May ad ottobre e sicuramente dovuta al cambiamento del “senso comune” del Paese, in cui ormai – grazie anche alle posizioni decisamente radicali del Labour guidato da Jeremy Corbyn – non vi è più nessun appoggio politico al programma di austerità. Va notata però una discrepanza di non poco conto tra le parole della May e quelle del suo ministro delle finanze: se per il primo ministro l’austerità «è finita», per il suo ministro l’austerità «sta per arrivare alla conclusione». Infatti, se per la prima volta dal 2010 il cancelliere dello scacchiere apre un poco i cordoni della borsa, è però vero che questi fondi extra verranno quasi tutti “risucchiati” dal Servizio sanitario nazionale (NHS, National Health Service) ormai in crisi cronica di fondi e di personale, mentre tutti gli altri dipartimenti del governo dovranno lottare per ottenere qualche piccolo extra. Un esempio su tutti è la polizia, che ha recentemente portato in tribunale il governo per ottenere un aumento salariale rinviato da troppi anni.

In definitiva, come molti osservatori fanno notare, questa legge di bilancio è un tentativo di Theresa May e Philip Hammond di invertire la narrazione dei conservatori severi con la spesa pubblica contrapposti ai laburisti del “tassa e spendi”, un tentativo di intercettare il nuovo sentimento nel Paese, ormai sfavorevole all’austerità dopo otto anni duri e, in caso di una Brexit che si riveli un successo, di sopravvivere politicamente a tre anni molto difficili.

 

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Il Congresso “nervoso” dei conservatori inglesi

Si è tenuta a Birmingham dal 30 settembre al 3 ottobre la Conference annuale del Partito conservatore. I Tories, al governo ormai da otto anni, hanno tuttavia avuto un approccio “nervoso” a questo importante appuntamento annuale. Sul governo di Theresa May gravano infatti due ombre piuttosto pesanti. Sul fronte esterno vi è la sempre più complicata trattativa per la Brexit, dopo il difficilissimo Consiglio europeo di Salisburgo. Sul fronte interno vi è l’opposizione ormai a viso aperto di Boris Johnson che, insieme ad almeno una quarantina di altri parlamentari, è deciso a far saltare il piano Chequers (e cioè costringere il governo a un NO Deal) oppure a far saltare la May e tentare la conquista della leadership dei Tories.

E dunque l’attenzione della quattro giorni conservatrice si è concentrata sul discorso di Boris Johnson e su quello conclusivo del primo ministro.

All’ex sindaco di Londra, a dimostrazione anche del clima che si vive all’interno del partito, non è stato concesso un intervento sul palco principale della Conference; Johnson infatti è intervenuto ad un “fringe event”, uno degli appuntamenti collaterali. Facendo ricorso a tutta la sua grande arte oratoria l’ex ministro degli Esteri ha detto senza mezzi termini che l’accordo di Chequers va “soffocato” perché non sarebbe altro che una vittoria dell’Unione Europea che riuscirebbe, imponendo un accordo molto punitivo nei confronti del Regno Unito, a dimostrare a chiunque volesse uscire dall’UE a cosa si va incontro. Non senza un filo di sarcasmo Johnson ha affermato che sostenendo questa posizione non si fa altro che rafforzare la leadership e gli sforzi di Theresa May che, cedendo all’Unione, consegnerebbe altrimenti il Paese ai laburisti. Al di là degli interventi ufficiali, Johnson si sta muovendo per trovare il numero di parlamentari necessario per tentare la spallata alla May, con le prime lettere di sfiducia che sono già state inviate al capogruppo Tories. Dopo aver tentato con il referendum di rubare il posto a Cameron nel 2016, ora Johnson pare voler ritentare l’operazione con la May sfruttando lo stallo in cui si trovano le trattative.

La Conference del 2017 per la May era stato un vero e proprio disastro mediatico: durante il suo discorso si era dovuta fermare molte volte a causa di un fortissimo mal di gola che le impediva di parlare, un pezzo della scenografia ad un certo punto si staccò mentre parlava ed infine un contestatore dal pubblico le aveva consegnato una “lettera di licenziamento”.

Visti questi precedenti, dunque, vi era molta attesa per il discorso di quest’anno anche alla luce delle tante difficoltà che ha dovuto affrontare la May in questo anno burrascoso.

Dopo un’entrata molto scenografica e già diventata virale sui social, sulle note di Dancing Queen degli Abba – un riferimento ironico alle critiche ricevute per i suoi passi di danza incerti nel viaggio istituzionale in Africa della scorsa estate – la May ha tenuto un discorso molto duro nei confronti del Partito laburista e in particolare del leader Jeremy Corbyn, descritto senza mezzi termini come un pericolo per il Paese. I Tories, secondo la loro leader, devono ora occupare il campo moderato lasciato totalmente sguarnito dal Labour spostatosi ormai radicalmente a sinistra.

Sul punto più atteso, quello della Brexit, la May ha spiegato che il suo piano è l’unico che possa da un lato dare seguito al voto popolare del referendum e dall’altro garantire gli interessi britannici una volta usciti dall’Unione. Il primo ministro ha però sottolineato di non avere nessuna paura dell’eventualità di un NO Deal e che dunque non è disposta ad accettare un accordo qualunque. Alla luce di queste parole e dell’indisponibilità annunciata dall’Unione di accogliere l’accordo di Chequers, l’eventualità di una hard Brexit si fa sempre più concreta.

