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Michele Chiaruzzi

È Life Member del Clare Hall College della University of Cambridge e insegna Relazioni internazionali e Storia delle dottrine politiche nell’Università di Bologna, Dipartimento di Scienze politiche e sociali. È membro del Consiglio scientifico del Dipartimento di Storia dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino e coordina il Centro di Ricerca per le Relazioni Internazionali. Ha ricoperto incarichi di ricerca e didattica nella London School of Economics and Political Science, Brown University, University of Queensland, Université de Montréal, Univerzitet u Sarajevu, Università San Raffaele e presso la Fondazione Bruno Kessler. Tra le sue pubblicazioni: Politica di potenza nell’età del Leviatano (Bologna: Il Mulino, 2008), Teoria internazionale. Le tre tradizioni (ed. critica, Bologna: Il Ponte, 2011), Fortuna e ironia in politica (ed. critica, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2014), Martin Wight on Fortune and Irony in Politics (London-New York: Palgrave Macmillan, 2016), Politica di potenza e sistemi di stati (ed. critica, Milano: Le due rose editore, 2021) e, da ultimo, Diplomatic Personae: Torquato Tasso on the Ambassador («History of European Ideas», 48/9, 2022). Il suo libro più recente è Una trama del mondo uscito per i tipi di Mondadori (2022).

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L’ONU, la Russia e il rispetto della legittimità internazionale

 

La riunione delle Nazioni Unite in corso a New York non è ancora terminata ma ha già avuto un momento di grande rilievo. Non si è svolto, naturalmente, nell’Assemblea generale bensì nell’ambito della riunione del Consiglio di sicurezza convocata dalla presidenza albanese. I 15 Stati del Consiglio e quelli invitati hanno discusso «il mantenimento della pace e della sicurezza dell’Ucraina», ovvero come «sostenere gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite attraverso un multilateralismo efficace». Hanno preso la parola, tra gli altri, il presidente ucraino Zelenskij, il ministro russo Lavrov, il segretario statunitense Blinken e il cancelliere tedesco Scholz. I loro interventi e quelli degli altri rappresentanti politici – specie delle potenze maggiori – possono essere riuniti almeno in un concetto comune, quello della legittimità internazionale. In discussione è stata la legittimità della condotta russa nella guerra contro l’Ucraina.

La legittimità internazionale è un concetto ambiguo e inafferrabile. Può però essere inteso come il giudizio collettivo sulla corretta appartenenza alla società internazionale – la società degli Stati. Una delle principali funzioni delle Nazioni Unite è esprimere tale giudizio, offrendo legittimazione o negandola alla condotta degli Stati. Questi danno sempre propri giudizi, inevitabilmente parziali, sulla legittimità della loro condotta e di quella altrui definendola appunto “legittima” o “illegittima” a seconda dei casi, degli interessi e dei principi. Le Nazioni Unite, organizzazione voluta dagli Stati che vi appartengono su base consensuale, colmano il divario tra questi giudizi particolari con un giudizio collettivo. Lo fanno con i propri organi, compresi quelli eletti dagli Stati stessi, come nel caso del segretario generale. Proprio António Guterres, cioè colui che rappresenta le Nazioni Unite, ha espresso tale giudizio collettivo nelle osservazioni inviate al Consiglio in occasione della riunione.

Egli ha segnalato che «l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, in chiara violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, sta aggravando le tensioni e le divisioni geopolitiche, minacciando la stabilità regionale, aumentando la minaccia nucleare e creando profonde spaccature nel nostro mondo». Guterres ha ricordato che «gli organi delle Nazioni Unite sono stati chiari nel condannare la guerra. L’Assemblea generale ha approvato a stragrande maggioranza una risoluzione che chiedeva alla Russia di lasciare l’Ucraina e una seconda che respingeva i tentativi della Russia di annettere il territorio ucraino». Ha poi rimarcato che «l’invasione della Russia è stata seguita da attacchi incessanti e sistematici contro civili, infrastrutture e servizi civili, comprese strutture sanitarie ed educative. La guerra ha ucciso o ferito decine di migliaia di civili, distrutto vite umane e mezzi di sussistenza, traumatizzato una generazione di bambini, diviso famiglie e comunità, devastato l’economia e trasformato vaste aree di terreni agricoli in campi minati letali». Ha infine segnalato al Consiglio che «le agenzie delle Nazioni Unite hanno documentato con prove sconcertanti le diffuse violazioni dei diritti umani, tra cui violenze sessuali […] detenzioni arbitrarie; esecuzioni sommarie […] trasferimento forzato di civili ucraini, compresi bambini, nel territorio sotto il controllo russo o nella Federazione Russa». È noto che per quest’ultimo crimine di guerra il presidente Putin è indagato dalla Corte penale internazionale e i 123 Stati che aderiscono alla Corte devono eseguire, nei modi stabiliti, il mandato d’arresto spiccato contro questo ricercato internazionale.

 

Di fronte alla delegittimazione della condotta russa formulata dalle Nazioni Unite, il ministro Lavrov ha replicato sullo stesso piano con una presa di posizione raggelante. Egli ha incluso tra i suoi oppositori anche il segretario delle Nazioni Unite, affermando che «oggi la retorica dei nostri oppositori è piena di slogan come “invasione”, “aggressione” e “annessione”». L’attacco finale di questa prova di delegittimazione delle Nazioni Unite, laddove la Russia gode di speciali diritti e doveri quale membro permanente del Consiglio, è stato astioso: «Vorrei ricordarvi che non solo gli Stati membri ma anche il Segretariato delle Nazioni Unite deve rispettare rigorosamente la Carta delle Nazioni Unite […] Deve agire senza pregiudizi e “non deve chiedere né ricevere istruzioni da alcun governo”». Così, dopo aver colpito anche il segretario delle Nazioni Unite, iscritto tra i propri «oppositori» e screditato come agente di governi ostili e succube di pregiudizi, resta ormai poco da escogitare al governo russo per corrodere la legittimità di un assetto internazionale che la Russia, aggressore dell’Ucraina e vittima di sé stessa, ormai contesta con la postura convulsiva di una potenza revisionista allo sbando, egotista e tracotante.

 

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Immagine: António Guterres parla durante il dibattito generale della 78a Sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite presso la sede di New York (19 settembre 2023). Crediti: lev radin / Shutterstock.com

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L’UE, progetto di pace, di fronte alla guerra in Ucraina

 

L’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO rappresenta per l’Unione Europea (UE) un altro passaggio cruciale causato dalla guerra che grava sull’Europa. Checché se ne pensi, è ovvio che i 27 Stati membri dell’Unione non fanno tutti parte dell’Alleanza atlantica. La svista del Corriere della Sera a tal proposito (martedì 11 luglio, p. 2) è emblematica. Testimonia difatti una diffusa superficialità nel considerare un fatto capitale: proprio perché gli Stati dell’Unione non partecipano tutti alla NATO, la scelta di altri due Stati europei d’integrarsi in questa alleanza militare – perdipiù, si badi bene, due Stati ex neutrali – designa un grave momento per il processo d’integrazione europea.

Coinvolto dagli eventi è il concetto stesso dell’Unione quale zona esclusiva di pace destinata ad allargarsi, integrarsi e poi concludersi, a tempo indefinito, in uno spazio istituzionale libero dall’incombere della guerra come fatto presente e diretto. La guerra d’Ucraina irrompe sempre più in questo spazio politico e interrompe tale processo d’integrazione pacifico. Il processo d’allargamento oggi include difatti, per la prima volta, uno Stato in guerra sottoposto a invasione e smembramento da una grande potenza aggreditrice. L’Unione Europea si è posta al suo fianco con le proprie capacità, sostenendolo non solo come candidato all’adesione bensì nell’impegno bellico contro il proprio nemico. In questo senso il processo d’integrazione europea si svolge, per la prima volta, nell’ombra della guerra. L’insicurezza collettiva spinge così l’integrazione europea a coincidere sempre più con quella nell’Alleanza atlantica, come nel caso di Svezia e Finlandia.

Questa amara condizione determina per l’Unione, quale istituzione comune, una torsione verso la guerra come fatto immanente esistenzialmente relativo alla pace, sollecitandone la resistenza alla trazione dissipatrice dell’ostilità violenta e l’aderenza alla dinamica concreta del conflitto armato attuale. Non si tratta di una mera prova di forza bensì di una inedita prova politica. La sua portata è ineludibile, se è vero che fin dagli albori del progetto europeo, sorto proprio da una catastrofe bellica, la pace è l’originario ontologico e la nozione positiva, mentre la guerra è l’artificiale fenomenico e la nozione negativa nel senso proprio della parola, ossia ciò che non è soltanto assenza del positivo bensì la sua negazione.

L’unità degli europei – l’Unione Europea – origina e prospera come pretesa di pace volta a negare, una volta per tutte, la guerra in Europa. Lo spazio politico comune delle istituzioni europee è stato definito anzitutto dalla presenza della pace per rimuovere il rischio di guerra; per questo la figura del nemico è stata eclissata e la volontà di potenza inibita dal tradursi in forza armata. La guerra d’Ucraina conduce l’Unione e i suoi Stati al confronto unitario con tale figura e quella volontà, incarnate dalla condotta bellica della Federazione Russa che essi contrastano.

È in questo senso che la guerra d’Ucraina è una guerra europea, la prima che investe in siffatta maniera l’Unione mutandone giocoforza il profilo politico. Si tratta di una guerra europea perché tutte le maggiori istituzioni europee ne partecipano chiaramente anche sul fonte delle ostilità belliche e parabelliche. Tale chiarezza è stata infine espressa dal presidente Sánchez. Recatosi a Kiev per la terza volta ha spiegato così la sua volontà politica: «Volevo che il primo atto della presidenza spagnola del Consiglio dell’UE fosse in Ucraina insieme a Zelensky». «L’Europa è con voi», ha concluso annunciando aiuti per 55 milioni di euro, una continua fornitura d’armi per la controffensiva nonché il sostegno all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione: «Da qui lanciamo un messaggio chiaro a Putin: l’Europa aiuterà Kiev sino a quando sarà necessario».

Il leader socialista ha ribadito posizioni già espresse dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, convinta che questa guerra sia «un momento spartiacque» per l’Unione. È un momento che consiste d’una mobilitazione senza precedenti ed è per questo che l’Unione è stata dichiarata dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov «un’associazione ostile». Tale ostilità si manifesta, tra l’altro, col poderoso impegno dell’Unione volto a finanziare per la prima volta l’acquisto e la consegna di armamenti destinati a un fronte di guerra per combattere forze d’invasione. S’aggiunga che almeno venti Stati europei sono impegnati a fornire addestramento diretto alle forze armate ucraine e altro supporto militare in molteplici forme. Per questo il «Fondo europeo per la pace» rimborserà una quota dell’impegno militare con una disponibilità di almeno 12 miliardi di euro. Non sorprende, dunque, che la «militarizzazione» degli Stati dell’Unione abbia raggiunto ormai la cifra record di 345 miliardi di euro.

Prima fra i politici euro-occidentali recatisi a Kiev, la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, aveva già chiarito che «con l’invasione criminale del vostro Paese la Russia si è posta in confronto diretto con l’Europa». Questo confronto diretto non è con una o più potenze europee: è con l’unione politica che le accomuna in ragione d’interessi comuni e valori condivisi; in pace come in guerra, fino a prova contraria.

 

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Immagine: Le bandiere dell’Unione Europea e della NATO nella sede della Commissione europea, Bruxelles, Belgio (11 gennaio 2023). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Il quadro ampio delle nuove tensioni nei Balcani occidentali

 

La notizia della sentenza emessa lo scorso 31 maggio dalla Corte d’appello del meccanismo residuale per i tribunali penali internazionali dell’Aja, chiamati a giudicare sui crimini di guerra in ex Iugoslavia, è stata oscurata, quasi integralmente, dal concomitante clamore prodotto dalla violenza dei dimostranti serbi contro le forze della KFOR (Kosovo Force) a Zvečan, Kosovo del Nord, con 30 militari feriti tra cui 11 italiani. Si tratta di una sentenza di notevole rilievo per la giustizia internazionale, l’ultima pronunciata dopo una lunga stagione di processi ai criminali di guerra che, per parte loro, hanno disintegrato e insanguinato la Iugoslavia. Istituito il 25 maggio 1993 durante la guerra per perseguire tutti i crimini commessi, il tribunale è stato la prima corte penale del Novecento costituita non dai vincitori – come nel caso di Norimberga e Tokio – ma dalle Nazioni Unite con risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza.

La rilevanza della sentenza consiste nell’aver confermato coi crismi della legalità internazionale, cioè «oltre ogni ragionevole dubbio», che i crimini di guerra delle forze legate agli apparati della Serbia allora presieduta da Slobodan Milošević non sono stati commessi «in modo casuale o disorganizzato, bensì nel corso di operazioni ben pianificate e coordinate, dimostrando l’esistenza di uno scopo criminale comune» (160/41863). Ciò che la Corte ha pertanto provato è che «almeno dall’agosto 1991 e in ogni momento rilevante per i reati contestati nell’atto d’accusa, esisteva lo scopo criminale comune di rimuovere forzatamente e definitivamente, attraverso la commissione dei reati di persecuzione, omicidio, deportazione e atti disumani (trasferimenti forzati), la maggioranza di non serbi, principalmente croati, bosniaco musulmani e croati bosniaci, da vaste aree della Croazia e della Bosnia ed Erzegovina» (160/41863).

Le condanne a 15 anni di reclusione comminate a Jovica Stanišić e Franko Simatović, ex funzionari dei servizi di sicurezza della Serbia, cioè di apparati di suprema importanza statuale, hanno permesso di giudicare non solo le responsabilità individuali del caso. La sentenza ha anche provato in sede legale che lo «scopo criminale comune» era condiviso da alti dirigenti politici, militari e di polizia della Serbia con i loro sodali presenti nelle varie entità serbe autoproclamate agli albori della guerra in Bosnia e Croazia. Va ricordato che non tutte queste entità sono estinte poiché l’unica ancora esistente è la Repubblica Serba (Republika Srpska) in Bosnia ed Erzegovina, famigerata per il genocidio di Srebrenica e presieduta fino al 1998 da criminali di guerra del calibro di Radovan Karadžić e Biljana Plavšić. Proprio quest’anno, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, le autorità in carica della Repubblica Serba hanno conferito l’onorificenza maggiore a Vladimir Putin, considerato l’alleato di massima grandezza anche perché – ha rimarcato il presidente Milorad Dodik – «la posizione della Repubblica Serba è stata preservata grazie alla Russia». 

La rinnovata tensione che attraversa queste aree dei Balcani occidentali è quindi acuita dai riflessi della guerra della Russia contro l’Ucraina e si riverbera diffusamente, con momenti estremi come quelli vissuti nei giorni scorsi. In effetti, lo stesso 30 maggio due aerei bombardieri strategici supersonici degli Stati Uniti hanno platealmente sorvolato Sarajevo e altre città bosniache. Si è trattato di una esplicita dimostrazione di sostegno alle forze armate della Bosnia ed Erzegovina nonché della «costante dedizione degli Stati Uniti verso la sovranità, l’integrità territoriale e la natura multietnica della Bosnia-Erzegovina». Il sorvolo militare di tali aerei, affatto rituale, accade quando s’intensifica lo sforzo della Bosnia-Erzegovina d’avanzare nel suo percorso d’integrazione nell’Unione Europea, dopo il riconoscimento dello status di candidato acquisito lo scorso dicembre; ma ciò avviene tra le costanti minacce secessioniste da parte di Dodik, del suo governo e delle forze – interne ed esterne – che lo sostengono. Costui, appena rientrato in Bosnia ed Erzegovina da una visita a Mosca il 23 maggio, ha descritto la dimostrazione statunitense come una «provocazione, intimidazione e pressione», rivolgendo poi all’ambasciatore degli Stati Uniti un lapidario messaggio: «bastardo». Tre giorni fa, il 6 giugno, il presidente Putin lo ha insignito a Mosca dell’onorificenza dell’Ordine di Alexander Nevsky, la stessa conferita nel 2019 al presidente della Serbia Aleksandar Vučić.

Proprio a Vučić vanno, per ora, i maggiori benefici politici di questo momento di tensione internazionale riacuitasi in Kosovo. Perlomeno, in questa prospettiva, essa ha sedato l’ennesima crisi politica in Serbia, stavolta innescatasi dopo le stragi che in due giorni (3-4 maggio) hanno causato 17 morti e numerosi feriti, tra cui molti minorenni. Quei fatti inauditi hanno scosso il Paese e generato reazioni di protesta poi soffocate dalle dimostrazioni nazionaliste seguite alle violenze in Kosovo che hanno rinsaldato il governo di Belgrado. D’altra parte, l’instabilità nel Kosovo settentrionale resta un cuneo piantato in Europa tanto quanto la precarietà della Bosnia con le sue lacerazioni politiche.  Cosa attenda nel prossimo futuro queste aree dei Balcani occidentali non è noto. Non lo è neppure quel che accadrà nel quadro maggiore della guerra in Ucraina, stante il mandato di arresto della Corte penale internazionale nei confronti di Vladimir Putin e Maria Lvova-Belova per il crimine di guerra di deportazione e trasferimento forzato di popolazione. Di certo, se la storia insegna poco o niente alla politica, tantomeno lo fanno le sentenze.

 

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Immagine: Il centro distrutto durante i combattimenti con le forze serbe di Pec, Kosovo (3 luglio 1999). Crediti: Northfoto / Shutterstock.com

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Il fallimentare gioco d’azzardo di Cameron

L’esito del  Referendum sull’abbandono del Regno Unito nell’Unione Europea permette fin d’ora alcune considerazioni generali sulla condizione della politica in Europa. La prima considerazione riguarda la fragilità stessa della politica, l'ineluttabile precarietà dei risultati che, a torto, sovente si considerano acquisiti. Un’errata concezione dominante, fondata su visioni teleologiche della storia e coltivata nell’idea che la ragion politica sia analoga alla razionalità economica, ha compromesso la percezione in Europa di questa pericolosa fragilità e oggi paga il conto: la storia è disseminata di eventi impensabili e inimmaginabili per le sue vittime, le quali ponevano la loro fiducia in una presunta logica storica che le tradì nel momento del bisogno. Questa concezione ha indebolito allo stremo l’idea stessa della politica in Europa e dell’Europa, nel tentativo di trasformarla in una sorta d’amministrazione legalistica legittimata dai criteri ossessivi dell’economia e dai canoni distorsivi di un’ottusa interpretazione strumentale della democrazia.
Oggi va ricordata la fatica diplomatica che nel secolo scorso condusse il Regno Unito nell’Unione Europea. Fu un grande negoziato decennale, oneroso e complesso, che permise l’adesione britannica all’Europa unita e l’appartenenza a un’istituzione nata per proteggere la sicurezza collettiva europea: l’Unione, appunto. Questa fatica diplomatica è stata prima annodata al cappio di un Referendum e poi giustiziata sotto gli sguardi imbelli degli spettatori europei, privi di ogni pudore. Con essa giace oggi quel principio d’interesse comune e condivisione insito nel concetto stesso di sicurezza collettiva, gravemente ferito fin dall’idea stessa di celebrare, per la prima volta nella storia, un Referendum per abbandonare l’Unione Europea.
È chiaro a chiunque che tale concetto e il principio che lo regge è stato profondamente corroso dalla condotta del Governo britannico, avanguardia di un allineamento di Stati attualmente incapaci di percepire la rilevanza degli interessi comuni della comunità europea e la necessità di governarli assennatamente. L’Esecutivo britannico ha deciso di celebrare un Referendum carico d’una ineludibile portata storica internazionale e con un’implicazione evidente che produce una pesante ripercussione. Costringe a considerare fin d’ora le mutate circostanze delle relazioni tra l’Unione, gli Stati membri e il Regno Unito, prescindendo dalle altre implicazioni dell’esito referendario; costringe altresì, e finalmente, a pensare la politica in Europa in quanto politica e non amministrazione. Costringe dunque a scelte politiche. È vero che il mutamento delle circostanze non invalida i principi, eppure ne distrugge la coerenza sostituendo situazioni nelle quali è possibile agire in modo coerente a tali principi con situazioni nelle quali è necessario scegliere tra di essi.
Tra le tante scelte necessarie risalta oggi una questione suprema. L’esito della minacciosa decisione del governo del Regno Unito di tenere il Referendum, peraltro in una fase di profonda crisi dell’Unione, spinge gli altri Stati membri ad abbandonare nei suoi confronti un principio d’unità e sceglierne uno differente. È quello che si adotta con gli estranei, con chi è o si pone `fuori‘. Così l’eclisse parziale della comunanza europea, causata dalla scelta del governo inglese, oscura oggi le isole britanniche e, con esse, l’orizzonte dell’Europa continentale, costretta a sanguinare. Che fare di fronte a questo trauma facilmente evitabile che irrompe nella storia dell’Europa unita? C’è un passo nel De rerum natura dove Lucrezio intima: «Non vedi dunque che, benché una forza esterna costringa spesso molti uomini a procedere contro il loro volere e a farsi trascinare a precipizio, tuttavia c’è nel nostro petto qualcosa che può fare resistenza e combattere?». Dai classici, anch’essi cuore ferito ma pulsante della vitalità europea, si può trarre sempre utile insegnamento politico.
L’esito del Referendum spinge anche, giocoforza, a una seconda riflessione sulla responsabilità e sulla capacità politica di chi, primo fra tanti, ha generato questa condizione che aggrava la crisi politica europea. Il Primo Ministro Cameron ha scelto indisturbato, tre anni orsono, il puro gioco d’azzardo. È una tipica postura del politico, naturale e spesso inevitabile bensì pericolosa perché richiede notevoli capacità. Oggi il giocatore d’azzardo destinato alla bancarotta ha raggiunto il nadir della futilità. È significativo e sintomatico che a rappresentare questo momento storico in Europa si stagli, per noi e per i posteri, l’immagine di un politicante e non di uno statista. È un simbolo politico aderente alla realtà europea d’oggi. L’enorme scelta di Cameron d’indire il Referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione è stata dovuta, sostanzialmente, alla piccola scommessa di rinsaldare la propria posizione personale all’interno di un partito nazionale e del sistema politico britannico. Stride violentemente, e non da ora, l’incalcolabile sproporzione tra mezzi e fini, il clamoroso divario tra il pervicace perseguimento dei propri interessi locali e la mancanza di percezione d’interessi più generali, finanche superiori, come la stabilità politica in Europa in un momento di crisi lancinante. Nel suo fallimentare gioco d’azzardo, il Primo Ministro, egli stesso contrario all’uscita del Regno Unito dall’Unione, ha forse calcolato tutto con razionale strategia salvo un esito completamente diverso da quello delle sue intenzioni. Ha trascurato anche, e soprattutto, di considerare che la fortuna dello statista non è quella dello scommettitore ma quella dello speculatore – nel senso proprio e filosofico del termine. Oggi, di fronte al proprio ruolo storico beffardo e all’amara constatazione dell’ironia della politica, potrebbe far sue le parole di Franco Fortini, ponendole a proprio epitaffio politico e forse anche nostro: “La storia ha un modo di ridere che è ripugnante”.

 

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Europa: senza unione sociale non c'è unione politica

La questione della Grecia incarna solo una delle molteplici forze che attualmente tendono a lacerare il fragile tessuto politico dell’Unione europea. Essa è però tra le più importanti perché riguarda direttamente l’ordine internazionale europeo, ossia le relazioni interstatali. Tale questione è però oggi, al tempo stesso, la principale risorsa politica che si presenta agli europei. Lo è per dimostrare la capacità ad agire di concerto al fine di proteggere quell’ordine politico che, garantendo pace e sicurezza, garantisce il perseguimento di tutti gli altri scopi fondamentali della coesistenza europea, come benessere e progresso. È stato evidente quasi a tutti che la perdita della Grecia da parte dell’Unione sarebbe stata letteralmente una catastrofe politica. Solo da parte delle forze votate alla disintegrazione dell’Unione, in parte o in tutto, si è considerato un evento plausibile e persino auspicabile la perdita della Grecia. Il motivo è ovvio: le scelte politiche della Grecia nell’Unione rimettono oggi in discussione il dominio delle scelte politiche della maggioranza dei governi europei nell’ultimo ventennio, a partire da ciò che è oggi ricondotto alla dottrina della cosiddetta ‘politica d’austerità’. Lo scopo fondamentale e generale di queste forze, attive e capaci, è evocato dalla dichiarazione rilasciata dall’alleanza dei partiti vincitori delle ultime elezioni danesi: “Noi staremo con la Gran Bretagna e gli Stati impegnati nello sforzo d’impedire che l’Unione europea si trasformi in un’unione sociale”.
Alla base di questa lucida strategia politica soggiace un pensiero politico di chiara lettura. Dove manca concreta unione sociale non si dà concreta unione politica. Nel suo Common Sense (1776), Thomas Paine, teorico inglese e combattente con George Washington, scriveva che la società è il prodotto dei nostri voleri, mentre il governo delle nostre debolezze. La prima promuove la nostra felicità in senso positivo, unendo i nostri affetti, mentre il secondo lo fa in modo negativo, contenendo i nostri vizi. La prima incoraggia lo scambio reciproco, il secondo crea differenze. Il riferimento dei partiti danesi è all’impegno del Governo britannico, concomitante a quello greco,  volto a tracciare rigorose differenze all’interno dell’Unione per destrutturarne la capacità d’aggregazione politica. Si tratta, in concreto, di rinegoziare i criteri dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione tramite una vasta azione diplomatica verso gli Stati e le istituzioni europee. Uno di questi criteri è stato chiarito dai vertici del Tesoro: il Regno Unito respingerà i piani annunciati da Bruxelles per un piano comune voto a contrastare l’elusione fiscale attuata su massiccia scala in Europa dalle principali imprese economiche mondiali. La competizione e le differenze in questo campo, come in tanti altri, sono considerate un interesse nazionale da parte del governo britannico e da coloro che ne condividono la politica estera.
Questo argomento è rilevante perché marca precisamente lo stato dell’Europa attuale, la cui principale resistenza sostanziale alle forze di laceramento sembra consistere nel comune interesse nell’elemento economico e nelle istituzioni di governo che efficacemente lo sostengono. Il fatto che l’elemento economico sia in fondo subordinato alle scelte politiche – come nel caso della Grecia – non cambia i termini della questione: parlando d’economia si parla di politica, com’è sempre stato. Agli occhi degli ingenui può apparire incoerente che la posizione britannica si concretizzi così chiaramente e si diffonda in Europa proprio nel momento in cui la questione della politica economica della Grecia domina le cronache e, anche attorno a quali tasse imporre, e quali no, si svolga il negoziato destinato a sancire la permanenza greca nell’Unione. Ma la politica è il regno dell’incoerenza, se così la si vuol considerare. In effetti, l’Unione europea, osservata dal punto di vista politico, oggi è tornata a rappresentare più che altro un sistema di Stati con un alto grado di coordinamento istituzionale e poco di più. Come in tutti i sistemi di Stati, le potenze si preoccupano di tutelare i propri interessi nazionali definiti, di volta in volta, dai propri governi. Ora, non vi è nulla di contradditorio né di originale nel notare quale sia il tratto caratteristico dell’Unione riemerso agli albori del ventunesimo secolo sull’onda della questione greca: la differenza tra chi ha e chi non ha. Stati che hanno potere e ricchezza, Stati che ne hanno meno o per nulla. Ai primi è possibile un’azione di politica estera che naturaliter permette d’influenzare e deviare il corso dell’Unione, la sua rotta politica priva di governo comune. Ai secondi ciò non è dato. Quel che gli è dato è negoziare duramente i termini della coesistenza o persino della propria sopravvivenza, in un campo che si divide tra ostilità e ineguaglianza
 

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Un nuovo baricentro della diplomazia globale dopo la guerra in Ucraina

 

Se il computo degli orrori della guerra contro l’Ucraina è ancora in divenire e riguarderà finanche la Corte penale internazionale, il bilancio degli errori del Cremlino è invece già in parte acquisito sul piano diplomatico che sempre opera all’ombra della guerra. Acquisito formalmente è intanto l’ingresso della Finlandia nella NATO quale 31° membro, un evento impensabile prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Non è un fatto qualunque: aggiunge ben 1.300 km di confine tra l’Alleanza e la Russia, raddoppiando così quelli finora esistenti. Inoltre, esso porta a sette gli Stati alleati che circondano l’accesso russo sul Mare Baltico via San Pietroburgo e Kaliningrad. L’ottavo e ultimo Stato, cioè la Svezia, vuole anch’esso aderire all’Alleanza e non intende deflettere, malgrado l’opposizione turca e le recenti minacce dell’ambasciata russa a Stoccolma che perciò la ritiene – ipse dixit – un «bersaglio legittimo».

Unita a quella finlandese, l’adesione svedese alla NATO porterebbe dopo due secoli a un’eclatante trasformazione dei neutrali in nemici. Segnerebbe non solo questo mutamento politico, bensì l’estensione del territorio dell’Alleanza atlantica all’intera penisola scandinava in aggiunta alle isole danesi e all’intera terraferma dell’Europa centrale e orientale che già difende – Bielorussia esclusa. Questa disfatta autoprodotta della politica russa, esito inintenzionale di una condotta insipiente capace di scambiare la neutralità con l’avversione, aggiungendo così potenza alla potenza che si combatte, giunge insieme ad una trasformazione ancor peggiore per la diplomazia russa, quella degli amici in padroni.

Le missioni europee di questi giorni a Pechino, prima di Pedro Sánchez, poi di Ursula von der Leyen insieme a Emmanuel Macron, indicano ormai che un baricentro diplomatico della guerra d’Ucraina si trova ad oriente, ma che esso è ben lontano da Mosca. Indicano soprattutto che la Federazione Russa è considerata ormai subalterna alla Repubblica Popolare Cinese e combatte una guerra del cui esito necessario – cioè la pace – è paradossalmente ritenuta al massimo comprimaria. Così come Sánchez ha già difeso a Pechino il piano di pace avanzato dal presidente ucraino Zelenskij, richiamando al contempo il ruolo cinese nel dialogo internazionale e apprezzando il documento di «posizionamento della Cina sulla soluzione politica della crisi in Ucraina» in vista di una «concertazione» che fa leva anche sugli interessi economici e commerciali cinesi, così Ursula von der Leyen ha citato il 30 marzo scorso, prima dell’imminente missione a Pechino, l’atteggiamento cinese verso «l’invasione atroce e illegale dell’Ucraina» quale «fattore determinante» nel prosieguo delle relazioni tra Unione Europea e Cina. Da parte europea si trasla sulla Cina la funzione dirigente nelle relazioni internazionali tipica delle grandi potenze, delegittimando quella della Russia e cercando di separarne, per quanto possibile, la politica. Si affida perciò alla Cina, al suo bisogno di prestigio e di cooperazione, la responsabilità di decidere cosa fare di sé e dell’alleato russo, intrappolandolo in una politica di accondiscendenza verso la pace voluta dagli europei o abbandonandolo al proprio destino bellico. Può ben darsi che la Cina non scelga affatto, mantenendo una rendita di posizione straordinaria e immeritata, forse rischiosa ma garantita da una guerra fratricida che in Europa logora comunque alleati e rivali.

Di certo l’insipiente diplomazia del Cremlino, ormai tracotante e irrealistica, non sarà seppellita dalla risata con cui persino la platea di Nuova Delhi ha schernito le risibili parole di Sergej Lavrov, quelle dette a proposito della «guerra che la Russia sta cercando di fermare e che è stata lanciata contro di lei». Se soccomberà, la politica russa lo farà altrimenti e forse proprio nella prova di forza evocata da Lavrov quel giorno stesso contro gli europei: «Se dicono che tutto questo è esistenziale per loro, è esistenziale anche per noi».

 

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Immagine: Da sinistra, le bandiere della Cina e dell’Unione Europea negli uffici della Commissione europea, Bruxelles, Belgio (1 giugno 2018). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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La guerra in Ucraina nel triangolo Washington, Mosca, Pechino

 

Un turbinio di eventi e discorsi si addensa intorno alla giornata del 24 febbraio quando, un anno fa, il governo russo tentò la conquista dell’Ucraina con una seconda aggressione dopo quella del 2014. Essa è divenuta oggi l’apice fallimentare di una guerra decennale che rivela ormai compiutamente un significato politico ben più ampio del teatro europeo in cui si combatte. Su quel teatro gli effetti imprevisti della guerra russa contro l’Ucraina sono tanti e tali da rendere ogni bilancio parziale. Tutti però segnalano che la politica russa di divisione e ricatto in Europa è finora fallita, come pure un’offensiva bellica consumatasi in crimini di guerra, distruzione massiccia e logoramento inflitto e autoinflitto tanto umanamente devastanti quanto strategicamente sterili.

Spiccano però almeno tre esiti, tutti contrari alle intenzioni della potenza aggreditrice. Primo: la resistenza ucraina ha il sostegno di una coalizione di 54 Stati detta Gruppo di contatto a difesa dell’Ucraina, guidata dall’egemone americano. Secondo: l’Alleanza atlantica è più forte di prima. Terzo: l’Unione Europea difende l’Ucraina, con gli strumenti disponibili, come futuro Stato membro. La prima visita di Joe Biden a Kiev ha perciò lo stesso segno delle parole pronunciate da Ursula von der Leyen: «L’imperialismo russo non vincerà». Annalena Baerbock, ministra degli Esteri della Germania, ha invece ripetuto una formula più indiscutibile e già avanzata da Lloyd Austin, segretario della Difesa degli Stati Uniti: «Se la Russia cessa di combattere, la guerra è finita. Se l’Ucraina cessa di combattere, l’Ucraina è finita».

Questa formula omette tuttavia di ricordare che se la Russia cessa di combattere sarà sconfitta ed è questo che essa non vuole accettare perché, come ha ripetuto Vladimir Putin, «non può essere sconfitta». Il grumo di verità di questa tracotanza è che la vittoria è lo scopo di ogni combattente e la pace resta subalterna alla considerazione di questo scopo precipuo. Oggi è questo il nodo gordiano della guerra d’Ucraina, come lo è sempre nella guerra. Lo scrisse bene sant’Agostino chiarendo che tutti vogliono la pace e anche chi turba la pace «non vuole che non vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole».

Se è così la pace non ha nemici ma solo amici e tra costoro si mostra oggi la Cina con un’annunciata «proposta di pace» che rappresenta la principale novità di questo scorcio di guerra. Lo è perché la missione europea di Wang Yi con destinazione centrale a Mosca palesa finalmente, al suo massimo livello, la dimensione politica effettiva della guerra in corso che non è un duello, bensì un triangolo di potenza: Washington, Mosca, Pechino. La fase attuale rispecchia più chiaramente questa costellazione politica generale che riporta al significato politico della postura cinese assunta finora.

La Cina ha offerto sostegno materiale e diplomatico alla Russia seguendo un concetto diplomatico diretto – secondo il ministero cinese per gli Affari esteri – al «progresso ulteriore del nostro partenariato strategico globale di coordinamento per una nuova era». La «nuova era» s’intende come la fine dell’egemonia statunitense e del suo sistema d’alleanze. È in questa prospettiva che l’esito della guerra d’Ucraina assume il valore di un momento cruciale per la definizione dell’ordine internazionale da parte di questa potenza revisionista.

Lo sfruttamento della Russia come perno di logoramento del ruolo americano e del suo sistema d’alleanze sul fronte bellico europeo è un’occasione importante, seppur rischiosa e ambigua. Se in certa retorica ufficiale cinese i rapporti con la Russia sono ormai definiti «come l’oro che non teme corrosioni», va però considerato che i triangoli di potenza tendono a produrre alleanze mutevoli e il loro valore reale è cangiante perché essi sono anche rapporti d’incessante sospetto e tensione fra tutte e tre le grandi potenze.

È vero che la Cina ha già assunto un ruolo bilanciante durante questo anno di guerra, caricando parte del suo peso politico a favore della Russia; ma essa ha anche esercitato pressione contro la sua minaccia nucleare – ossia depotenziandola. Stante questa condotta, l’ambizione di poter incidere con una «proposta di pace» nel conflitto internazionale resta coerente col tentativo d’affermarsi nel triangolo di potenza che circoscrive gli esiti possibili della guerra, anche a spese delle potenze aggredite. «La Storia non è giusta ed è imprevedibile», ha detto Zelenskij pochi giorni fa. In questo quadro d’incertezza sono valide parole ammonitrici.

 

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Immagine: Raffigurazione delle bandiere della Cina, degli USA e della Russia. Crediti: Zbitnev / Shutterstock.com

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Un bilancio di fine anno di guerra

Il disastro della guerra causato dall’invasione russa dell’Ucraina è, con le sue implicazioni, la voce principale del bilancio politico internazionale per l’anno ormai trascorso in Europa. Le questioni degli approvvigionamenti energetici e della transizione ecologica frenata, delle forniture mancate di materie prime, delle carenze di risorse alimentari e sanitarie – per citarne solo alcune vitali – sono state tutte legate alla guerra in modo più o meno diretto ed evidente. Si tratta, a ben vedere, di un bilancio incerto e provvisorio perché i piani di conquista del Cremlino resistono ancora al proprio devastante fallimento e gli effetti della guerra si prolungano.