Sul fronte interno vi è stato forse l’annuncio più sorprendente: la May ha infatti proclamato, di fatto, la fine dell’austerità che ha definito l’agenda di governo dei Tories negli ultimi otto anni. Nella finanziaria che verrà presentata in questo autunno, ha affermato il primo ministro, non ci saranno ulteriori tagli alla spesa pubblica.

Una piccola rivoluzione copernicana dovuta probabilmente ai sondaggi che danno il Labour in leggero vantaggio sui Tories, ma che, soprattutto, dicono chiaramente che le proposte di Corbyn in tema di investimenti pubblici, nazionalizzazioni e spesa sociale sono accolte con straordinario favore dall’elettorato britannico.

 

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Il percorso del Labour sul fronte Brexit

Dal 22 al 26 settembre si è tenuta a Liverpool la conferenza annuale del Partito laburista, un appuntamento che definisce le linee programmatiche del partito per l’anno a venire. Non essendo un anno “elettorale” per la carica di leader, tutta l’attesa era per le votazioni circa la linea del Labour sull’argomento del giorno (o forse è meglio dire del secolo): la Brexit.

Nelle settimane precedenti si era capito che la discussione sarebbe stata molto tesa perché da parte di molti CLP (Constituency Labour Party, le sezioni locali del partito che mandano i propri delegati alla Labour Party Conference) e altrettanti sindacati affiliati (anche loro con diritto di voto alla Conference) erano state proposte mozioni molto divergenti tra loro: vi era chi apertamente (soprattutto tra le sezioni locali) chiedeva che la posizione del Labour fosse quella di proporre un secondo referendum per invertire il processo della Brexit e chi (soprattutto tra i sindacati affiliati, seppure con qualche eccezione) voleva che l’idea di un voto popolare fosse esclusa e che si indicasse come linea solamente la volontà di un’altra elezione anticipata, vinta la quale il Labour avrebbe condotto nuove trattative per concludere il processo della Brexit. Insomma, c’erano mozioni che volevano invertire il processo di uscita dall’Unione Europea e altre invece che volevano semplicemente gestirlo “da sinistra”.

Anche all’interno del governo ombra erano espresse queste due posizioni: Jeremy Corbyn e John McDonnell, i leader del partito e della sinistra interna, erano orientati ad escludere un secondo referendum dalle opzioni, mentre il ministro ombra per la Brexit Keir Starmer era più o meno apertamente a favore.

Nella notte tra domenica e lunedì si è tenuta una caldissima riunione a porte chiuse tra i delegati che avevano presentato una mozione e Starmer: dopo sei ore di trattative l’incontro è riuscito a raggiungere un compromesso su una mozione che superasse tutte le altre. Come è intuibile il documento è piuttosto generico e lascia, sostanzialmente, tutte le opzioni sul tavolo. Tuttavia fa ordine nelle cose da fare: la prima è “mettere alla prova” l’eventuale accordo trattato da Theresa May attraverso una serie di test molto specifici su rapporti commerciali, libertà di movimento e altri argomenti sensibili. Se l’accordo non dovesse superare questi test allora il Labour si dovrà opporre in Parlamento, votando contro l’accordo e chiedendo nuove elezioni anticipate. Elezioni che verranno richieste anche in caso di mancato accordo, proprio al fine di mettere il Partito laburista nelle condizioni di trattare un’intesa migliore con l’Unione. Questa è la parte più gradita a Corbyn e ad una parte dei sindacati, una posizione che dunque non mette in discussione l’uscita dall’Unione.

La mozione aggiunge però che se non si dovesse riuscire ad ottenere nuove elezioni in caso di accordo che non soddisfi i test del Labour, in caso di No Deal o nel caso in cui il Parlamento voti contro l’accordo, allora il partito laburista dovrebbe chiedere un nuovo voto popolare. Questa è la parte più controversa del documento. Infatti non è chiaro se per “voto popolare” si intenda un nuovo referendum identico a quello tenutosi nel 2016 oppure un referendum sull’accordo trattato o ancora sul mandato al governo di andare avanti con un No Deal.

Nel discorso che ha preceduto la discussione tra i delegati di martedì, Keir Starmer, pur ponendo moltissimo l’accento sulla richiesta di nuove elezioni anticipate, nel passaggio sul “voto popolare” ha forzato la mano, uscendo da quanto trattato nella mozione e dicendo apertamente che se si dovesse arrivare a chiedere il referendum tutte le opzioni dovrebbero essere sul tavolo, compresa quella di chiedere di interrompere la Brexit. Un passaggio accolto da una standing ovation della platea che però è stato anche contestato in molti interventi che lo hanno seguito.

Ci ha pensato Corbyn, nel discorso finale tenutosi mercoledì 26, a “raddrizzare la linea”, mettendo tutta l’enfasi possibile sulla richiesta di nuove elezioni sia in caso di No Deal che di accordo non soddisfacente, senza nominare minimamente la possibilità di un secondo referendum. Anzi Corbyn ha detto chiaramente che l’intenzione del partito è quella di rispettare il voto popolare del 2016.

E d’altronde gran parte del programma elettorale annunciato nella cinque giorni laburista è difficilmente realizzabile nell’attuale quadro di regole comunitarie, a partire dal programma di nazionalizzazioni dei servizi essenziali; non è dunque sorprendente che la leadership laburista voglia prendere in mano le trattative e gestire il processo di uscita dall’Unione più che interromperne il processo. A questo si deve aggiungere che tutti i sondaggi paiono piuttosto chiari: il popolo britannico non ha cambiato idea in maniera significativa sull’argomento Brexit e la richiesta di un secondo referendum rischia di essere un boomerang per i suoi proponenti.