L’illusione di prendere Kiev in tre giorni, baluginata dall’aggressore agli albori dell’invasione, si è tradotta – finora – in 309 giorni di violenza sistematica e indiscriminata con migliaia di morti, milioni di profughi e miliardi di danni, diretti e indiretti, dal computo ancora incalcolabile. Preciso è invece il calcolo che ha condotto gli Stati Uniti a stanziare 45 miliardi di dollari del budget federale per sostenere, nel prossimo anno, lo sforzo bellico difensivo dell’Ucraina e dell’Alleanza atlantica. L’amministrazione Biden aveva stimato oneri minori, ma il Congresso statunitense ha poi deliberato la spesa attuale. Il risultato è che gli Stati Uniti spenderanno più per il disastro umano della guerra in Europa che per i disastri naturali sul proprio territorio (40,6 miliardi di dollari). Questo impegno previsto dalla potenza egemone riflette sia la centralità della guerra in corso sia l’importanza del suo esito per l’assetto futuro dell’Europa e quindi della politica mondiale, oltre che per l’esistenza stessa dell’Ucraina come Stato sovrano. Va difatti ricordato che egemonia è anzitutto termine militare, in senso classico di tipo benigno, cosicché non sorprende affatto l’incremento della spesa militare statunitense dell’8% pari a 858 miliardi totali, cioè più della metà dell’intero budget per l’anno fiscale 2023.

A fronte di questo massiccio impegno si comprende perché il primo e unico viaggio all’estero di Volodymyr Zelenskij dall’inizio dell’invasione (24 febbraio 2022) sia stato proprio a Washington. La visita di Zelenskij ha sancito, a suo modo, il bilancio politico non di uno, bensì degli ormai nove anni di conflitto trascorsi tra l’annessione russa della Crimea nel 2014 e l’inizio della guerra in Donbass. Maturata l’annessione in invasione e la guerra locale in guerra europea, l’Ucraina è diventata oggi il perno di un conflitto centrale per definire l’ordine internazionale. Per questo nella visione russa, espressa dalla scurrile portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, il presidente ucraino è ormai diventato «il figlio di puttana dell’Occidente». Raymond Aron definiva l’occidentale autentico come «colui che della nostra civiltà accetta totalmente soltanto la libertà che gli viene data di criticarla e la possibilità che gli viene offerta di migliorarla». A ben vedere, è proprio questa libertà a segnare l’incolmabile divario tra il regime politico di Zakharova e quello di Aron.

Ciò detto, un fatto oscuro della guerra in Europa, buco nero d’ogni bilancio possibile del conflitto in corso, è la reiterata e proclamata prassi ostilizzante scelta dal governo russo contro «l’Occidente» per legittimare il proprio imperialismo. Ci si domanda, a questo punto, quale idea di coesistenza pacifica con «l’Occidente e il suo figlio di puttana» immagina l’invasore quando l’invasione sarà finita. Stante l’odio e gli attriti, occorrerebbe invero uno sforzo corale per chiedersi quale sia il prezzo finale che le genti d’Europa – russi compresi – dovranno pagare alla dottrina bellica del Cremlino. Sorge perciò un’ultima domanda spontanea e niente affatto oziosa, semmai la più importante da proporre: se il presidente russo ha impiegato trecento giorni per chiamare col suo nome la guerra che ha avviato, di quanti ancora necessita per capire che questa guerra – come ogni guerra – si può anche perdere?

Sia come sia, è importante chiamare le cose col proprio nome e forse è un fatto positivo che la fine dell’anno rechi con sé, se non la fine della guerra, almeno la fine della perversa mistificazione della cosiddetta «operazione militare speciale» con la sua correlata allucinazione politica tesa a distorcere ogni dato reale. Se così fosse, un misero bilancio di questo disastro deliberato si potrebbe già cogliere nelle parole di Giuseppe Rensi, a sua volta testimone degli orrori bellici: «La guerra è una ciclopica imposizione di realtà».

 

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Immagine: Un edificio distrutto da un razzo russo, Mykolaïv, Ucraina (novembre 2022). Crediti: RoStyle / SHutterstock.com

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Vince Macron, vince l’Europa

Nella politica la verità astratta non esiste. La verità è sempre concreta. Il risultato delle elezioni presidenziali francesi è dunque, anzitutto, una prova di verità politica. Ciò che si è dimostrato vero è la consistenza reale di quel nucleo di principi e simboli sovranazionali impiegati da Emmanuel Macron per forgiare la propria forza politica e vincere la sfida con Marine Le Pen, interprete contrapposta di principi e simboli nazionalistici. Se è vero che Macron ha fatto della bandiera europea la propria bandiera, allora le elezioni francesi sono state le vere elezioni europee di questo scorcio di secolo. Ciò a dire che le elezioni della Francia sono state anche, se non soprattutto, elezioni sull’Europa. In questo senso l’antagonismo fra Macron e Le Pen ha oltrepassato la dimensione locale della contesa francese e incarnato quell’antagonismo politico fra “nazionalismo” ed “europeismo” che oggi ha dimensioni continentali transnazionali.

Per comprenderne la portata occorre prestare attenzione al fatto che il nazionalismo non è affatto avulso dalla vita politica europea e dalla sua storia. Al contrario, gli europei sono stati la nutrice di nazionalismi sempre vivi e presenti finanche ai nostri tempi, com’è del tutto evidente. La Francia, naturalmente, non fa eccezione se non per esaltare questa caratteristica. Così queste elezioni francesi e il confronto tra Macron e Le Pen s’iscrivono in modo specifico e significativo nella storia recente della politica europea. Si è trattato difatti del confronto tra due culture europee differenti ma conviventi, tra due idee d’Europa contrapposte ma limitrofe. Macron ha inteso l’Europa come una comunità pluralistica di sicurezza il cui pilastro è l’Unione Europea, un’unione di stati sostenuta anche dalla forza della Francia. Le Pen ha inteso l’Europa come un insieme di piccole patrie il cui pilastro è lo Stato-nazione, un gruppo di Stati nel quale la Francia s’impone con la propria forza. Il fatto che la principale sfida politica francese si sia giocata soprattutto sul terreno della politica sovranazionale, ossia della politica europea, segna dunque una fase di passaggio cruciale sulla quale i posteri a lungo mediteranno.

A noi oggi spetta solo riflettere sulle evidenze che la sfida nazionale francese ci consegna. La prima è appunto il suo carattere sovranazionale in termini di confronto ideale e d’azione politica. La seconda è la centralità dell’Unione Europea nella vita politica d’Europa a prescindere dall’effettiva consistenza politica dell’Unione stessa. Colpisce difatti una questione che, a giochi ormai conclusi, rischia d’essere malamente trascurata con danni sicuri alla comprensione. La questione è la seguente. Per sostenere il suo sforzo politico Macron non ha fatto leva su un progetto politico compiuto e realizzato, considerato di successo per antonomasia. Tutto il contrario. Macron ha sostenuto il suo sforzo scegliendo di porre al centro della propria azione politica il progetto dell’Unione Europea, un progetto politico incompiuto e irrealizzato, considerato di questi tempi un fallimento per antonomasia. Considerato da chi? È questa la domanda che oggi s’impone alla luce di un fatto concreto, qual è il successo cruciale ottenuto da chi invece ha richiesto consenso sul progetto dell’Unione Europea proprio quando quel progetto è sembrato a molti vetusto e corrotto. La risposta a questa domanda l’ha data perciò il politico Macron sostenuto dalla grande maggioranza dei francesi e, dunque, la risposta l’hanno data donne e uomini di Francia. È una risposta chiara e netta a chi s’interroga, sinceramente o artatamente, sulla validità del progetto europeo. È la risposta – si badi bene – a un  progetto e non all’illusione o alla distruzione di un progetto. Quel progetto è costato impegno e fatica, ha richiesto fiducia e creatività, ha prodotto tensione e armonia che hanno attraversato l’Europa per settant’anni. Può ben darsi che taluni lo considerino ormai vecchio. Oggi sappiamo che la maggioranza degli europei di Francia, Olanda e Austria non la pensano affatto così. Vedremo che ne pensano gli altri.  

 

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L’energia come arma politica

L’approvvigionamento energetico è un fattore centrale in ogni calcolo strategico e la fase attuale della guerra d’Ucraina lo dimostra, accomunando le azioni dei belligeranti e dei loro alleati proprio intorno a questo fattore. Esso riguarda il teatro bellico sia direttamente sia indirettamente. Sul teatro bellico la scellerata condotta della Federazione Russa è affidata specialmente a un principio di distruzione sistematica delle infrastrutture energetiche dell’Ucraina, volto a piegare la volontà popolare di resistenza all’aggressione. Rendendo problematica anche la mera sopravvivenza dei civili alle condizioni naturali elementari – anzitutto il freddo e il buio – s’intende così sommare paura alla paura. Lo scopo è intensificare l’effetto di una strategia del terrore fondata sul bombardamento missilistico indiscriminato e generalizzato. Stravolgendo una regola di guerra basilare – cioè la distinzione fra combattenti e non combattenti, tra soldati e civili – questa strategia è volta a colpire tutto, chiunque e ovunque in Ucraina, compresi i civili e le infrastrutture necessarie alla loro vita quotidiana. In questo contesto si comprende anche la persistente occupazione militare della centrale nucleare di Zaporižžja, un fulcro energetico vitale per l’Ucraina ancora assoggettato al controllo russo dopo 287 giorni dall’inizio dell’invasione e il tentativo negoziale di liberarla.  

 

Fuori dal teatro bellico gli Stati che sostengono l’Ucraina hanno deciso, con una scelta collettiva inedita verso la Federazione Russa, di danneggiarla ulteriormente, colpendone la principale fonte di finanziamento per la sua guerra d’aggressione, cioè il profitto tratto dal commercio delle risorse prime destinate all’approvvigionamento energetico europeo: petrolio e gas. Per questo motivo politico l’Unione Europea (EU) e i suoi principali alleati – Canada, Regno Unito e Stati Uniti d’America – hanno stabilito un limite al prezzo del petrolio russo. Al tempo stesso, va ricordato, l’Unione Europea ha già imposto un embargo sul petrolio russo e intende fissare anche un limite al prezzo del gas.

Queste misure di rappresaglia contro la Russia coincidono con decisioni la cui portata politica è ineludibile. Anzitutto, dal punto di vista europeo, le decisioni appena maturate implicano la fine della dipendenza energetica dalla Russia e l’aumento della dipendenza politica dagli Stati Uniti perché, senza l’alleanza con gli USA, questo contrasto non sarebbe stato possibile, o non lo sarebbe stato in termini così radicali. Esse poi dimostrano la volontà determinata degli alleati contro il cosiddetto “ricatto energetico” russo, rendendolo obsoleto. Sanciscono perciò, almeno per ora, il fallimento di tale ricatto, pomposamente asserito dal Cremlino e i suoi sodali come «arma decisiva», destinata a piegare la volontà collettiva di resistenza all’aggressione militare. Le decisioni prese pochi giorni fa comprovano infine la possibilità – se non l’efficacia – di contrastare, in nome della difesa collettiva di uno Stato europeo, la seconda potenza esportatrice di petrolio, nonché prima esportatrice mondiale di gas, proprio laddove essa si considera più forte e sicura, cioè su un proprio terreno privilegiato, quello dell’approvvigionamento energetico.

Non si tratta perciò di considerare queste misure sul piano economico, nei termini della loro congruenza con il “mercato” o la logica del profitto. Tali misure non possiedono su questo piano una congruenza. Semmai tutto questo è consonante con la logica della politica che conduce a una precisa postura, una disposizione all’azione. La quale, proprio come accade in guerra, conduce all’inseguimento del nemico nel suo elemento per fronteggiarlo. A ben vedere è la medesima postura politica assunta ormai dall’Ucraina che, tra mille difficoltà e durezze, spinge gli attacchi del suo esercito di droni in profondità proprio sul terreno nemico laddove non erano mai giunti prima, penetrando in territorio russo a centinaia di chilometri dal fronte.

A questo punto, dopo 287 giorni di guerra, le distinzioni che separano il teatro bellico dal suo esterno sembrano diventare sempre più tenui e fragili. La logica di guerra s’impone su quella economica e la sua dimensione tracima i confini formali del teatro bellico, sempre più riconducendo alla sua logica ciò che ne sta all’esterno o pretende di restare tale. Se è così e così continuerà, verranno tempi di decisioni ancor più difficili per chi dovrà prenderle.

 

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Immagine: Una farmacia utilizza un piccolo generatore per ovviare alle interruzioni di corrente causate dagli attacchi missilistici della Russia alle infrastrutture energetiche, Leopoli, Ucraina (18 novembre 2022). Crediti: IHOR SULYATYTSKYY / Shutterstock.com

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Cherson, è vera svolta?

Giunta al suo nono mese, la guerra russa contro l’Ucraina ha partorito sul fronte meridionale una sconfitta forse fatale per i piani di conquista dell’invasore. Sono piani ormai fradici del sangue di centinaia di migliaia di vittime e logorati da un principio di distruzione eletto a condotta bellica che produce ormai solo tormenti, inflitti e autoinflitti. La riconquista di Cherson da parte delle forze armate ucraine è, per ora, un culmine della difesa contro l’aggressore sul fronte sud-occidentale. Lo è perché ha mosso la Russia a ritirarsi dalla principale città lì occupata, luogo centrale nel rapporto offesa-difesa che costituisce la guerra: Cherson è difatti l’avamposto necessario alla impressionante ipotesi di conquista russa verso occidente – obiettivo Odessa – col relativo blocco dell’accesso al mare per Kiev, ovvero un baluardo di difesa per la Crimea occupata da otto anni.

In realtà, dopo tre mesi di azioni sempre più incisive, i contrattacchi dell’Ucraina sembrano ormai una vera e propria controffensiva nel conflitto. Hanno difatti mutato la situazione di stallo di settembre fino all’odierno successo di novembre che ha costretto la Russia al ripiegamento da Cherson, spostando quindi la linea del fronte oltre il fiume Dnepr. Respinta prima a nord nella difesa di Kiev, poi sul fronte orientale del Donbass e infine oggi a sud, ci si domanda se la Federazione Russa abbia raggiunto quello che Clausewitz chiamava «il punto culminante della vittoria».

Questo punto si raggiunge quando l’attacco ha esaurito la sua spinta offensiva e perde la sua superiorità iniziale perché ormai usurato e logorato, diventando soggetto alla reazione offensiva del difensore. Superato il punto culminante della vittoria, il rapporto di forza iniziale cambia e il difensore può respingere l’attaccante fino alla propria vittoria. Se questa è la dinamica impressa dagli eventi all’andamento della guerra – e nessuno può saperlo con certezza – allora Cherson potrebbe significare un “punto di svolta” che, non a caso, è difatti da più parti evocato.

A ben vedere, però, nella storia non si danno “svolte” ma processi di maturazione di eventi tra loro concatenati, per quanto invisibile possa sembrare la catena. Il fatto è che questa “svolta” non ha maturato, al momento, alcuna direzione politica univoca. Questo fatto è rilevante, ammesso che s’accetti l’idea che la politica è, nel contempo, certo il luogo della conflittualità, ma anche dei mezzi per sottrarsene; che è sì la materia nella quale la guerra si genera, ma anche quella dove essa deperisce. Questi mezzi sono necessariamente politico-diplomatici ed è proprio su questo versante che non si è ancora prodotta alcuna “svolta” concreta.

 

Il tentativo di far maturare un processo diplomatico in direzione della pace, intesa almeno come equilibrata coesistenza tra nemici, è ciò che difatti non può emergere solo dal teatro bellico perché riguarda soprattutto il teatro politico. Qui la rappresentazione del conflitto continua però ad assumere una caratterizzazione statica – anzi, inevitabile –, testimoniata dalle parole del presidente Putin, allorquando egli afferma ancora che «lo scontro della Russia con il regime neonazista emerso sul territorio dell’Ucraina era inevitabile, e se a febbraio non fossero state intraprese azioni appropriate da parte nostra, tutto sarebbe stato lo stesso, solo da una posizione peggiore per noi».

Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha invece posto una domanda anch’essa legata all’inevitabilità della guerra, ma di tutt’altro tenore: «In che modo questa aggressione contro l’Ucraina da parte del presidente Putin migliora la vita o le prospettive di ogni singolo cittadino russo? Un uomo ha scelto questa guerra, un uomo può mettervi fine. Perché se la Russia smette di combattere, la guerra finisce. Se l’Ucraina smette di combattere, l’Ucraina finisce».

Quest’ultima proposizione è fertile perché ricorda che se la pace è almeno equilibrata coesistenza tra nemici, essa non può coincidere con l’estinzione di uno dei due. Cosicché se la resa è un atto pratico per la pace, effettivo e certo, quest’atto è esistenzialmente indisponibile per l’Ucraina. Va però aggiunto che anche la desistenza è un atto pratico per la pace e quest’atto è invece immediatamente disponibile per la Russia.

In effetti, fin dal 16 marzo scorso la Corte internazionale di giustizia ha ordinato alla Federazione Russa di desistere dalla guerra contro l’Ucraina. Quel giorno il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite ha ordinato di «sospendere le operazioni militari avviate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina» e di bloccare «ogni unità armata regolare e irregolare che possa essere diretta o sostenuta» dalla Russia. L’ordine della Corte è importante perché una specificità delle relazioni tra gli Stati, a confronto delle relazioni tra altre unità politiche, consiste nel progresso della loro peculiare dimensione giuridica, frutto di sapienza ed esperienza accumulate nei secoli e temprate proprio dalla guerra. Valorizzare questa dimensione, eseguendo le richieste della Corte, può fare oggi la differenza per ogni concertazione diplomatica volta alla fine della guerra. Sarebbe questa, di certo, una svolta verso la pace.

 

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Immagine: Poster con la scritta «Cherson è l’Ucraina» mostrato durante una manifestazione contro la guerra in Ucraina nell’anniversario dell’indipendenza dell’Ucraina, Tbilisi, Georgia (24 agosto 2022). Crediti: MY_RI13 / Shutterstock.com

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Ucraina nella Ue causa di guerra

Capire la guerra in Ucraina e pensarne la soluzione necessita considerazioni sostanziali che ne riguardano le origini e di conseguenza l’attualità. Occorre riflettere sulla rilevanza delle sfere d’influenza nelle relazioni internazionali e il problema politico della loro definizione. Per la prima volta nella storia dell’Unione Europea il tentativo di allargarne il perimetro è diventato un elemento di conflitto in Europa e concausa di una guerra.

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In Ucraina, sei mesi di conflitto

Il 24 agosto scorso ha scandito il sesto mese della guerra avviata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina. È una guerra ormai descritta dalla Santa Sede «come moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega». Gli ‘oracoli geopolitici’, così di moda e sempre à la page, ne prevedevano la fine entro sei giorni e dopo sei mesi è bene rammentarlo a beneficio futuro. Privi del senso di realtà, costoro si dicono ancora «realisti». Ricordano invece l’oracolo di Delfi quando accettò l’invasione persiana e scoraggiò la resistenza greca, suscitando poi le beffe di Euripide e la satira di Aristofane. L’oracolo ristabilì la propria influenza politica dopo tale ‘errore’ marchiano e vedremo se ciò accadrà anche per i suoi epigoni, nostri coevi. Nel frattempo la tenace resistenza ucraina prosegue sul campo di battaglia e ha assunto il tono politico sancito dal presidente Zelenskij proprio nel suo discorso del 24 agosto, pronunciato per la giornata dell’indipendenza dell’Ucraina: «Per noi il ferro più terribile non sono i missili, gli aerei e i carri armati, ma le catene. E alzeremo le mani solo una volta: quando festeggeremo la nostra vittoria». «La nostra vittoria» è per Zelenskij «tutta l’Ucraina», ossia il governo di «tutte le 25 regioni, senza alcuna concessione o compromesso» con l’invasore.   

Lo scoccare del sesto mese di guerra è coinciso con uno stallo relativo sui fronti principali ma segnato da una serie di contrattacchi ucraini di una certa portata tattica. I più emblematici e plateali sono stati compiuti contro obiettivi delle forze armate russe stanziate proprio nella Crimea occupata e annessa dalla Russia otto anni fa. Non va difatti trascurato che da allora la Crimea rappresenta anche, dal punto di vista strategico, una sorta di corrispettivo meridionale della Bielorussia, ossia un avamposto sostanziale per il piano d’invasione russa e il suo tentativo di espansione e occupazione. Al di là delle azioni di contrattacco e della loro localizzazione che oggi riguardano in particolare anche la zona di Cherson, la resistenza ucraina nella sua dimensione controffensiva attuale è comunque indirizzata allo scopo d’infrangere il fronte nemico e interromperne il più possibile le linee logistiche. Si vedrà maturare o fallire, nel tempo a venire, l’esito di questa controffensiva e si capiranno le conseguenze sull’andamento della guerra. Il suo scopo è d’altronde perseguibile solo con l’aiuto costante dei numerosi Stati che sostengono l’Ucraina in modo indispensabile e fondamentale per lo sforzo bellico.

L’impegno molteplice di questi Stati – dagli Stati Uniti d’America ai piccoli baltici – si coalizza nel sostenere una politica di bilanciamento contro l’espansionismo russo, a prescindere dal fatto che l’Ucraina non è parte né dell’Alleanza atlantica né dell’Unione Europea. Questo impegno politico è coerente perché, dopo sei mesi di una guerra devastatrice, le conseguenze dell’espansionismo russo investono ormai chiaramente non solo l’esistenza dell’Ucraina bensì il mantenimento dell’equilibrio europeo e di conseguenza quello internazionale. L’impressionante guerra della Russia contro l’Ucraina riecheggia sempre nella politica internazionale anche perché essa investe una gamma fondamentale di accordi condivisi dagli Stati europei – Russia compresa – per definire e articolare le regole alla base della loro coesistenza pacifica. Sovrastante queste regole è però il principio politico del mantenimento dell’equilibrio di potenza – il più vetusto fra i principi interstatali europei – il quale ripudia anzitutto l’espansionismo territoriale in quanto fattore elementare di destabilizzazione e minaccia comune. La condotta della Federazione Russa ha infranto tali regole per poi affossarle, colpendo così anche il principio stesso dell’equilibrio.

Al sesto mese di conflitto è un fatto acclarato che tale condotta sia fondata sulla perversità di crimini di guerra, minacce di catastrofi nucleari, ricatti energetici e blocchi alimentari. Ma questi atti e tutti gli altri continuano ad operare nel quadro politico del tentativo di ridurre in proprio dominio il più grande Stato europeo, alterando perciò l’equilibrio di potenza. Bilanciare la potenza russa nella sua condotta espansionista e revisionista è diventato così, in questa lunga guerra, condizione di necessità per gli Stati d’Europa e i loro alleati. Se la decisione di Svezia e Finlandia di aderire all’Alleanza atlantica è stata una delle dimostrazioni più eclatanti della percezione di questa necessità, essa si è ormai concretizzata in molteplici azioni che dopo sei mesi di guerra non sono più compendiabili in poche righe. Dopo tante previsioni fallite dovrebbe essere ormai chiaro che nessuno può sapere ciò che accadrà d’ora in avanti. Di certo però non sorprende che il sesto mese di guerra consegni alle ragioni della forza quel primato sempre conteso alla forza delle ragioni. È un esito della guerra moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata e ripugnante contro l’Ucraina.

 

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Immagine: Un carro armato russo distrutto durante la sfilata per la Festa dell’Indipendenza dell'Ucraina, Kiev, Ucraina (24 agosto 2022). Crediti: Oleksii Maznychenko / SHutterstock.com

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L’accordo energetico dell’UE: un ritorno alle origini

 

«Oggi l’Unione Europea ha compiuto un passo decisivo per fronteggiare la minaccia di una completa interruzione del gas da parte di Putin». Così la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a margine dell’accordo politico raggiunto dai capi dei 27 Stati membri dell’Unione per ridurre in modo ordinato e coordinato il consumo di gas. Dal prossimo mese fino alla fine di marzo 2023, tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (UE) si adopereranno per una riduzione volontaria del 15% del consumo di gas. In caso dell’interruzione completa del gas russo, l’Unione Europea potrà dichiarare lo stato d’allerta e rendere obbligatoria questa decisione con effetto immediato, esportando poi il gas risparmiato tra gli Stati membri. Nel frattempo gli Stati sono tenuti a riferire ogni due mesi a Bruxelles i loro piani di risparmio energetico per sostenere così l’azione comune.

L’accordo è in funzione della guerra scatenata dalla Federazione Russa in Europa. Se la sconfitta russa sul fronte settentrionale da parte dell’Ucraina è stata finora determinante, quella sul fronte energetico lo sarà altrettanto se avverrà compiutamente. Nel frattempo, la solidarietà energetica dimostrata dagli Stati dell’Unione con l’accordo del 26 luglio ha una valenza straordinaria per vari motivi, il primo dei quali è ben noto: la potenza della Russia dipende dalla sua ricchezza che a sua volta dipende essenzialmente dalla vendita all’estero di materie prime, anzitutto in Europa. Da qui il principale paradosso della guerra per cui l’Europa foraggia la Russia coi propri acquisti energetici ma nel contempo la isola, sanziona e fronteggia direttamente. L’accordo affronta questo paradosso come questione collettiva, concordando tra gli Stati la messa in stato d’allerta su proposta della Commissione. Ciò rappresenta una svolta se si rammenta che gli interessi nazionali degli Stati hanno finora prevalso sull’interesse collettivo della loro Unione.     

La politica energetica europea decisa in questi giorni riporta per certi versi l’Unione alle sue origini, a quelle radici cooperative poste settant’anni fa agli albori dell’Unione stessa. Fu difatti proprio un accordo sulla gestione comune del carbone e dell’acciaio che istituì la prima Comunità europea, appunto la Comunità europea del carbone e dell’acciaio detta in breve CECA. Se nel 1951 a Parigi furono però solo 6 gli Stati disposti a condividere una politica comune sulle materie prime, nel 2022 a Bruxelles 27 Stati europei hanno concordato tale politica. Non si tratta, con tutta evidenza, di evocare semplicemente il valore simbolico di una connessione col passato bensì di osservare in dimensione storica il significato di una scelta critica attuale. In effetti, se la decisione del 1951 fu determinata dalla fine delle ostilità tra gli Stati europei, quella del 2022 è invece determinata dall’acuirsi dell’ostilità tra europei e Russia. La prima accadde dopo la guerra, la seconda è stata presa durante la guerra. In questo contesto bellico l’obiettivo dell’indipendenza europea dalle forniture russe è una pratica di difesa collettiva che produce un danno crescente alla Russia. Non è un obiettivo commerciale bensì, di fatto, un obiettivo di guerra. Lo è non meno, e forse anche più, di altri obiettivi che la guerra voluta dalla Russia implica per gli Stati d’Europa – Ucraina compresa.

Proprio l’insicurezza collettiva determinata dall’aggressione russa contro l’Ucraina – segnata da crimini di guerra sistematici, saccheggi e deportazioni – ha rigenerato ragioni profonde per la cooperazione europea anche negli ambiti più critici come quello delle materie prime. Per capirne la portata basti considerare un classico problema della cooperazione tra Stati, prodotto dal fatto che essa va certo a beneficio di tutti, ma anche di qualcuno in particolare. In altre parole, la cooperazione reca vantaggi a tutti, ma non in egual misura: li reca in modo relativo, diseguale, qualcuno ottenendo di più e qualcuno meno. Si sa che quando gli Stati si confrontano con la possibilità di cooperare per il bene reciproco sono spesso spinti a concentrarsi sulla ripartizione dei vantaggi, chiedendosi non solo se «guadagneremo tutti?», ma soprattutto «chi guadagnerà di più?». Chi trascura questo fatto, trascura le difficoltà della cooperazione tra gli Stati che si esaltano nei settori critici come le materie prime.

La solidarietà europea, sfidata dalla politica ritorsiva russa e dall’incombere della sua minaccia, affronta proprio questo problema dei vantaggi e cerca di trascenderlo con l’innesco di meccanismi istituzionali cooperativi fondati sulla fiducia reciproca e la comunanza d’interessi e valori. Ciò che tale volontà politica non può eludere è invece la realtà di una sfida straordinaria e in tutti i sensi onerosa, data la guerra in corso in Ucraina, i suoi effetti generali e le tensioni che suscita. Stante questa realtà, la solidarietà europea mostra però una caratteristica specifica che ne rafforza il significato politico. Il fatto è che, date le condizioni attuali, tra i suoi immediati beneficiari non saranno Stati piccoli o deboli, bensì uno degli Stati più forti dell’Unione Europea qual è la Germania. Essa potrà così affrontare in un quadro comune l’errore strategico della sua gravosa dipendenza dalle forniture russe e il problema di un fabbisogno energetico che sarà giocoforza il contraltare di ogni soluzione a tale errore, comunque vada. È anche per questa ragione che una politica energetica comune tra Stati così diversi, eppure considerati pari, merita d’essere chiamata comunque solidarietà.

 

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Immagine: Ursula von der Leyen tiene un discorso in seguito all’annuncio di Gazprom sull’interruzione delle consegne di gas ad alcuni Stati membri dell’Unione Europea, Bruxelles, Belgio (27 aprile 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Siria, gli errori dell'Occidente

Elias Canetti scrisse che schivare il concreto è uno dei fenomeni più inquietanti dello spirito umano. Lo è anche riguardo alla guerra siriana. Questa guerra è al tempo stesso civile e internazionale. La guerra interna si regge sul sostegno di potenze esterne ai ribelli: Arabia Saudita, Emirati, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Turchia, Qatar. Si tratta di un disarticolato allineamento di Stati impegnati a combattere il governo siriano che ha trascurato per quattro anni la concretezza degli interessi russi in Siria, affermati, ribaditi bensì ignorati. Questi interessi, considerati a rischio, sono oggi difesi con le armi. 

Ciò sorprende solo chi non fa quello che dice e non dice quello che fa. La Russia fa quello che ha detto: difende un alleato cruciale e la propria sfera d’influenza nella regione mediorientale e mediterranea. In questo senso, essendo la difesa l’origine della guerra – perché il respingere l’attacco e il combattere sono una cosa unica – la Russia provoca il rischio evocato dal presidente Hollande: la guerra generale, quella che coinvolge direttamente le grandi potenze. Questo rischio è la cifra della gravità attuale, racchiusa anche nelle parole del segretario Carter: “non siamo preparati a cooperare con la Russia se continua a seguire una strategia errata”. Nel frattempo, la strategia ‘corretta’ non ha evitato la morte di centinaia di migliaia di persone né la fuga di milioni e ha contrastato l’azione del Daesh con “un decimo delle azioni rispetto a campagne aeree del passato, tipo il Kosovo” – come ha chiarito il Generale Tricarico. 

Se è così, una sintesi del groviglio siriano è compendiata nel titolo del libro di Canetti evocato in apertura, Potere e sopravvivenza. Se s’accetta che il governo di uno Stato rappresenti quello Stato allora si può dire che la Siria combatte per la propria sopravvivenza, insieme agli alleati russi e iraniani. Lo fa contro gruppi ribelli a quel potere sostenuti dall’esterno, affidandosi, a sua volta, a potenze esterne. Per scansare questa scabrosa situazione la formula politica delle classi dirigenti euro-atlantiche è stata finora ‘minimo dei fatti, massimo di propaganda’. Oggi però l’ombra della guerra internazionale supera quella della guerra interna e anche il minimo dei fatti soverchia il massimo di propaganda. Il fatto minimo è che la dottrina politica che pone come principio d’azione legittimo l’abbattimento dei regimi degli Stati non allineati è giunta in Siria a decomposizione. Con essa si è decomposto tutto l’assetto interstatale mediorientale. Un futile bilancio potrebbe essere questo: se la politica ideologica offusca la ragione politica, la politica estera ideologica la offusca ancor di più. 

La Russia, passata da partner delle potenze occidentali a preteso paria sotto sanzione (2002-2014), mostra oggi con la diplomazia la volontà di contrastare quella dottrina e con la forza la capacità di contrastarne gli effetti. È volta a bilanciarla da sola e tramite le alleanze descritte dalla rotta dei suoi missili: Iran, Iraq, Siria. Nel frattempo, essa e tutte le potenze attive in Siria combattono, direttamente o indirettamente, su più fronti, compresi quelli interni: in Ucraina, nello Yemen, in Libia, in Afghanistan, in Turchia, in Iraq. Da Abu Dhabi ad Ankara i giorni di lutto nazionale aumentano in cadenza. Non cesseranno finché la costellazione diplomatico-strategica, logora e compromessa, non troverà una sistemazione soddisfacente per le principali potenze coinvolte: la pace di soddisfazione, oggi remota, è l’uscita dalla guerra.

Questa sistemazione è ignota ma richiede almeno la rinnovata legittimazione del principio di non ingerenza nelle relazioni internazionali e i suoi corollari politici. È ormai chiaro che l’ambizione di legittimare la sovversione internazionale dell’ordine interno degli Stati, ossia mutarne il regime politico con la guerra, ha sovvertito l’ordine interstatale. Come forse direbbe De Maistre, l’unico principio coerente di coesistenza interstatale è che ogni governo è buono una volta che è stabilito e riconosciuto come tale. Damasco, come Riad, non fa eccezione. Viceversa, ciò che si ha è più instabilità, non più ordine; più guerra, non  più pace. 

Le tesi assiomatiche che giustificano le guerre di dottrina – guerre per scelta ideologica – offrono strumentalizzazione, sovversione e sangue. Le aride formule di polverosi professori inglesi e americani riguardo l’ottimo governo e le civitates maximae si sono dimostrate politicamente esplosive nelle relazioni internazionali. Oggi viene in mente Goldoni: “Tutt’arme è il Mondo. Ne’ circoli, nelle piazze, nelle conversazioni, nelle botteghe non si sente che parlar di guerra”. In Siria e altrove occorre parlare di pace, questione elusa dai combattenti a tavolino. Non sarà quella perpetua profetizzata da Eusebio per la venuta di Cristo, il sogno della fine del pluralismo politico di Stati indipendenti con regimi differenti. Può essere solo, per chi la vuole, una pace attuale, imperfetta e senza giustizia. Quella pace concreta che in Siria è ormai affidata alla guerra, non certo per volontà celeste.  

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Siamo tutti belgi, ma non tutti europei

I postumi degli attentati di Bruxelles ricordano, per certi aspetti, un verso dell’Autore a chi legge di Carlo Goldoni: “N’è circoli, nelle piazze, nelle conversazioni, nelle botteghe non si sente che parlar di guerra”. Si ripete infatti da più parti, come lugubre litania, che l’Europa è in guerra. Parlar di guerra d’altronde non costa nulla se, come in commedia, ognuno fa la propria parte recitando a soggetto. Sicuramente la recitazione a soggetto è una tecnica fondamentale dei teatranti: permette agli attori di stare sul palcoscenico senza un vero e proprio copione ma inventando sul momento dialoghi e colpi di scena. Ci vogliono però ottimi attori, con capacità notevoli, perché è assai difficile improvvisare. Lo è, specialmente, quando manca non solo il copione ma anche il soggetto. A quel punto gli attori, pur bravi che siano, dopo un po’ annoiano e talvolta scadono nel patetico perché la loro fantasia non trasporta più gli spettatori smaliziati, desiderosi di un copione concreto.
La guerra è un atto di violenza organizzata perpetrato da unità politiche contro altre unità politiche. L’Europa non è un’unità politica perché non ha una strategia di sicurezza e difesa unitaria: ognuno fa da sé, seguendo i canoni del sacro egoismo o degli interessi nazionali. Per questo l’Europa non è in guerra contro il Daesh, una milizia irregolare con quartier generale nelle città occupate di Raqqa e Mosul. Il Daesh invece è in guerra da circa un decennio per la costruzione di uno “Stato islamico”. Combatte i propri nemici su tutti i fronti, compreso quello esterno, colpendoli con i mezzi disponibili, compreso il terrorismo. L’Europa non è neppure il soggetto politico degli attacchi pianificati dal Daesh a Raqqa. È vero che non designare un nemico non risparmia il rischio di essere designati tali, ma il soggetto politico di quegli attacchi è stato indicato dal nemico che ha deciso di colpirlo e non è l’Europa: “I combattenti dello Stato Islamico hanno condotto martedì una serie di attentati con dispositivi e cinture esplosive, colpendo un aeroporto e una stazione metropolitana nel centro della capitale belga Bruxelles, uno Stato che partecipa alla coalizione internazionale contro lo Stato Islamico”. Questa è la dichiarazione a noi nota. Se è così, l’obiettivo politico del Daesh non era dunque l’Europa bensì il Belgio, uno degli gli Stati tardivamente impegnati a combatterlo, pur tra contraddizioni strategiche e perversioni politiche ancora irrisolte e ormai ben note.
Le ambiguità della narrazione europeistica non cessano neppure osservando le vicende attraverso il prisma che, come offuscato da un riflesso pavloviano, identifica l’Unione Europa con l’Europa. Se la guerra è, dal punto di vista strategico, la continuazione della politica con altri mezzi, l’Unione europea non è in guerra per altri due motivi concreti e interdipendenti. Il primo è che essa non ha giocoforza una politica estera comune. Il secondo è che ovviamente non ha “altri mezzi” per continuarla. Raymond Aron scriveva, per fini di comprensione, che “il soldato sul campo di battaglia è l’unità politica nel nome della quale uccide il proprio simile”. Si potrebbe dire, per fini analoghi, che l’Europa non ha soldati sul campo di battaglia contro il Daesh perché non è un’unità politica, non perché non ha soldati. “L’Europa sotto attacco” è un’organizzazione sovranazionale di ventotto Stati membri con ventotto eserciti, pomposamente chiamata Unione Europea, che di fronte alle odierne sfide politiche assomiglia sempre più a un paralitico schizofrenico. Così la storia si ripete, come diceva Marx, prima come tragedia e poi come farsa: l’Europa è stata paralizzata durante l’assedio di Sarajevo come di fronte a quello di Kobane, per citare un esempio lampante. Ma i curdi bloccati al confine dalle forze armate della Turchia, anch’essa candidata all’Europa, non avevano voglia di ridere bensì di combattere il Daesh.
In effetti, intimorisce la condizione politica di ventotto Governi incapaci di condividere, almeno in teoria, il principio fondante qualsiasi dispositivo elementare di sicurezza collettiva. Il motto che lo riassume – “tutti per uno, uno per tutti” – pur semplice che sia non fa ancora parte dei cosiddetti valori europei. Questa grottesca condizione di disunità politica, mal celata dalla retorica solidaristica e dallo sdegno una tantum, alimenta la disunione sociale degli europei stessi. Neppure l’attacco a Bruxelles, la cosiddetta “capitale” dell’Unione Europea, peraltro anch’essa divisa con Strasburgo, ha spinto le persone a manifestare agitando l’ultracinquantenne bandiera dell’Europa “unita”. È stato invece un comprensibile tripudio di tricolori del Belgio, in sé benvenuto e benemerito. Il simbolo che, per antonomasia, rappresenta l’unità politica dei popoli, è restato anche stavolta inanimato nei palazzi del potere perché la gente non lo ha portato nelle piazze. Così, a corollario metaforico di questa constatazione, si potrebbe dire che neppure quando l’Europa si percepisce in guerra sembra in grado d’animarsi di spirito politico unitario. Succubi di ciò che non riusciamo a cambiare, dopo Bruxelles siamo “tutti belgi” come fummo “tutti francesi” dopo Parigi: mai siamo “tutti Europei”. Quell’identità comune, azzerata dalla retorica politica che ne corrode la sostanza, ciondola sospesa in un tempo surreale che non è oggi ma sempre domani. In fondo se servisse a qualcosa di buono evocare lo spettro dell’Europa in guerra sarebbe forse lecito farlo. Ma la realtà è più concreta e dolorosa. Mentre alcuni sono uccisi tra di noi senza sapere perché, e altri combattono anche per noi sapendo di poter essere uccisi, l’unica “guerra” che l’Europa dei consumatori combatte sembra essere contro sé stessa.

 

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Sarajevo, simbolo d'Europa

Contro i deboli in fuga dalla guerra, e chi intende tutelarli, si diffondono in Europa intransigenze accanite sui doveri e rabbiose reazioni ai diritti. Le pratiche tipiche nei confronti delle genti in fuga – il muro di respingimento e il campo di concentramento – godono di rinnovata legittimazione politica. Riemerge dunque, in generale, il tema delle frontiere ai confini. Di riflesso, l’integrazione sociale diventa meno importante dell’esclusione sociale in Europa e dall’Europa. È sicuramente indicativo dello stato della nostra cultura che questa condizione d’ostilità sia oggi al centro della condizione europea. Esso s’intreccia, naturalmente, con il problema più importante percepito a livello comune, il problema dei soldi: come accumularli, come contarli, come spenderli. È chiaro che la posizione che i governi detengono quali custodi degli interessi percepiti dalle varie porzioni della società europea impone ovvi ostacoli alle persone nel concepirsi come un insieme di agenti responsabili collettivamente per la costruzione di un interesse superiore e di un bene collettivo. Oggi, tuttavia, si parla senz’ambagi d’egoismo nazionale e attorno a questo principio una parte rilevante dell’Unione europea sembra condividere una prospettiva politica, forse la più potente al momento. È però la prospettiva contraddittoria di chi si trova unito e non lo vuole essere, o non lo vuole più. Se questa è una contraddizione essa non è più marginale: è al centro dell’Unione e ne investe pratiche e simboli d’unità.

I simboli sono sostanza essenziale alla vita politica. Proprio a Strasburgo, essa stessa capitale simbolica dell’Europa unita, si è svolto un atto diplomatico simbolico originale e controcorrente. È accaduto al Consiglio d’Europa, la prima e più inclusiva organizzazione paneuropea composta dai parlamentari di 47 Stati membri. Thorbjørn Jagland, Segretario Generale di notevole spessore politico, ne ha parlato senza indugi, scegliendo d’esaltare l’aspetto politico di una mostra su Sarajevo realizzata nel Palais de l’Europe dalla Repubblica di San Marino: “Per la prima volta nello spazio espositivo del Consiglio d’Europa uno Stato espone una mostra che parla di un altro Stato”, ha commentato. Egli ha scelto d’esaltare un aspetto saliente, onnipresente e connaturato alle relazioni internazionali: la questione del significato dell’esperienza comunicativa come tratto qualificante la condizione umana e il ruolo sostanziale che anche il simbolismo politico possiede in questa condizione.

Parlando di Sarajevo il piccolo Stato ha parlato dell’inconscio dell’Europa, quella città simbolo d’un travaglio comune racchiuso nelle parole dette nel 2011 dal Premier Letta: “L’Europa è morta a Sarajevo”. A Sarajevo morì l’Europa unita in apparenza ma divisa in sostanza, incapace di pensare un destino politico comune, legato, prima di tutto, alla protezione del diritto alla vita negato dalla guerra. Un’incapacità tuttora irrisolta che un gesto simbolico propone di ripensare partendo proprio da quell’inconscio europeo, ampiamente rimosso, facendo del gesto medesimo un simbolo d’empatia e prossimità. La forza di quel simbolo è nel valore dell’ospitalità, ribadito proprio quando la sua decadenza in Europa rischia d’essere premessa operativa a una crisi politica incipiente, forse ancor più grave di quella attuale. Così, il gesto simbolico d’ospitare l’altro nel proprio spazio è all’altezza d’una tradizione culturale europea del quale il piccolo Stato si conferma un elemento sostanziale di dialogo e raffronto sul problema dell’ordine politico internazionale. D’altronde non è certo sul piano della forza materiale che si svolge il confronto tra chi è piccolo e chi non lo è, bensì su quello immateriale. È lì che in Europa si costituisce, da secoli, una polarità ideale e, al tempo stesso, una concreta dicotomia che talvolta tende all’attrito nella dinamica della politica internazionale.

In questo caso, ospitando in sé l’immagine di un altro, il valore dell’ospitalità è reso un simbolo politico e istituzionale. Per questo la Repubblica che pone alle proprie origini politiche l’epopea di un rifugiato straniero in fuga dalle persecuzioni indica, a suo modo, un percorso. Mostra a chi non teme il rattrappirsi delle radici più fertili d’Europa, quelle dell’ospitalità e del mutuo sostegno, che altre radici, assai più profonde e salde, sono pronte a riemergere dal sottosuolo, nutrite di sangue e lacrime versate per secoli e secoli nell’Europa divisa. Sarajevo, come e più di altre città d’Europa, può essere oggi un monumento all’unione o alla divisione, alla pace o alla guerra, può appartenere a questo o a quell’universo simbolico. Sia come sia, il gesto di sceglierla come simbolo d’Europa richiama un’urgente domanda: la filosofia dell’Unione è oggi quella di una società divisa e ancor più pronta a dividersi? Se è così, per quanto tempo e in quale modo essa è in grado di reggere questo peso politico senza soccombere?

 

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Politica mondiale e dinamiche interne nell’attacco USA in Siria

Al sesto anno della guerra siriana le convulsioni della politica internazionale hanno raggiunto un nuovo apice. Per la prima volta gli Stati Uniti d’America hanno portato un attacco diretto contro le forze armate della Siria, lanciando da due cacciatorpedinieri nel Mediterraneo orientale un bombardamento missilistico contro una base ad al-Shayrat nei pressi di Homs. Ciò che è accaduto è poco sorprendente se si presta attenzione ad alcuni fatti.
Mercoledì scorso l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite ha svolto un duro intervento nel Consiglio di Sicurezza, carico di meditato pathos. Nikki Haley indossava un elegante abito blu sul quale si stagliavano due immagini delle vittime di un attacco attribuito all’aviazione siriana, sferrato con armi chimiche il giorno precedente nei pressi di Idlib, una zona controllata da gruppi ribelli ostili al presidente Assad: «Guardate queste immagini. Non possiamo distogliere i nostri occhi da queste immagini e la nostra mente dalla responsabilità di agire», aveva intimato. Proseguendo, ha lanciato un esplicito j’accuse:  «La Russia non può esimersi dalla responsabilità di quanto accaduto. In effetti, se la Russia avesse adempiuto alla propria responsabilità, non ci sarebbero armi chimiche a disposizione del regime siriano. Se la Russia possiede l’influenza che afferma di possedere in Siria, noi dobbiamo vederla in pratica. Noi dobbiamo vederli porre fine a questi atti orribili», ha soggiunto la Haley prima di rivolgere una domanda brutale al Consiglio: «Quanti bambini devono ancora morire prima che la Russia si preoccupi?». È giunta, infine, a una conclusione rivelatrice: «Quando le Nazioni Unite falliscono costantemente nel loro dovere d’agire insieme, ci sono momenti nella vita degli Stati che spingono a intraprendere le proprie azioni». Quelle «azioni proprie» sono poi diventate azioni di guerra contro un alleato cardinale della Russia, emblematicamente ordinate dal presidente Trump poco prima di cenare con il presidente cinese Xi Jinping.
Nell’incertezza attuale sulle prossime azioni ciò che più risalta al momento è il loro impatto politico. Esso riguarda due aspetti: la politica mondiale e la politica interna statunitense. In quanto al primo aspetto, l’uso della forza in Siria manifesta la volontà e la capacità degli Stati Uniti di usare la forza ovunque, in modo unilaterale e senza remore legalistiche. È perciò, al tempo stesso, un avvertimento e una rassicurazione a chi dubitasse di questa intenzione: alleati e rivali. La Russia è oggi, di fatto, tra questi ultimi e ciò consente a Trump di cogliere, al tempo stesso, un risultato in politica interna. Permette, difatti, di mutare la percezione collettiva sulla sua inclinazione filorussa. Definire la Russia un rivale, attaccandola in sede internazionale e colpendone gli interessi in Siria, consente a Trump di cogliere un prezioso risultato: catalizzare l’attenzione e le energie sulla questione siriana, riportandola all’apice dell’agenda americana. In effetti, l’ordine di guerra cade proprio in un momento critico per la sua amministrazione, impantanata in una pericolosa querelle politica e legale dovuta ai presunti legami fra la sua amministrazione e quella russa. Prima dell’attacco in Siria era questo il tema centrale della politica interna statunitense, domani si vedrà. Così, di fronte a tante incertezze, si può almeno affermare che Trump ha confermato nell’opportunismo una sua celebre dote, quella che permette di manipolare gli eventi per produrre un momento favorevole al politico scaltro e senza remore.

   

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L’ingresso dell’Ucraina nell’UE, tra volontà e capacità

 

Il 24 giugno ha segnato per l’Unione Europea (UE) un momento di passaggio cruciale, un momento europeo. Il sostegno all’Ucraina è la prova del fuoco per l’Unione e la decisione di approvarne ipso facto la candidatura a Stato membro dimostra la volontà di resistenza europea. Il nerbo di questa volontà decide le sorti della guerra, nella misura in cui esse riguardano la volontà umana. La guerra è anzitutto un atto di forza mirato a piegare il nemico alla propria volontà. La volontà della Federazione Russa è quella di piegare l’Ucraina e la sua comunità politica di riferimento, impressa nel preambolo della Costituzione laddove si cita «l’identità europea del popolo ucraino e l’irreversibilità del percorso europeo». Colpendo l’Ucraina la Russia ha scelto di colpire anche l’artefice di quel percorso, cioè l’Unione Europea. La volontà di potenza russa corrisponde alla volontà di sopprimere quell’identità. La Russia ha però sottovalutato che, se esiste una volontà di potenza, esiste anche una volontà di resistenza: se la decisione del 24 febbraio ha affermato la prima, quella del 24 giugno ha dimostrato la seconda.

Al fatto bellico dell’invasione russa dell’Ucraina si è dunque contrapposto il fatto diplomatico dell’adesione europea rivolta all’Ucraina e ciò corrisponde a un momento storico imponderabile nella sua portata. Entrambi incerti negli esiti e indeterminati negli sviluppi, questi fatti segnano il destino dei belligeranti e quello dell’Unione Europea, coinvolti in uno scontro di volontà senza precedenti. Non ha d’altronde precedenti una politica d’allargamento europeo verso uno Stato in guerra, tenuto conto che l’allargamento è stato finora l’atto supremo di politica estera dell’Unione Europea. Da questa prospettiva la guerra della Federazione Russa contro l’Ucraina corrisponde – per ora – a un lancinante fallimento politico. Dopo quattro mesi di attacchi spietati e saccheggi, essa non ha piegato né la volontà europea né quella Ucraina sul percorso comune d’integrazione. Al contrario, il carico di distruzione e morte della guerra ha rafforzato queste volontà verso la realizzazione di quell’unione tra Stati che si compie con l’appartenenza comune all’Unione Europea.

Un conto è però la volontà, un altro sono le capacità. Va perciò considerato che la politica d’allargamento dell’Unione Europea non si era mai contrapposta a un nemico belligerante, dotato peraltro di grandi capacità politiche e militari. Ciò che contava per il successo di tale politica erano solo le capacità istituzionali dell’Unione e quelle degli Stati candidati nel procedere verso l’obiettivo comune dell’integrazione. Il tempo era tempo di pace, fattore non incalzante, e gli spazi politici restavano aperti. Ora non è più così perché, volenti o nolenti, la politica d’allargamento dell’Unione all’Ucraina si confronta con un nemico belligerante che combatte uno Stato candidato all’adesione. Il tempo è un tempo di guerra che incalza ogni scelta e gli spazi politici possono anche chiudersi anziché aprirsi.

La decisione d’allargamento all’Ucraina segna dunque in modo indelebile il suo allontanamento politico dalla Russia; al tempo stesso segna anche una ragion d’essere e l’esistenza stessa dell’Unione all’ombra della guerra. Questa condizione, drammatica e attuale, catalizza così l’intera vicenda storica di un progetto politico – quello dell’unità europea – nato per scongiurare la guerra e oggi investito da una guerra che comporta la sua peggiore crisi bellica dal 1951. Stante che avversare l’Unione Europea combattendo l’Ucraina è un obiettivo strategico della Russia, un commento profetico di Dmitrij Medvedev – vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa – va comunque ben meditato: «L’Unione Europea potrebbe sparire prima che vi entri l’Ucraina».

Seppur ormai rancido dopo quattro mesi di guerra, questo stile baldanzoso e allusivo avverte a suo modo che la catarsi europea è terminata. Con essa è finito il processo di liberazione dall’ansia della guerra e dalla sua conclamata «irrazionalità». È bene perciò adeguarsi al presente e ricordarsi, piaccia o meno, che la vicenda umana è piena di catastrofi impensabili e inimmaginabili per le sue vittime, fiduciose nella razionalità di una storia che le tradì proprio nel momento del bisogno. Per questo è nella volontà di resistenza alla volontà di potenza la chiave di volta del momento europeo sancito il 24 giugno.

Domani sapremo quello che oggi ci sfugge, il senso nascosto di decisioni essenziali e se il momento era «giusto» per queste scelte vitali. Vedremo domani il nostro destino, ma intanto sappiamo che chi crede ai profeti agisce alla leggera e soccombe ai disastri da essi paventati. 

 

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Immagine: Esterno della sede del Parlamento europeo con le bandiere ucraina ed europea, Bruxelles, Belgio (4 giugno 2022). Crediti: Alexandra Lande / Shutterstock.com

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Parigi può essere la tomba dell'Isis

In politica la razionalità non equivale all’intelligenza. In altre parole, la capacità di considerare i fatti politici razionalmente non corrisponde alla capacità di comprenderli politicamente. Ragion comune e ragion politica non sono sempre equivalenti bensì spesso distanti. È con ragion politica che occorre considerare il quadro politico internazionale legato agli attentati parigini anche se, per molti versi, le sue convulsioni sfidano la razionalità comunemente intesa. È tuttavia ormai comprensibile che la violenza civile in uno Stato si internazionalizza nel momento in cui Stati esterni scelgono di esserne coinvolti e, di conseguenza a questo, diventano coinvolti l’un con l’altro in quel contesto di violenza. Questo è ciò che accade da anni in Siria, laddove gli Stati hanno fiancheggiato fazioni locali per abbattere il regime politico attuale. Gli attentati di Parigi e le loro connessioni con la guerra siriana rendono evidenti alcune implicazioni di questa situazione.

La prima è che la funzione del principio di non intervento negli affari interni degli Stati non è solo quella di difendere la sovranità statale contro la minaccia di interferenze esterne. È anche quella, oggi persino più importante, di limitare il pericolo posto all’ordine internazionale dal coinvolgimento degli Stati sui fronti opposti in una guerra civile. La seconda è che, come già Gramsci aveva ben chiarito, non occorre mai dimenticare un fatto: nella competizione di potere fra gli Stati, ognuno di essi ha interesse che l’altro sia indebolito dalle lotte interne e le fazioni sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per queste fazioni è dunque sempre possibile la domanda se esse esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui. È proprio questa la domanda oggi ineludibile e mai chiaramente formulata alla quale occorre rispondere dopo i fatti di Parigi: il Daesh esiste per forza propria o per interesse altrui? Nell’uno o nell’altro caso, in quale misura?

Una risposta alla domanda su che fare in Siria, laddove agisce tra le fazioni in guerra anche il Daesh, è già stata formulata dal Segretario delle Nazioni Unite, di fronte alla 70a Assemblea Generale dell’Onu: “Quattro anni di paralisi diplomatica del Consiglio di Sicurezza hanno fatto sì che la crisi siriana sia finita fuori controllo’. Soggiunse allora, in modo più esplicito, pensando a come richiudere la porta della guerra: ’Cinque Paesi in particolare hanno la chiave: Arabia Saudita, Stati Uniti, Russia, Iran, Turchia’. La risposta decisiva spetta invece, inevitabilmente, ancora a queste potenze e alle loro responsabilità, dirette e indirette, perché nulla nella storia scompare ma tutto si mescola e si trasforma e l’unica vera tradizione diplomatica è cambiare.

Ciò detto, la strage parigina ha forse segnato un punto di svolta nella vicenda del Daesh e dunque delle sue cellule operative europee, autonome o eterodirette che siano.

Intanto, dal punto di vista della politica interna, l’attentato più importante del fittizio ‘Stato islamico’, ossia quello destinato a colpire il luogo nel quale si trovava il presidente francese, se non proprio a colpire lui stesso, è fallito a causa delle misure di sicurezza. Il simbolo politico della Francia è uscito illeso, confermando l’incapacità degli attentatori di superare il proprio status di criminali comuni, ovvero di colpire le istituzioni dello Stato, bersaglio logico di qualsiasi entità che rivendica prerogative politiche oltre che criminali. Peraltro, e significativamente, neppure la propaganda attribuisce dichiarate finalità politiche eversive a quegli attentati bensì di semplice violenza. Essi sono rivolti a vendicare qualcuno più che a rivendicare qualcosa, ossia a far ’sentire l’odore della morte per aver deciso di colpire i musulmani nella terra del Califfato’. Naturalmente, l’odore della morte si sente in tante situazioni, e una matrice ideologica di questo tipo è priva di sostanza politica. In generale, l’islamismo estremista militante è settario e avulso dal sistema politico europeo. Non genera disarticolazioni politiche in tale sistema perché alla violenza non associa alcun referente politico capace d’aggregarne gli interessi. Al contrario, esso schiaccia la dinamica politica, normalmente fondata sulla divisione e la contrapposizione, allineando posizioni alternative dietro alla necessità di una risposta collettiva alla minaccia per la sicurezza comune.

Al tempo stesso, dal punto di vista della politica internazionale, la violenza e la portata della strage parigina sembrano aver prodotto un effetto analogo, benché apparentemente inintenzionale: contribuire a far convergere in misura sufficiente gli interessi divergenti delle grandi potenze finora coinvolte, come sostenitori e oppositori, nella vicenda del Daesh. Naturalmente, l’epicentro di questa vicenda è oggi la guerra siriana per la quale la strage parigina rappresenta, dopo anni complicati di antagonismo o d’ipocrisia, il più rilevante momento di riflessione e forse d’azione collettiva delle grandi potenze. Dalla capacità di gestire le loro relazioni reciproche e di esercitare adeguata pressione sulle riluttanti potenze regionali coinvolte dipende, in larga parte, l’esito di questa vicenda. Parigi può essere la tomba del Daesh, se non della guerra siriana.

 

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La percezione europea della guerra in Ucraina

Il 16 marzo scorso la Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, ha ordinato alla Federazione Russa di «sospendere le operazioni militari avviate il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina» e di bloccare «ogni unità armata regolare e irregolare che possa essere diretta o sostenuta da essa». Ciò non è avvenuto e gli orrori della guerra si riproducono sempre più visibili.

Oggi la guerra d’Ucraina non riguarda solo la sopravvivenza del più grande Stato europeo, impegnato a difendere la propria sovranità e quindi a preservare il modo in cui la sua comunità politica si rappresenta per esistere secondo fini e principi propri. La guerra d’espansione russa assume anche certi caratteri di una guerra generale, malgrado l’attuale contenimento del teatro bellico sul territorio ucraino ne sveli massimamente in quel luogo i tratti mortiferi. Essa coinvolge difatti nelle ostilità tutte le potenze d’Europa – neutrali comprese – tramite alleanze e istituzioni comuni che fronteggiano, a proprio modo, l’espansione russa e la sua violenza. Riguarda pure, con diversa intensità, l’intero assetto diplomatico-strategico mondiale. Investe difatti la configurazione degli scambi commerciali, la definizione delle valute di scambio, l’allocazione e i prezzi delle materie prime, gli allineamenti regionali e internazionali nonché, tra l’altro, l’esistenza delle organizzazioni multilaterali.

La scala d’impatto della guerra d’Ucraina si rivela di giorno in giorno ma è nella logica dei fatti. La Federazione Russa è una grande potenza che, come tutte le grandi potenze, possiede interessi generali e una forza tale da permetterle di proteggere e avanzare quegli interessi in ogni ambito. La scelta di combattere anche in Europa per avanzare quegli interessi ha però un corrispettivo politico ineludibile per la Russia. Scegliendo la guerra essa ha messo in palio anche sé stessa, oltre alle vite che sta mietendo e ancora mieterà. In questa sciagurata vicenda autoinflitta la Russia non è dunque solo giocatore ma anche posta in gioco perché lo status di grande potenza si perde come lo si vince: con la violenza. Per questo l’esito della guerra porterà con sé profondi mutamenti internazionali che superano il perimetro dei combattimenti.

Oggi in Ucraina la scalata agli estremi intrinseca alla guerra genera sempre più violenza ed è sempre più brutale, manifestandosi compiutamente e devastando l’interesse comune nella pace in Europa. La violenza esalta non solo gli interessi in conflitto, ma rivela anche l’irriducibilità di principi antagonisti d’ordine politico. Colpendo in tal modo uno Stato associato dell’Unione Europea, che ha inscritto nel preambolo della propria Costituzione «l’identità europea del popolo ucraino e l’irreversibilità del percorso europeo ed euro-atlantico dell’Ucraina», la Russia ha scelto di colpirne direttamente anche le comunità di riferimento e non solo di dominare l’Ucraina. In effetti, la volontà di potenza russa corrisponde giocoforza alla volontà di sopprimere quell’identità, danneggiare l’Unione Europea e ledere la comunità euro-atlantica. La Russia ha però trascurato di considerare che, se esiste una volontà di potenza, esiste anche una volontà di resistenza. La guerra va quindi ormai ben oltre la definizione delle sfere d’influenza in Europa e investe il piano esistenziale dell’Unione Europa e della comunità euro-atlantica che sono, anzitutto, comunità di valori liberaldemocratici.

Per questo motivo la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola si è recata in visita a Kiev, prima fra i rappresentanti politici euro-occidentali, dichiarando che «con l’invasione criminale del vostro Paese la Russia si è posta in diretto confronto con l’Europa». Questo confronto diretto non è difatti con una o più potenze europee; è con l’unione degli Stati d’Europa, cioè con l’istituzione multilaterale detta Unione Europea che li associa in ragione non solo d’interessi comuni, ma anche di valori condivisi. L’esistenza di questa istituzione è la massima espressione collettiva, tanto concreta quanto imperfetta, dei principi di libertà e diritto di matrice europea ormai diffusi a vario modo su tutto il continente. La chiara percezione comune di una minaccia esistenziale, rivolta contro la ragion d’essere più profonda dell’Unione, spiega perché la risposta europea sia stata per la prima volta immediatamente corale, fornendo non solo appoggio politico bensì supporto militare diretto e indiretto alla resistenza ucraina.

Può ben darsi che una ragione irriflessa del perché certe potenze siano scosse dai metodi di Putin sia la sua reintroduzione in Europa dei metodi praticati dagli stessi europei nel loro passato. Resta il fatto che tra gli Stati d’Europa quei metodi di dominio hanno cessato di rappresentare una modalità legittima dell’esercizio della potenza nelle relazioni internazionali e le manifestazioni più brutali dell’istinto sono ormai vincolate dall’appartenenza all’Unione Europea con le sue istituzioni di diritto e libertà. Per questo la lotta per la «sopravvivenza», cioè la legge della giungla, evocata e suscitata dai massimi rappresentanti della potenza russa, corrisponde ormai a una visione avulsa dal contesto storico europeo e ivi degradata al livello di cliché d’altri tempi che suscita opposizione e resistenza. L’ordine internazionale europeo d’oggi non è un fatto naturale bensì una questione d’accurata riflessione democratica, impegno politico comune, espedienti di prudenza e sofisticate istituzioni che sono state costruite e vanno difese. Realizzato sulle ragioni della pace nel diritto e nella libertà, esso è trafitto da una guerra che necessariamente nega tali ragioni e pretende di sovvertirlo per sopprimerlo. Quest’ordine politico è un fatto precario che, per quanto possa sembrare astratto, oggi è invece ben presente nella percezione collettiva europea sia come interesse comune sia come valore condiviso. Esso esige lo stesso tipo di lealtà e lo stesso, costante, impegno che le persone prestano ai fini personali che solo l’esistenza di quell’ordine permette loro di perseguire in pace e libertà.

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La diplomazia che è mancata

L’invasione si è compiuta come ci aspettavamo. Lo straparlare contrario degli oracoli storici e ‘geopolitici’ è finalmente scemato, confermando che essi possono sbagliarsi come chiunque altro; come i rispettabili storici convinti che la Gran Bretagna dovesse simpatizzare con la dittatura di Mussolini perché era la controparte italiana del dispotismo Tudor. L’invasione e le sue conseguenze sono un culmine logico della guerra d’Ucraina, decisa dalla Russia nel 2014 con lo smembramento e la conquista del territorio di uno Stato sovrano associato all’Unione Europea (UE). Sono un culmine logico perché la dipendenza della politica russa dalla guerra implica la subordinazione del fine politico allo scopo militare e perciò l’ascensione agli estremi. Questa guerra segna così il nadir della diplomazia russa, incapace di capirne la portata politica e le implicazioni diplomatiche ma impegnata, di contro, a pianificarne l’inasprimento e l’estensione.

Tale inasprimento ed estensione hanno assunto però direzioni e proporzioni diverse da quelle immaginate dai carenti schemi razionali, moralmente difettosi, dei pianificatori. Essi hanno sciattamente trascurato che l’ironia in politica, come la fortuna, ha una propria, infrangibile, effettualità. È la deformazione che il contesto storico impone all’intenzione politica; la regolare, ripetuta, si è tentati di dire fondamentale, esperienza della politica internazionale. Il contesto storico attuale è singolare perché, almeno tra gli Stati dell’Unione Europea, il dominio ha cessato da tempo di rappresentare una modalità legittima dell’esercizio della potenza nelle relazioni internazionali. In questo senso la minaccia e l’uso della forza da parte della Federazione Russa contro uno Stato associato all’Unione Europea mostrano, più che altro, debolezza e incomprensione politica.

L’esito di questa fatale incomprensione è che lo sforzo bellico nella guerra d’Ucraina coinvolge oggi tutti gli Stati d’Europa e i loro sistemi d’alleanza – comprese Svezia e Germania: quest’ultima ha deciso di aumentare la spesa militare ed entrambe hanno abbandonato la tradizionale inibizione all’invio di armi a Stati in guerra, annunciando invece il sostegno all’Ucraina. La Danimarca permetterà ai propri volontari di unirsi alle brigate internazionali che combatteranno in Ucraina (Legione internazionale di difesa territoriale) e la Svizzera ‘neutrale’ imporrà le sanzioni collettive inflitte alla Russia, tra gli altri, da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Giappone, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Per la prima volta nella storia l’Unione Europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armamenti per combattere le forze armate d’invasione. Ciò è comprensibile perché la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen giudica gli eventi «attuali un momento spartiacque».

A ben vedere lo è non solo per l’Unione ma anche per la Russia e la sua insipiente diplomazia della violenza e del doppio gioco. Essa si è corrosa con una dose nociva di minacce, slealtà, insulti e tradimenti come quello, clamoroso e grave, perpetrato platealmente proprio alla vigilia dell’invasione verso la Francia negoziatrice. La credibilità di tale diplomazia distorta si è eclissata nella spirale bellica che essa stessa ha innescato. Ora sembra esserne risucchiata, segnando così il proprio decadimento e trascinando l’Europa verso una guerra generale. Questo «momento spartiacque» è perciò un lugubre momento della verità non solo per l’Europa e il destino d’Ucraina ma anche per la temeraria diplomazia russa. Trasceso il rapporto tra guerra e politica, essa pare ridotta a un codice bellicista e non è più credibile fino a prova contraria. Non lo è anche perché ha mietuto troppe vittime diverse in troppo poco tempo: vittima virtuale è stato l’unico piano di pace, cioè gli accordi di Minsk; vittime umane sono i morti di una guerra fratricida; vittima capitale è la tenuta della coesistenza pacifica tra la Russia e gli Stati d’Europa.

Si vedrà se tutto questo potrà assumere contorni diversi grazie ai negoziati che si svolgeranno durante questa guerra, a partire da quelli in corso che però, per essere negoziati sinceri, non potranno certo svolgersi al suono irrealistico degli ultimatum che ci ha accompagnato finora.

Nel frattempo il fallimento della diplomazia russa è tanto acclarato quanto reiterato, sancito anche dalla sospensione della Russia dai suoi diritti di rappresentanza nel Comitato dei ministri e nell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Rivela l’incapacità di capire pienamente che compito della diplomazia è sostituire alle ragioni della forza la ragione discorsiva, base della mutua comprensione e freno prudenziale al conflitto sempre imprevedibile nei suoi esiti. Proprio la portata del conflitto – scelto e alimentato con specifica razionalità – oggi la sorprende per il suo già catastrofico sbocco.

Esso coincide con la percezione collettiva di una grave minaccia alla sicurezza internazionale che sarà valutata nelle prossime ventiquattro ore da una rara sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunitasi solo sette volte nella storia, l’ultima delle quali quarant’anni fa. Di fronte alla guerra d’Ucraina il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha difatti deciso con 11 voti a favore, uno contrario (la Russia) e 3 astenuti (tra cui la Cina) di convocarla. L’Assemblea, priva di potere effettivo, potrà finalmente discutere ciò che il veto russo ha impedito di discutere al Consiglio di sicurezza, cioè la tenuta dell’ordine internazionale del quale la Russia non sa assumersi la responsabilità che spetta a una grande potenza, per quanto sconsiderata, sventurata e patetica possa rivelarsi la propria condotta.

È sconsiderata perché lascia affermare al vicecapo del Consiglio di sicurezza Medvedev che «non abbiamo bisogno di relazioni diplomatiche [ed ] è ora di chiudere a chiave le ambasciate e continuare i contatti guardandosi l’un l’altro attraverso binocoli e mirini». È sventurata perché non contraddice le dichiarazioni dell’unico alleato di guerra – presidente della Bielorussia Aleksandr Lukašenko – il quale, dopo aver sostenuto l’attacco a tenaglia contro l’Ucraina, minaccia lo schieramento di armi nucleari ai confini dell’Unione Europea e reclama altrui «moderazione» alludendo a una possibile «guerra nucleare». È patetica perché permette che il presidente Vladimir Putin ponga in massima allerta il sistema di deterrenza nucleare, generando inaudita tensione e riportando alla mente la folgorante affermazione dell’ambasciatore ucraino Oleksander Somarskly: «È stato un grave errore smantellare nel 1994 le testate nucleari, se non l’avessimo fatto la Russia non avrebbe occupato la Crimea».

Proprio il presidente Putin si è prodotto in svariati richiami storici per giustificare l’invasione, tra cui Vladimir Lenin. Quest’ultimo viene ricordato, altrettanto a vanvera, per il caustico sintagma «utile idiota», locuzione dispregiativa utilizzata all’indirizzo di una persona che abbraccia una causa di cui non comprende gli obiettivi di fondo e che finisce – il più delle volte – per rivoltarglisi contro. «Utile idiota» oggi potrebbe essere colui che, travolgendo con una guerra fratricida l’Europa di cui fa parte, minacciata di olocausto nucleare, consegna alle grandi potenze non europee una rendita di posizione straordinaria e immeritata.

In quanto a noi, restiamo convinti che la civiltà sia prima di tutto il tentativo di ridurre la forza a ultima ratio e che il tempo della diplomazia sia eterno, senza scadenza, come lo sono gli sforzi per correggere gli errori propri e altrui. L’unica emozione che perciò proviamo nei confronti della minaccia di distruzione atomica è la commiserazione, esposti all’intimidazione finale già al quarto giorno di guerra e a questo punto costretti a pensare come pensava Raymond Aron che sopravvivere significa vincere. Resta perciò d’esempio la lucida consapevolezza tramandata dal suo allievo Julien Freund, partigiano francese: «Non serve stabilire se si ha torto o ragione nel vedere nell’altro un nemico; se l’altro vi tratta come tale, voi lo siete».  

 

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Immagine: Riunione del Consiglio di sicurezza sulla situazione ai confini ucraino-russi presso la sede delle Nazioni Unite, New York (31 gennaio 2022). Crediti: lev radin / Shutterstock.com

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Il conflitto antico e ampio in cui si inquadra la crisi ucraina

 

«Questa minaccia d’invasione la aspettiamo da otto anni. Questa è la guerra, questa è la Russia. E anche quest’anno ci aspettiamo che Mosca sfrutti qualsiasi momento buono: la fine dell’inverno, la fine delle Olimpiadi a Pechino, la fine della nostra pazienza». Così parlò il generale Oleksandr Pavlyuk, capo di Stato Maggiore ucraino. Sono nitide parole atte ad intendere alcuni fatti offuscati dalla nebbia della guerra d’Ucraina; questa guerra è d’altronde il campo dell’incerto come lo è ogni guerra e, come spiegò Clausewitz, «i tre quarti delle cose su cui ci si basa per agire sono immerse nella nebbia dell’incertezza» (I, 3).

Di certo la guerra in Europa non è un rischio ma un fatto, giacché la guerra russo-ucraina è in atto dal 2014 e il suo ineludibile carattere internazionale è ormai comprensibile anche ai più distratti. È perciò nel contesto di questa lunga guerra che vanno collocati anche i fatti clamorosi di questo periodo, nessuno escluso. Questo quadro bellico, col suo corredo di morte e violenza, è il nodo cruciale dell’attuale fase critica. Concerne l’integrità territoriale dell’Ucraina e la sua connessa qualità di Stato sovrano, entrambe già ampiamente colpite da forze esterne e interne che continuano a incombere. Non comprende solo azioni di guerra ma include minacce volte ad inasprirla o, al contrario, promesse dirette ad alleviarla volgendo verso qualche arrangiamento negoziale effettivo che produca prospettive di accordo politico. Sia come sia, resta il fatto che la guerra è in corso da otto anni e la posta in palio resta il territorio dell’Ucraina e lo status di quello già smembrato.

Da questo punto di vista la Russia intende sfruttare l’esercizio unilaterale della forza per affermare una sfera d’influenza che ormai da tempo non possiede più. Essa cerca di imporre all’Ucraina una sovranità limitata e ciò è tipico delle potenze che trattano gli Stati minori considerati nella propria sfera d’influenza come membri di seconda classe della società internazionale. Questo tipo di relazioni internazionali sono improntate al dominio, cioè si caratterizzano per l’uso abituale della forza da parte della potenza maggiore e per il suo rifiuto delle norme di condotta internazionale che assegnano uguali diritti di sovranità, uguaglianza e indipendenza a tutti gli Stati.