L’unica certezza al momento è che Jeremy Corbyn, a differenza della May, gode del pieno sostegno di tutto il suo partito, che ne riconosce fortemente la leadership e che è convinto che a breve siederà al numero 10 di Downing Street.

Al contrario, l’attuale primo ministro sembra a volte più impegnato a mediare all’interno del proprio partito che con l’Unione Europea: una posizione negoziale non molto forte che infatti sta lentamente conducendo le trattative verso una sempre più probabile hard Brexit, soprattutto alla luce degli esiti dell’ultimo incontro del Consiglio europeo a Salisburgo, in cui tutti i leader e i vertici delle istituzioni europee hanno chiaramente detto che il piano proposto dalla May «non funziona». Un incontro che è stato da molti commentatori considerato umiliante per il primo ministro britannico che, in una dichiarazione ufficiale, ha dovuto a muso duro dire che l’Unione Europea deve essere rispettosa delle richieste del Regno Unito e impegnarsi di più per trovare un compromesso tra le proprie posizioni e quelle britanniche. Dichiarazioni che hanno incontrato l’entusiasmo della parte più conservatrice della stampa britannica ma che non fanno altro che avvicinare la prospettiva di un No Deal e dunque la richiesta di nuove elezioni da un Partito laburista che, al momento, pare con il vento in poppa.

 

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La politica britannica riparte dalla Brexit

Lunedì 3 settembre ha riaperto il Parlamento di Westminster e la politica britannica ha ripreso a pieno regime, in particolare con le polemiche al vetriolo sulla spada di Damocle che pende sul Regno Unito: l’imminente uscita dall’Unione Europea. Theresa May deve infatti in teoria chiudere entro dicembre un accordo con l’Unione per poi sottoporlo al vaglio del Parlamento.

La settimana però non si è aperta in maniera facile per il governo. Il capo negoziatore dell’Unione Michel Barnier ha infatti rilasciato un’intervista ad un giornale tedesco in cui ha dato un giudizio molto negativo sul cosiddetto “piano Chequers”. Barnier, in sostanza, ha spiegato che le condizioni poste dal piano della May sono inaccettabili per l’Unione e che, per ottenere quanto richiesto nel piano di Chequers in termini soprattutto di accordi commerciali, l’unico modello possibile è quello norvegese; un modello che, però, sarebbe politicamente un suicidio per i Conservatori: la Norvegia infatti ha sostanzialmente gli stessi obblighi verso l’Unione di un Paese membro – compresa la libera circolazione dei cittadini europei – senza però far parte degli organismi decisionali europei. Sarebbe sostanzialmente una Caporetto britannica.

Il primo ministro ha dovuto subire anche due pesanti bordate “amiche” da parte di due illustri esponenti del suo partito, ovviamente sostenitori di una hard Brexit: Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg.

L’ex ministro degli Esteri Johnson, dimessosi proprio perché – insieme al suo collega ministro per la Brexit David Davis – in disaccordo con la proposta di Chequers, in un pungente articolo sul Telegraph ha attaccato frontalmente il piano proposto dalla May definendolo una resa nei confronti dell’Unione. Con la sua penna molto affilata Johnson ha descritto la Gran Bretagna come prossima ad essere presa a sberle dall’Unione, che uscirebbe dalle trattative come vittoriosa e minacciosa nei confronti di chiunque altro volesse sfidarla. Ripetendo la formula usata nel suo altrettanto colorito intervento di dimissioni, Johnson ha definito lo scenario che si verrebbe a creare se dovesse essere accettato il piano di Chequers come una «Brexit in the name only»: una Brexit solo sulla carta. Johnson ha infine dipinto quello del nuovo confine tra Irlanda e Irlanda del Nord come un falso mito. L’ex sindaco di Londra sostiene che nessuno pensa possibile l’istituzione di un nuovo hard border (il confine fisico, con l’istituzione di nuove dogane) e che ci sono moltissime soluzioni a disposizione per affrontare il problema dell’uscita dell’Irlanda del Nord dall’alveo dell’Unione Europea. Insomma, secondo l’aspirante leader conservatore, quello del confine in Irlanda è un finto problema montato ad arte per impedire che la Brexit ponga fine alla libera circolazione delle persone e all’adesione al mercato unico europeo. Come diremmo in Italia, secondo Johson è una fake news.

Jacob Ress-Mogg, potente parlamentare ultra conservatore, leader insieme a Johnson dell’ala pro-Brexit, dopo essersi recato a Bruxelles per un incontro tra la commissione parlamentare sulla Brexit e Michel Barnier è uscito dichiarando che lui e il negoziatore dell’Unione avevano avuto un incontro molto cordiale in cui avevano concordato sul fatto che il piano della May fosse «una assoluta schifezza».

È dunque evidente che la battaglia all’interno dei Conservatori, sia sulla Brexit ma soprattutto per la leadership del partito, sia ben lungi dal finire. Per non farsi mancare nulla, poi, la May ha dovuto subire un pesante attacco dalla Germania, con le dichiarazioni di Angela Merkel secondo le quali non si può escludere che le trattive tra Regno Unito e Unione collassino da un momento all’altro. Non c’è che dire, un inizio di settembre impegnativo per Theresa May.

In acque appena più tranquille naviga il leader del Partito laburista, Jeremy Corbyn. Dopo aver passato una estate infernale a difendersi dalle accuse di antisemitismo, il leader laburista adesso deve affrontare forze sempre crescenti che gli chiedono di farsi campione della proposta di un referendum popolare che (dis)approvi l’accordo finale sulla Brexit. È di queste ore l’annuncio di uno dei più importanti sindacati britannici (nonché uno dei principali sostenitori del Partito laburista e di Corbyn), il GMB, di sostenere l’idea del ritorno al voto prima dell’uscita definitiva dall’Unione. Questo annuncio fa aumentare ancora di più la tensione all’interno del Labour in vista dell’Annual conference che si terrà dal 22 al 26 settembre a Liverpool. In quella sede infatti, una volta all’anno, vengono discusse e votate le linee programmatiche del Partito laburista e il 25 settembre è, come ovvio, prevista la discussione sulla Brexit. L’appoggio del GMB all’idea di un secondo referendum, associata a forti richieste da parte di alcune correnti interne del Labour da sempre sfavorevoli alla Brexit e in polemica con la linea più pragmatica di Corbyn, potrebbe rendere le votazioni in materia meno scontate del previsto. Infatti, in teoria, il segretario del Labour gode di una solida maggioranza all’interno del partito e di tutti gli organi dirigenti, proprio grazie all’appoggio incondizionato di quasi tutti i sindacai affiliati, che sono alla base del movimento laburista.

Insomma, una ripresa dei lavori molto impegnativa per tutta la politica britannica e non ci si potrebbe aspettare nulla di diverso da una delle vicende più importanti e controverse della storia recente del Regno Unito.

 

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Brexit, il governo May perde Davis e Johnson

Venerdì scorso Theresa May ha riunito tutto il suo governo a Chequers, la residenza “di campagna” del primo ministro britannico. Prima della riunione tutti i membri del governo dovevano lasciare fuori dalla sala smartphone e smartwatch, niente doveva trapelare. Obiettivo della giornata: approvare il piano del governo per la Brexit. Un piano che, una volta varato, vincolasse tutti i membri del governo, che fossero “brexiteers” ovvero sostenitori della Brexit (in particolare David Davis, ministro della Brexit e Boris Johnson, ministro degli Esteri) o “remainers” dunque contrari alla Brexit e che adesso premono per una “soft Brexit”, cioè un’uscita meno dolorosa possibile.

Venerdì sera l’accordo pareva trovato, la May si era detta soddisfatta dell’incontro. Il nuovo piano del governo era, di fatto, una soft Brexit.

Cosa prevede il nuovo piano della May? Innanzitutto, per quanto riguarda tutti i prodotti, compresi quelli agricoli, si vuole mantenere in piedi l’impianto di regole comuni tra Regno Unito e Unione Europea; questo per impedire che la legislazione europea blocchi l’accesso al mercato unico. Quindi il nuovo trattato dovrà prevedere un sistema di armonizzazione della legislazione per evitare problemi doganali. Il Parlamento britannico avrà voce in capitolo su tale armonizzazione ma nella consapevolezza delle conseguenze e cioè del possibile blocco dell’accesso al mercato unico. Tale accordo esclude il mercato dei servizi, cosa che renderà i rapporti con l’Unione più complicati per questo settore.

In tema di giurisdizione c’è uno degli aspetti più controversi. Proprio per quanto riguarda le regole comuni che rimarranno in piedi per quanto scritto sopra, di fatto, il piano prevede che gli organi europei di giustizia, in particolare la Corte europea di giustizia, siano garanti dell’interpretazione delle regole. Questo era uno dei temi principali della campagna referendaria, infatti i sostenitori del Leave affermavano che fosse inaccettabile l’esistenza di organi giudiziari di ultima istanza “stranieri”. Il piano della May da un lato elimina la giurisdizione europea sulla legislazione “ordinaria”, dall’altro la mantiene su alcuni aspetti cruciali dell’economia britannica, pena l’esclusione dal mercato unico.

Particolarmente complicato è l’approccio al tema degli accordi doganali. Il piano prevede un accordo doganale “combinato”. Per quanto riguarda i beni destinati esclusivamente al mercato britannico si applicheranno tariffe e accordi commerciali “domestici”, mentre per i prodotti destinati al mercato europeo si applicheranno le corrispondenti regole e tariffe europee. Questo, nell’intenzione del governo di Theresa May, dovrebbe evitare i cosiddetti “hard borders” e cioè l’istituzione di nuovi confini “fisici” tra il Regno Unito e l’Unione e, soprattutto, tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Il piano sarà a breve formalizzato in un “Quaderno bianco” e cioè in una vera e propria proposta legislativa del governo da sottoporre al Parlamento e, soprattutto, all’Unione. Nella volontà del governo si tratta di un accordo preciso e responsabile, che da un lato manterrà aperti i rapporti commerciali con l’Unione e dall’altro porrà fine alla libera circolazione, soprattutto delle persone, con – tuttavia – la possibilità di fare accordi specifici che rendano agevole lo spostamento per casi di lavoro o di studio. Occorre però ricordare che questo piano è semplicemente ciò che la May si propone di offrire al tavolo delle trattative con l’Unione. Bisognerà vedere come reagiranno i 27. È facile prevedere, infatti, che l’Unione avrà da eccepire su alcuni aspetti, in particolare sulla proposta di accordo doganale combinato.