È noto che le azioni militari della Russia contro l’Ucraina a partire dal 2014, inclusa l’annessione della Crimea e l’appoggio militare nella regione del Donbass, hanno violato i principi base del diritto internazionale e dell’architettura di sicurezza comune europea. Ciò ha portato gli Stati dell’Unione Europea e dell’Alleanza atlantica a introdurre sanzioni contro la Federazione Russa oltre a rafforzare un clima di diffusa e aperta ostilità fatto di contro-sanzioni e misure di rappresaglia. La guerra in Ucraina e l’annessione della Crimea non hanno dunque condotto al riconoscimento della sfera d’influenza russa, stabilendo regole di condotta operative condivise. Al contrario, i conflitti politici che ne sono scaturiti hanno danneggiato il prestigio politico della Russia e la sua posizione internazionale in Europa, debilitata dalla necessità di ricorrere alla forza per affermare una sfera d’influenza peraltro rivendicata finora senza successo. Si tratta tuttavia di un esito comprensibile perché, almeno tra gli Stati dell’Unione Europea, il dominio ha cessato da tempo di rappresentare una modalità legittima dell’esercizio della potenza nelle relazioni internazionali. In questo senso la minaccia e l’uso della forza da parte della Federazione Russa contro uno Stato associato all’Unione Europea mostrano, più che altro, debolezza e incomprensione politica.

Da questa prospettiva si può considerare anche la richiesta della Federazione Russa di stabilire a priori la dinamica dell’Alleanza atlantica, impiegata come flebile giustificazione alle massicce azioni militari odierne e alla spericolata condotta diplomatica che le affianca. Essa è avulsa dalla realtà perché quella dinamica è, in tutta evidenza, sottratta alla disponibilità del governo russo. In effetti l’Alleanza atlantica ha già raggiunto i confini russi diciotto anni fa. Accadde nel 2004 proprio durante un mandato del presidente Putin, quando Lituania, Estonia e Lettonia fecero il loro ingresso nell’Alleanza atlantica, proiettandone così le forze a poche centinaia di chilometri da San Pietroburgo e Mosca. La richiesta russa sull’espansione dell’Alleanza atlantica è indecifrabile perché sembra affermata come se davvero si credesse che qualsiasi eventuale garanzia formale ottenuta oggi nelle relazioni internazionali potesse valere anche domani, il che ovviamente non è. Basti pensare, ad esempio, che le garanzie formali di sicurezza formulate dalla Russia stessa nel 1994 verso l’Ucraina – cioè, tra l’altro, «il rispetto dell’indipendenza, della sovranità e dei confini esistenti dell’Ucraina» (cosiddetto Memorandum di Budapest, 5 dicembre 1994, punto 3) – sono state puntualmente violate e la loro violazione riguarda direttamente la guerra in corso con le sue alternanti tensioni fra inasprimenti e attenuazioni.

Occorre infine ricordare che proprio il legame asserito tra dinamica dell’Alleanza atlantica e dinamica della guerra d’Ucraina è tutto da dimostrare, al netto delle comprensibili prese di posizione politiche e delle condotte diplomatiche più o meno dissimulate ma sempre sostenute dagli strumenti militari. Dimostrarlo competerà naturalmente agli storici e tuttavia la storia del presente ci consegna un’ultima certezza, la più importante ma spesso trascurata: la guerra d’Ucraina e la subitanea annessione della Crimea da parte della Federazione Russa sono iniziate quando l’Ucraina ha sancito il proprio percorso nell’Unione Europea firmando un accordo politico di associazione con l’Unione stessa. In questo senso si parlò dell’Ucraina nell’Unione Europea come causa di guerra.

È ovvio notare il fatto che Unione Europea e Alleanza atlantica hanno 21 Stati membri in comune e 3 in procinto di esserlo. Merita invece maggiore attenzione l’idea che nel 2014 si sancì non solo il tentativo dell’uscita dell’Ucraina dalla sfera d’influenza russa, ma un vero e proprio ripudio politico che investì d’emblée il legame storico tra Russia e Ucraina. Quella scelta diplomatica da parte ucraina poggiava sul massimo strumento di politica estera dell’Unione Europea, cioè l’allargamento, per sancire non solo l’uscita dalla sfera d’influenza russa ma l’allontanamento dalla Russia in sé e per sé. Ha significato l’addio a una storia comune del passato per inaugurarne un’altra rivolta al presente, segnando al tempo stesso distanza e vicinanza ma in direzioni opposte. A ben vedere si tratta però di un’unica storia comune d’Europa, insieme passata e presente, con la quale occorre scendere a patti per ricucire relazioni gravemente lacerate. Ne va della pace in Europa e della coesistenza internazionale.

 

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Immagine: Un soldato ucraino su un carro armato T-64, Charkiv, Ucraina (31 gennaio 2022). Crediti: Seneline / Shutterstock.it

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I pericoli per l’accordo di Dayton, ventisei anni dopo

Il 14 dicembre si è celebrato l’anniversario dell’accordo di Dayton. Ventisei anni fa, il 14 dicembre 1995, l’accordo di pace negoziato a Dayton che sancì la fine della guerra in Bosnia ed Erzegovina fu firmato a Parigi tra Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Federale di Iugoslavia (nella persona del presidente della Serbia) e Croazia. Garanti ufficiali di quell’accordo furono Francia, Federazione Russa, Germania, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Unione Europea. Dopo ventisei anni quell’accordo è ancora il fondamento costitutivo della pace regionale e dei suoi sviluppi giuridici, anzitutto costituzionali. Essi reggono l’ordine politico della Bosnia ed Erzegovina e ne costituiscono l’elemento centrale e lo snodo cruciale. Attorno a tale accordo, alla sua interpretazione e applicazione, ruota ancora il nucleo critico di ogni passaggio delle crisi ricorrenti che investono la Bosnia ed Erzegovina, compresa quella attuale.

Sono molteplici i conflitti che innervano queste crisi ricorrenti, in parte strutturali e in parte strumentali. La fase odierna assume però caratteri più preoccupanti per il livello raggiunto dalle rivendicazioni di una delle entità che costituiscono la Bosnia ed Erzegovina, ossia la Repubblica Serba. La maggioranza dell’Assemblea della Repubblica Serba, organo parlamentare locale, ha difatti adottato una serie di conclusioni assai controverse e rischiose. Esse aprono la strada al tentativo di riportare competenze statali fondamentali, assegnate al governo centrale della Bosnia ed Erzegovina in base all’accordo di Dayton, al livello delle entità. Si tratta di un percorso deliberato dal governo della Repubblica Serba che è considerato da più parti inaccettabile, compresa l’opposizione politica parlamentare di quella stessa entità. Esso è volto difatti a creare una cornice para-legale ad una politica di separazione e divisione la quale, per molteplici ragioni, è diffusamente ripudiata. Tra queste ragioni è considerata preminente la sua impossibilità di realizzazione pacifica, perché avulsa da ogni logica di compromesso e in contrasto con i termini essenziali dell’accordo di Dayton che fondano la sovranità della Bosnia ed Erzegovina e la stabilità del suo ordine politico attuale. Questa politica di separazione e divisione, in realtà proteiforme e ricorrente, genera oggi più di ieri tensione costante e crescente, determinata dal rischio di guerra ch’essa implica e minaccia.

            La tensione politica occlude difatti la possibilità di costruire e condividere, attraverso il dialogo e il consenso, interessi e valori comuni che permettano il progresso della Bosnia ed Erzegovina. È un progresso che riguarda uno Stato europeo di profonda importanza per la vita dell’Europa e per la costruzione della stessa Unione Europea nella quale la Bosnia ed Erzegovina intende integrarsi per ovvie ragioni, a partire dalla sua collocazione territoriale.

L’innalzamento della tensione determinata dall’attuale politica di separazione e divisione sembra più che altro, a molti osservatori, una dimostrazione di pericolosa debolezza mascherata da una sconcertante prova di forza. A costoro sembra mostrare l’incomprensione del contesto storico-politico al quale appartiene oggi la Bosnia ed Erzegovina e delle sue necessità odierne, il che rappresenta la più clamorosa tra le debolezze politiche. Questa incomprensione del presente è peraltro ancorata ad una incomprensione del passato. Si palesa platealmente nell’incapacità di capire, riconoscendoli, persino i più elementari errori fatali compiuti durante la stagione della guerra e di assumersene compiutamente la responsabilità dopo ventisei anni. Per questo l’accordo di pace è ancora celebrato e non dimenticato: perché resta ancora, malgrado tutto, punto di riferimento basilare per le ragioni della coesistenza pacifica. 

L’incremento deliberato della tensione politica sembra però mostrare, più prosaicamente, per molti osservatori, soprattutto l’incapacità di offrire risposte concrete ai problemi di massima urgenza che investono oggi la Bosnia ed Erzegovina, a partire da quello della corruzione dilagante e della lancinante condizione di precarietà sociale di molti suoi cittadini – compresi i più giovani. La tensione rende possibile deflettere questa urgenza creando emergenza, sostenendo così il tentativo di rinsaldare posizioni politiche ormai fragili e corrose che saranno giudicate tra sei mesi alle prossime elezioni. Nel frattempo occorre considerare che le istituzioni statali sono l’architrave dell’ordine politico di ogni Stato e la Bosnia ed Erzegovina non fa eccezione. Per questo il tentativo di bloccare la funzionalità delle istituzioni bosniaco-erzegovesi, invece che rafforzarla, è considerato un disegno politico pericoloso e distruttivo. Il compasso degli eserciti ha creato Dayton, geometria politica ingiusta e necessaria. Per ridisegnarla occorre creatività, quella rara dote di ogni politica lungimirante.

 

Crediti immagine: Dmitrijs Kaminskis / Shutterstock.com

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COP26 di Glasgow, la Conferenza del “vedremo domani”

 

“Vedremo domani” potrebbe essere un sunto della Conferenza delle parti riunita a Glasgow dalle Nazioni Unite. Domani vedremo l’effetto concreto della dichiarazione congiunta di Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese, emersa dal duro lavoro diplomatico sulla crisi ambientale ai margini della Conferenza. Vedremo se questa dichiarazione congiunta delle grandi potenze si trasformerà anche in un’azione congiunta e se tale azione sarà efficace. Se segnerà, in effetti, un percorso condiviso e concreto in grado di affrontare «una emergenza che mette a rischio la nostra stessa esistenza»: sono state queste, difatti, le parole usate da Xie Zenhua, capo negoziatore cinese sul clima. Il pronome «nostra» non indica la Cina – si badi bene – bensì tutti noi, l’umanità.

La presa di posizione comune tra Stati Uniti e Cina qualifica l’urgenza degli intenti cooperativi dichiarati dalle due maggiori potenze mondiali sulla questione ambientale. Cina e Stati Uniti hanno reagito ai diffusi timori e alle sferzanti accuse di inazione sulla questione ambientale dichiarando un impegno volto a rinsaldare un percorso che, dai tempi della storica assemblea globale di Parigi del 2015, è stato finora sia insoddisfacente sia inefficace. Insoddisfacente perché l’ampia defezione degli Stati dagli impegni presi allora – pochi esclusi – ha segnato il percorso fino a Glasgow. È stato un percorso costellato di impegni dichiarati ma non mantenuti; l’apoteosi di questa condotta si raggiunse, com’è noto, col ritiro proprio degli Stati Uniti dal quadro di quegli accordi durante la presidenza Trump. Inefficace perché gli impegni presi a Parigi – come quelli negoziati a Glasgow – restano comunque al di sotto della soglia necessaria per mutare un tragitto umano che, a detta tanto del Segretario generale delle Nazioni Unite quanto dei leader dei movimenti ambientalisti transnazionali – porterà dritto alla catastrofe ambientale finale se non sarà perlomeno invertito.

Questa ragione d’urgenza esistenziale ha spinto le due maggiori potenze mondiali a dichiarare congiuntamente la propria intesa per il rafforzamento dell’azione climatica: perché non esiste alternativa alla loro cooperazione, ovvero ogni alternativa è peggiore. Solo la loro azione congiunta può rendere concreto il tentativo di affrontare una questione globale che, in assenza di un governo mondiale, il sistema degli Stati è strutturalmente incapace di affrontare con dovuta efficacia. Nessuno può difatti imporre agli Stati la condotta necessaria a fronteggiare la crisi ambientale, divisi come sono da interessi e valori differenti anche su questo problema. Le grandi potenze possono però imporre una direzione centralizzata alla comunità internazionale grazie alla loro azione congiunta, oltre a contribuire direttamente al raggiungimento di uno scopo comune che riguarda l’esistenza stessa dell’umanità. Il punto resta tuttavia sempre il medesimo, ovvero se esse saranno in grado di trasformare le dichiarazioni congiunte in azioni congiunte. Se saranno in grado, in altre parole, di assumersi le grandi responsabilità, pur «differenziate», che spettano alle grandi potenze anche sulla questione ambientale. A questi Stati la comunità internazionale attribuisce non solo diritti speciali, ma anche speciali doveri tra cui, anzitutto, quello di gestire le loro relazioni reciproche. Se esse saranno in grado di farlo, cioè se saranno davvero in grado di cooperare sull’ambiente e il clima, allora il pianeta potrà tentare di salvarsi grazie alla cooperazione internazionale guidata da Cina e Stati Uniti.

La dichiarazione congiunta sulla questione ambientale di Stati Uniti e Cina rappresenta in sé un fatto di notevole portata che ha due aspetti. Primo, segna il ritorno a un ruolo dichiarato di responsabilità da parte degli Stati Uniti sulla tematica ambientale e climatica dopo il disimpegno precedente. Secondo, segna il riconoscimento che la Cina non è più un “Paese in via di sviluppo” bensì una potenza di prima grandezza anche e proprio sul piano dello “sviluppo”. Se è così, la divisione preponderante che ha sempre caratterizzato la tematica ambientale e anche la conferenza di Glasgow – quella tra Paesi in via sviluppo e non – affronta un momento rilevante. Esso coincide col fatto che le due maggiori potenze mondiali sono ora parte integrante di un medesimo “campo”, comunque lo si voglia chiamare. Questo riconoscimento è forse il primo elemento necessario a favorire proprio quell’assunzione comune di responsabilità che è indispensabile a indirizzare e sostenere gli sforzi di tutti gli Stati, a partire da quelli già esposti criticamente e direttamente a minacce ambientali che da soli non possono o non vogliono fronteggiare. Queste minacce sono ormai note: l’aumento della temperatura globale, la deforestazione, l’uso indiscriminato di combustibili fossili, solo per citare le principali. Di fronte a queste minacce solo l’azione congiunta delle potenze maggiori può gestire la frammentazione e contrapposizione di interessi e valori tra gli Stati, imprimendo una direzione alla comunità internazionale verso la salvaguardia di un bene comune mondiale qual è l’ambiente naturale. La diseguaglianza tra le due grandi potenze e tutti gli altri Stati si dimostrerebbe, in tal caso, funzionale alle ragioni non della mera coesistenza internazionale bensì della vera e propria esistenza della comunità umana. Vedremo domani se ciò accadrà.

 

Immagine: Emissioni in atmosfera dalle ciminiere di un impianto industriale. Crediti: Leonid Sorokin / Shutterstock.com

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Libia: La responsabilità di proteggere e l'ipocrisia internazionale

Gli esiti della guerra di Libia sono ormai in parte evidenti e l’ipocrisia organizzata sulla questione libica stenta a reggere il peso dei fatti, se non dei morti. La questione libica e il suo impatto sono però parte di una più generale questione che ha contribuito a generare insicurezza. È come il ramo d’una pianta che produce frutti marci, imputriditi, come i poveri cadaveri in mare o in terra. Una delle radici di questa pianta avvelenata affonda nel lugubre pantano della decadenza politica degli stati nei quali s’è innescata, non per coincidenza, anche l’azione militare dell’IS. Questa decadenza ha origine in un fatto comune a Libia, Siria e Iraq: la guerra civile. Il monopolio della violenza affidato allo stato è assente in questi territori e l’uso della minaccia fisica e della forza diffuso. Tra le varie cause di questa situazione almeno una ci riguarda come comunità politica nazionale e internazionale. Sono le decisioni compiute dai governi alleati - Italia compresa - che tra il 2003 e il 2011 hanno scelto la guerra come strumento di politica estera. L’origine della guerra civile irachena è l’esito della guerra all’Iraq per distruggere il regime di Saddam. Quella dell’attuale guerra civile Libica è l’esito della guerra alla Libia per distruggere il regime di Gheddafi. Se è così, nel momento in cui s’invoca “più sicurezza nel Mediterraneo” occorre collocare noi stessi tra le minacce più serie alla nostra sicurezza. Urge dunque ripensare lo sfondo politico delle nostre scelte passate.

Tra tanti, gli elementi fondamentali di quelle scelte furono almeno due. Uno politico e uno diplomatico. L’elemento politico è stato la debacle di una virtù morale essenziale, la prudenza, il tentativo di ponderare realisticamente le proprie azioni. È stato, di converso, l’imporsi di un’etica della convinzione per cui ciò che conta non sono gli effetti possibili del proprio agire ma l’agire in sé, “fare qualcosa”, pensandolo con princìpi astratti e ottimistici, analisi deterministiche e false previsioni. L’elemento diplomatico conseguente è stata l’imposizione di un principio ideologico sovversivo dell’ordine internazionale, la cosiddetta “responsabilità di proteggere”, una variante moderna dell’interferenza negli affari interni degli Stati. Secondo questo principio è un dovere morale degli stati intervenire contro altri stati per proteggere cittadini stranieri dai propri governi.

La decisione sulla guerra di Libia fu in ciò esemplare. È possibile seguirla ai massimi livelli documentati. Alla riunione del Consiglio di Sicurezza del 17 marzo 2011 solo Germania, Cina, India, Federazione Russa e Brasile si astennero sulla risoluzione che legittimava la guerra alla Libia con quel principio di fatto paradossale e dai conclamati effetti ironici, appunto la “responsabilità di proteggere”. Allora fu richiamato direttamente dal Ministro francese Juppé e indirettamente dal rappresentante americano Rice nonché dal britannico Grant. Per quest’ultimo la situazione in Libia era “chiara” tanto quanto lo scopo della risoluzione e i mezzi per realizzarla. Non lo era all’ambasciatore russo Churkin, il quale, nel tipico bensì illuminante gioco della diplomazia, deplorò allora “la passione di alcuni membri del Consiglio per i metodi in cui prevale l’uso della forza”. Quel che oggi accade in Libia può invece essere chiaramente riassunto dalle parole dell’ambasciatrice Viotti: “Non siamo convinti che l’uso della forza previsto (…) dalla risoluzione porterà al compimento dei nostri obiettivi comuni – la fine immediata della violenza e la protezione dei civili. Preoccupa che tali misure possano avere l’effetto non voluto di esacerbare le tensioni sul terreno, causando più male che bene proprio a coloro che siamo impegnati a proteggere”. L’ambasciatore tedesco Wittig fu invece scettico: “Noi avvertiamo dei rischi (…) Se le misure proposte si riveleranno inefficaci, vediamo il rischio di un conflitto militare protratto che potrebbe riguardare in modo più ampio la regione. Non dovremmo prendere parte a uno scontro militare basandoci sull’assunto ottimistico che con pochi caduti saranno raggiunti risultati immediati”.

Il “conflitto militare protratto” evocato al Consiglio di Sicurezza è oggi la guerra di Libia e i suoi quotidiani effetti. Nel frattempo nessuno sa bene che fare. La retorica del ‘fare qualcosa’ gira a vuoto anche perché richiama quel troppo e male che è già stato fatto nel recente passato. Oggi bisogna meditare quei fatti più per pensare l’attualità. Come principio, la “responsabilità di proteggere” è stata l’ipocrisia organizzata volta a celare le ragioni concrete di scelte ambigue e sbagliate o a giustificarne il sostegno. Come pratica è stata invece un paradosso che ha prodotto più morte e devastazione di quella che forse intendeva evitare. È un puro esito ironico che questo principio, intitolato alla responsabilità e alla protezione, abbia prodotto una politica irresponsabile e letale. Irresponsabile perché la guerra contro la Libia ha creato un vuoto di potere in una regione dal fragile assetto istituzionale, già colpito dall’esterno nel 2003, contribuendo ad aggravare la guerra civile e aprendo persino spazio politico all’IS. Letale perché la storia non è un parco giochi che offre sconti agli uomini di buona volontà. Presenta invece ardue decisioni che chiedono sempre un prezzo. Oggi il prezzo letale lo pagano le vite altrui che cadono. Ma in quella caduta la nostra esperienza e la nostra coscienza politica sono direttamente coinvolte.

Certo, in politica il luogo della coscienza forse è un non-luogo. Ma dall’Iraq alla Libia la politica dei Governi alleati s’è nutrita dall’impura illusione che si possa ricorrere temporaneamente alla guerra servendosene come strumento occasionale e in punta di principio, senza esserne corrosi. Corrosa è invece la questione mediorientale che non suscita più passione nei paladini dei buoni princìpi. Corrosi sono gli interessi dell’Italia, intrappolata da un sistema d’alleanza concausa di conflitti, fronti di guerra e destabilizzazione politico-sociale sul fianco est e sud d’Europa. Corrosa è l’azione diplomatica, il cui compito precipuo non è sostenere l’affermazione di princìpi astratti per trasformare la realtà. È un altro, più modesto ma sempre urgente. Eludere le circostanze di guerra e aumentare la serie delle circostanze eluse. 

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I dilemmi politici del G20 sull’Afghanistan

Uno scopo del G20 straordinario sull’Afghanistan, convocato dall’Italia per il 12 ottobre, è stato chiarito dal presidente del Consiglio in una conferenza stampa a Palazzo Chigi: «Si tratta di vedere se è possibile ottenere una comunità di obiettivi fra tutti i venti Paesi più ricchi del mondo». Mario Draghi ha perciò esplicitato due di questi obiettivi. Essi conducono ad altrettanti dilemmi politici.

Il primo obiettivo riguarda ciò che ha definito un dovere degli Stati: «È un dovere dei Paesi più ricchi del mondo evitare la catastrofe». Egli si riferiva allo stadio ulteriore della calamità che si prospetta per la popolazione dell’Afghanistan. Il ritiro delle potenze occidentali e la fine del governo da esse sostenuto hanno difatti comportato anche la fine dei loro aiuti all’Afghanistan. Ha causato inoltre l’interruzione all’accesso a fondi e crediti internazionali precedentemente attivi. La guerra chiede sempre il conto a chi rimane e per il Programma alimentare mondiale gran parte della popolazione afghana residente oggi non ha neppure cibo sufficiente: si tratta di milioni di persone. Il presidente Draghi ha parlato di un dovere da compiere – si badi bene – senza condizionalità, cioè a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Questa esternazione pone in evidenza, con chiarezza, il problema dell’annoso rapporto che riguarda gli Stati donatori, le loro ragioni e divergenze. Richiama altresì i conflitti che regolarmente si innescano anche sulla definizione di qualsiasi politica comune degli aiuti. Da questa condizione trae origine un primo dilemma: se persino il mero riconoscimento dell’Emirato islamico dell’Afghanistan divide la comunità internazionale, in quale maniera essa potrà unirsi su una politica degli aiuti comune verso l’Afghanistan?

 

Il secondo obiettivo delineato dal presidente Draghi riguarda invece una necessità, cioè «evitare che l’Afghanistan torni ad essere il nido del terrorismo internazionale». Questa frase condensa e restituisce la portata del senso d’insicurezza e frustrazione causato dal ritiro dall’Afghanistan di Stati Uniti e alleati. Il ritiro è l’origine di questa necessità, ben presente fin dall’accordo di pace del febbraio 2020 tra Stati Uniti ed Emirato islamico dell’Afghanistan. Questo accordo poneva difatti tra le condizioni per il ritiro occidentale la concretizzazione di «garanzie e meccanismi di applicazione che impediranno l’uso del suolo dell’Afghanistan da parte di qualsiasi gruppo o individuo contro la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati». Da qui il secondo dilemma, nient’affatto inedito: il governo dei Talebani può offrire tali garanzie e realizzare questi meccanismi?

Accanto ai due obiettivi espliciti del G20 straordinario sull’Afghanistan e ai suoi dilemmi ci sono però un implicito terzo obiettivo e un correlato dilemma. L’obiettivo è collocare la questione afghana in una cornice politica multilaterale che sia giocoforza più ampia di quella che per vent’anni ha coinvolto gli Stati sconfitti in Afghanistan, vale a dire Stati Uniti e alleati – Italia compresa. Il dilemma connesso a questo obiettivo è, ovviamente, come riuscirci con successo. È un dilemma che ha certamente svariate implicazioni. Molte, se non tutte, riguardano però la perdita di scopo della politica occidentale che va svelandosi, lentamente ma inesorabilmente, dal tempo del ritiro dall’Afghanistan. Non a caso proprio il presidente Draghi – e proprio nei giorni scorsi – ha ricordato che il ritiro dall’Afghanistan ha costituito un trauma nelle relazioni transatlantiche e nei rapporti d’alleanza tra Stati Uniti ed europei. È un trauma che riguarda «il modo in cui è stato deciso, eseguito e comunicato», ha dichiarato, «e parlo della sostanza come del modo». Da questa prospettiva il G20 straordinario sembra perciò destinato al tentativo di lenire le ferite politiche che la lunga guerra afghana ha aperto in Occidente, oltre che in Afghanistan. Se e come ciò sia possibile è un ulteriore dilemma politico.

       

Immagine: Bambini rifugiati dopo la presa del Paese da parte dei Talebani, Kabul, Afghanistan (1 agosto 2021). Crediti: Trent Inness / Shutterstock.com

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La questione della guerra in Libia

La questione della guerra in Libia ci ricorda che la guerra è la caratteristica centrale delle relazioni internazionali, anche se molti talvolta tendono a dimenticarlo o trascurarlo. Se questa affermazione sembra troppo forte, allora si può dire che la guerra è il momento estremo delle relazioni internazionali, così come la rivoluzione lo è della politica interna. Rivoluzione e guerra hanno prodotto in Libia lo scontro violento che si combatte da ormai cinque anni. La sua origine più prossima è nota: l’opposizione armata libica, sostenuta dall’allineamento di guerra delle potenze occidentali, ha abbattuto il regime politico retto da Gheddafi e, di conseguenza, la struttura di governo dello Stato. Da allora esso non può svolgere neppure la funzione fondamentale di qualsiasi Stato, proteggere la sicurezza dei cittadini nel proprio territorio.

Questi fatti portano a due considerazioni che riguardano il cittadino impegnato nella comprensione della politica estera italiana e nelle delicate decisioni alle quali è chiamata. La prima è di carattere generale: ci sono diverse scelte possibili a chi ritiene propria responsabilità o interesse intervenire nella guerra libica, ma tutte implicano la minaccia o l’uso della forza. Così è in guerra, laddove si perseguono fini politici minacciando la morte – o dandola – a chi si oppone alla propria volontà. Per uscire da questa miserabile condizione occorre trovare un compromesso politico tra le parti. Ciò implica una consapevolezza essenziale: qualsiasi compromesso, anche se ripudia la violenza aperta, anche se liberamente accettato, ha essenzialmente carattere coattivo. È difatti pur sempre un prodotto compreso nella logica della forza. Lo è perché l’aspirazione che porta al compromesso non è motivata da sé medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione opposta. Da qui il sentimento fondamentale d’ogni compromesso raggiunto: “sarebbe meglio altrimenti”. In guerra, qualsiasi guerra, questo carattere coattivo è all’estremo perché riguarda direttamente e chiaramente la minaccia e l’uso della forza. La Libia non fa eccezione.

Se è così, la pace di Libia si reggerà, prima di tutto, sulla dissuasione nel senso politico-diplomatico: indurre il nemico a desistere dal proposito di combattere, trasformandolo, anche con la minaccia della forza, almeno in oppositore e da lì, chissà, in amico. A quel punto potrà essere con il persuadere, non con il minacciare, il legame primo del dissuadere. La comune particella è appunto “suadere”: indurre con efficaci parole. Indurre a cosa? A trattenere quella violenza sociologicamente specifica esercitata in guerra. Raggiunto quel punto, la diplomazia potrà non solo affiancare bensì sostituire la violenza della guerra. Si sostituirà all’abbattimento violento la ragione discorsiva, base della mutua coesistenza e freno prudenziale al conflitto sempre latente. È giocoforza questo il percorso d’uscita dalla guerra di Libia.

Questo percorso è occluso, però, da una causa esterna che porta alla seconda considerazione. Essa riguarda direttamente le relazioni internazionali e, per quanto concerne il quadrante europeo, il conflitto sulle sfere d’influenza tra Francia, Regno Unito e Italia. La ragione principale della guerra anglo-francese contro la Libia nel 2011 è la stessa che guida ancora oggi la politica di queste due potenze come altre potenze esterne: estendere la propria sfera d’influenza in Libia. È questo un problema fondamentale per ottenere una pace stabile: giungere a un compromesso politico tra le potenze europee sulle sfere d’influenza senza produrre la partizione del Paese. Le sfere d’influenza sono regole operative fondamentali per sostenere l’ordine internazionale e la loro delimitazione, pur complessa, è essenziale. In Libia sembra mancare l’accordo sia sui mezzi per darne definizione condivisa sia, di conseguenza, sulle finalità che sorreggono il tentativo di realizzare la pace.

In effetti, l’esistenza del problema delle sfere d’influenza non stabilisce che le classi dirigenti ne siano consapevoli. Al contrario, essendo regole politiche non formali è difficile valutare quale sia il loro contenuto soprattutto quando le potenze non percepiscono interessi comuni superiori a quelli particolari. Sia come sia, Regno Unito e Francia non sembrano disposti a rinunciare all’affermazione dei propri interessi nella definizione di queste regole e ad essa subordinano la pace. Hanno già dimostrato con la guerra del 2011 di considerare la propria vittoria, quale essa sia, come la finalità immediata del combattimento e la pace come quella ultima. Questo fatto non è una novità e non è per nulla peculiare. Agostino d’Ippona l’aveva già notato nel De Civitate Dei (XIX, 12-13). Chi turba la pace “non vuole che non vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole”. Chiarire questa volontà sarebbe un esercizio utile al tentativo di una pace duratura.

 

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Nella disfatta afghana, la perdita di scopo della politica occidentale

 

È un fatto elementare che il sostegno alla guerra sia una forma di guerra. Lo è altrettanto che far parte di un’alleanza belligerante implica una condotta di guerra che può portare al successo o alla sconfitta. La guerra in Afghanistan condotta dall’Alleanza atlantica – Italia compresa – non ha mai avuto oppositori interni rilevanti e infatti è durata vent’anni: maggioranze parlamentari hanno sostenuto l’impegno bellico senza suscitare nessuna contrarietà pubblica rilevante. Oggi è più interessante il fatto che così tante persone siano state condotte, ai margini delle loro attività, a considerare la guerra in Afghanistan un problema preminente della politica internazionale, o che così poche persone siano state portate, per così tanto tempo, a fare di questo problema un loro interesse?

La guerra in Afghanistan è stata una pietra miliare nella storia dell’Alleanza atlantica anche perché è stata la prima operazione bellica extra-europea nella sua lunga esistenza. Ora è la prima sconfitta nella storia della NATO. Questa sconfitta in guerra ha quindi una portata storica persino superiore alle sue origini, ma di segno opposto. Basti ricordare che parlare dell’Alleanza atlantica significa parlare dell’Occidente. Se è esistito un concetto unitario d’Occidente dopo la guerra fredda, esso è largamente coinciso col discorso sull’Alleanza atlantica. Non si tratta di un’alleanza qualsiasi, né di una mera configurazione militare. La NATO è stata molto di più e tanto altro nel discorso politico occidentale dell’ultimo secolo e di quello attuale. È stata, tra l’altro, la sua più potente tautologia.

La politica dell’alleanza occidentale è legata a un principio di legittimità posto anche alla base della giustificazione e della condotta di guerra come linea politica, Afghanistan compreso. Gibbons-Neff, ex caporale americano e combattente sul fronte di Marja, lo racconta così: «Stavamo combattendo i Taliban per far sì che l’Afghanistan potesse costruire una democrazia, o qualcosa del genere. Ce la presentavano così quando ci hanno spedito lì».

 Sia come sia, oggi sembra che quasi nessuno, se non proprio nessuno – a parte il Parlamento sammarinese – invochi il valore della Costituzione tuttora vigente rispetto a qualsiasi governo possa assumere il potere e a prescindere dai modi con cui lo assume. La retorica politica sembra perciò tradire, con la sua pomposità d’occasione, un cronico disinteresse sostanziale per l’Afghanistan in quanto tale e il suo destino quale comunità politica. Cosicché questa retorica sembra tanto più immorale in quanto crede di essere morale: afferma diritti umani, libertà civili, assistenza umanitaria, contrarietà al terrorismo, protezione delle minoranze e ogni giorno divulga un «nuovo piano per il popolo afghano», trascurando il fatto che quel piano esiste già ed è, finché vige, la Costituzione afghana.

La Costituzione afghana tuttora vigente afferma nel preambolo il suo fondamento sulla volontà popolare e sulla democrazia, e che lo Stato afghano è costituito al fine di creare una società civile libera da oppressioni, atrocità, discriminazioni e violenza e basata sul principio di legalità, sulla giustizia sociale, sulla tutela dei diritti umani e della dignità, garantendo i diritti fondamentali e le libertà del popolo. Secondo la Costituzione la nazione afghana comprende i seguenti gruppi etnici: Pasthun, Tagiki, Hazara, Uzbeki, Turkmeni, Beluci, Pashai, Nuristani, Aymaq, Arabi, Kirghisi, Qizilbash, Gujari, Brahui ed altri. La Costituzione afferma che lo Stato afghano si conforma alla Carta delle Nazioni Unite, ai trattati internazionali e alle convenzioni internazionali di cui l’Afghanistan è parte e alla Dichiarazione universale dei diritti umani. Essa vieta ogni forma di discriminazione e di privilegio tra i cittadini dell’Afghanistan – uomini e donne – che hanno gli stessi diritti e doveri di fronte alla legge. Secondo la Costituzione la libertà di espressione è inviolabile, il domicilio è inviolabile, la proprietà è inviolabile.

Oggi molti evocano «un approccio comune internazionale» sull’Afghanistan e ragionano sulle condizioni necessarie al riconoscimento internazionale di un nuovo governo legale. Nessuno però ha ancora chiesto alle autorità afghane – qualunque esse siano – di rispettare e difendere la Costituzione del loro Stato e neppure sembra intenzionato a farlo. Se è così, la guerra in Afghanistan è più di una sconfitta militare per l’alleanza di Stati che l’ha combattuta: illustra la perdita di scopo e di direzione della politica occidentale. Se questa perdita non viene sanata tutti coloro che si stanno scontrando sul futuro dell’Afghanistan continueranno a scontrarsi sotto un cielo vuoto, dal quale anche gli dei saranno fuggiti.

 

Immagine: Militari tedeschi, con base a Camp Marmal, durante un pattugliamento di sicurezza, Mazar-e Sharif, Afghanistan (22 luglio 2009). Crediti: Petty Officer First Class Ryan Tabios, ISAF HQ Public Affairs [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso flickr.com

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Il tempo sospeso delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti

 

È noto che il Movimiento 26 de Julio fu fondato da Fidel Castro e che il suo nome celebra l’assalto alla Moncada del 1953, momento fondante per i rivoluzionari cubani. La sua bandiera rosso-nera è d’altronde inconfondibile per il semplice fatto che reca impresso il nome del movimento stesso. Chiunque può distinguerla, in teoria, e difatti è un simbolo consueto nelle manifestazioni cubane che celebrano la rivoluzione. In una foto dei giorni scorsi che ritrae centinaia di persone all’Havana, radunate attorno al monumento di Máximo Gómez, spiccano due grandi esemplari di quella bandiera, sorretti da manifestanti pro-governativi. Così, quando l’11 luglio scorso il Guardian di Londra, insieme ad altri autorevoli quotidiani internazionali, ha pubblicato quella foto descrivendo i manifestanti come «dimostranti antigovernativi», esso confondeva le proteste svoltasi a Cuba con il loro contrario.

Si è trattato certamente di un errore banale, ma, guardando alla vicenda attuale di Cuba, si potrebbe dire che il banale è reale e perciò comunque significativo. Il fatto è che questa attualità è appunto in atto e perciò non può già racchiudere in sé i significati storici che, in questi giorni, a fronte delle proteste, si cerca invano di attribuirle. Si rischia una superficialità analoga a quella di chi, prendendo formidabili abbagli, erra anche sui fatti più elementari come quelli ritratti in una foto.