Andando però ad analizzare politicamente e non tecnicamente l’accordo, questo della May era un estremo tentativo di portare a compimento la trattativa più difficile, che non è tanto quella con l’Unione ma quella interna del suo partito. A meno di un anno dalla data in cui il governo ha promesso di portare a termine le trattative, i Tories sono lontanissimi da raggiungere un accordo tra di loro su quale sarà il punto di caduta accettabile alla fine del processo. Se, infatti, i remainers non possono accettare l’idea di un “no deal” e cioè di un’uscita unilaterale dall’Unione senza alcun tipo di accordo, dall’altra i brexiteers non possono accettare l’idea di una Brexit che lasci alcuni aspetti cruciali (immigrazione, commercio e giurisdizione) invariati rispetto alla situazione attuale. E considerando i numeri in parlamento, la May non può permettersi un partito diviso se vuole approvare un accordo con l’Unione o evitare la caduta del governo in caso di “no deal”.

Queste sono le ragioni che hanno portato alla prova di forza del primo ministro che venerdì ha imposto una specie di ultimatum a tutti i suoi ministri. Un ultimatum che non ha avuto gli effetti sperati.

Infatti, a neanche 48 ore da quello che sembrava un grande successo per Theresa May, il governo ha subito due pesantissimi colpi da due dei suoi principali ministri, particolarmente simbolici, peraltro, in tema di Brexit. Prima David Davis, il ministro della Brexit e – fino a lunedì – capo negoziatorie per il Regno Unito e interlocutore dell’Unione e poi Boris Johnson, ministro degli Esteri, hanno lasciato il governo in polemica con la May per il piano proposto. Davis e Johnson fanno parte dell’ala più dura dei Tories, grandi sostenitori della Brexit. Entrambi considerano il piano della May troppo debole e pieno di concessioni all’Unione e credono che, partendo da questo progetto, il Regno Unito non potrà che ritrovarsi in una situazione negoziale pessima che lo obbligherà a fare ancora più concessioni.

Nonostante questi due terribili colpi il primo ministro ha mantenuto un aplomb notevole: riferendo in Parlamento non ha mostrato segni di imbarazzo per un inizio settimana che potrebbe portare alla fine della sua carriera da capo del governo. Considerando, infatti, le posizioni di Davis e Johnson e i parlamentari che sono in grado di controllare in quanto sostenitori di una hard Brexit, è difficile pensare che la May possa superare indenne questo passaggio senza fare qualche concessione ai brexiteers (e dunque innervosire i remainers) o senza subire quantomeno un “voto di fiducia” all’interno del proprio gruppo parlamentare su richiesta proprio di Boris Johnson che, dopotutto, sin dai tempi di David Cameron punta alla leadership dei Tories. Vedremo nelle prossime ore quali saranno gli sviluppi di quella che appare come una delle settimane più turbolente per la storia della politica britannica se si considera che era dal 1979 che non si vedevano due ministri di peso dimettersi nell’arco di 48 ore.

 

Crediti immagine: da Jim Mattis (170511-D-GY869-0152) [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

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Brexit, burrasca in Parlamento per Theresa May

Poche decisioni della storia politica recente britannica hanno un carattere divisivo come quelle relative alla Brexit.

Non solo il Paese si è – punto percentuale più, punto percentuale meno – spaccato su un argomento così delicato, ma addirittura lo stesso partito di governo, i conservatori guidati da Theresa May, non trovano accordo su quale debba essere l’approccio del Regno Unito alle trattative con l’Unione Europea. Per la verità anche il principale partito di opposizione, il Labour capeggiato da Jeremy Corbyn, ha una pluralità di opinioni al suo interno circa questo argomento. Ma per i laburisti raggiungere una linea comune è più facile: innanzitutto perché essendo all’opposizione hanno l’occasione di riunirsi in un voto contro il governo senza dover essere per forza obbligati a proporre una soluzione alternativa, e in secondo luogo perché – al momento – la leadership e la popolarità di Jeremy Corbyn non sono affatto in discussione, anzi.

Al contrario, invece, Theresa May è una leader estremamente debole, che deve affrontare attacchi da fronti opposti: da un lato gli intransigenti del “leave” che vogliono uscire dall’Unione Europea costi quel che costi, anche senza un accordo con l’Unione, dall’altro i sostenitori del “remain” che vogliono assicurarsi la Brexit più morbida e concordata possibile.

A causa di questa situazione burrascosa all’interno del proprio partito, il primo ministro è costretto a reagire giorno per giorno agli eventi. La scorsa settimana, stando alle indiscrezioni giornalistiche, la May è stata obbligata sotto minaccia di dimissioni del proprio ministro con delega alla Brexit, David Davis, a pubblicare un documento ufficiale che annuncia che il governo britannico è disposto a prolungare il periodo di transizione – cioè il periodo in cui di fatto le relazioni tra Unione e Regno Unito, soprattutto in termini di circolazione di beni e persone, non cambieranno rispetto alla situazione attuale – sino al dicembre 2021, oltre due anni dopo la data prevista per la conclusione delle trattative, nel marzo del prossimo anno. Un documento tuttavia molto generico perché descrive solo i desiderata del governo che è però consapevole del fatto che tali richieste potrebbero essere, in tutto o in parte, disattese dalla controparte.

Particolarmente difficile poi si è rivelata la due giorni di votazioni tenutasi questa settimana in Parlamento sul Brexit Bill: il gigantesco contenitore legislativo con cui il governo si propone di affrontare l’uscita dall’Unione. Il testo, approvato in prima lettura dalla Camera dei Comuni, è stato sottoposto alla Camera dei Lord che lo ha stravolto con tantissimi emendamenti contrari alla hard Brexit ed in particolare contrari a lasciare “mani libere” al governo in sede di trattative. È forse opportuno ricordare che i membri della Camera alta, seppure abbiano perso il privilegio di consegnare in eredità la propria carica, sono nominati a vita e – di conseguenza – votano secondo coscienza e convinzione, senza nessun obbligo particolare nei confronti dell’elettorato né, tantomeno, del governo.

Non è dunque un caso se gli emendamenti proposti dai Lords al Brexit Bill siano, in generale, in favore di una soft Brexit e – soprattutto – in favore di un grande diritto di veto da parte del Parlamento su quello che sarà l’accordo finale proposto dal governo. Le decisioni e gli emendamenti della Camera dei Lord sono di natura solo consultiva se non ratificate dalla Camera dei Comuni, la quale però non può esimersi dal discuterli e votarli.

Ed è proprio sul voto ad alcuni emendamenti più “controversi” che si è consumata una grande spaccatura all’interno dei Tories nelle ore immediatamente precedenti al voto previsto nella giornata di martedì 12 giugno. In particolare la frattura si stava per consumare sull’emendamento numero 19 che avrebbe tolto al governo l’opzione del “no deal”. In pratica i sostenitori più accesi del “leave” sostengono che se l’accordo finale dovesse essere troppo punitivo nei confronti del Regno Unito, quest’ultimo possa decidere di non firmare nessun accordo e uscire unilateralmente dall’Unione, senza nessun tipo di rapporto concordato su dogane, circolazione di beni e servizi, circolazione di persone: insomma, diventare da un giorno all’altro un Paese “straniero” per l’Unione. La possibilità di non chiudere nessun tipo di accordo però potrebbe essere anche usata come minaccia nei confronti del Parlamento per obbligarlo a votare l’accordo contrattato: insomma il governo vuole lasciarsi l’opportunità di dire al Parlamento “o questo accordo o nessun accordo, prendere o lasciare”.

Con l’emendamento 19 i Lords hanno tentato di dare al Parlamento una terza opzione e cioè quella di non votare l’accordo contrattato e proporre un accordo alternativo.

Questo emendamento, oltre ad essere appoggiato da tutte le opposizioni in maniera sostanzialmente compatta, era visto con estremo favore dall’ala più moderata del Partito conservatore che si preparava a votarlo, infliggendo in questo modo una pesante sconfitta alla leadership conservatrice: una sconfitta che avrebbe quasi sicuramente portato alle dimissioni di Theresa May.

Addirittura un ministro della May, Phillip Lee, si è dimesso martedì 12 giugno, poche ore prima del voto, per poter aver mani libere sulle scelte da fare in aula.

Dopo ore di intensissime trattative interne tenutesi il 12 giugno sino a pochi minuti prima della votazione, i Tories sono riusciti ad evitare la spaccatura votando compatti contro l’emendamento 19 che è stato così bocciato. Tuttavia, subito dopo il voto, sono partite due interpretazioni diverse sull’accaduto. L’ala moderata ha dichiarato di aver avuto la promessa da parte del primo ministro che, nel successivo passaggio alla Camera dei Lord previsto la prossima settimana, il governo avrebbe introdotto un emendamento che concedeva al Parlamento un voto “significativo” (e cioè con diritto di emendamento) sull’accordo finale. L’ala invece più intransigente ha negato l’esistenza di una simile promessa.

Indiscrezioni e smentite che però confermano le acque burrascose in cui è costretta a navigare la May a causa del risultato abbastanza disastroso delle elezioni che si sono tenute un anno fa: elezioni che le hanno tolto la maggioranza in Parlamento e consegnato un partito che aspetta solo il momento adatto per disarcionarla. Tutto questo mentre è impegnata in una trattativa tra le più complicate della storia britannica e che rischia di avere conseguenze disastrose sullo stile di vita del popolo britannico e sulle relazioni internazionali di Londra con tutta Europa.

 

Crediti immagine: da EU2017EE Estonian Presidency (Theresa May) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

 

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Chi è Sajid Javid, il nuovo ministro degli Interni del Regno Unito

Sajid Javid è il nuovo ministro degli Interni del Regno Unito. Javid è considerato uno degli avversari interni di Theresa May ed è una figura molto interessante: ha una biografia personale del tutto unica all’interno del Partito conservatore anche se dal punto di vista della formazione politica e professionale è quanto di più Tories si possa immaginare.

In seguito allo scandalo Windrush Amber Rudd, la potentissima ministra degli Interni, è stata costretta alle dimissioni, causando un corposo “rimpasto” del governo May e non pochi grattacapi al primo ministro per la gestione degli equilibri interni al proprio partito. Il ruolo di Home secretary (così si chiama il ministro degli Interni britannico) molto spesso viene occupato dal futuro primo ministro. Theresa May era Home secretary prima delle dimissioni di David Cameron in seguito al risultato del referendum sulla Brexit del giugno 2016 e in molti, infatti, davano la Rudd come possibile leader in un futuro non troppo lontano.