Solo il tempo dirà se i fatti in corso a Cuba saranno poi considerati un episodio legato alle contingenze della crisi attuale; oppure se si riveleranno i prodromi di un cambiamento profondo. Non sappiamo cosa causeranno gli effetti della pandemia, dell’inefficienza del governo di Cuba e di tutti quei fattori che vengono indicati come destabilizzanti e spesso coincidono con le pretese ideologiche di osservatori e osservatrici. Solo col tempo sapremo se ciò che sta avvenendo sarà il sintomo di un mutamento, qualunque siano le sue origini e le sue cause, oppure se non lo sarà. Nel frattempo occorre moderare le ambizioni e limitarsi a considerare la distanza tra un’attualità che a certuni sembra portatrice di novità e un passato che per molti invece sembra non passare. In effetti, fattori interni e fattori esterni fanno sì che il tempo di Cuba sembri più che altro sospeso invece che in accelerazione – almeno finora.

La guerra fredda è finita da trent’anni, ma non è cambiata l’identità politica di Cuba forgiata in quel periodo, la sua struttura interna, la sua organizzazione economica. Non è cambiata altresì l’identità politica del suo imprescindibile antagonista – gli Stati Uniti d’America – che perpetua l’indefessa ostilità che solo una grande potenza contro un piccolo Stato può permettersi per così tanto tempo e in così mutato contesto. A differenza di tutti gli Stati legati all’Unione Sovietica, Cuba è d’altronde uscita indenne dalla fine della guerra fredda mantenendo integro il proprio assetto interno contro ogni previsione, presunta logica sistemica, necessità di riforma. Ha superato la perdita di un intero quadro di riferimento epocale: ha perduto i suoi alleati politici, i propri partner economici e la possibilità di sfruttare all’esterno il prestigio della propria sovranità – temuto o ammirato che fosse. Cuba è sopravvissuta, così com’è oggi, a un cambiamento epocale e per questo sopravvive anche la politica d’isolamento e pressione esercitata dagli Stati Uniti, non a caso concretamente simboleggiata da un conclamato embargo commerciale la cui durata non ha eguali nella storia ed è coevo con Cuba rivoluzionaria e la sua identità. È proprio attorno a questo concreto conflitto identitario che ruota ancora l’asse principale della vicenda di Cuba e la sua riconoscibilità.

Cuba nega ancora, con la sua immutata esistenza, il ruolo storico che gli Stati Uniti possiedono e pretendono, quello dell’egemone. Gli Stati Uniti negano a Cuba la possibilità di far parte della stessa storia attuale e comune. Fanno solo parte, insieme, di una storia passata ma ancora presente, quella segnata da pretese diverse e contrarie, racchiuse anzitutto nel perenne contrasto tra indipendenza e assoggettamento. Sono pretese mutuamente esclusive e rivali che ormai continuano a confrontarsi solo su questo piano ideologico di reciproca negazione, perciò veramente politico: oggi Cuba non è difatti un pericolo percepibile per gli Stati Uniti salvo che su questo piano, non rappresenta nessuna minaccia alla sicurezza. Cuba resta perciò inaccettabile a prescindere da quello che oggi essa è realmente; non può però farsi accettare proprio perché essa è ancora Cuba. Sospesa in un passato sempre più distante, l’identità di Cuba è la chiave di volta di un eterno presente in cerca di novità. Se è così, ogni suo mutamento pacifico passerà per la ridefinizione di quella identità ancora bloccata dall’interno e dall’esterno.

 

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La consapevolezza europea si mostra a Fossoli

Luglio è un mese rovente per la memoria degli orrori che gli europei hanno compiuto sugli europei combattendo guerre fratricide e inutili. Nel luglio 1944 accadde l’eccidio di Fossoli [1] e in quello del 1995 fu il genocidio di Srebrenica. Nel cinquantennio che li separa la storia ha dimostrato che l’ombra della guerra è sempre in grado di oscurare le ragioni di coesistenza tra gli europei, trasformandole nella più perversa delle declinazioni esistenziali: sopprimere la vita altrui. Disseminati su tutto il Continente, i segni della guerra hanno lasciato tracce indelebili nella cosiddetta “coscienza europea”.

Cosiddetta perché una coscienza europea non può esistere, se non idealmente o come mito, finché un soggetto politico non se ne fa interprete in modo legittimo e riconosciuto. Non sono di certo mai mancati, né mancano tuttora, coloro che si autoproclamano interpreti della coscienza europea. Ma le opinioni di queste persone, qualsiasi merito possano avere, non sono il risultato di nessun processo politico di riconciliazione e affermazione di interessi e valori. Non possono perciò rappresentare nessuna coscienza europea.

Proprio a Fossoli l’idea di una coscienza europea ha invece mostrato un significato politico fondato e, se non compiuto, almeno realizzato. In quel paese dell’Emilia-Romagna la coscienza dell’Europa è stata rappresentata in forma politica unitaria e paritaria da un uomo e da una donna: il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il Parlamento europeo è organo legislativo dell’Unione Europea (UE) eletto direttamente dai cittadini dell’Unione ogni cinque anni. La Commissione europea rappresenta e tutela gli interessi generali dell’Unione, unendo così quelli dei 27 Stati membri. Queste due istituzioni aggregano e articolano politicamente non solo gli interessi comuni, ma anche i valori comuni dell’Europa d’oggi. Possono perciò esprimere una coscienza europea, se essa esiste.

«Oggi è per me particolarmente toccante essere qui come europea di nazionalità tedesca», ha detto la presidente europea Ursula von der Leyen, perché «è stato un soldato tedesco a ordinare di uccidere i vostri genitori e i vostri nonni (…) La loro resistenza ha contribuito a salvare l’Italia e l’Europa intera compreso il mio Paese, la Germania. La Resistenza ha ridato la libertà agli italiani come ai tedeschi. So che devo la mia stessa libertà a persone come i vostri genitori e i vostri nonni. Voglio perciò onorare la memoria di tutti coloro che hanno combattuto per la nostra liberazione. È anche grazie al loro sacrificio che è nata un’Europa finalmente pacifica e democratica».

Queste parole non sono state una ammissione di responsabilità, per la quale la presidente dell’Unione non ha né titolo o ruolo politico specifico né – ovviamente – alcuna colpa diretta o indiretta. Sono state semmai una dichiarazione di consapevolezza, cioè un discorso politico che incarna la coscienza europea nel luglio 2021. La coscienza riguarda difatti, in ogni suo significato, una forma di consapevolezza. È anzitutto la consapevolezza che un soggetto ha di sé e del mondo esterno con cui è in rapporto, della propria identità e dell’insieme delle sue attività.

Col discorso di Fossoli la presidente dell’Unione Europea ha voluto incarnare la consapevolezza che ha di sé il soggetto politico che ella guida, cioè l’Unione stessa. Ha scelto di dare a quel soggetto politico una identità che ne orienti l’attività, valorizzando a tal fine atti storici concreti che – proprio perché tali – possono esprimere anche valori comuni. La presidente sa a chi deve la propria libertà e si fa portatrice di una conoscenza che è la prima forma di consapevolezza.

La coscienza è d’altronde, in ogni soggetto, anche la consapevolezza del valore morale del proprio operato e manifesta un sentimento fondamentale, cioè quello del bene e del male. I rappresentanti dell’Europa unita a Fossoli hanno scelto di farsi portatori anche di questa forma di consapevolezza, distinguendo ciò che è bene e ciò che è male. Hanno voluto cioè marcare il divario di valore morale che ha separato, nelle azioni concrete, chi ha combattuto secondo una dottrina di sterminio – costante nel pensiero e nella prassi da Fossoli a Srebrenica – e chi si è opposto anche al prezzo della propria vita. Così, con questa affermazione semplice e rigorosa di consapevolezza, a Fossoli si è manifestata una coscienza europea.

 

[1] Il campo di Fossoli, in provincia di Modena, è stato il luogo di transito verso i campi dell’Europa orientale. Da qui provenivano i 67 uomini, internati politici, fucilati il 12 luglio 1944 nel poligono di tiro di Cibeno (Carpi).

 

Immagine: Panoramica del campo di Fossoli (2008). Crediti: Fondazionefossoli. GFDL [Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported, 2.5 Generic, 2.0 Generic and 1.0 Generic], attraverso Wikimedia Commons

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Al summit di Ginevra per ricostruire la fiducia reciproca

 

La responsabilità principale delle grandi potenze rispetto all’ordine internazionale è gestire le relazioni reciproche. Lo è perché dalla loro gestione dipende in massima parte l’ordine internazionale, a partire dal mantenimento delle prospettive di pace e dalla limitazione della guerra. Ciò significa cercare anzitutto di evitare crisi nei rapporti reciproci e poi controllare le crisi che si verificano prima che s’aggravino o precipitino. Le azioni che le grandi potenze possono intraprendere per conseguire questo scopo comune, nell’interesse di tutti, riguardano principalmente misure negoziali per rafforzare la collaborazione. Qualsiasi negoziato può però verificarsi solo col dialogo, perché il dialogo è la condizione necessaria seppur non sufficiente alla collaborazione.

Il dialogo è però già in sé una forma di collaborazione e la riapertura del dialogo tra Russia e Stati Uniti è l’unico risultato certo, acquisito, del summit di Ginevra. È d’altronde un risultato fondamentale per la gestione futura delle relazioni reciproche tra queste due grandi potenze. Da questo punto di vista il summit tra il presidente Biden e il presidente Putin rappresenta un successo diplomatico comune. Esso prescinde dagli esiti negoziali che ne possono derivare, assai più complessi, incerti ed estesi nel tempo. Il summit di Ginevra ricuce così, in piccola ma essenziale parte, una lacerazione ormai profonda e assai pericolosa che tuttavia non cessa d’essere tale. I mesi precedenti al summit sono stati difatti segnati da un contesto politico di ostilità reciproche che non è casuale, bensì possiede cause profonde. Esse avevano corroso la possibilità stessa del dialogo e il fatto di affrontarle direttamente inverte apparentemente un processo degenerativo. Basti ricordare che l’incontro al vertice si è svolto in un contesto che ha colpito addirittura gli ambasciatori delle due potenze, cioè il simbolo stesso del dialogo tra gli Stati. Esso non muta improvvisamente oggi, ma si potrà ridefinire.

La crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Federazione Russa è acclarata e riconosciuta da entrambi i protagonisti. Prima del summit, entrambi avevano parlato delle relazioni reciproche in termini di gravità inaudita, riconoscendo esplicitamente la serietà della tensione politica. Il summit di Ginevra non poteva risolvere questa crisi e ciò era evidente. In questa ovvia constatazione risiede il motivo dell’assenza di una conferenza stampa congiunta finale. A questa forma protocollare sarebbero state difatti affidate valutazioni comuni che ancora non sono possibili e semmai potranno esserlo in futuro. Del resto nei summit ciò che conta è quel che segue concretamente alle dichiarazioni, non quello che dovrebbe accadere secondo le dichiarazioni – siano esse congiunte o separate. Si tratta quindi di aspettare una verifica empirica e non di analizzare una prestazione retorica.

Ciò che dovrà essere verificato è se l’incontro ginevrino abbia prodotto davvero la possibilità di ricostruire un’intesa sulla stabilità strategica internazionale, a partire dal controllo degli armamenti nucleari massicciamente detenuti da Russia e Stati Uniti. Poi se possa comportare, e in quali termini, una valutazione comune – o almeno condivisibile – sulla definizione delle reciproche sfere d’influenza e sulla considerazione dei rispettivi interessi vitali nella definizione che ne danno i due governi. È difatti dal grado di condivisione di tali questioni che dipende la possibilità, più o meno ridotta, di gestire pacificamente l’intera gamma di controversie aperte al confronto ben oltre il tempo di Ginevra: dal conflitto nell’Artico a quello nel ciberspazio, dalla guerra Ucraina a quella siriana, dalla vicenda dell’Iran a quella della Libia, dai rapporti coi rispettivi alleati al triangolo con la Cina. L’elenco di controversie, conflitti e dispute irrisolte oltrepassa non solo il lasso di tempo di un summit, ma anche quello di un intero ciclo negoziale. In assenza di dialogo e volontà comune esso è però del tutto inaffrontabile e ancor meno risolvibile.

Non è quindi né oggi né domani che capiremo se questo summit sia stato in grado di colmare, almeno in parte, la clamorosa mancanza di fiducia tra le parti finora dimostrata. Neppure sapremo subito se abbia davvero generato almeno un minimo livello d’empatia necessaria tra i protagonisti e, nel caso, in quale misura lo abbia fatto. Di certo l’esigenza manifestata pubblicamente dal presidente Biden, di ottenere prevedibilità nella condotta russa, dovrà confrontarsi giocoforza con la necessità del presidente Putin di mantenere invece un certo grado d’imprevedibilità. È difatti anche questa modalità di condotta, seppur non solo, che permette alla Russia di colmare, almeno in parte, il profondo divario di potenza con gli Stati Uniti. In questo caso l’incertezza delle aspettative gioca a favore del più debole, non del più forte, e non è chiaro perché questa condizione dovrebbe mutare e in cambio di cosa. Perché se è vero che il summit ginevrino sancisce l’incontro al vertice tra due grandi potenze, è altrettanto vero che una d’esse resta ancora la potenza maggiore e non solo tra le due di Ginevra ma nel mondo intero.

 

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L’urgenza di porsi domande di pace

La guerra come continuazione della guerra. È una diffusa disposizione verso questo assurdo presupposto di condotta – dichiarato o implicito – che sembra segnare la fase attuale del lungo conflitto arabo-israeliano-palestinese, rinvigorito da un’ondata di violenza letale. La recrudescenza della «lunga guerra» in Medio Oriente forse non sorprende, data la precaria fragilità dell’ordine regionale. È proprio questa recrudescenza, però, che fa assumere alla guerra il carattere di un gorgo in cui la politica tende a soccombere. Quale sarà il tempo della pace? Come lo si immagina? Cosa ci sarà dopo la guerra che non sia lo stesso che ha rigenerato la guerra?

A queste domande mancano concrete risposte per un compromesso almeno reciprocamente comprensibile se non proprio plausibile. Manca, nello scontro violento, un minimo riscontro negoziale possibile se non anche condivisibile. In effetti la guerra sembra riempire con sangue e macerie un vuoto politico notevole. Sembra il surrogato venefico di una politica incapace d’esprimersi altrimenti, se non trasfigurandosi nel segno stesso della guerra che ancora una volta si ripresenta. Proprio la sua costante presenza tende a naturalizzarla, a renderla oggettiva o imperscrutabile. Scriveva Luigi Sturzo che «la guerra non è fatale, non è necessaria, ma è volontaria, sono gli uomini, determinati uomini, pochi o molti, i responsabili della guerra, d’ogni guerra, anche quando dicono di non volerla» (La comunità internazionale e il diritto di guerra). Il primo ministro Netanyahu d’altronde considera questa guerra «giusta e morale» e il presidente dell’Ufficio politico di Hamas Ismail Haniyya ne parla come «un onore per il nostro popolo e la nostra nazione».

Alla contrapposta e reciproca volontà di combattersi s’accompagna oggi il vuoto del contesto politico negoziale generale. Le vetuste formule di pace negoziata, sostenute o ripudiate che siano («due Stati, due popoli», «Stato unico», «Stato binazionale»), sono sbiadite nell’agenda politica se non proprio cancellate. Lo sono perché da tempo, ormai, non esiste più un’agenda politica plausibile per la pace di compromesso in Palestina; non esiste in loco e non esiste altrove. Il tempo della pace coincide con la durata di ogni tregua, la sospensione temporanea della guerra. Pace impossibile, guerra infinita: sembra questa la formula dominante calcoli politici senza l’ombra di un futuro che non si presenti identico al passato, cioè a quel tempo che, a intervalli più o meno regolari, riporta sempre la guerra nel presente.

In questo senso nulla hanno evidentemente risolto i calcoli politici verso la pace d’egemonia cercata dal presidente Trump e dal primo ministro Netanyahu, fondata, tra l’altro, sulla rafforzata legittimazione dell’uso sproporzionato della forza militare, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale unica e indivisibile di Israele, nonché il riconoscimento territoriale delle alture del Golan occupate. Alla guerra riconduce d’altronde, con altrettanta evidenza, il dominio di Hamas sulla «causa palestinese» e il suo monopolio sulla «resistenza» legato a una condotta che porta sempre nello stesso vicolo cieco a senso unico nel quale, in fondo, c’è ancora e sempre la guerra.

Oggi ci s’interroga perciò non sulle prospettive di pace ma sulle prospettive di guerra. Ci si domanda cosa accadrà nello scontro tra Tsahal e Hamas, sull’esito temibile di violenze orribili tra cittadini d’Israele che non si riconoscono reciprocamente; sulle incognite della politica di potenze esterne che alimentano il conflitto e sul suo possibile allargamento; soprattutto, ci s’interroga sull’incubo collettivo mortifero di chi subisce bombardamenti e attacchi militari e di chi teme lanci di missili e attentati.

Di fronte a tali e tante domande di guerra varrebbe la pena porsi anche alcune domande di pace, ossia domande legate alla coesistenza, cioè l’esistere insieme. Per porsi queste domande occorre riportare la questione palestinese al centro di un processo di pace, non di guerra. L’eclisse della questione palestinese dall’agenda della politica internazionale comporta difatti, semplicemente, il suo riproporsi in modo radicale e violento con la guerra. Si tratta di una questione alla quale occorre rispondere con necessaria urgenza.

Questo senso d’urgenza è oggi però tutt’altro che acclarato e anzi frenato da un senso d’inerzia politica. Basti a testimoniarlo l’impasse nella quale si è trovato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riunitosi con plateale ritardo e tra numerose difficoltà a causa delle ritrosie statunitensi. Si è trattato, da parte degli Stati Uniti, del tentativo di procrastinare non solo il tempo delle domande, ma anche quello delle risposte. Cosicché è stato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a rivendicare l’inefficacia delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza in merito alla questione palestinese e la sterilità del diritto internazionale. S’attende dunque, con grande urgenza, l’esito della diplomazia, a partire da quella americana del presidente Biden e del suo inviato Hady Amr, perché ogni vuoto politico può essere riempito ma tutto dipende dal modo.

 

Immagine: Il fumo sale dalle macerie dopo gli attacchi aerei israeliani su Gaza City, nella Striscia di Gaza, Palestina (12 maggio 2021). Crediti: Nick_ John_07 / Shutterstock.com

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Il dilemma politico nascosto dietro l’assenza di una sedia

 

Cosa deve essere l’Unione Europea (UE)? Una unione di Stati o una federazione? Ridotto all’osso, schematizzato, è questo un dilemma riproposto dall’incidente diplomatico occorso alla delegazione europea giunta ad Ankara per incontrare il presidente turco Erdoğan. È un dilemma tanto vetusto quanto attuale e coglie la sostanza di un problema politico, ripresentatosi con una questione di forma protocollare. In effetti, constatare la subdola facilità con la quale è possibile incrinare la tenuta diplomatica dell’esecutivo comunitario, offrendo banalmente una poltrona per due, dovrebbe stimolare una riflessione realistica sui due, non sulla poltrona o il suo proprietario. Se è così, la forma dell’affaire turco induce a meditarne la sostanza.

Nei vertici bilaterali tra capi di Stato le poltrone sono due perché i capi di Stato sono due, uno per ogni Stato. Così va ancora il mondo delle relazioni internazionali e ad Ankara lo si è visto per ciò che è nella sua attuale configurazione di potere: un mondo di Stati monocefali, con una testa sola. Il fatto che l’Unione Europea sia solita disporre di due poltrone per sé, anche quando si rappresenta all’estero, non cambia la sostanza della questione: se manca una poltrona, l’Unione tentenna.

L’Unione Europea ha un esecutivo bicefalo – Commissione/Consiglio europeo – che in politica estera produce una fatica insostenibile perché, giocoforza, perde simmetria istituzionale e, con ciò, la sua specifica struttura diventa un deficit. Osservare come una semplice poltrona – perché una poltrona c’era – possa separare il governo dell’Unione Europea, dividendone politicamente i rappresentanti, dovrebbe indurre a considerare seriamente il significato simbolico di tale evento, collocandolo nel suo contesto politico.

Simboli e politica, si sa, non sono universi separati e tutta l’attività politica è eminentemente simbolica. La poltrona mancante simboleggia l’assenza di una politica estera adeguata alle sfide che si presentano di fronte – letteralmente davanti – all’Europa. Sono le sfide della politica estera, quella in cui l’Unione è disunita a suo rischio e pericolo. Il problema è più urgente di quel che può sembrare. Lo è perché interno ed esterno non sono ambienti politici separati, bensì collegati. Non c’è alcun bisogno di teorizzare la supremazia della politica estera su quella interna per capirne l’importanza: basta assegnare ad entrambe pari importanza. Le difficoltà nella politica esterna si riversano, presto o tardi, sulla dimensione interna della politica: è solo una questione di tempo. La politica non è divisibile, la politica è un tutt’uno.

Vale dunque la pena considerare che questo tema riguarda lo sviluppo sostenibile dell’Europa, ancor prima della transizione ecologica che – bontà sua – assorbe la gran parte dell’attenzione europea (pandemia esclusa, naturalmente). Da questo punto di vista l’affaire turco è solo il segnale più chiaro del fatto che l’introversione della politica dell’Unione Europea non è più sostenibile. Non lo è di fronte ai problemi posti dalla politica del suo primo ex membro secessionista (Regno Unito); non lo è rispetto alla guerra che si combatte nei confini di un suo Stato associato (Ucraina); non lo è, insomma, nei confronti delle prove esistenziali che investono tutti i governi nazionali che all’Unione si sono rivolti per affrontare i compiti che li hanno divisi, li dividono e li divideranno.

Se la politica estera appartiene ad un’unica sfera unitaria della politica, che non è separabile in sfere diverse, allora la ripartizione dell’azione esterna dell’Unione Europea tra Commissione e Consiglio è surreale. In tal caso l’affaire turco ripropone almeno una domanda, se non proprio un dilemma: chi rappresenta la politica dell’Unione Europea fuori dai suoi confini? Per offrire una risposta forse non basta più aggiungere una poltrona.

 

Immagine: Il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio dell’UE Charles Michel (26 febbraio 2021). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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L’oblio della guerra in Afghanistan

L’oblio che in questo periodo contraddistingue la lunga vicenda della guerra in Afghanistan non significa affatto che essa sia terminata. Significa, al contrario, che l’accanita tenacia della sua persistenza tende ormai ad obliterarne persino il ricordo o, perlomeno, la voglia di ricordarla e di considerarla un fatto che ci riguarda. La guerra in Afghanistan continua, se è vero che, proprio in questi giorni, gli Stati Uniti d’America hanno proposto un nuovo piano di pace per l’Afghanistan. Al di là di ciò che trapela, domina l’impressione che, più che altro, si tratti di un piano per permettere a Stati Uniti e alleati – Italia compresa – di uscire dalla guerra più lunga nella loro storia, quella iniziata al principio di questo secolo con l’operazione «Libertà duratura» e divenuta oggi, più di vent’anni dopo, una guerra duratura senza logica strategica apparente e, forse, senza logica tout court.

La guerra duratura che dall’invasione dell’Afghanistan del 2001 coinvolge Stati Uniti e alleati non ha ancora risolto nulla per nessuno e ciò contribuisce a spiegarne un certo oblio, oltre che la durata. In questi ventidue anni quella guerra ha semmai demistificato se stessa, mostrando quasi tutto della propria vacuità. Un vuoto politico e quindi morale che si è celato, finché ha potuto, dietro apparenze grottesche e tracotanti ambizioni, per poi cedere alla logorante realtà e alla stanchezza di un fallimento da molti presunto e ormai acclarato.

Proprio per questo oggi si ripropone un tentativo per uscire dalla guerra, lasciandosela alle spalle insieme ai suoi morti, alla sua distruzione e ai suoi sopravvissuti. In questo senso il piano di pace che sembra essere stato avanzato pare assumere, più che altro, il significato di un piano di ritiro. Esso si somma e s’accavalla ai tentativi per abbandonare l’Afghanistan teorizzati da tutti i governi statunitensi dopo Bush. Il problema fondamentale è però che il ritiro definitivo di Stati Uniti e alleati, immaginato per il prossimo trimestre dopo lunghi negoziati, anzitutto coi Talebani, profila l’esito possibile di un ritorno al potere proprio dei Talebani, contro cui l’invasione dell’Afghanistan fu iniziata nel 2001. Si teme che dopo una classica offensiva militare primaverile essi possano tornare dov’erano nel 2001: al comando dell’Afghanistan. La violenza dilagante verso i civili, puntellata in questa fase anche da omicidi sistematici contro giornalisti e giornaliste, richiama un lugubre orizzonte ben noto.

La proposta che pare avanzata nell’ultimo piano di pace sembra fondata su un governo di transizione verso nuove elezioni, col corollario di un vago processo costituzionale e d’infondate garanzie reciproche tra chi lo vorrebbe instaurare e chi vi dovrebbe partecipare. Questa proposta sembra inconciliabile con la realtà della guerra e gli interessi delle fazioni che continuano a combattere, ignorando un «cessate il fuoco» da mesi dichiarato e mai stabilito. L’idea di un governo di transizione mostra piuttosto come il nome scelto dall’Alleanza atlantica per ridefinire la sua presenza sul teatro bellico afghano – operazione «Sostegno risoluto» – collida con l’effettivo scemare della risolutezza nel sostegno al governo del presidente Ghani.

Oltre a questo, il fatto d’immaginare, come sembra da parte degli Stati Uniti, una nuova conferenza di pace guidata dalle Nazioni Unite pare rappresentare, più che altro, solo un passaggio formale nel tentativo finale di un disimpegno e ritiro che, con la più classica delle condotte, cerca di distribuire sulle istituzioni internazionali le tensioni della responsabilità di un logorante fallimento comunque già acclarato. In una sorta di parodia storica che non può suscitare umorismo, semmai un certo sgomento, torna a mente il fatto che, dopo l’invasione del 2001, fu proprio una conferenza sotto l’egida delle Nazioni Unite a essere convocata a Bonn per tentare d’avviare un processo politico coerente. Di coerente nella guerra d’Afghanistan sembra però esserci stata solo la tormentante presenza della guerra stessa che, almeno per chi ne soffre, non può essere dimenticata.

 

Immagine: Ragazza sulla Jalalabad Road, Afghanistan (gennaio 2004). Crediti:  timsimages.uk / Shutterstock.com

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La bandiera su Ramadi e l'Iraq distrutto

Riflettere sulla presunta vittoria a Ramadi dell’esercito iracheno e dei suoi alleati  porta a considerare una sequenza di sconfitte subite dalle milizie del Daesh nell’anno che ormai si conclude. Ciò permette di fare un bilancio della vicenda irachena. Dalla liberazione di Kobane all’eventuale e definitiva espulsione dei miliziani da Ramadi sembra ormai definirsi un punto cruciale, ancorché reversibile, nella storia dell’attacco del Daesh all’integrità territoriale dell’Iraq. Coincide con quello che si  può chiamare punto culminante dell’offensiva.


Karl von Clausewitz ha insegnato che la forza materiale dell’attaccante si esaurisce inesorabilmente se non avviene un indebolimento proporzionalmente maggiore del nemico. Nella guerra irachena, le forze che combattono il Daesh sembrano invece irrobustirsi e potrebbero diventare preponderanti, seppur con ritmo imprevedibile e tra alterne vicende. Se fosse così, e ciò non è affatto certo, il Daesh avrebbe dunque raggiunto il punto culminante della sua offensiva territoriale. Sarebbe il capovolgimento della situazione finora in atto. Si consoliderebbe l’effettiva capacità di reazione dell’esercito iracheno e dei suoi alleati, la loro preponderanza bellica. Questa situazione coinciderebbe con la sconfitta del Daesh e, giocoforza, con la sua estinzione in Iraq poiché, a differenza di un combattente riconosciuto o riconoscibile come legittimo, esso non potrà preservare le proprie forze per mantenersi sulla difensiva in attesa della pace. Anche per questo, il Daesh sarà prima o poi abbandonato dalle potenze che lo hanno sostenuto, tollerato o strumentalizzato e, in questo senso, la sua fine è iscritta nella sua esistenza. Ma occorre attenzione: Clausewitz stesso intimò prudenza nel valutare l’equazione comparativa delle forze in un teatro di guerra, essendo difficile stabilire quale dei combattenti sia effettivamente — non materialmente — superiore. È un giudizio legato alla finezza dell’intuito strategico: “Spesso tutto dipende dal filo serico dell’immaginazione”, scrisse sibillino.


Se s’abbandona però l’immaginazione del presente e si passa alla storia, s’impone oggi, dopo tredici anni di guerra in Iraq, un altro tipo di bilancio assai scabroso che riguarda una sconfitta. Ammessa l’invasione del 2003 come una concausa della guerra, se non come la sua causa più prossima, allora la vittoria di Ramadi  offre un diverso scenario. È quello della distruzione di una città e di una comunità politica, emblema di un intero Stato sovvertito dal bellicismo irresponsabile del governo di George W. Bush e dei suoi alleati nella guerra contro l’Iraq. Al  termine del 2016, dopo centinaia di migliaia di vittime da quel giorno fatale che ha destabilizzato l’ordine internazionale, ecco cosa s’impone inesorabilmente: un giudizio politico. Le macerie di Ramadi, sia essa o no riconquistata, ricordano come un monito qual è stato e quale sarà il prezzo di tutte le presunte vittorie di questo periodo di sangue; soprattutto, evocano chi ha pagato e ancora pagherà quel prezzo. Dall’eco delle paradossali parole vittoriose del Presidente Bush a bordo d’una portaerei, fino allo stormire immobile della nuova e già lacera bandiera irachena issata sui resti di Ramadi, quel che si può udire nel profondo non sono grida di vittoria ma un lamento di sconforto. Dice che in questa guerra, giunta imperterrita all’adolescenza, ormai vince chi perde meno. Vince chi non s’illude che ciò che sarà fatto in Iraq sarà quello che andava fatto. Vince chi non dimentica l’insormontabile scarto che fissa oggi il prezzo degli sbagli compiuti da chi ha scelto la guerra contro l’Iraq nel 2003, trascinandoci in guerra per tredici anni.


Oggi, aspettando che si mediti con adeguatezza su quegli sbagli, nella sfiduciata attesa che il 2016 sia finalmente l’anno in cui l’indagine della Commissione Chilcot sarà almeno resa pubblica, resta almeno una certezza. Se la guerra finirà, resterebbe comunque da ingaggiare una guerra differente, impropria, e forse ancor più subdola. Sarebbe contro quella hybris che tutto questo ha alimentato. Una tracotanza da seppellire per far vivere una matura consapevolezza: il peso del mondo è un peso capitale e non può essere ridotto in polvere, perché resta solo una sconfitta pur nelle vittorie.
 

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Il nazionalismo dei vaccini

«Dovremmo impedire il nazionalismo dei vaccini». È stato questo il primo grido d’allarme pronunciato dal direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità. Egli presagiva ciò che sta accadendo in questa fase della pandemia. Allertava, con lungimiranza, sulle nefaste conseguenze della competizione tra gli Stati per dotarsi dei vaccini in modo unilaterale, trascurando le implicazioni di questa condotta per cui pochi hanno molto e molti hanno poco.

Oggi si moltiplicano timori analoghi perché, se le richieste di vaccini fossero soddisfatte solo negli Stati che hanno acquistato la maggior parte delle scorte, ciò potrebbe significare una continua incidenza del virus sulla popolazione restante degli Stati non vaccinati. Il timore è che la sua capacità nel mutare e la sua rapidità nel diffondersi possano giovarsi di questa situazione. Presto sapremo se si tratta di timori infondati. Ciò che invece già sappiamo è che la pandemia è un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè in grado di contagiare rapidamente territori e continenti di tutto il mondo. Si tratta di un vero e proprio fenomeno su scala mondiale. Il mondo diviso in Stati nazionali può contrastarlo però solo su scala internazionale, cioè con azioni più o meno coordinate tra Stati separati e divisi che, bene o male, cooperano o cercano di farlo. Il «nazionalismo dei vaccini» colpisce proprio questa capacità di coordinamento e cooperazione, inficiando le possibilità di risposta collettiva che invece oggi sembrano indispensabili. Trattiamo dunque di un fatto politico rilevante perché riguarda le possibilità di sopravvivere al virus e di eliminarne gli effetti sull’unica scala adeguata: il mondo, l’umanità.

Se l’epidemia è una malattia di comunità, la pandemia è una malattia della comunità mondiale. Questa comunità esiste però solo nelle aspirazioni. La pandemia colpisce a livello globale, ma il mondo non risponde al medesimo livello, cioè in modo davvero unitario e collettivo: come una comunità. Questo scarto di livelli comporta almeno due implicazioni, entrambe legate alla divisione tra gli Stati e alla loro competizione.

La prima implicazione è la differenza nelle capacità d’accesso e d’appropriazione dei vaccini tra alcuni Stati e tutti gli altri. Essa segmenta e limita le capacità di risposta collettiva alla pandemia e può tendere persino, nel peggiore dei casi, a vanificarla. Riguarda perciò l’interesse comune nell’efficacia della cura contro la malattia: più il vaccino è diffuso nel mondo, più sarà calibrato e risolutivo il suo effetto. Il fatto banale ma fondamentale, amplificato dal «nazionalismo dei vaccini», è che a differenza degli esseri umani l’esistenza del virus non è vincolata dall’esistenza degli Stati. Esso circola liberamente, contagiando senza distinzioni nazionali. Il virus semmai si giova della divisione politica dell’umanità e di tutto ciò che la sostiene, compreso il «nazionalismo dei vaccini».

Per questo definire ancora il virus in termini di nazionalità – la variante «inglese», quella «brasiliana», oppure «sudafricana» – forse tradisce una certa incapacità persino di pensare la realtà pandemica in tutta la sua portata e nella sua dinamica reale. La conseguenza di questa realtà si potrebbe riassumere in un motto più volte richiamato in questo periodo: «nessuno è sicuro finché tutti non sono sicuri»; eppure, va notato, se «tutti» significa tutti gli esseri umani, allora questo motto sembra lontano dal trasformarsi in un principio d’azione collettiva, ammesso che sia necessario.

La seconda implicazione del «nazionalismo dei vaccini» è invece di tipo morale e concerne la qualità dei nostri valori umani. Si tratta di valutare non la presunta inefficienza, bensì la clamorosa ingiustizia generata dalla disparità di accesso alle cure vaccinali. Alcuni Stati hanno già un numero di vaccini in grado di trattare l’intera popolazione per cinque volte; altri non ne posseggono neppure quanto basta per un trattamento da qui ai prossimi due anni. In un mondo nel quale i vaccini sono ancora risorse scarse, alcuni Stati le sottraggono ad altri con scontata indifferenza al concetto di giustizia.

È d’altronde questa situazione ingiusta e inefficiente che genera i tentativi di stabilire condotte più solidali tra gli Stati o, almeno, misericordiose. Da un lato, puntando sulle donazioni da parte degli Stati più ricchi di vaccini verso quelli più poveri. Dall’altro, cercando d’impegnare risorse collettive verso un vaccino globale detto Covax, a disposizione di tutti gli Stati con costi e regole d’accesso sostenibili. Sono sforzi significativi, ma restano simili a palliativi rispetto agli effetti del «nazionalismo dei vaccini». Perché se è vero che la competizione per le risorse scarse è un dato forse insopprimibile, è anche vero che la pandemia ne mostra oggi una perversità plateale.

I vaccini difatti non sono solo risorse scarse, ma anche risorse vitali per tutta l’umanità. Il «nazionalismo dei vaccini» agisce perciò concretamente, in modo ben comprensibile, sul terreno esistenziale, la vita e la morte legate alla cura o alla sua mancanza. Il suo significato più profondo si svela così in ciò che più crudamente rivela, ossia nel fatto che, per le genti del mondo, avere o non avere accesso ai vaccini dipende, in prima istanza, dalla propria appartenenza nazionale. Se è così, il trauma pandemico non ha colmato né la distanza morale né quella fisica tra noi e gli altri. I vuoti del mondo non si sono affatto riempiti con l’irrompere della piaga mondiale e il rischio globale non fa ancora dell’umanità una comunità. Può darsi che anche in un mondo diverso il «nazionalismo dei vaccini» sarebbe un fatto persistente, seppur chiamato in modo differente. Di certo, nel nostro mondo d’oggi, se qualcuno è forse più sicuro, o perlomeno crede d’esserlo, altri non lo sono ancora e tutti rischiamo di non esserlo mai.

 

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Immagine: Una operatrice sanitaria africana che indossa una mascherina chirurgica e un paziente bambino che indossa una mascherina protettiva fatta in casa. Crediti: Yaw Niel / Shutterstock.com

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L’ironico esito dell’ennesimo azzardo elettorale

La peripezia, l’ironia in azione, la deformazione che il contesto storico impone all’intenzione politica, è la regolare, ripetuta, si è tentati di dire fondamentale, esperienza della politica. C’è ironia nel fatto che la scelta di Theresa May di tenere elezioni politiche anticipate per rafforzarsi l’abbia infine costretta in una posizione di estrema debolezza.