L’ex ministro degli Interni è una politica molto abile e popolare dell’ala moderata del Partito conservatore e, soprattutto, è stata una delle principali voci a favore del “Remain” del governo Cameron durante la campagna referendaria del 2016; per questo era considerata il punto di riferimento di tutti quei parlamentari Tories favorevoli ad una soft Brexit, un folto gruppo piuttosto combattivo che si oppone alla linea più dura rappresentata da Boris Johnson, il ministro degli Esteri, leader dell’ala più “estremista” del partito di governo, che spinge per la hard Brexit.

A sostituire la Rudd, un po’ a sorpresa, è stato chiamato uno dei principali avversari interni di Theresa May: Sajid Javid.

Javid, come il sindaco di Londra, il laburista Sadiq Khan, è figlio di un ex autista di autobus trasferitosi in Gran Bretagna dal Pakistan negli anni Sessanta. È la prima persona di origini asiatiche e proveniente da una famiglia musulmana ad accedere ad uno dei più importanti ministeri del Regno Unito.

Entrato in Parlamento nel 2010, Javid si è distinto subito come uno degli astri nascenti del Partito conservatore, divenendo già nel 2012 un “frontbencher” e cioè uno dei membri del governo, con un incarico di sottosegretario al ministero del Tesoro.

Sajid Javid è considerato un uomo della destra del Partito conservatore, soprattutto per quanto riguarda i temi economici. È, infatti, un “thatcherite”, fedele cioè alle tesi neoliberali che stavano alla base dei governi conservatori guidati dalla “Lady di ferro”, Margaret Thatcher. E d’altronde, prima di entrare in politica, Javid è stato un importante operatore finanziario, diventando da giovanissimo un alto dirigente della Chase Manhattan Bank, una delle più importanti banche d’investimento del mondo e, in seguito, direttore della Deutsche Bank. In questo il suo profilo non si distanzia molto da quello del suo predecessore: Amber Rudd ha lavorato per un’altra grandissima banca di investimento, la JP Morgan. Non c’è dunque da stupirsi se Javid sia un accanito sostenitore del mercato e contrario a ogni tipo di intervento statale in economia.

Nel 2015, in seguito alla seconda vittoria elettorale dei conservatori guidati da David Cameron, fece un ulteriore passo avanti nella sua carriera politica, ottenendo la nomina a ministro del Commercio, ruolo in cui ancora una volta si distinse per le sue posizioni “thatcheriane”, proponendo delle leggi molto più rigide in tema di diritto allo sciopero.

Nel 2016, dopo le dimissioni di Cameron, prese parte alla corsa alla successione del leader dei Tories che, essendo il partito al governo, avrebbe coinciso con il ruolo di primo ministro. Si candidò in ticket con Stephen Crabb, altro giovane astro nascente conservatore, ma a causa dello scarso appoggio ottenuto tra i parlamentari del proprio gruppo, i due si dovettero ritirare dalla corsa già nelle fasi preliminari.

Dopo questa sconfitta la carriera politica di Javid sembra indirizzata verso un binario morto: Theresa May lo annovera tra gli avversari interni e fonti giornalistiche affermano che in caso di netta vittoria alle elezioni del 2017, il primo ministro avrebbe escluso Javid dal nuovo governo.

La pesante battuta d’arresto dei conservatori ha costretto però Theresa May a gestire con molta delicatezza gli equilibri interni del proprio partito, obbligandola – tra le altre cose – a confermare Javid nel ruolo di ministro per la Casa e il governo locale, affidatogli già nel 2016.

Il 30 aprile, in seguito alle dimissioni della Rudd, costretta al rimpasto, Theresa May ha scelto Javid anche per ragioni propagandistiche. Di fatto il nuovo ministro degli Interni è membro della “Windrush generation” e dunque quale persona migliore di lui per porre rimedio a questo enorme problema scatenato dai suoi due predecessori?

Politicamente però la nomina di Javid presenta più di un’insidia per la May, che è stata costretta a promuovere uno dei suoi principali avversari interni che è ora in pole position come suo successore. Non è un segreto, infatti, che Theresa May sia un leader debolissimo e che l’unico motivo per cui, in seguito al disastroso risultato elettorale del 2017, non sia stata ancora sostituita, è che nessuno dei suoi contendenti vuole rischiare il proprio capitale politico in questa fase delicatissima delle trattative per la Brexit. Trattative che potrebbero risolversi in una grave sconfitta politica per i conservatori se i termini dovessero essere molto sfavorevoli per il Regno Unito.

Non è dunque difficile immaginare che dopo la conclusione delle trattative, nel marzo 2019, si aprirà la corsa alla leadership dei Tories. Una corsa che, ad oggi, vede Javid come uno dei più grandi favoriti.

 

Crediti immagine: da Chatham House. Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

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Lo scandalo Windrush e il futuro degli europei nel Regno Unito post Brexit

In Gran Bretagna infuria il cosiddetto “scandalo Windrush” che, oltre a mettere in grande difficoltà il governo conservatore di Theresa May, sta creando ansia anche nei cittadini europei residenti nel Regno Unito in vista della Brexit.

La Windrush era una nave che nel 1948 portò in Inghilterra il primo flusso di quella che poi venne definita, proprio in onore di quel primo viaggio, la “Windrush generation”. Si trattava di lavoratori provenienti dalle ex colonie britanniche nei Caraibi con il compito di contribuire alla ricostruzione della “Madre Patria” dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale.

Secondo la legge del 1948, essendo cittadini del Commonwealth delle nazioni, l’organizzazione internazionale che raccoglie gli Stati che una volta componevano l’impero britannico, questa generazione di immigrati caraibici era considerata a tutti gli effetti costituita da cittadini britannici e dunque, tecnicamente, non da immigrati. Nel 1971 la legge cambiò: i cittadini del Commonwealth non avrebbero più goduto dello status automatico di cittadini britannici. Da questo provvedimento vennero però esclusi i membri della Windrush generation, che erano liberi di rimanere nel Regno Unito come cittadini britannici: tuttavia nel 1971 non venne dato loro nessun documento speciale che attestasse la loro appartenenza a questa “generazione”, veniva loro riconosciuto lo status di “immigrati regolari” senza avere un “pezzo di carta” che lo certificasse. Per quanto possa sembrare strano, in realtà non si tratta di una circostanza così eccezionale in un Paese in cui, va ricordato, non esiste un documento di identità simile alla nostra carta di identità o, volendo portarsi agli estremi, una Costituzione formalmente definita.

Questi cittadini di origine caraibica hanno vissuto tranquillamente sino al 2012 quando, con l’intento di creare un “clima ostile” per gli immigrati irregolari nel Regno Unito, il ministro degli Interni di allora, Theresa May, varò un provvedimento che rendeva obbligatorie delle prove certe di cittadinanza al fine di accedere ad alcuni servizi fondamentali quali, ad esempio, le cure mediche, la stipula di contratti di affitto e l’accesso al sistema pensionistico. Questo provvedimento, fortemente voluto e difeso da Theresa May nonostante alcuni membri dell’opposizione di allora (tra cui l’attuale ministro degli Interni del governo ombra, la laburista Diane Abbot) avessero anticipato alcuni dei disagi che avrebbe comportato una decisione del genere, ha causato enormi problemi alla Windrush generation. Infatti, come detto, questi cittadini spesso non sono in possesso di alcun documento ufficiale che testimoni la legalità del proprio arrivo nel Regno Unito o che ne certifichi in maniera burocratica la residenza. Il risultato è stato che oltre 50.000 cittadini britannici hanno dovuto subire disagi come vedersi negate le cure mediche, comunicazioni dal ministero degli Interni che mettevano in dubbio il loro diritto a rimanere nel Regno Unito e, in alcuni casi limitati, addirittura la minaccia di subire l’espatrio coatto.

Questo scandalo, ampiamente ripreso da tutta la stampa britannica di ogni orientamento politico, ha travolto doppiamente il primo ministro Theresa May: sia in quanto estensore del provvedimento del 2012 che ha causato l’escalation sia perché proprio sotto la sua premiership il problema è venuto alla luce in tutta la sua drammaticità, obbligando – anche sotto la forte pressione dell’opposizione laburista, in particolare durante il question time del mercoledì in Parlamento – il governo a scusarsi pubblicamente per quanto accaduto.

Quanto successo alla Windrush generation sta creando più di una preoccupazione nei cittadini europei residenti nel Regno Unito, soprattutto visto lo stato precario in cui vertono le trattive della Brexit che si dovrebbero concludere nel marzo del 2019.

Resta infatti del tutto incerto quale sarà l’accordo finale tra Regno Unito e Unione Europea su quello che è il tema più delicato di tutti, ovvero quello dell’emigrazione e del futuro status degli immigrati provenienti dall’Unione. Un tema che investe una enorme comunità di persone: circa tre milioni di cittadini stando alle cifre ufficiali, ma probabilmente molte di più.

Numerosi di questi cittadini sono nostri connazionali: ufficialmente sono 256.253 gli italiani che risiedono nel Regno Unito e che sono iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), ma sappiamo che potrebbero essere circa il doppio considerando i nostri connazionali che risiedono in Gran Bretagna senza essersi iscritti all’anagrafe.

In queste comunità sta crescendo la paura di “fare la fine” della Windrush generation: molti di questi cittadini europei risiedono in alcuni casi da decenni nel Regno Unito, ma – non avendone di fatto bisogno – non hanno mai formalizzato la loro residenza. Godendo dello status di cittadini europei residenti in un altro Paese dell’Unione infatti, spesso non avevano bisogno della residenza britannica per lavorare, accedere alle cure mediche o affittare un alloggio.

Proprio come sta avvenendo ora nel caso della Windrush generation rischiano, se il tema non dovesse essere affrontato e risolto definitivamente in sede di trattative, di vedere cambiare improvvisamente il loro status di cittadini e, di pari passo, veder messo in pericolo il loro futuro nel Paese in cui risiedono, lavorano e in cui hanno famiglia e affetti.

Cosa accadrà, una volta che il Regno Unito avrà abbandonato l’Unione Europea, a questi cittadini europei? Subiranno anche loro il “clima ostile” che sta subendo ora la Windrush generation?

Nonostante le rassicurazioni del governo di Sua Maestà, queste preoccupazioni non paiono infondate se si considera con quanta difficoltà il ministero degli Interni sta affrontando una difficoltà tecnica che riguarda un numero di cittadini molto ridotto in termini assoluti (circa 50.000, come ricordato sopra) a fronte dei milioni di europei che, dopo questo scandalo, guardano con ancora più preoccupazione alle trattative per la definitiva sistemazione di un evento, già di per sé drammatico – dal loro punto di vista, quantomeno – come la Brexit.