La sintesi delle elezioni britanniche non è complessa perché ripropone una sequenza ormai nota: il gioco d’azzardo del Partito conservatore ha condotto ancora una volta alla propria bancarotta politica, conclusasi con la perdita di 12 seggi rispetto a quelli conquistati precedentemente e con la necessità di trovare il sostegno d’altri partiti per governare il Regno Unito. Anzi, di uno tra essi, l’unico sopravissuto a possibile favore dei Conservatori, poiché, a differenza del partito di governo, l’opposizione politica ha guadagnato seggi e segnatamente il Partito laburista di Corbyn, rinvigorito dalla conquista di 261 parlamentari, 31 in più di quelli precedenti.

Ironico è il destino che si staglia di fronte a un primo ministro che si pretendeva epigono di Margaret Thatcher, dunque di ferro, e che invece si è finora dimostrato di carta. Se May non sarà longeva come la Thatcher potrebbe essere, invece, uno dei primi ministri britannici con il mandato più breve della storia. Il suo fragile regno, costruito sull’immagine della stabilità e della forza, da tradursi concretamente nella maggioranza assoluta che la premier si proponeva di conquistare con quest’azzardo elettorale, potrebbe ora andare incontro al destino immaginato da William Hague, ex leader conservatore: «Il nostro partito è una monarchia temperata dal regicidio».

Non si sa ancora se il risultato delle elezioni comporterà la prematura scomparsa politica di questa fragile regina senza regno. Quel che si sa è che la dura realtà elettorale decreta la fine della ‘dura Brexit’ da lei prediletta. Oggi quella posizione possiede più debolezza, non più forza negoziale. Queste elezioni dovevano confermare l’orientamento britannico verso una prova di forza con gli «europei» e invece lo smentiscono. «Il Regno Unito farà da sé» è stato il grido elettorale dei Conservatori. Oggi è ricacciato in gola dall’amaro calice del voto.

Così il polso fermo della Gran Bretagna sul negoziato, invocato dal Governo, si è già ridotto a un polsino sgualcito, logoro persino prima dell’inizio. Ciò sembrerebbe quasi patetico, se non fosse che la politica possiede una logica propria di successo e fallimento. È dunque di fronte al successo del Labour, alla sua capacità, che soccombe la tattica della May e decade l’intera sua strategia politica. Non è un fatto naturale, bensì politico. Jeremy Corbyn conferma la capacità del capo di portare al successo il proprio schieramento politico aggregando consenso reale. Contro un apparato quasi interamente ostile, a partire da quello dell’informazione, Corbyn si conferma ancora con ciò che alla fine conta in politica: i voti.

È proprio la mancanza di voti quel che impedirà al Partito nazionale scozzese d’insistere per un secondo referendum d’indipendenza, un progetto politico di frammentazione del Regno Unito oggi riassorbito dal successo elettorale laburista. Mancano, infine, del tutto i voti necessari per entrare a Westminster a quel fantasma della politica denominato Ukip, capace d’inquietare le Isole Britanniche pur non avendo rappresentanza nazionale e la capacità di conquistarla neppure dopo l’eclatante vittoria al referendum sulla Brexit. Con la debacle dell’Ukip si estingue così, anche Oltremanica, il fuoco fatuo e immaginario del populismo, fenomeno che incendia i giornali ma si spegne a ogni tornata elettorale europea nella quale si presentino figure serie e concrete come quelle di queste elezioni, cruciali per tutta Europa.

 

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L’interesse nazionale riposto nella Dichiarazione di Roma

"Socialismo o barbarie" fu un motto reso celebre nel secolo scorso da Rosa Luxemburg. La rivoluzionaria tedesca voleva con ciò indicare un bivio politico ideale in Europa: o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie. ‘Europeismo o barbarie’ potrebbe essere il motto a sintesi della conferenza di Roma sui sessant’anni dell’Unione Europea. Esso indicherebbe nel nostro secolo un bivio politico reale in Europa: o la transizione all’europeismo o la regressione alla barbarie della guerra, che in tanti considerano inevitabile se l’Unione tornasse sui propri passi. L’europeismo, termine di conio relativamente recente, è la posizione di chi sostiene l’integrazione politica progressiva tra i vari Stati europei come antidoto essenziale a questa temuta possibilità. A prescindere dal resto, la Dichiarazione di Roma, firmata da 27 Stati membri dell’Unione, riguarda, prima di tutto, questo fatto essenziale.
Essa significa che la tutela dell’interesse europeo di tutti converge oggi con la tutela dell’interesse nazionale di ciascuno Stato. Si tratta, ognun lo vede, dell’affermazione di una prospettiva politica ambiziosa, volta a sostenere il maggior processo di cooperazione tra Stati mai realizzato sul continente, ciò che chiamiamo Unione Europea. Se è così, nelle intenzioni degli Stati il “sacro egoismo” della difesa dell’interesse nazionale sembrerebbe conoscere oggi il proprio alter ego nella difesa dell’interesse internazionale definito nell’Europa “indivisa e indivisibile” (Dichiarazione di Roma). Si vedrà quali virtù e quanta fortuna avranno gli europei per realizzare compiutamente queste intenzioni. Nel frattempo occorre comprendere i due motivi principali di questa prospettiva politica, la quale, questo è certo, dipende integralmente dal processo d’integrazione europea. Senza di esso, questa prospettiva non sarebbe potuta emergere tra Stati comunque diversi e in competizione quali sono quelli d’Europa – e come difatti non emerge nel resto del mondo laddove questo livello d’integrazione non esiste.
Il primo motivo riguarda l’impatto della politica mondiale sull’Europa e la collocazione degli europei nel mondo. È impresso nelle parole pronunciate in tempi differenti dai rappresentanti di due Stati europei decisamente diversi, Andorra e Italia. Il concetto è semplice. Ci sono due categorie di Stati in Europa: quelli piccoli e quelli che non hanno ancora realizzato di esser tali. Colpisce che il 27 marzo 2017 Sergio Mattarella abbia espresso a Roma questo concetto, il medesimo detto da Antoni Martí il primo ottobre 2016 a San Marino. Ciò non è frutto del caso, è frutto d’analisi politica in chiave storica: in caso di disunione gli europei sono destinati alla marginalità, soggetti all’azione di grandi potenze esterne e di forze soverchianti.
Il secondo motivo della prospettiva assunta con la Dichiarazione di Roma riguarda anch’esso un fatto d’analisi politica speculare ma frutto di una visione storica differente. Per chi non crede nella necessità di avanzare nell’integrazione politica europea, esaltare la coesione dell’Unione coincide difatti con l’intenzione di vincolare l’avanzamento dell’integrazione degli Stati a ciò maggiormente disposti, intrappolandoli con un meccanismo tipico delle alleanze. La prospettiva dichiarata è la stessa nella forma bensì opposta nella sostanza. È questa, in fondo, una forma sofisticata di nazionalismo espressa da chi non crede alla ridefinizione della sovranità nazionale nell’ambito di un’Europa politica e cerca di vincolare il percorso d’integrazione altrui, anzitutto col proprio potere di veto.
Attorno a questa questione politica s’addensa gran parte della questione ‘tecnica’ dell’Europa a più velocità, la quale, tuttavia, non maschera un fatto: “unità nella diversità” è il motto europeo e l’Unione Europea è, per definizione, a più velocità in tutti i pilastri integrativi. Dall’euro a Schengen gli Stati europei non hanno mai proceduto alla stessa velocità in nessuno degli ambiti dell’integrazione. Allora, a ben vedere, dopo Roma resta intatto il problema del bivio politico reale in Europa e di un confronto che non è tanto sulla ‘velocità’ dell’integrazione quanto sulla ‘profondità’. Non è la diversa velocità ciò che fa problema a chi comunque afferma coesione e unità, bensì la differente direzione di marcia. Quella contraria all’integrazione politica, per essere intrapresa, necessita non solo di fermare gli altri ma anche la storia dell’Europa a venire che è stata immaginata a Roma.

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Il Consiglio europeo non è stato come il Congresso di Vienna

 

Per ricorrere ad una immagine evocativa, senza pretese analogiche, si potrebbe dire che il Consiglio europeo appena concluso è il nostro Congresso di Vienna. A Vienna, due secoli fa, l’Europa si riorganizzò con una serie complessa di negoziati dopo lo sconvolgimento bellico. A Bruxelles, pochi giorni fa, l’Europa si è riorganizzata con una serie complessa di negoziati dopo lo sconvolgimento pandemico. A prescindere dalle cause, tanto a Vienna quanto a Bruxelles la posta in palio era l’assetto politico dell’Europa. A Vienna si trattava la fine del tentativo di predominio europeo di uno; a Bruxelles si è trattato per evitare la fine del tentativo d’integrazione europea di tutti. A Bruxelles era in gioco la sopravvivenza di un’idea d’Europa unita pacificamente anche nella disgrazia; a Vienna si spartiva la divisione dell’Europa dopo la guerra, intesa come una grazia. Il Consiglio di Bruxelles passerà alla storia per questo, com’è stato, al contrario, per il Congresso di Vienna. 

In entrambi i casi l’implicazione politica più immediata riguardava l’affermazione di un principio di legittimità internazionale. I negoziati lo potevano affermare o rifiutare, consolidare o smentire: dipendeva dal successo o fallimento. A Vienna si negoziò nel segno del passato il ripristino dei dinasti detronizzati da Napoleone, la riaffermazione di un principio di sovranità assoluta e reazionaria già ben noto. A Bruxelles si è negoziato nel segno del futuro l’avanzamento dell’integrazione europea raggiunta dagli Stati europei, l’affermazione di un principio di sovranità relativa e progressiva ancora assai ignoto. A Bruxelles – come a Vienna – la diplomazia europea si confrontava naturalmente col problema eterno dell’equilibrio politico; ma, appunto, nel segno di un principio di legittimità internazionale diverso e con in dote solo forza disarmata, ciascuno la sua. È questa forza a-violenta il moltiplicatore fondamentale delle capacità relative degli Stati piccoli.

Il Consiglio di Bruxelles ha sancito così, in modo speciale, che nel XXI secolo la legittimità internazionale in Europa è il giudizio collettivo degli Stati sull’equa appartenenza all’Unione Europea. Ha affermato che l’equa appartenenza all’Unione Europea implica un concetto di sovranità condivisa, fondato sulla sicurezza collettiva: è il concetto al quale il Regno Unito, alfiere del nazionalismo, si sta sottraendo, logorando più sé stesso che gli altri. Tale sicurezza – si badi bene – è prima politica, ossia economica e sociale, poi militare. Non a caso l’Unione Europea possiede dispositivi militari inaccostabili a quelli politici. Se i primi sono trascurabili, i secondi sono decisivi e si sono rivelati in grado di condividere un migliaio di miliardi di risorse economiche a fini di sicurezza collettiva in tutti gli ambiti salvo quello bellico. È proprio l’autonomia dell’elemento politico da quello militare che oggi, di fronte al successo politico del Consiglio di Bruxelles, ancor più sorprende: nell’Unione Europea il primo avanza senza il secondo, la vitalità dell’integrazione politica prescinde dal fatto bellico in tutti i suoi aspetti.

Non è tuttavia pensando solo alla dimensione bellica che oggi si coglie compiutamente la specificità della forma istituzionale dell’Unione Europea e, con ciò, il valore politico incomputabile dei negoziati del Consiglio di Bruxelles. La si coglie invece, soprattutto, considerando che il processo negoziale non è affatto concluso. Le decisioni prese dalla diplomazia degli Stati, quelle stabilite nel Consiglio europeo, non esauriscono affatto il negoziato in corso. Il Consiglio dovrà difatti, a sua volta, trattare con il Parlamento europeo fra pochi mesi. Lì siedono i 705 rappresentanti eletti dei popoli dell’Unione Europea, dall’isola di Malta a quella d’Irlanda. È questo che allontana definitivamente l’immagine del Consiglio di Bruxelles del 2020 da quella del Congresso di Vienna del 1815: il primo esiste in un contesto pluralista di potere diffuso, risponde al Parlamento oltre che alle Corti. Il secondo non rispondeva a nessuno, solo a sé stesso e ai monarchi con pieno potere.

 

Immagine: Riunione dei ministri dell’Economia e delle Finanze dell’Unione Europea presso la sede del Consiglio europeo, Bruxelles, Belgio (17 maggio 2019). Crediti: Alexandros Michailidis /  Shutterstock.com

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La dimensione politica dell’Europa post-Covid

 

La rilevanza del Consiglio dell’Unione Europea appena concluso si comprende nel contesto in cui è maturato, più che di per sé. Non conta, difatti, in quest’occasione, l’elemento di novità, bensì quello di continuità. Esso è rappresentato dalle linee già definite dalla Commissione europea per una politica comune di aiuti collettivi, volta a fronteggiare la crisi pandemica. Tale politica è ancora oggi, dopo il Consiglio europeo, la direttrice su cui convergono gli Stati dell’Unione. Salvo fatti imprevedibili, d’ora in poi si svolgerà, com’è naturale, un processo d’elaborazione tecnica e maturazione negoziale. Resta tuttavia intatta tale politica comune. La quale, a conti fatti, ha superato un’altra prova cruciale e s’avvia ad essere sancita dalla presidenza tedesca dell’Unione. Se nulla accadrà in contrario, il Consiglio dovrà presto accordarsi non su quale politica di aiuti ma su come questa politica di aiuti dovrà svolgersi. In concreto, dovrà decidere, tra l’altro, come ripartire prestiti e sussidi per circa 750 miliardi di euro.

Se è così, lo sviluppo politico della pandemia consegna già un fatto di prima rilevanza. Nel quadro mondiale degli aiuti internazionali, ossia ciò che uno Stato concede all’altro a condizioni di favore, gli aiuti internazionali incomparabilmente più cospicui sono quelli che, in varie forme, l’Unione Europa garantisce ai suoi 27 Stati nazionali. La portata di questo evento è impressionante. Non è nota, nella storia del mondo, un’unione di 27 Stati sovrani che, in circa tre mesi, abbia mai stabilito aiuti internazionali di tale dimensione. Naturalmente conta anche la dimensione qualitativa: il piano detto Next generation riguarda difatti un progetto innovativo e senza precedenti di aiuti non solo alla ricostruzione dei danni postpandemici, ma anche alla riconversione ambientale e all’inclusione sociale.

Per quanto impressionante sia la dimensione qualitativa e quantitativa, colpisce anzitutto la dimensione politica legata alla sicurezza collettiva e al mutuo soccorso in un sistema di Stati sovrani. Occorre ricordare due fatti interdipendenti, spesso trascurati, del contesto in cui si colloca.

Il primo è che la crisi pandemica aveva colto giocoforza impreparata l’Unione Europea; giocoforza perché l’Unione europea non può definire le politiche sanitarie in Europa, né l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari o di assistenza medica. Essa è riservata agli Stati (art. 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Giusto o sbagliato che sia, l’impreparazione collettiva derivò anzitutto da questo e quell’impreparazione al soccorso reciproco immediato è stata, per dir così, bilanciata dalla capacità di mutuo soccorso successiva.

Il secondo fatto riguarda l’azione di potenze esterne all’Unione. L’emergenza virale fu il terreno sul quale si diffuse, soprattutto in Italia, una propaganda velenosa, legata proprio alla questione degli aiuti inviati dall’esterno. La politica degli aiuti durante l’emergenza sanitaria si trasformò in un fattore destabilizzante la coesione europea, grazie alla propaganda che, esaltata da referenti locali, celebrò l’invio di aiuti relativamente trascurabili, imparagonabili a quelli europei. Forse tali potenze esterne seguivano una direttrice spontanea della politica estera: disunire l’Unione. Sia come sia, il Consiglio europeo ha bloccato, per il momento, l’azione disgregante non solo delle proprie debolezze interne ma anche quella delle pressioni esterne di questa matrice. Con ciò sembra aver maturato un traguardo interessante, al solito trascurato o persino taciuto, vale a dire che l’elemento cardinale dell’Unione Europea è l’elemento morale, insieme a quello dell’interesse materiale. Sostenere l’elemento morale del mutuo soccorso in Europa, in attesa di definire l’interesse materiale, ci consegna una sintesi politica lungimirante in attesa di concretizzazione tecnica.

 

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Immagine: Il presidente del Consiglio dell’Unione Europea Charles Michel e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nella conferenza stampa a seguito del vertice europeo in videoconferenza, Bruxelles, Belgio (19 giugno 2020). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Libia, una nuova fase della guerra, nuovi equilibri di potenza

 

Abbiamo scritto tempo addietro che la politica delle potenze esterne coinvolte nella guerra di Libia riguarda la definizione delle sfere d’influenza. Di conseguenza la guerra cesserà quando tale condizione sarà soddisfatta col negoziato, la vittoria o la resa delle forze che si combattono in Libia col sostegno delle potenze esterne. In questo senso, la politica delle forze locali e delle potenze esterne è interdipendente: l’una s’alimenta dell’altra ed entrambe dipendono dall’andamento bellico. L’intervento diretto della Turchia non ha cambiato questa condizione fondamentale, ma ha alterato profondamente gli equilibri politici legati all’equazione della guerra. La forza militare turca, impiegata sul terreno con combattenti efficaci e nel cielo con droni adeguati, ha causato due cambiamenti notevoli sul teatro di guerra.

Anzitutto ha consentito al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, quello del primo ministro Fayez al-Sarraj, di liberare Tripoli da un lungo accerchiamento. Condotto dalle forze del generale Haftar, sostenuto dai propri alleati e da varie potenze sul teatro bellico e diplomatico – tra le quali Egitto, Emirati, Russia e Francia – l’accerchiamento ha evidentemente logorato più gli assedianti che gli assediati. L’intervento turco ha poi permesso una controffensiva, tuttora in corso, destinata almeno alla presa di Sirte, città posta a quasi 500 km di distanza da Tripoli. Dopo Sirte, giacciono ancora inerti le istallazioni petrolifere controllate dalle fazioni orientali flebilmente legate ad Haftar: ripreso il controllo di quei luoghi, riprenderebbe a funzionare la fonte maggiore d’introiti per la Libia e per il suo governo riconosciuto dalla comunità internazionale.

Si tratta, ognun lo vede, di una controffensiva repentina e di notevole profondità. S’accompagna, di conseguenza, a una politica di più robusto spessore rivendicata da al-Sarraj, ora in posizione di forza relativa. Non stupisce, perciò, la sua chiusura alle proposte negoziali dilatorie e unilaterali avanzate da più parti in queste ore: il tempo è prezioso e in guerra è vitale, quindi non può essere sprecato. Talune proposte sono appunto interessate a guadagnare tempo, per permettere una riorganizzazione della fazione in attuale rotta, sempre meno rappresentata da Haftar e sempre più da Aguila Saleh, anch’egli figura politica dell’Oriente libico con agganci a Mosca. Talaltre, tra le quali quelle di certe potenze europee peninsulari, invocano compulsivamente il tacere delle armi altrui, non avendo a suo tempo fatto parlare le proprie e sentendosi oggi, di conseguenza, ai margini del quadro politico. Il quale, com’è noto, in guerra deriva più dall’efficacia della forza armata che da quella della forza diplomatica, ammessa la distinzione.

Chiarito questo, non può comunque chiarirsi oggi il quadro politico di domani. Intanto la battaglia è in corso e i suoi esiti sono ovviamente ignoti, come lo sono quelli della guerra. S’aggiunga che le potenze succitate, e le altre qui lasciate sullo sfondo, non rappresentano affatto un’alleanza, neppure sui generis. Sono solo un vago allineamento d’interessi materiali, peraltro in contraddizione quando non direttamente in contrasto. Ad alcune si deve una politica attiva di disintegrazione dello Stato libico, concausa della guerra determinata dalle fratture interne. Ad altre si deve proprio il sostegno alla guerra verso il classico sbocco della partizione territoriale, immaginata generalmente proprio lungo la linea del fronte est-ovest che va delineandosi a Sirte. Si tratta, in tutti i casi, di potenze «sciacalle», impegnate a spartirsi i resti di un territorio politicamente lacerato, talune disposte a rischiare qualcosa, talaltre quasi nulla. L’ingresso della potenza turca in Libia ha imposto però un nuovo ritmo alla guerra, un nuovo spartito alle orchestre e un nuovo direttore d’orchestra. Esso s’affianca ai presunti direttori di orchestre in fondo mai dirette, troppo divisi per creare qualsivoglia armonia, foss’anche tra loro, o di concludere in qualche modo il concerto delle armi.  

La somma delle stonature ha viceversa prodotto, proprio in queste ore, un rinnovato lamento della pace – un «cessate il fuoco» – inefficace quanto lo fu quello del grande Erasmo, ma privo della sua nobiltà d’animo e sapienza erudita. La Turchia, tertium gaudens tra le parti, è dunque anch’essa impegnata a ridefinire la propria sfera d’influenza, impiegando la forza e il diritto internazionale e, spesso, entrambi, a seconda del quadrante in cui si muove. Il Mediterraneo meridionale è il contesto di quest’azione, dalla Siria alla Libia, passando per l’isola di Cipro. Tale azione, tuttavia, è permessa soprattutto dalle mancanze politiche altrui, dal vuoto di potenza e diplomazia prodotto dall’incapacità di proiettare all’esterno le proprie capacità, siano esse nazionali o europee. Solo l’amico-nemico russo si è schierato, in Libia come in Siria. Se è così, deplorare la «politica neo-ottomana», o quella del «tiranno Erdoğan», lascia il tempo che trova, quello di uno sfogo puerile.

Le potenze europee coinvolte direttamente dal 2011, divise tra loro, assistono inerti o inefficaci allo svolgersi di una guerra che sta per compiere 10 anni, della quale sono corresponsabili, ma di cui hanno poi dismesso, concretamente, quasi tutte le responsabilità. Se finalmente la guerra cesserà per la vittoria di una parte, magari quella intesa come legittima dalla comunità internazionale, lo si vedrà nel tempo, a partire dall’esito della controffensiva odierna e dalle eventuali scelte degli Stati Uniti d’America. Nel frattempo si potrà capire se l’avanzata del «terribile turco», sostenitore nei duri fatti del governo Sarraj, sarà in grado di scuoterle dal semitorpore che sembra assopirle regolarmente e risvegliarle futilmente. Se così sarà, la ridefinizione delle sfere d’influenza in Libia e nel Mediterraneo potrebbe tracciarsi con una penna diversa da quella immaginata: disegnerà linee dirette a sud-est, più che a nord o nord-ovest. Per il resto, il fatto che la guerra riguardi anzitutto vita e morte della popolazione libica sembra oggi ancor meno rilevante di ieri. Questa, in fondo, è la vera sofferenza, non le sfere d’influenza.

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Perché non si può parlare di guerra

 

«Guerra, sola igiene del mondo». L’assurda analogia medica di Marinetti, motto supremo del bellicismo, ha raggiunto oggi la sua apoteosi rovesciata: «epidemia, sola guerra del mondo» – si potrebbe dire. Perché la parola guerra e il gergo bellicista sono penetrati così in profondità nel nostro linguaggio? Sentiamo parlare ossessivamente di una guerra che non c’è: la «guerra al virus», «guerra globale» al «nemico invisibile», con «medici al fronte» e una «lunga battaglia» da vincere con «tutte le armi disponibili». Per Marinetti la guerra avrebbe ripulito il mondo. Per i cultori del gergo bellicista, l’igiene ripulirà il mondo dalla guerra? Quando il virus sarà vinto, la guerra sarà sconfitta?

 

Questo paradosso grottesco porta all’apice logico la sequenza d’insensatezze semantiche e distorsioni cognitive generate dal gergo bellicista, tanto diffuso quanto esiziale. Si sa che è invalso in tutti i campi e certo non da oggi: «guerra commerciale», «battaglia parlamentare», sono esempi d’uso figurato e pernicioso. Oggi, in questa emergenza epidemica, travisa malamente un fatto: la malattia ha origine in natura, la guerra ha origine nella volontà umana. La guerra è un atto di forza mirato a piegare il nemico alla propria volontà. In quale senso, accolto nel lessico sociale, cioè quello in cui va realmente collocata la guerra, un virus ha volontà? Cosa vuole dalla sua vita parassitaria endocellulare obbligata? Perché è contro di noi? La guerra è un conflitto tra gruppi politici la cui soluzione è affidata alla violenza organizzata. In quale luogo accade la violenza che non vediamo e non sentiamo, chiusi in casa nel silenzio surreale delle nostre città? Quale “gruppo” davvero possiamo costituire da separati, “distanziati sociali”? Chi sarebbero i combattenti e i non combattenti? Chi i neutrali? E chi ha ragione tra noi e il virus? Se la guerra è la nostra realtà, quest’idea di realtà non ci comprende.

 

È vero che la guerra è un camaleonte e la parola, anch’essa camaleontica, può cambiar colore per adattarsi all’occorrenza. Resta il fatto che la guerra è fatta di tre elementi in eterna dialettica – violenza, caso e politica. La loro combinazione è sempre cangiante, dipende sempre da circostanze e condizioni diverse. Le sembianze della guerra cambiano alla stregua del camaleonte, come elementi vecchi e nuovi interagiscono; eppure, malgrado il mutamento di colore, il camaleonte resta tale, come la guerra.

 

Il linguaggio bellicista, tanto amaro quanto bizzarro, non è incomprensibile. Guerra è un termine forte che s’impone sul linguaggio della pace, quello civile, perché indica lo stato di fatto esistenzialmente più rilevante. L’esistenza di una grande filosofia della guerra e l’inesistenza di una grande filosofia della pace ne sono una prova. Quando il linguaggio bellicista è adottato dai politici, il suo significato è più semplice. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, evocare la guerra politicizza l’epidemia. Si sfrutta il capitale ideologico di una parola guerra e il suo presunto uso figurato rivela una funzione. Il suo lugubre peso, impiegato con banalità incosciente, schiaccia la percezione della realtà. Occlude il fatto epidemico, anzi pandemico, cioè la malattia prima trascurata e poi incontrollata, diventata insicurezza cronica collettiva. Guerra diventa parola formidabile, dotata di un’imbattibile gamma retorica per l’esercizio del potere e l’occultamento della verità che gli è tipico. La guerra è costrizione nella mobilitazione, subordinazione con esaltazione, sublimazione dell’omologazione; è pura utilità per la politica che non sa parlare, o non vuole parlare, ma solo dire senza sapere cosa. Guerra genera immagini d’ansia indistinta, ma diventa balsamo per chi manca di parole adeguate a lenire la mancanza di protezione collettiva causata dall’epidemia: protego ergo obligo; ma se non proteggo più?

 

L’esplodere e la diffusione dell’epidemia hanno una loro complessità miserevole, fatta anche di responsabilità tutte da spiegare. Sono responsabilità politiche, ma non c’entrano nulla con la dicotomia amico-nemico. Il nemico invisibile non esiste, tranne in chi se lo immagina e poi lo incarna pro domo sua: cinese, asiatico e via dicendo. L’umanizzazione del virus “nemico” è un’alterazione mentale, l’invenzione di un conflitto immaginario e, al massimo, funzionale ad altri, reali, conflitti politici. Resta almeno una verità, non solo concreta, ma anche vendicativa: non c’è un nemico da seguire nel suo elemento per fronteggiarlo, come si fa in guerra; non si combatte con organismi di dimensioni submicroscopiche e, nel “campo di battaglia”, il corpo umano, non vale l’arte della guerra, bensì la scienza. Soprattutto, col virus non si può negoziare nemmeno una resa: sopravvivere significa vincere.

 

Ciò che si può fare è trovare una cura, il che non richiede forza armata e violenza. Richiede tempo e scienza. Nel frattempo, umanizzare il virus non serve a compensare l’impotenza: essa è, semplicemente, frutto della debolezza, affatto casuale, delle nostre risorse pratiche e scientifiche, lungamente maltrattate e degradate tra l’indifferenza dei più. Naturalmente “dopo” saremo diversi e per l’ennesima volta nulla sarà come prima, salvo tutto il resto. In tal caso, cessata la finta guerra alla malattia, la vera malattia della guerra continuerà come prima, secondo l’antico lamento di Montesquieu: «Una nuova malattia si è diffusa in Europa: essa ha colpito i nostri principi, e fa sì che tengano in servizio un numero esagerato di truppe. Ha le sue crisi di aggravamento, e diviene necessariamente contagiosa; perché non appena uno Stato aumenta le proprie truppe, gli altri subito aumentano le loro, in modo da ottenere null’altro che la rovina comune. Ogni monarca tiene pronti i propri eserciti (...) e si suol chiamare pace questo stato di tensione di tutti verso tutti» (Esprit des lois, XIII, 17).

 

Oggi si vive con scalpore e sofferenza comprensibile l’età della guerra che non c’è, la “guerra al virus”. Ma è la stessa età delle guerre di Siria, dello Yemen, di Libia, d’Afghanistan, d’Ucraina: tutte guerre vissute senza scandalo da anni e anni, tra centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, epidemie tremende, distruzione incalcolabile e carestie letali. Quel poco di reale giunto a noi dai veri fronti di guerra non è bastato a salvarci dagli equivoci. D’altronde la guerra, quella vera, quasi non si pronuncia neppure, compressa dall’onnipresenza di quelle false. Resta dissimulata nel gergo dell’indistinguibilità teorica e pratica tra pace e guerra, occultata da una lingua schizofrenica che ormai traduce la guerra in “crisi”, “drammi”, “tragedie”. La parola guerra, cancellata dal nostro orizzonte, tolta dal suo contesto, ricompare però oggi ai nostri occhi, dominante ma fuori contesto. La cancellazione della guerra reale si riverbera nell’esaltazione della guerra inesistente. Il discorso prevalente ne eclissa così il significato in quello della malattia, perdendoli entrambi.

 

Rosa Luxemburg pare aver detto che il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose col proprio nome. Potrebbe essere questo un buon monito per l’invocata «rivoluzione di domani»; quando, per gli ingenui, dopo l’emergenza avremo capito molto di quel che prima non capivamo. Sia come sia, nel frattempo potremmo capire che non c’è niente di esaltante, tantomeno d’eroico, nell’evocare la guerra. Può darsi che l’epidemia si riveli peggiore della guerra. Continuando a chiamarla così, domani costruiremo delle molotov coi nostri avanzi.

 

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Immagine: Homs, Siria. Crediti: Fly_and_Dive /Shutterstock.com

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L’attentato di Manchester. La sfida di governare la paura

Nel momento in cui si scrive l’attentato di Manchester è ancora in penombra. Ammesso che su atti del genere possa davvero gettarsi chiara luce, ora nulla è propriamente visibile tranne il sangue versato delle vittime e lo stato traumatico di chi è sopravvissuto. La rivendicazione attribuita al Daesh, ammessa e non concessa la sua attendibilità, non dimostra nulla se non il fatto che questa organizzazione terroristica possiede la possibilità, inconfutabile a priori, d’attribuirsi la capacità di colpire altrove rispetto al territorio nel quale ha tentato d’istituire un preteso «stato islamico». Di certo sappiamo che oggi questo tentativo sembra destinato all’epilogo, a cedere sotto i colpi della campagna militare che ha liberato Mosul e cinge ormai d’assedio la «capitale» Raqqa. Sappiamo anche che chi combatte a Raqqa fronteggia sistematicamente attacchi suicidi come quello di Manchester e, con essi, il suo effetto deliberato e supremo: la paura di morire. Il pericolo fa parte degli attriti della guerra, ha scritto Clausewitz: è necessario possederne una esatta nozione per averne un giusto concetto. Così, oggi, a prescindere dall’attendibilità delle rivendicazioni, Manchester riporta giocoforza a Raqqa. Conduce allo sforzo di confrontarsi con l’amara realtà – il giusto concetto – che riassume il confronto letale con il terrorismo: governare la paura.

Questa frase non è affatto una metafora, oggi. È difatti significativo che, a sedici giorni dal giorno in cui i britannici sceglieranno da chi farsi governare, debbano prima confrontarsi con una sfida moralmente superiore e strategicamente imperativa: governare sé stessi di fronte alla paura, le proprie emozioni, i propri atteggiamenti. È questa, certamente, la principale e imprevista posta politica messa in palio dall’attentato di Manchester per le ormai prossime elezioni britanniche. Una prova suprema di democrazia, se s’intende questa parola come «governo del popolo» senza altri orpelli. Lo è perché a tutti e a ciascuno si riconduce lo sforzo di fronteggiare il pericolo latente del terrorismo col giusto concetto: la sua inevitabile sconfitta. Questa sconfitta si staglia con presumibile evidenza sui fronti di guerra come quello mediorientale, a Raqqa, dove i combattenti appunto si fronteggiano. Laddove il fronte non esiste materialmente, come a Manchester, la sconfitta del nemico assume anzitutto la forma di un concetto – il giusto concetto. Naturalmente, sono tante le sfumature plausibili e le interpretazioni possibili di tale concetto. Ciò detto, preme osservare un fatto politico.

Il terrorismo in Europa s’esprime da tempo con una mortifera litania d’attentati a cadenza irregolare che però, d’un tratto, mostra una regolarità: gli attentati avvengono a ridosso delle elezioni politiche. È stato il caso della Francia, è oggi il caso del Regno Unito nel quale la campagna elettorale è stata temporaneamente sospesa. Così, nell’incertezza generale delle dinamiche reali di un episodio terroristico talmente efferato, emerge tuttavia chiaramente un dato di fatto: nel momento in cui si decide di contare le persone, c’è chi decide d’ucciderle. Questo è il sintomo sicuro di un’aumentata intensità del pericolo in Europa. Chi colpisce l’Europa colpisce oggi, in questo senso, il concetto supremo dell’Europa democratica, il giusto concetto: governare la paura dell’antagonismo umano, sempre latente, con la scelta pacifica e condivisa di chi deve governare. Le esplosioni delle bombe a Manchester hanno, dunque, un potenziale superiore alla loro devastante azione: pretendono d’introdurre nella vita sociale non solo un rischio grave per la vita individuale ma anche una minaccia all’ordinato dispiegarsi delle dinamiche della vita politica democratica.

 

Per l’immagine © Copyright ANSA/EPA

 

/magazine/atlante/geopolitica/La_politica_del_rischio_calcolato_nel_triangolo_USA_Iran_Iraq.html

La politica del rischio calcolato nel triangolo USA-Iran-Iraq

La guerra contro l’Iraq, voluta da George W. Bush nel 2003, indicava nell’Iran la seconda potenza del cosiddetto “asse del male” teorizzato dai repubblicani americani. Giungendo oggi al confronto militare diretto con l’Iran, il presidente Trump e i suoi sodali sono dunque, effettivamente, in perfetta continuità ideologica con quella gotica dottrina più che altro vaneggiante. Ne incarnano, semplicemente, un momento storico ulteriore. L’assassinio di Qasem Soleimani e la rappresaglia iraniana segnano così una nuova fase, poco sorprendente, della lunga guerra d’Iraq. La posta in palio di questa guerra, in ogni fase, è il controllo del governo di quel territorio, annientato nel 2003.

È stata l’invasione dell’Iraq a creare questa posta in palio e generare, nel vuoto che ha prodotto, il lungo travaglio bellico che, negli anni, ha avvantaggiato l’espansione delle forze politiche e militari iraniane verso Occidente, permettendone la proiezione diretta nel confinante Iraq. Oggi la guerra dell’Iraq, quell’errore fatale, si ripresenta nuovamente per gli Stati Uniti e gli alleati come un conto ancora da saldare e non da riscuotere: il problema è come saldarlo. Ad altri spettano, difatti, i saldi positivi e i conti fatti ad Occidente non tornano affatto.

Non tornano per tanti motivi e perché, in queste condizioni, il ritiro statunitense e degli alleati dall’Iraq, propagandato da Trump e i repubblicani, non è un’opzione plausibile, semmai lo sia stata. Il ritiro coinciderebbe, difatti, con il compimento del disegno politico tracciato di converso a Teheran, ossia la fine della presenza di Stati Uniti e alleati in Iraq, ultimo (relativo) ostacolo al dominio locale iraniano. In altre parole, il ritiro americano sarebbe la vittoria iraniana. Per l’Iran, dunque, sopravvivere significa vincere. Questo è il suo disegno politico e coincide, in parallelo, con il logoramento di Stati Uniti e alleati in Iraq. «Il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi», pensava Carl von Clausewitz: a differenza degli Stati Uniti, cronicamente privi di un disegno politico in Iraq fin dall’invasione, e perciò in balia di azioni di guerra «senza scopo», il disegno politico iraniano è chiaro e ne ha guidato le azioni di guerra.

Si tratta, finora, di azioni necessariamente controllate, commisurate alla soverchiante potenza di Stati Uniti e alleati contro la quale nessuno scontro effettivo è possibile. Il trait d’union tanto dell’impegno iraniano in Iraq e altrove, quanto della lunga spirale di azioni e reazioni contro Stati Uniti e alleati, è una politica del rischio calcolato. Una politica assecondata e sostenuta, nella misura del possibile, da potenze maggiori e grandi potenze impegnate a tentare di ridefinire le zone d’influenza locali e gli equilibri mondiali a sfavore di Stati Uniti e alleati – sfruttandone, anzitutto, gli errori madornali.

Con questo calcolo politico l’Iran ha finora dimostrato di poter far fronte alla deterrenza americana, alla politica di «massima pressione» e alle minacce del comandante in capo attuale. Il quale, si sa, si trova in una condizione politica interna precaria e scabrosa. Egli deve difatti fronteggiare, più che la forza iraniana, una formidabile batteria di dispositivi costituzionali tipici della democrazia americana, ma inesistenti tanto a Teheran quanto a Mosca e Pechino: stato di accusa in cui può essere posto un presidente che abbia violato la Costituzione (impeachement), sentenza della Corte suprema sulla correttezza del suo stato finanziario, elezioni politiche presidenziali libere e competitive. Proprio quest’instabile condizione interna del presidente Trump sembra essere una delle concause della sua scelta, altrimenti priva di qualsiasi spessore strategico, di uccidere Solemani, attirando giocoforza la vacua rappresaglia iraniana. Una scelta inutile, stando così le cose, sia sul fronte interno sia sul fronte internazionale. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Priva di un disegno politico, la guerra resta un mezzo senza scopo; ne resta solo la perversità.

 

Crediti immagine: Marcio Jose Bastos Silva / Shutterstock.com

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Perché dobbiamo occuparci della Repubblica Democratica del Congo

Perché occuparsi della Repubblica Democratica del Congo e delle sue guerre quando, per dire, ci si occupa a stento di quelle limitrofe, come la Libia, o più prossime, come quella d’Ucraina? La domanda sarebbe ben posta e non avrebbe risposta univoca: si potrebbe sostenere che è importante occuparsi delle vicende di uno dei Paesi più grandi e popolosi del mondo, il più grande dell’Africa centrale e subsahariana; oppure che la sua centralità in quel continente ne fa giocoforza un soggetto degno d’attenzione; oppure, per essere à la page, che è importante perché la ricca foresta equatoriale compresa sul suo territorio è ormai ampiamente disboscata e a rischio forse più che in Brasile, e che larga parte del “patrimonio mondiale dell’umanità” nella regione dei laghi è gravemente compromesso dal ciclo di violenza che investe il Congo e gli Stati confinanti. Si potrebbe persino sostenere che – dato il notevole impegno finanziario dell’Italia in quello strumento per l’organizzazione della sicurezza collettiva nell’ambito delle Nazioni Unite detto peacekeeping – i recenti episodi di violenza che hanno investito proprio la missione in Congo, la ONUC (Opération des Nations Unies au Congo), sono preoccupanti.

È proprio l’assalto della popolazione locale a quella missione che, nei recenti scontri nel Nord-Est del Paese, costati finora la vita a centinaia di persone, suscita rinnovata preoccupazione insieme a tutto il resto. Una delle principali missioni mondiali di peacekeeping per estensione e costo, operante da circa un ventennio, è stata direttamente implicata nelle violenze che dovrebbe lenire o cercare di lenire producendo sicurezza. Tralasciando le ovvie implicazioni per la stabilità del Paese e il circuito di violenza che opprime la regione, ciò pone seri e rinnovati interrogativi sull’impiego di tale strumento d’intervento e sulla sua funzione. Il fatto è che la funzione del peacekeeping è sempre a rischio di strumentalizzazione da parte delle potenze maggiori: agisce come parafulmine di tensioni laceranti e profonde che le potenze non possono o non vogliono affrontare, scaricandone invece l’onere su questo strumento multilaterale delle Nazioni Unite costato impegno e fatica alla diplomazia internazionale.

Si trascura facilmente, attivandolo, ch’esso è pensato per mantenere la pace – se c’è – e non per farla se non c’è; per sostenere la sicurezza – se c’è – e non per generarla se non c’è. Lo insegnano tutte le missioni fallimentari che ne hanno lacerato l’abito multilaterale e, con esso, un certo prestigio acquisito prima del suo colpevole abuso, del quale la Bosnia è il caso recente più clamoroso proprio nella fallita funzione di proteggere civili che non poteva proteggere in quel contesto di guerra. Il peacekeeping non è un dispositivo di sicurezza qualunque, dispiegabile in ogni condizione. Esso prevede consenso diffuso sul teatro d’intervento, imparzialità mantenuta tra le parti in conflitto e il non impiego della forza coercitiva. Questi elementi sono tutti fondamentali e interdipendenti: si reggono l’un l’altro e cedono tutti assieme. In Congo questi elementi sembrano essere entrati in crisi, riaprendo molti interrogativi sul ruolo assegnato ai circa 18.000 soldati multinazionali. Nell’epicentro delle violenze (Beni) la missione ONUC è stata perfino costretta ad un ripiegamento parziale per sottrarsi alla violenza da parte della popolazione che dovrebbe invece sostenere.

A prescindere dai fatti di cronaca e dalle cause, ciò implica la doverosa considerazione sul grado di tenuta dei pilastri della sua funzione stabilizzatrice, gli elementi fondamentali e interdipendenti. A ben vedere, però, sembra essere proprio il compimento di quella funzione a cedere anzitutto di fronte alle contraddizioni del mandato assegnato all’ONUC dal Consiglio di sicurezza. Esso prevede tra l’altro e tutti insieme – per una missione di peacekeeping, di mantenimento della pace – l’uso della forza per «neutralizzare gruppi armati», la «protezione dei civili» e il compimento di missioni offensive: non a caso il Consiglio di sicurezza ha stabilito tale mandato «agendo sotto il Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite» (S/RES/2348 (2017). Ma quel capitolo, si badi bene, non riguarda la «soluzione pacifica delle controversie» (Capitolo VI) e neppure qualcosa che si approssima: riguarda quel che sta oltre la pace e quindi oltre il peacekeeping.

È proprio questo tipo di situazione contraddittoria che in passato ha contribuito a generare la drammatica e farsesca “crisi del peacekeeping”: drammatica perché è costata cara a migliaia di persone, farsesca perché non è serio attribuire ad uno strumento delle Nazioni Unite il proprio fallimento: al netto dei casi specifici è il suo impiego distorto e sbagliato da parte del Consiglio di sicurezza a dover essere considerato, la mistificazione delle sue ragioni e il tradimento dei suoi fondamentali, oltre all’insostenibile divario tra i mezzi impiegati e i fini pretesi. È almeno questo che potrebbe interessarci del Congo: l’ennesima torsione prodotta su un dispositivo di sicurezza collettiva limitato e modesto che solo grazie al mantenimento dei suoi elementi fondamentali ha prodotto i propri successi – li si giudichi preziosi o meno. Attorno a questo concetto di peacekeeping e i suoi elementi fondamentali – l’unico realizzabile – aveva lavorato il grande Dag Hammarskjöld. Morì proprio in Congo, tentando la pace.

 

Immagine: Goma, Repubblica Democratica del Congo (25 ottobre 2019). Crediti: Ben Houdijk / Shutterstock.com

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Il gioco politico della Brexit e la forza delle istituzioni democratiche

Dopo il voto nel Parlamento di Westminster di martedì scorso, il Regno Unito sarà presto obbligato ad indicare alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, un candidato per il posto di Commissario dell’Unione Europea. Sarebbe obbligato, occorre dire. Perché, in realtà, il primo ministro Boris Johnson ha già dichiarato che non ne ha la minima intenzione. Il che è comprensibile: quella nomina sancirebbe platealmente che, di fatto, dopo quasi quattro anni di calvario politico autodistruttivo per lasciare l’Unione Europea, il Regno Unito non si è mosso dal punto di partenza, se non di poco e male. S’aggiunga che, in ogni caso, l’eventuale accordo finale tra Unione Europea e Regno Unito dovrebbe essere ratificato da tutti gli Stati membri, compresi i loro Parlamenti. Questo ipotetico percorso non solo prefigura perciò un tempo lungo e penoso, bensì gronda incertezza totale. Il fatto è che se anche uno solo non lo farà, se non ratificherà l’accordo finale, saremo daccapo.    

È chiaro ormai da tempo: la cosiddetta ‘Brexit’ ha assunto i contorni di un estenuante Gioco dell’oca, costellato di soste e retrocessioni. Il fallimentare gioco d’azzardo di Cameron diede avvio al primo, sconsiderato, lancio di dadi nel vuoto politico. I protagonisti d’Oltremanica credevano troppo, come spesso accade, alla propria intelligenza. Ma il Gioco dell’oca è un gioco della sorte, non d’intelligenza. Per questo il gioco politico della Brexit, sfortunatissimo, ha portato i conservatori inglesi dove tutte le caselle politiche hanno imposto finora soste e retrocessioni. La fortuna arriverà, dice qualcuno e ciò è ben possibile. Ma ormai non si tratta di considerare la fortuna perché, in realtà, la politica non è solo un gioco della sorte, ma anche d’intelligenza. È questo che i più spregiudicati tra i giocatori inglesi non hanno minimante inteso – o non hanno voluto intendere coi propri inconsistenti calcoli di bassa tattica personale.

Hanno trascurato il fatto che le istituzioni liberaldemocratiche europee – comprese quelle degli Stati membri, incluso il Regno Unito – non sono esempi decrepiti di un passato decadente, ma realtà effettive di un presente persistente. Forse cedendo troppa intelligenza alla loro stessa retorica, i denigratori delle istituzioni europee hanno trascurato un fatto generale oggi meglio compreso: la più eclatante evidenza del processo politico detto ‘Brexit’ è di aver mostrato proprio la forza di queste istituzioni, a partire dal loro fulcro: il Parlamento. Non a caso è stato finora il Parlamento britannico il luogo cruciale nel quale si è arrestata la spinta verso la Brexit. Questo, si badi bene, non è un bene o un male: è un fatto. Proprio per questo, logicamente, il primo ministro Boris Johnson ha invocato e ottenuto nuove elezioni: per cambiare la composizione del Parlamento, constatata la sua insuperabile opposizione; ed è esattamente questo che capì, prima di lui, Theresa May, convocando a suo tempo, di fronte all’insuperabile attrito parlamentare, ‘nuove’ elezioni poi non vinte. Ma la storia, naturalmente, in politica non insegna.     

Il punto è che il calvario politico della Brexit – del quale l’ennesima proroga dovuta alla resistenza parlamentare sembra tutto tranne che un passo verso l’uscita – insegna alcune cose sullo stato attuale della democrazia liberale europea e ne esemplifica altre. Anzitutto insegna che essa, al contrario di ciò che affermano illustri capi di Stato, non è affatto finita perché finite non sono le sue istituzioni cardinali. Le quali, a ben vedere, oggi non sono solo nazionali, bensì sovranazionali, cioè europee, quindi più sviluppate e più coriacee per chi ne vuol tagliare i legamenti con colpi netti.

Tali istituzioni non sono finite perché svolgono funzioni effettive ed efficaci. Di ciò si sono accorti coloro i quali hanno reclamato, in un modo o nell’altro, pieni poteri nell’Unione Europea, fallendo miseramente lo scopo. Le istituzioni delle liberaldemocrazie europee e della loro Unione sono, al tempo stesso, vincoli e opportunità per l’esercizio del potere politico. Vincoli perché imbrigliano il potere; opportunità perché, moderandolo, lo rendono più ragionevole. Se insegna qualcosa, la Brexit insegna che la democrazia rappresentativa, lungi dall’essere un arnese antipopolare, realizza semmai un processo politico nel quale non conta solo la decisione bensì la comprensione. Conta l’intendere compiutamente ciò che i decisori ultimi – i governanti – spesso vorrebbero occultare: costi e benefici di tali decisioni e dei loro presunti esiti per le persone, i governati. Insegna che l’equilibrio dei poteri non è uno strumento d’impaccio per le scelte presunte irreversibili da chi, ebbro di ego, le ritiene tali. Sono un metodo di bilanciamento delle ragioni che costringe a pensare prima di agire o, perlomeno, a ripensare dopo che si è agito senza pensare. Per questo il Gioco dell’oca della Brexit continuerà ancora, insegnandoci tante cose sulle nostre istituzioni. Magari che, se davvero esiste qualcosa d’irreversibile nel contesto politico europeo, forse lo sono proprio tali istituzioni.    

 

Immagine: Il Big Ben (Elizabeth Tower) si trova all’estremità nord del Palazzo di Westminster, il luogo d’incontro della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord, le due Camere del Parlamento del Regno Unito, Londra, Regno Unito (19 aprile 2017). Crediti: Drop of Light / Shutterstock.com

 

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Gli attacchi all’Arabia Saudita, tra astuzia e contesto

Nel contesto della guerra, diceva Carl von Clausewitz, l’astuzia è un gioco di prestigio per mezzo di azioni, come il sofisma è un’illusione in fatto di idee (Vom Kriege, X). Gli attacchi condotti contro l’Arabia Saudita sono stati un astuto gioco di prestigio per mezzo di azioni in un contesto di guerra. Per discuterne possiamo considerare proprio questi tre aspetti: astuzia, abilità, contesto.

L’astuzia è stata quella di mostrare con la violenza, ma senza vittime, che l’Arabia Saudita è incapace di difendere il proprio territorio da attacchi a distanza. Colpire con tale precisione e controllo il possessore di uno dei bilanci militari più grandi del mondo, alleato della principale potenza mondiale, afferma un concetto d’offesa e difesa esemplare. Traduce in pratica la capacità d’infliggere danni crescenti e insopportabili, grazie a una creatività strategica imprevista e – appunto – notevole astuzia. In caso di una rappresaglia contro l’Iran, tale capacità – è stato detto da fonti iraniane – «non sarebbe limitata alla fonte» diretta della rappresaglia. Essa colpirebbe a sorpresa tra i vari obiettivi americani e alleati nella zona del Golfo, almeno entro «duemila chilometri». L’astuzia, associata alla potenza, ha generato una condizione di deterrenza chiara e concreta che bilancia capacità militari sulla carta imparagonabili. Non solo: tale condizione contribuisce a divaricare le opzioni diplomatico-strategiche degli alleati dell’Arabia Saudita che, possibili bersagli di attacchi analoghi, mediteranno sui costi crescenti del proprio allineamento, come già hanno fatto gli Emirati con il loro disimpegno nello Yemen e un atteggiamento assai cauto proprio verso l’Iran.  

Il gioco di prestigio è stato quello riuscito a chi ha recato il maggior danno della storia alla produzione petrolifera saudita e mondiale, penetrando in profondità lo spazio saudita, ma celando finora la propria identità e le sue modalità. È l’incertezza, vera o voluta, su chi e come abbia portato attacchi così devastanti materialmente e simbolicamente. Essa è certamente destinata a scemare, o persino scomparire, quando, tra non molto, i calcoli balistici non di parte indicheranno per approssimazione i responsabili dell’attacco contro l’Arabia Saudita. Sia come sia, ciò non invalida affatto il successo di questo gioco di prestigio bellico. Il quale, come ogni gioco di prestigio, trova la sua ragion d’essere non nella durata del suo effetto, ma nell’istante del suo accadere, ciò che crea incertezza e disorientamento in chi vi assiste e talvolta, come stavolta, una sorta di panico paralizzante.

Il contesto di guerra in cui gli attacchi contro l’Arabia Saudita s’inquadrano – terzo punto che merita attenzione – non è quello della guerra virtuale regolarmente minacciata dalla cosiddetta crisi tra Iran e Stati Uniti – uno strano concetto di crisi che dura dal 1979, ossia da quarant’anni. È invece quello di una guerra vera, quella dello Yemen, che infuria da quattro anni tra arabi, persiani e rispettivi alleati, yemeniti e non, generando un’ecatombe quotidiana sui corpi, le menti e le cose che hanno la sfortuna di trovarsi nello Yemen. L’attacco contro ARAMCO (Arabian American Oil Company) è stato il colpo più violento subito dall’Arabia Saudita da quando combatte la guerra dello Yemen. Ma neanche un danno storicamente ineguagliato alle infrastrutture petrolifere saudite e mondiali, un colpo di scena così clamoroso, ha riportato l’attenzione sulla guerra dello Yemen. Tantomeno della cosiddetta “opinione pubblica” che non se ne preoccupa particolarmente, costi quel che costi: persino il pieno di benzina, l’unico problema che sembra degno d’attenzione.

Cosicché a taluni spetterebbe il compito di ricordare, pacatamente, che Arabia Saudita e alleati sono in guerra su un fronte bellico quadriennale senza esclusione di colpi, sanguinoso e letale. A quei colpi essi partecipano copiosamente e senz’indugi, contribuendo, insieme agli antagonisti, a ramificarne gli effetti. Tutti gli sforzi e le speranze di mediazione nello Yemen sono stati finora frustrati e l’attacco all’Arabia Saudita non sarà certo un viatico di pace. La guerra yemenita è un orribile disastro umano con milioni di profughi, ammalati, affamati e migliaia di morti. Proprio le Nazioni Unite ritengono che i combattenti locali di «Ansar Allah», cosiddetti Houthi, sostenuti dall’Iran, abbiano ormai sviluppato capacità militari in grado di colpire a maggiori distanze di quelle raggiunte finora, forse fino a 1.500 km: Riyad, Abu Dhabi o Dubai. Sarebbe perciò utile abbandonare sofismi e illusioni su quella guerra e considerare il suo lacerante effetto sul conflitto politico che dilania il Golfo, del quale lo Yemen rappresenta il fronte principale. Sarebbe intelligente capire che – in tale contesto – non esistono soluzioni militari durevoli al posto di una diplomazia ragionevole, prove di forza finali al posto di accomodamenti parziali. Occorrerebbe soprattutto ricordare che il nemico, chiunque esso sia, non è stupido: il nemico è intelligente e persino sorprendente; ciò vale per tutti, sempre.

 

Crediti immagine: Arnut topralai / Shutterstock.com

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La spirale della crisi del Golfo

Nella crisi del Golfo, provocata dal confronto diretto tra Stati Uniti e Iran, il profilo militare sta assumendo un contorno sempre più definito e sempre più pressante. È una tensione da tempo latente, acuita dalla decisione solitaria del presidente Trump di ripudiare il noto accordo nucleare e imporre robuste sanzioni all’Iran. Il ritorno delle truppe da combattimento americane in Arabia Saudita è l’immagine più plastica del tono scelto per questo confronto. Incarna uno schieramento di forze armate che aggiunge ulteriore profondità alla crisi in corso. Gli atti ostili si ripetono ormai su più fronti e a tratti hanno già assunto la tipica dinamica a spirale, per cui ad azione corrisponde reazione, ad un attacco la rappresaglia. Dalle navi iraniane bloccate in Brasile, a quelle assaltate a Gibilterra e quindi nel Golfo, ai reciproci abbattimenti di droni, il fronte di confronto si dilata e le potenze direttamente coinvolte aumentano.

Il caso del Regno Unito è esemplare, passato repentinamente dal ruolo di sostenitore dell’accordo nucleare a quello di attaccante a Gibilterra e poi, a sua volta, attaccato nel Golfo. È una condotta, tra le altre, che disorienta e pone domande. Come si spiega tale condotta, appunto destinata a suscitare una scontata rappresaglia? Perché una potenza che fonda la propria esistenza sulla libertà dei mari ha contribuito a creare le condizioni destinate a porre quella libertà in pericolo? Come potrebbe la flotta del Regno Unito proteggere tutte le navi, in teoria ora a rischio sistematico? Come va intesa la richiesta britannica di costituire oggi, a qualche mese dallo scadere di Brexit, una forza comune europea per garantire la sicurezza marittima? Non si danno risposte se non le si conosce, ma, osservando da vari angoli questo rebus della crisi, viene a mente il tipico caso d’intrappolamento che si può produrre nelle alleanze. Si verifica quando un alleato rischia di essere coinvolto, anche contro la sua volontà, in una guerra provocata dall’altro con le proprie decisioni. È allora che si può parlare davvero di alleati ma rivali; quando, cioè, le decisioni particolari determinano una condizione d’insicurezza collettiva dalla quale, in realtà, dovrebbero invece proteggere.

La politica di «massima pressione» decisa in solitudine dal governo americano nei confronti dell’Iran ha molti difetti. Allo stato attuale, uno di questi è l’ambiguità. Tale, latente, ambiguità è riassumibile nella domanda: qual è il punto massimo di pressione prima dell’esplosione? In fisica lo si può sapere in anticipo, ma in politica lo si capisce solo dopo. Questo è un problema, perlomeno per chi si preoccupa degli effetti possibili di tale, eventuale, pressione. Si può ritenere irresponsabile speculare sulla guerra e sulla pace senza considerare questo rischio e, soprattutto, trascurando il rischio dei propri calcoli, in politica quasi sempre smentiti dai fatti.

Questa crisi del Golfo è altamente imponderabile per vari motivi, ma anche perché non è chiaro, almeno a chi scrive, se i suoi iniziatori abbiano del tutto considerato, e tuttora considerino, la capitale osservazione di Clausewitz: il nemico è intelligente. Nessuno, in realtà, sembra avere un limpido disegno strategico, per quanto approssimativo, e l’eccesso di sicurezza gioca sempre brutti scherzi. Non è chiaro neppure se sia consolidato, nell’amministrazione americana, un ragionevole bilancio della sequenza degli interventi militari compiuti nell’ultimo quindicennio in Medio Oriente. Se così fosse, il calcolo degli errori compiuti sarebbe complicato.

Resta il fatto che tra i principali protagonisti le linee politiche sembrano divaricarsi invece di convergere; se si sa, però, che le parallele non possono incontrarsi, tanto meno le divergenti. Intanto nel Golfo gli eventi s’accavallano, in modo più o meno controllato, passando da punto in punto sull’immaginaria scala verso l’ipotetica «massima» pressione. La quale pressione, però, ora aumenta in generale per tutti anche a causa delle contropressioni e dell’inerzia della crisi. Ciò andrebbe considerato.

In fondo un problema essenziale della crisi del Golfo è nella sua natura bicefala. Non si tratta solo del punto di rottura della tormentata vicenda dell’accordo nucleare, a ben vedere un pretesto come un altro. La crisi catalizza, piuttosto, i sensazionali problemi di almeno altre due guerre logoranti nelle quali, su fronti contrapposti, si combattono Iran e Stati Uniti e alcuni dei loro alleati: la guerra dello Yemen e la guerra siriana. Su quale scacchiere, dunque, si può risolvere la crisi del Golfo? È una crisi che, a livello regionale, certifica la disputa sulla ridefinizione delle sfere d’influenza e il problema dei convulsi riallineamenti strategici in atto in Medio Oriente, in realtà affatto lineari. È una crisi che finora smentisce l’idea che tali enormi questioni si possano risolvere con mere imprese belliche, con le guerre devastanti in corso da anni su vari fronti che nulla hanno risolto. La crisi ricorda invece, più che altro, un fatto concreto: se la politica non soffoca la guerra, rischia di esserne soffocata. Ora, se la portata del problema è complessa, occorre risolverne la complessità cominciando a districarne le parti e non aumentandone l’intreccio. Il «tutto e subito» è un atteggiamento infantile e, in politica, pericoloso. Se oggi la questione nucleare può apparire solo un pretesto per tentare di regolare, una volta per tutte, conti che non tornano più, o non tornano ancora, allora ciò non rassicura ma preoccupa; perché, diceva Thomas Hobbes, senza pretesto non accade nessuna guerra.   

 

Immagine: Golfo Persico, Stretto di Hormuz (2019). Crediti: owenr osemarie / Shutterstock.com

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Il terrorismo, la Brexit e le elezioni del “frattempo”

Il Regno Unito si ritrova, a due giorni dal voto per le elezioni generali, a confrontarsi con quell’imperativo morale e strategico del quale s’era già intuita la portata dopo l’attentato di Manchester: governare la paura. Per la seconda volta in pochissimi giorni la campagna elettorale è stata segnata da un attentato terroristico dal bilancio sanguinoso. Ancora una volta, e ancor più a ridosso dell’imminente giornata di votazioni, s’aggrovigliano due fatti: gli esiti di un atto mortale di violenza e i prodromi di un atto vitale di politica. Terrorismo ed elezioni oggi coesistono. Ma in questa coesistenza, ne siamo certi, è il primo che esaurisce la propria portata nel presente, nel momento in cui si è svolto, nell’attimo d’un lugubre gesto scellerato. La contesa elettorale, invece, continua verso le elezioni, il momento destinato a stabilire chi dovrà governare il Regno Unito nel futuro.

In effetti, osservato in questo contesto, il terrorismo sembra aver già prodotto un esito bensì paradossale: più viene usato, meno è efficace. Non solo le elezioni politiche saranno regolarmente celebrate ma gli attentati stessi sono stati riassorbiti politicamente all’interno del processo elettorale. Sono diventati, in altre parole, motivo d’argomentazione democratica su come affrontare anche questo problema, il problema della violenza terrorista. Come governare il fenomeno del terrorismo è diventato difatti uno dei temi di confronto tra Conservatori e Laburisti. I primi invocano oggi un concetto tradizionale, quello per cui è a destra che per antonomasia si colloca chi è in grado di garantire maggiore sicurezza ai cittadini. I secondi, invece, richiamano un fatto attuale, ossia che la responsabilità di garantire la sicurezza dei cittadini è di chi governa e, nel Regno Unito, da ormai un decennio governano i Conservatori. Così, la propulsione politica della retorica conservatrice sembra assai indebolita dalla realtà attuale.

Naturalmente, la sicurezza è stata e sarà il tema centrale di questa campagna elettorale che giunge alla tribolata fine. Si tratta, ognun lo vede, di un discorso assai più ampio del terrorismo. Esso riguarda anche, se non soprattutto, ciò che chiamiamo sicurezza sociale, o “welfare”. In quest’ambito la campagna elettorale di Theresa May, segnata da affermazioni impopolari e contraddittorie, sembra aver sensibilmente danneggiato le posizioni dei Conservatori (dati ancora oggi per vincenti). Viceversa, sfruttando abilmente gli spazi concessigli, Jeremy Corbyn ha potuto valorizzare la propria, presunta, credibilità di difensore dei più deboli, una formula sufficientemente vaga per attirare diffuso consenso eppure verosimile per chi è legittimato da una storia di militanza cristallina.

L’ultimo elemento di riflessione, prima del verdetto delle urne, riguarda proprio la questione politica che è all’origine della scelta di celebrare le prossime elezioni, ossia la Brexit. Rispetto al negoziato tra Regno Unito e Unione Europea, e al futuro britannico fuori dall’Unione, Corbyn ha saputo tracciare un percorso realistico e consonante con quello indicato da Bruxelles, esprimendo un certo grado di sicurezza su come governare il futuro del Regno Unito fuori dall’Unione. L’incertezza insita nello slogan del primo ministro May – «meglio nessun accordo che qualunque accordo» – è invece un oggettivo generatore d’insicurezza perché lascia indeterminato il futuro del Regno Unito in Europa e non risponde chiaramente all’interrogativo politico per eccellenza: che fare? Esso mostra, invece, la tipica posizione di chi, temendo di non poter cogliere i propri obiettivi, o sapendo di non poterli più raggiungere, mostra un senso di superiorità e forza tuttavia ambiguo: “mette le mani avanti”. Naturalmente, ciò potrebbe essere un ottimo viatico per chi non si pone troppe domande sul futuro della politica estera britannica – ossia la maggioranza degli elettori che hanno scelto Brexit. Tutto sta nel sapere se costoro credono ancora in ciò che hanno fatto o se, nel frattempo, si sono posti alcune domande.

In questo senso, e in molti altri, le elezioni di giovedì sono elezioni del “frattempo”. In effetti, dal giorno in cui queste elezioni sono state convocate la storia si è mossa troppo in fretta rispetto ai calcoli razionalistici di Theresa May. Talché la primo ministro è parsa sempre più insicura di sé stessa e delle proprie posizioni. Ha generato così un’ambigua sensazione di declino relativo sfruttato dagli sfidanti e, prima di tutti, dal capo del Partito laburista, che oggi pare in grado d’impedire la vittoria tory e persino d’ambire alla propria. Di certo, in una campagna elettorale marchiata a sangue dal problema della sicurezza, i Conservatori hanno perso essi stessi la propria sicurezza. Oggi non è per nulla scontato un risultato che garantisca loro l’anelata maggioranza assoluta, il loro scopo elettorale. In un momento democratico intossicato dalla violenza, l’imprevedibilità tipica della politica ha raggiunto lo zenit e nessuna previsione è davvero attendibile. Quel che si sa è che la storia è di nuovo in movimento.

 

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Nella repressione dei Rohingya la relazione tra politica e morale

Nel caso della persecuzione politica della minoranza Rohingya in Myanmar e del suo esodo in Bangladesh, l’attualità è portatrice di fatti nuovi, ma non di novità. Il ministro degli Affari esteri del Bangladesh Shahriar Alam ha comunicato al segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres la propria delusione per l’inerzia da parte di Myanmar nel procedere al rimpatrio dei Rohingya rifugiatisi in Bangladesh per sfuggire alla letale repressione che da lungo tempo subiscono. L’accordo fra i due Stati, siglato due anni fa, è ancora lettera morta e Alam ha informato Guterres della volontà di presentare la questione della responsabilità del Myanmar di fronte alla Corte internazionale. D’altra parte, la diplomazia mondiale sembra sostanzialmente inerte di fronte a questo dramma politico – a partire dall’ASEAN. Perché, dunque, tale questione dovrebbe assumere valore ai nostri occhi? Tra i tanti motivi, vale la pena discuterne uno.

Proteggere le minoranze dalla possibile tirannide della maggioranza e, soprattutto, dalla sua potenziale violenza è un principio cardine di ogni sistema liberal-democratico. Il fatto che ciò avvenga in pochi Stati al mondo – compreso il nostro – dovrebbe permetterci di capire il valore di questi sistemi politici e sociali, oltreché i limiti, sostenendone il rafforzamento istituzionale invece che l’indebolimento. Ma ognuno trae dalla politica internazionale le lezioni che può e vuole trarre. ‘Il volto del terrore buddista’ fu il titolo del Time Magazine quando decise di dedicare la propria copertina a U Wirathu, un capo ‘spirituale’ del movimento nazionalista buddista in Myanmar. Alludeva così al ruolo di questa figura reputata cruciale nel contesto di politicizzazione criminale della maggioranza Bamar contro i Rohingya.

Quando Gerhard Ritter scrisse Il volto demoniaco del potere (1948), non si limitò invece al confronto con certi calibri maggiori della storia del pensiero politico europeo. Volle anche concentrarsi su una relazione tormentata e imperitura che travalica secoli e generazioni, quella tra politica e morale, tra successo e giustizia. Chi oggi scegliesse di posare il proprio sguardo sulla spietata repressione dei Rohingya in Myanmar, non potrebbe fare a meno di scorgere tra i protagonisti di quegli eventi il viso di Aung San Suu Kyi, consigliere di Stato e ministro per gli Affari esteri: scorgerebbe dunque, il nostro osservatore, un volto demoniaco?

Si sa che la repressione della minoranza musulmana in Myanmar ha colpito, nello Stato del Rakhine, circa un milione di persone. Perpetrata in varie ondate, con punte di violenza spietata e forse genocida, questa vicenda interroga da almeno sette anni quella parte di mondo – il nostro – che premiò con il Nobel per la Pace proprio questa donna, oggi ai vertici formali del potere in Myanmar. Giunta al successo politico dopo anni di lotte per i diritti, ella incarna oggi tutta la spietata ambiguità dei fatti del potere. Personifica il disorientamento collettivo intorno al concetto di giustizia e umanità, tanto celebrato in teoria quanto privato di sostanza nella pratica; riassume lo scarto incommensurabile tra ciò che si può essere in condizione di debolezza – paladini dei diritti – e ciò che si può diventare in posizioni di forza, indifferenti ai diritti calpestati. Esemplifica infine, compiutamente, il tragico rovesciamento dei principi morali più alti a favore degli istinti politici più bassi.

Oggi colpisce che la celebre figura politica di Aung San Suu Kyi mantenga un ostinato silenzio sul delirio d’odio scatenato dall’apologia della violenza esaltata dal nazionalismo buddista nei confronti dei Rohingya. Il fatto che quel nazionalismo violento sia riconducibile, dalle azioni di chi lo impugna, ad una tradizione culturale e religiosa celebrata dalla vulgata occidentale come santuario di saggezza e mansuetudine, aggiunge depressione allo sconforto. Stretti tra l’incudine del potere militare in Birmania e il martello dell’isolamento internazionale, i Rohingya sopravissuti agli eccidi perpetrati nei loro confronti domandano giustizia per sé e per gli altri. Almeno questa esigenza di giustizia meriterebbe, con massima urgenza, una porzione dell’attenzione rivolta, negli anni, alla vicenda di Aung San Suu Kyi. Se il volto del potere può sembrare demoniaco, magari mascherando persino i tratti più angelici, di certo la politica è sfigurata dall’indifferenza alla comune umanità e ai principi basilari che reggono l’umana coesistenza.

 

Immagine: Bambini musulmani Rohingya, passati dal Myanmar al Bangladesh, nel campo di Balukhali, Cox’s Bazar, Bangladesh (26 settembre 2017). Crediti: Sk Hasan Ali / Shutterstock.com

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Libia, tra princìpi e condizioni della realtà

Tre anni fa, trattando la questione della guerra in Libia, scrivemmo che «la ragione principale della guerra anglo-francese contro la Libia nel 2011 è la stessa che guida ancora oggi la politica di queste due potenze come altre potenze esterne: estendere la propria sfera d’influenza in Libia». Da allora un fatto è sempre più evidente: sono proprio «altre potenze esterne» a definire con più determinazione la rotta di collisione dei divergenti interessi nazionali che oggi affondano le prospettive di pace. Si complica perciò un problema fondamentale, ossia che per ottenere una pace stabile occorre giungere a un compromesso politico tra le potenze esterne sulle proprie sfere d’influenza, senza produrre la partizione del Paese. L’alternativa, stante lo stallo sul teatro bellico, è una guerra lunga e sanguinosa. Intanto, in Libia, la gente scappa, muore al fronte o per strada e i suoi effetti si propagano in Europa. Cui prodest? A chi giova tutto ciò? La risposta a questa domanda non è possibile conoscerla mentre si combatte e si muore. Potrebbe però essere rivolta a coloro che, otto anni fa, ritennero sensato alimentare col proprio intervento militare l’inizio della guerra attuale o, perlomeno, decisero che la propria responsabilità politica non stava nella ragionevole ponderazione delle conseguenze delle proprie azioni bensì nell’astratta «responsabilità di proteggere». Proteggere chi, ci si potrebbe domandare oggi. «La Libia è stata sconvolta dalla violenza e dall’instabilità politica da quando Muammar Gheddafi è stato deposto e ucciso nel 2011», ha scritto la BBC con sintesi esemplare.

Le conseguenze politiche e diplomatiche dell’intervento occidentale del 2011 restano, inutile sottolinearlo, l’unico criterio politico ragionevole sulla base del quale misurare il suo successo e le ragioni di chi lo ha voluto, deciso e sostenuto. L’esito si vedrà alla fine della guerra. Intanto pare evidente che l’obiettivo «umanitario», ossia la «responsabilità di proteggere», ha costituito solo il contrappunto, o la maschera, dell’obiettivo non dichiarabile del cambiamento di regime in Libia, come fu in Iraq e altrove. Non conta, in questa sede, se sia stato «giusto» o «ingiusto». Conta che quell’intervento è stato un moltiplicatore delle divisioni interne della società libica, un fattore di distruzione e non di protezione. Non a caso le «altre potenze esterne» che sostennero la «responsabilità di proteggere» – potenze «deboli», ossia incapaci d’intervenire autonomamente in Libia – sono le stesse che oggi contribuiscono ad alimentare la guerra, sostenendo i propri alleati sui teatri di battaglia.

Nel 2011 convergevano due gamme d’interessi esterni alla Libia tra potenze «deboli» e «forti»: proiettare la propria potenza fino al Mediterraneo richiedeva per i «deboli» la disintegrazione dello Stato libico, tanto quanto lo richiedeva ai «forti» per modificare le sfere d’influenza. La tribolata adozione della Risoluzione 1973 da parte del Consiglio di sicurezza, abilmente realizzata sotto al mantra della «responsabilità di proteggere», permise che ciò avvenisse in un quadro di legalità internazionale. Ma, si sa, l’efficacia di un mantra non dipende dalla partecipazione interiore del soggetto che la pronuncia; non è un vero valore perché il suo valore è solo strumentale. Ciò contribuisce a spiegare l’imbarazzo diplomatico attuale – per usare un eufemismo. Di fronte allo svelamento del mantra, della sua perversa efficacia strumentale, questo imbarazzo ripropone, aggravata, la domanda: cui prodest?

La richiesta formale di un intervento militare occidentale da parte della Lega Araba, ossia di un consesso dominato da governi dispotici impegnati nella sistematica repressione anche letale degli oppositori interni, apparve già grottesca nel 2011. Oggi sembra beffarda, se si considera lo scenario di una guerra nel quale il fronte delle potenze interventiste è lacerato anzitutto dalle conseguenze delle proprie azioni. Se la scelta dell’intervento fu dettata dal timore che la rivolta contro Gheddafi potesse portare allo scoppio di una guerra civile endemica, allora va considerato che quella scelta non solo non ha ottenuto il proprio scopo ma, al contrario, ha aumentato l’insicurezza collettiva dell’Europa mediterranea oltre che della Libia. Così la pomposa «presa in carico dell’Occidente della responsabilità di proteggere» sembra oggi, ancor più di ieri, il trionfo dell’irresponsabilità politica o, se si preferisce, l’elusione deliberata dei durissimi vincoli di responsabilità che la politica internazionale impone. In Libia non ricorrevano affatto le condizioni politiche per far valere princìpi probabilmente giusti in astratto, che forse tutti riteniamo fondamentali e persino sacrosanti, ma che riguardano l’etica della convinzione, non delle conseguenze. Solo quest’ultima conta infine nell’arte di governo e una politica che non coniuga i princìpi con le condizioni della realtà è una politica irresponsabile. Nel 2011 non si erano verificate le condizioni politiche che consentivano un intervento e il suo compiersi ha di fatto impedito interventi diversi e forse più efficaci. Talché, osservati perfino nella migliore prospettiva, i governi interventisti si sono inseguiti in una paradossale e irragionevole rincorsa dei forti al carro dei deboli. I quali, oggi, sono forse meno deboli, ma non abbastanza forti per decidere le sorti della guerra e portare la pace. Se è così, occorre allora considerare che la prudenza non è un generico invito alla moderazione bensì un preciso monito alla responsabilità politica. A nove anni dall’abbattimento di un regime dispotico e patrimonialistico, la Libia non si è trasformata in uno Stato democratico e in pace: è un tributo di sangue riscosso dalla storia per le scelte di coloro che consumano l’ordine politico, lasciando il conto da pagare alle vite degli altri.

 

Immagine: Ribelli libici si dirigono verso una linea di battaglia dove combatteranno l’esercito del colonnello Muammar Gheddafi. Ajdabiya, Libia (7 aprile 2011). Crediti: Rosen Ivanov Iliev / Shutterstock.com

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Il monito della sentenza Karadžić all’Europa

Esattamente tre anni fa, inaugurando uno studentato a Pale, Milorad Dodik, presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, si espresse con parole esplicite: «Dedichiamo questo posto all’uomo che indiscutibilmente ha posto le fondamenta della Republika Srpska: Radovan Karadžić, il primo presidente di questa repubblica». Le fondamenta di quell’entità politica sono dunque, secondo la Corte internazionale che ha giudicato Karadžić, condannandolo all’ergastolo, il genocidio, i crimini di guerra e contro l’umanità. Se è così, ciò contribuisce a chiarire, una volta di più, il senso profondo dell’affermazione di Kofi Annan quando, da segretario generale delle Nazioni Unite, richiese un’indagine politica sulla guerra di Bosnia e concluse, proprio a proposito della caduta di Srebrenica che «la Bosnia fu tanto una causa morale quanto un conflitto militare». «Il problema che reclamava una soluzione politico/militare – concluse Annan – fu che uno Stato membro delle Nazioni Unite, lasciato praticamente indifeso a causa di un embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite stesse, fu dilaniato da forze impegnate nella sua distruzione». Distruzione fisica e politica, evidentemente.

A vent’anni da quelle parole il conflitto militare è sopito. Non lo sono, invece, i dilemmi morali ai quali Annan si riferiva implicitamente. Dopo la sentenza della Corte essi si ripropongono semmai irrisolti nel nostro presente, laddove il passato si riverbera sul futuro dell’Europa ogni volta ch’essa si pone di fronte a se stessa nello specchio bosniaco. Ne esce, ancora oggi, un’immagine mortifera, la stessa evocata da Enrico Letta a Trento il 26 giugno 2013, in qualità di presidente del Consiglio: «L’Europa è morta a Sarajevo», disse con senso di realtà lasciando un monito per l’avvenire. Questo giudizio sembra richiamare proprio la causa morale persa dall’Europa rispetto al destino di una sua parte integrale. L’Europa, si sa, fu parte in causa di quell’evento cruciale ed è per questo che ne uscì sfigurata: perse la sua prima e più grave causa morale. Oggi una sentenza legale riporta alla luce l’intera questione morale bosniaca, riproponendone l’enormità politica. Non tanto, o non solo, rispetto alla Bosnia, bensì rispetto all’Europa. Sono dilemmi ben noti e irrisolti: come fu possibile, a fine Novecento, il protrarsi in Europa di una guerra divenuta genocida e sterminatrice, qui indescrivibile nei suoi dettagli, combattuta su una porzione esiziale del suo territorio senza alcuna concreta opposizione “europea” e semmai il contrario?

È stato scritto che la funzione latente della caduta di Srebrenica, osservata dal punto di vista di coloro i quali pianificarono e compirono quelle atrocità, tra cui lo psichiatra Karadžić, fu di mostrare che l’integrità morale dei leader europei non era diversa dalla loro. In questo senso il dilemma morale del passato ripropone un problema morale del presente, perlomeno per chi s’interroghi su come costruire il futuro di un’Europa diversa da quella morta in Bosnia, seppellita da un nazionalismo estremo divenuto sanguinario. Il problema è di capire il significato più profondo e inquietante di questa ideologia politica e il suo meccanismo. Lo si coglie in sintesi fulminante nella prosa di Pasolini. Egli parlava di un «nazionalismo che sbianca nel furore dell’odio». Coglieva così il sentimento essenziale a un dispositivo politico imperituro e, in fondo, sempre all’opera perché attivabile a preciso comando. È utile ricordare quelle parole in questo preciso frangente della problematica storia europea. La condotta di guerra decisa da Karadžić e i suoi sodali fu l’apoteosi a noi più vicina, in tutti i sensi, di un nazionalismo che tende all’estremo per propria, necessaria, inerzia politica. La sua dinamica sfugge infine persino a se stesso perché moralmente incontrollabile e, di conseguenza, politicamente ingovernabile. È una logica di violenza che assume la forma della spirale – spirale d’odio, si dice infatti – ritorcendosi su se stessa e travolgendo i propri fautori, oltre che le sue vittime.

Se è così, allora la «sentenza Karadžić» non è un retaggio del passato che si trascina nel presente per cause temporali legate ai tempi della legge internazionale. Ha un contesto di cause morali più profonde e remote che la rendono complicata anche quando sembra risolta. Reca la cifra di un problema di costante attualità, insolubile ma affrontabile nel suo riproporsi come probabilità del futuro europeo, oggi come ieri. La parola fine al processo di Karadžić non è, quindi, l’ultima parola su una vicenda passata dal carattere estremo; è il riproporsi del problema ch’essa implica e non contiene. A chi crede d’avere una visione politica dell’Europa, o perlomeno una sua cognizione, l’urgenza non può sfuggire: esiste un punto storico – e forse, stavolta, è proprio questo il nostro punto – nel quale le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all’estremo del nazionalismo. Lasciate a se stesse, quelle probabilità possono diventare un evento che si realizza. Allora quell’estremo diventa «normale» realtà e, con essa, normale diventa il suo sentimento d’odio e la sua logica violenta. È questo, in fondo, il monito che la «sentenza Karadžić» ripropone oggi all’Europa.

 

Immagine: Cimitero che ospita le vittime di guerra (1992-93) a Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina  (18 giugno 2009). Crediti: dinosmichail / Shutterstock.com

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Mohammad Zarif e l’arte del rischio calcolato

Riflettere sugli sviluppi più recenti in Iran alla luce delle abortite dimissioni dell’ambasciatore Mohammad Javad Zarif, ministro degli Affari esteri della Repubblica islamica, significa valutare quell’episodio come un momento cruciale nell’acuta lotta politica interna per la guida della politica estera. Rifiutate dal presidente Rohani, le dimissioni avanzate da Zarif sono state una meteora che per 48 ore ha attraversato lo spettro della politica iraniana. Cadendo ha aperto un altro, profondo, cratere tra le fazioni governative iraniane che si contendono il potere.

Per descrivere l’impatto della scelta di Zarif possiamo ricorrere al termine ‘opportunismo’. Ciò può significare diverse cose ma, di certo, include l’autoconservazione politica e, più probabilmente, riguarda l’estensione del potere. Zarif, estromesso dall’accoglienza del presidente siriano Bashar al-Assad, cruciale alleato in rara visita a Teheran, ha colto quell’occasione spingendosi sull’orlo del cratere per sfidare gli avversari interni. Egli ha incarnato un tipo fondamentale d’opportunismo politico: consiste nel creare occasioni positive da occasioni apparentemente negative, nel manipolare gli eventi per produrre un momento favorevole e avanzare verso il fine che si ha in mente. Zarif, dimettendosi, aveva in mente di riaffermare, irrobustendola, la propria autorevolezza, trasformandola in maggiore autorità. Ha colto il momento di un attacco portatogli direttamente per manipolare lo scontro interno alla classe politica iraniana, ottenendo una vittoria politica esemplare.

È l’opportunismo di chi è spinto dalla consapevolezza di pericoli che, se non sono sopraffatti immediatamente, sono destinati ad imporsi. Il pericolo era soccombere alla pressione di quelle correnti del regime iraniano che non hanno gradito affatto il quinquennio di Zarif, a partire dal suo massimo emblema politico: l’intesa nucleare multilaterale sancita nel 2015. Quell’intesa, si sa, è malvoluta da molti oltranzisti, compresi quelli iraniani. A loro Zarif ha portato la sfida più temibile, quella che si fonda sulla politica del rischio calcolato, ciò che conosciamo come brinkmanship. Stephen Potter, autore di Gamesmanship (1947), sembra aver introdotto nella lingua inglese il suffisso –manship. Adlai Stevenson, governatore dell’Illinois (1943-1953), pare popolarizzò il lemma. John Foster Dulles ne fu l’interprete più acclamato. Si tratta dell’abilità di spingersi sull’orlo di un conflitto senza precipitare, evitando la propria caduta.

È un’arte necessaria ma pericolosa. Se non la si domina, inevitabilmente si precipita. Se si tenta di fuggire, se si teme di raggiungere l’orlo, si è ugualmente perduti. È una vivida ripetizione della filosofia machiavelliana della politica, che combina le idee tradizionali del fato, il quale conduce sull’orlo del baratro; del caso, che va dominato; del cogliere le occasioni, manipolandole; dell’imporre la volontà politica con un’azione determinata; della politica come arte necessaria, ossia come virtù. Statisti del passato, non solo Churchill, bensì Bismarck, Palmerston, Metternich, accoglierebbero quale inequivocabile descrizione della loro esperienza tale, ricorrente, condizione. È una politica traumatica, com’è stata quella messa in atto da Zarif pochi giorni fa, rovesciando, in poche ore, gli esiti di uno scontro lacerante affrontato con sapienza, ma rischiando tutto con le proprie dimissioni. In anni e anni di negoziati in costante stato di crisi, con rappresentanti di potenze di massimo rango, Zarif ha acquisito totale controllo della politica del rischio calcolato, mettendo ora in scacco gli avversari interni suoi e della politica che incarna. Cosicché, a ben vedere, il raffinato diplomatico devoto alla politica estera è diventato anche un politico scaltro, impegnato in campo aperto, per ora con successo, nella lotta politica interna di un regime enigmatico e temuto.

 

Immagine: Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif (9 novembre 2016). Crediti: Gabriel Petrescu / Shutterstock.com 

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Il lamento straziante dello Yemen in guerra

Bab el-Mandeb, la ‘Porta del lamento funebre’. È questo il nome del braccio d’acqua che unisce il Mar Rosso con l’Oceano indiano attraverso quello Stretto. Per quella porta, luogo strategico, si giunge al Canale di Suez, laddove il Mediterraneo si apre alle navi cisterna che trasportano, ogni anno, milioni di barili di greggio. Oggi da quella porta si alza il lamento funebre dello Yemen in guerra, lacerato dalla falce della morte da più di un anno. È il lamento di una popolazione ridotta sul lastrico della condizione umana, privata ormai dei beni fondamentali e, per alcune migliaia, della vita stessa, persa nello scontro a fuoco che colpisce quotidianamente altre vite. Da noi si parla, quando se ne parla, del bisogno della più elementare assistenza umanitaria, trascurando le parole dell’Inviato speciale delle Nazioni Unite: “La migliore assistenza umanitaria che può essere fornita è la fine della guerra”.
Nella sua esemplare schiettezza, questo è ciò che occorre ma, come fu per la Siria, così è per lo Yemen: il tempo passa e, di giorno in giorno, la guerra incancrenisce senza che un esito sia visibile, oltre alla sistematica devastazione. Non si tratta solo del territorio yemenita, della sua gente uccisa e sofferente. Ciò che inesorabilmente si devasta sono le relazioni internazionali nella regione, i precari equilibri che reggono il fronte sud della penisola arabica. La guerra corrode chi la conduce e si piangono morti non solo in Yemen. Da Ryad ad Abu Dhabi, s’alza il lamento funebre dei caduti in una guerra considerata un antemurale alla proiezione della potenza iraniana oltre il Golfo. È questo un nodo cruciale della guerra in Yemen, come lo è di tutte le guerre: l’interdipendenza fra guerra interna e conflitto esterno, l’una prosecuzione dell’altro.
Il conflitto politico sempre latente che divide l’Arabia Saudita dall’Iran è oggi diventato letale. Non è più una guerra virtuale. È una guerra reale, combattuta sul fronte yemenita. Per questo motivo, come è stato per la guerra di Siria, così può essere per quella nello Yemen. Essa è in grado d’attrarre nella tipica spirale della belligeranza anche altre potenze. Alcune di queste, peraltro, già combattono defilate a fianco dei sauditi – in primis Regno Unito e Stati Uniti d’America – o lo fanno in prima linea: Egitto, Marocco, Sudan, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein. Come fu per la guerra di Siria – pressoché trascurata ai suoi albori – quella nello Yemen attende ancora l’attenzione che muove lo sforzo di comprensione necessario per incentivare l’azione politica. Così, com’è accaduto per la gloriosa Aleppo, rasa al suolo lentamente ma inesorabilmente, accade che la splendida Sana’a possa temere un medesimo destino d’annichilimento, se le cose non cambiano. In tal caso, com’è stato per la guerra di Siria sarà per la guerra dello Yemen: il prezzo da pagare, prima o poi, si presenta caro per tutti.
S’intende che tutto questo è normale: la guerra è nel Golfo almeno dal 1980, dal milione di morti caduti fra Iraq e Iran. Lo si chiami Persico o Arabico, da quasi mezzo secolo questo luogo quasi non conosce pace bensì uno stato di tregua prono al conflitto armato. Così, parafrasando Hobbes, sembrerebbe ormai che in questo quadrante del mondo il Tempo sia la guerra e ogni altro tempo la pace.
Ma la storia non è solo tempo, è anche spazio. Il primo procede inesorabile, il secondo è invece controllabile. Lo spazio del Golfo è, come ogni confine politico, condizionato da ciò che esso divide. Occorre dunque persuadere le potenze maggiori nell’area ad agire in modo responsabile, aiutando i loro sforzi diplomatici e non quelli bellici. Occorre una condotta prudente per ricomporre questa divisione in un’equilibrata coesistenza che, pur antagonistica, si trattenga dall’uso diretto delle armi. Tale sforzo non può essere lasciato solo ai piccoli neutrali come l’Oman che, benemeriti, tentano da tempo l’opera ingrata d’interporsi tra avversari violenti. Il terzo mediatore è una figura della politica necessaria quanto quella del neutrale che attende, nello Yemen, ancora il suo interprete. È questo un perno politico sul quale s’incendia oggi quella terra, con vampe sempre più cupe. Per sopirle, occorre restituire al Golfo almeno un po’ della quiete che è propria dell’elemento geografico, muto sulle differenze politiche. Prima, però, occorre fare della Porta del lamento funebre yemenita una delle Porte della guerra scritte da Virgilio, quelle chiuse “con ferro e strette ritorte: dentro, l’empio Furore seduto sull’armi crudeli, avvinto il dorso da cento nudi di bronzo, con bocca cruenta ruggirà spaventoso” (Eneide, I, 254-96). Che urli pure a squarciagola, purché sia imprigionato.
 

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Il senso ampio dell’intesa sulla Macedonia del Nord

Dopo la ratifica da parte dei rispettivi Parlamenti nazionali, l’accordo fra Grecia e Macedonia sul cambio di nome di quest’ultima è ormai un fatto storico. L’aggettivo qualifica in modo appropriato, una volta tanto, un evento d’attualità ancora cangiante. Col trapasso della Macedonia in Macedonia del Nord si chiude un conflitto politico quasi trentennale e, insieme, una lunga stagione della storia, quella apertasi con la lacerante disintegrazione della Iugoslavia. L’accordo di Prespa è un fatto che apre, di converso, una nuova fase politica in questa parte dei Balcani che riguarda tutta l’Europa.

La portata dell’evento è dunque evidente e persino superiore all’immediata comprensione. Perlomeno lo è se, come si dovrebbe, lo si valuta considerando il contesto storico nel quale si è verificato, cioè l’oggi: è un tempo di latente ostilità e degenerazione politica, ostile all’arte del compromesso e della diplomazia. Talché, non a caso, il Financial Times ha potuto definire il primo ministro della Grecia Alexis Tsipras uno «statista».

Si tratta di un elogio che trascura i pari meriti del premier macedone Zoran Zaev e non considera quelli di uomini e donne dell’Unione Europea, dell’Alleanza atlantica e delle Nazioni Unite, anch’essi tessitori e garanti, a vario titolo, della trama dell’accordo. Quel riconoscimento misura tuttavia, in un certo senso, il calibro della questione greco-macedone, perché proviene da una testata politicamente antipodica a Tsipras e al suo pensiero politico. D’altronde, è bene ricordarlo, solo un’indefessa ottusità ideologica o un’assenza totale di comprensione politica potrebbe trascurare i dati di fatto connessi all’accordo di Prespa. Per restituire il valore politico di quell’accordo se ne possono considerare due.

Il primo è la straordinaria difficoltà intrinseca a un negoziato che ha come oggetto l’identità politica. Nella fase attuale, governata dalla politica dell’identità intesa come architrave ideologico della sicurezza, difeso e irrobustito in chiave reazionaria, giungere a un compromesso proprio su una questione identitaria è un fatto eccezionale. Lo è ancor più se si considera che, in generale, l’identità politica, come tutti i principi ideologici è, per sua natura, in ogni fase storica, difficilmente negoziabile. Oppure, se si preferisce, è un elemento generatore più di conflitto che di compromesso. Non presentando direttamente aspetti materiali, ossia presentando un riferimento d’ordine politico più indeterminato rispetto al gioco degli interessi “concreti” – sempre negoziabili –, l’identità travalica la logica del dare-avere che è base immediata di qualsiasi scambio, compreso quello diplomatico e, con ciò, complica il necessario calcolo razionale.

Il secondo dato di fatto, certo discutibile come tutti i “dati di fatto”, concerne i confini politici dell’accordo di Presa, superiori all’area geografica che tale accordo riguarda direttamente. Se nell’Europa continentale e insulare si assiste, a livello politico, ad una consistente regressione delle ragioni condivise dell’integrazione europea e di quella euro-atlantica, nel quadrante balcanico proprio quell’integrazione resta – anzi, diventa – un elemento cruciale per l’avanzamento dei progetti politici. Si assiste, per dir così, ad un’inversione del moto storico della sicurezza collettiva europea: in altre parole, giunge da est la spinta a meditare e rinnovare tali ragioni, invece che trascurarle o abbandonarle. Non è però la spinta centrifuga del conflitto, reale o percepito, a produrre azione e riflessione bensì quella centripeta della cooperazione, ragion d’essere di ogni accordo, compreso quello di Prespa. A suo seguito l’Unione Europea e l’Alleanza atlantica, delle quali la Grecia è già membro, hanno invitato la Macedonia ad accedere alle loro organizzazioni politiche.

«Stiamo facendo la storia aprendo il nostro futuro», ha detto il ministro degli Esteri macedone Nikola Dimitrov. Un linguaggio ampolloso talvolta coglie nel segno e non è sempre indice d’ingenuità: capita che la politica sia tinta da un senso di vocazione. E se noi ci domandiamo perché Roosevelt o de Gaulle ritenessero di possedere una vocazione, mentre Tamerlano e Mussolini pensavano di non averla, la risposta può solo essere non in qualsivoglia consapevolezza soggettiva ch’essi potessero avere del proprio ruolo politico, bensì nella consonanza dei loro scopi con le vicende comuni dell’umanità come noi la intendiamo.

 

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Siria, sabbia e morte

«Sabbia e morte». Le parole dette dal presidente Trump per definire la Siria in guerra nel 2019 ricordano quelle di Rino Formica per definire la politica tout court: «sangue e merda». Sono parole efficaci e in un certo senso realistiche. In Siria nord-orientale nulla è cambiato sul terreno con l’arrivo del nuovo anno, quello nel quale scoccherà l’ottavo di guerra. Forse, però, presto o tardi, la zona dell’Eufrate sarà ancora più terra di ‘sabbia e morte’.

Il presunto ritiro delle forze americane, annunciato dal comandante in capo, ma ancora indeterminato nel tempo e incerto nei modi, è stato già un catalizzatore della violenza che si genera coi vuoti di potere. In Siria ora si combatte difatti anche in vista del momento in cui il presunto vuoto lasciato dagli americani andrà colmato, semmai così sarà. Sia come sia, resta il fatto che la sola percezione di un possibile mutamento nell’equilibrio di potenza, determinato anche dalla presenza americana, ha già prodotto un rinnovato slancio bellico per il controllo territoriale e la definizione finale delle sfere d’influenza. Finale perché, al momento, lo sforzo della Russia per imporre la propria presenza in Siria sembra infine vittorioso. Sembra essere riconosciuto come vincente, dopo anni e anni di guerra, in modo esplicito o implicito, dalle potenze maggiori. Il più cristallino a riconoscere l’affermazione russa è stato Jeremy Hunt, ministro degli Esteri britannico: «La Russia potrebbe pensare di avere conseguito una sfera d’influenza [in Siria]. Ciò che potremmo dirle è sì – e con ciò anche una responsabilità».

Le posizioni di Trump e Hunt, considerate assieme, segnalano ormai l’accettazione di un fatto: il governo formale della Siria resterà al presidente Assad e quindi dipendente dalle scelte politiche russe. In questo senso, se nulla cambierà, questa guerra di Siria è finita. È finita, cioè, la competizione per cambiare il regime, il conflitto armato che aveva come posta in palio la caduta di Assad, quindi il controllo della Siria e la sua collocazione nelle sfere d’influenza internazionali. Continua, invece, la guerra per il controllo del territorio, destinato ormai più alla riunificazione sotto Damasco/Mosca/Teheran che alla partizione. Decimate le milizie del Daesh e delle opposizioni ad Assad, si tratta, soprattutto, del destino dei Curdi siriani nord-occidentali, posti in attesa del loro fato proprio a causa dell’annunciato ritiro americano e del consolidamento di Assad. Ciò che trattiene la Turchia dallo scatenamento della sua forza bellica oltre confine e oltre l’Eufrate è proprio la presenza americana sul terreno, ancora a fianco dei Curdi; i quali, a loro volta, di fronte al possibile abbandono, cercano almeno nuovi allineamenti proprio con Assad in funzione antiturca. Alla Turchia si deve, difatti, il sostegno passato e presente agli antagonisti di Assad, Daesh compreso.

Il ritiro americano sarebbe luce verde per Erdoğan e l’offensiva dell’esercito turco schierato contro i Curdi siriani, ammesso che già la mera pressione militare non ottenga da sé, in qualche modo, il proprio fine, come avvenuto in passato nella Siria orientale. Il fine è l’eliminazione della «minaccia curda» almeno dal territorio limitrofo controllato dai turchi. I quali, grazie a questa definizione della propria sicurezza, possono spingersi in profondità laddove vogliono e possono in territori ridotti a fronti di battaglia.

La guerra siriana è dunque giunta a uno dei più compiuti paradossi della sua durissima e ignobile storia. I principali combattenti contro il Daesh, coloro ai quali si deve la resistenza e l’offensiva più accanita contro i ‘terroristi’ che hanno attaccato anche l’Europa, quella parte politica e militare che con più rischio ha contribuito a seppellire nella sabbia lo ‘Stato islamico’ fin dalle sue putride fondamenta gettate a Raqqa e altrove; ebbene, proprio a quelle donne e uomini toccano oggi non onori e gloria bensì ancora combattimenti per sopravvivere; tocca ancora una lotta contro il proprio, beffardo, destino: l’abbandono consueto degli alleati, la guerra contro rinnovati nemici.

Oggi a Washington sabbia e morte sono, per alcuni senza cognizione morale della guerra, pura retorica politica; in Siria sono invece  l’ambiente reale in cui molti devono provare a  sopravvivere. Per costoro vale il motto di Raymond Aron, suprema morale realista: sopravvivere significa vincere.

 

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Il Papa a Sarajevo, Gerusalemme d'Europa

Per l’imminente visita di Francesco a Sarajevo le cronache proporranno analisi pietose o impietose, a seconda dei casi, sulla Bosnia Erzegovina. La generazione sopravvissuta alla guerra fratricida finita vent’anni fa di quelle parole nulla se ne farà. Essa ha imparato che l’opinione pubblica è volubile come la nebbia: quella è dispersa dal cambiamento climatico, questa delle condizioni politiche. È una generazione oggi adulta ma segnata dall’uso ipocrita che della parola politica è stato fatto e ancor si fa. Proprio quest’uso riporta ancora all’esperienza della guerra perché, come si sa, in guerra la prima vittima è la verità. Caduta la verità, cade la fiducia nella politica, intesa come cifra di un comune destino progettato o perlomeno pensato assieme.

In questa sfiducia si coglie un’analogia fra i cittadini dell’Unione europea e i cittadini di Bosnia, giocoforza ‘extra-europei’. La sua origine è però differente, seppur speculare. In Bosnia la guerra ancora si riverbera sul futuro, ipotecandolo. Rare sono state, nell’esperienza bosniaca, parole di pace sincere. Forse, tra i Capi di Stato, solo quelle dei Papi in visita ecumenica. Se è così, si presentano oggi almeno tre domande a proposito della Bosnia odierna. Non sono parole bellicose, iscritte nell’universo della guerra, quelle regolarmente evocate dai maggiori capi politici con quell’abile retorica nazionalista che, come diceva Pasolini, “sbianca nel furore dell’odio”? Non è il Trattato di Dayton del 1995 un ventenne decrepito ma pieno di vigore, un impianto di parole che perpetua nell’assetto istituzionale bosniaco l’esito e la logica di guerra? Non è in quest’assetto che il valore della persona è disperso e mistificato, se non violato, dalla misera iscrizione della natività e dell’esistenza in un’appartenenza etnica quale criterio precipuo di riconoscimento e di cittadinanza?

Sia come sia, è certo emblematico, se non sintomatico, che tutti i firmatari jugoslavi di quel Trattato siano morti. Sopravvivono i firmatari internazionali e, con loro, la Costituzione bosniaca che di quell’accordo fu nient’altro che l’Annesso 4. Non è allora un azzardo considerare nella subordinazione de facto di un testo costituzionale alla parola di un accordo di pace il vulnus fondamentale alla crescita della Bosnia, trattenuta nella culla dalla politica di potenza. A Dayton, vent’anni fa, si fermò certo la guerra ma non si costruì la pace. Questa condizione è però, ancora oggi, la base fondante della costituzione materiale bosniaca. Essa riproduce di fatto non un’elaborazione costituzionale condivisa bensì la traduzione giurisdizionale d’una pace di potenza più subita che voluta.

La Bosnia subisce perciò un’interferenza deliberata e costante dai residui politici della logica di guerra. Questo è uno dei suoi problemi più acuti. A un ventennio dalla fine della guerra, l’Italia era uno degli Stati più rigogliosi. La Bosnia è invece uno Stato vecchio di vent’anni, ostaggio di un impianto istituzionale con le capacità di un paralitico schizofrenico. Liberarla può essere un atto di carità, per chi ne è capace. Di certo è un’esigenza per l’Europa, testimoniata dal Papa a Sarajevo.

Questa città racchiude il senso più vivo delle sfide dell’Europa attuale. Lo racchiude perché, da capitale europea, ha respinto il peggior assalto contro i principi di convivenza che reggono – finché reggono – l’Europa unita. Sarajevo ha perciò combattuto per l’Unione europea, quella costruzione politicamente rachitica e quasi tutta intenta, ora come vent’anni fa, ad accudire la propria moneta nello spasimo del profitto sulla via del denaro: da Maastricht a Bruxelles.

In questo senso riecheggiano le parole inascoltate dette dal Premier italiano a Trento, il 26 giugno 2013: “L’Europa è morta a Sarajevo”. Ad essa, come fosse una madre putativa, si possono dedicare i versetti del Salmo che Momigliano, costretto dalle leggi razziali a rifugiarsi in Inghilterra nel ’38, dedicò alla madre sua, in apertura del grandissimo Saggezza straniera: “Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo; la carne dei tuoi fedeli agli animali selvaggi. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme e nessuno seppelliva”. ‘Sarajevo Gerusalemme d’Europa’: la vulgata coglie stavolta un aspetto di realtà. È la necessità di seppellire, con dignità e giustizia, il cadavere della storia recente per farne un’altra dopo vent’anni. Se l’Europa politica è morta a Sarajevo, a Sarajevo capitale d’Europa può rinascere. Questa è la sfida politica lasciata ai posteri e lanciata ai governanti europei dalla visita del Capo dello Stato vaticano nel luogo in cui sono stati difesi col sangue i principi fondanti l’unità europea. L’attacco contro la Bosnia è stato difatti l’attacco a una società integrata, pluralista, multireligiosa. Questo modello di società era e resta esistenzialmente minacciosa per tutti i progetti politici fondati sulla reciproca esclusione, la diffidenza e la paura incline alla violenza. Così, se la difesa di Sarajevo è stata la difesa del destino dell’Europa come civiltà comune, la sua ricostituzione politica è la ricostituzione del corpo politico dell’Europa come spazio comune di civiltà.

 

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Yemen, la speranza dei negoziati in Svezia

«La speranza è la moneta corrente di un mediatore» ha detto Martin Griffiths. Il diplomatico delle Nazioni Unite sta conducendo con ammirevole tenacia i primi negoziati diretti dall’inizio della guerra dello Yemen (2015). Grazie all’ospitalità del governo svedese, i combattenti locali si trovano per la prima volta faccia a faccia a un tavolo di pace e non di guerra. Griffiths sa, come tutti noi, che la speranza è però, prima di tutto, una virtù teologale e non politica. Essa dunque può essere obliterata, in qualsiasi momento, non tanto dalla mancanza di speranza bensì dall’assenza di virtù politica. È questa che manca ai protagonisti della guerra, impegnati ormai da un triennio in combattimenti spietati e senza esclusione di colpi dei quali, naturalmente, a farne le spese sono, anzitutto, decine di migliaia di civili e, tra loro, i più deboli tra i deboli: i bambini.

Mentre si negozia in Svezia, lo Yemen è un Paese allo stremo, talmente devastato che sperare in un barlume d’intelligenza politica volto ad illuminarne l’oscuro scenario bellico è perciò obbligatorio. I negoziati, tuttora in corso, hanno permesso, almeno a parole, l’accordo su misure destinate a mutare il segno di un’ostilità finora cieca dei combattenti. Sono emersi barlumi di visione comune come quelli che dovrebbero permettere lo scambio di migliaia di prigionieri, la riapertura di vie di comunicazione col mondo esterno, forse la neutralizzazione di zone cuscinetto tra i territori controllati dagli uni e dagli altri. Sia come sia, potrebbero essere le prime di una serie di circostanze pacifiche che potrebbe essere estesa e ampliata o, forse, persino irrobustita. Se sperare è lecito, occorre anche sperare. Si tratta comunque di un risultato degno di nota in un negoziato che non ha e non può avere come scopo la cessazione delle ostilità.

Date le condizioni, ottenere dialogo e accordo almeno su alcune misure di reciproca confidenza tra fazioni in guerra accanita col sostegno d’importanti potenze esterne sarebbe un esito di successo. Ma è a queste potenze esterne e al loro sconclusionato confronto strategico in atto, del quale lo Yemen è un mero aspetto tattico, seppur rilevante, che è affidata la possibilità di sostituire, definitivamente, il confronto diplomatico allo scontro bellico. È la «speranza» evocata da Griffiths, tradotta in politica: una guerra le cui principali ragioni si trovano nel contesto internazionale, potrà trovare solo nella fine di quelle ragioni la sua conclusione. Quel contesto, tuttavia, non sembra semplificarsi, bensì aggravarsi, perlomeno nel quadro regionale. In effetti, mentre si negozia sullo Yemen entrambe le potenze principali regionali che sono direttamente coinvolte – Iran e Arabia Saudita – si trovano in una situazione sempre più debole e precaria, dunque più incerta e insicura.

Non è tanto l’affare Kashoggi a scuotere oggi l’Arabia Saudita ma due eventi politici paralleli al negoziato yemenita. Il primo si è svolto a Vienna e ha sancito la fine dell’OPEC come organizzazione decisiva nel contesto globale. Essa non ha più capacità diretta d’influenza tanto che, per orientare il prezzo del greggio, ossia per impiegare la propria leva economica sulla sfera politica, l’Arabia Saudita deve ormai ricorrere sistematicamente a una potenza esterna all’organizzazione, ossia la Russia. L’OPEC ha persino ancor meno peso nel momento in cui, non a caso, il Qatar ha deciso di abbandonare quest’organizzazione nella quale siedono anche le stesse potenze che gli impongono il blocco territoriale voluto dai sauditi.

Il secondo evento che ha scosso il contesto regionale durante i negoziati si è svolto a Abu Dhabi e consiste nella disintegrazione ormai evidente del Consiglio di cooperazione del Golfo lì riunitosi. Il Qatar vi ha partecipato solo nominalmente e i suoi membri si ritrovano oggi divisi da fronti scomposti rispetto alle linee di faglia che attraversano la regione: dal blocco del Qatar medesimo, alla guerra nello Yemen, alla politica verso Israele. Ma non sono solo le potenze arabe a sostenere il peso di un ordine regionale ormai in frantumi, del quale lo Yemen è un catalizzatore. L’Iran, l’altra potenza principalmente coinvolta, da sola o tramite alleati, si trova anch’essa in uno stato di tensione, alimentato dalla ridefinizione della sua sfera d’influenza e dalle reazioni ch’essa subisce. Tra queste reazioni l’isolamento imposto dagli Stati Uniti è solo l’aspetto più evidente, ostile e cruciale. Proprio gli Stati Uniti e i suoi alleati non sembrano affatto intenzionati ad abbandonare l’alleato saudita nella guerra yemenita; tanto quanto non lo sembrano gli alleati, palesi od occulti, dell’Iran che, ugualmente e parimenti, non abbandona il proprio impegno. È invece nel reciproco disimpegno bellico che passa, se non la soluzione, almeno la speranza che chi combatte sul terreno in Yemen passi dallo scontro al confronto. Senza di questo, nessun negoziatore, per quanto benemerito, può superare i limiti delle proprie circostanze.

 

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Yemen, una guerra indiscriminata e sproporzionata

Due anni fa, il 31 ottobre 2016, avevamo scritto del lamento straziante dello Yemen in guerra; e poi ancora, in altre occasioni, della condizione letale causata da un conflitto che è anche, se non soprattutto, un massacro d’innocenti. Oggi il dispositivo dello spettacolo ha consegnato l’immagine d’una di queste innocenti alla compassione degli spettatori. Tutti sappiamo che quella compassione e ogni attenzione per i motivi di quel massacro dureranno l’attimo di una commozione. Si tratta d’una commozione sterile. Ciò perché sarà commozione immobile, fissa, e del commuovere non possiederà la qualità di più alto valore morale racchiuso proprio nella parola stessa: quella di “mettere in movimento”, di “agitare”. Sarà, in questo senso, commozione fittizia e si direbbe amorale, priva com’è d’ogni sforzo reale conseguente a ciò che deplora in via del tutto virtuale – appunto, spettacolare. D’altronde nella guerra dello Yemen neppure questa è una novità. La morte recente ma non fotografata di decine di bambini e bambine, colpiti dai bombardamenti, non ha avuto, anch’essa, nessuna implicazione. 

Nulla cambia, da anni, in Yemen: la morte lo attraversa quotidianamente, a cavallo della politica di potenza e dei suoi velenosi frutti. Quella politica non distingue tra combattenti e non, tra bersagli legittimi e non, tra obiettivi strategici e regole belliche, tra mezzi e fini. La guerra dello Yemen non è una guerra “dimenticata”: è una guerra indiscriminata e sproporzionata. Per questo il suo impatto è talmente devastante, con catastrofici esiti sui civili ben documentabili: carestie, malattie, epidemie. È una guerra indiscriminata perché, nell’era dell’umanitarismo, della “responsabilità di proteggere”, accade che non siano protetti neppure i più elementari diritti dei civili in guerra e, viceversa, che le norme di guerra più basiche siano programmaticamente violate senza alcuna responsabilità per i violatori. La guerra è sproporzionata perché non si dà proporzione, oggi, in Yemen, tra la qualità e quantità dei mezzi violenti impiegati e la qualità e quantità dei fini politici raggiunti in un triennio di duri combattimenti. Da tempo i mezzi hanno preso il sopravvento sui fini; è soprattutto questo a rendere ignoto il prezzo che questa guerra farà ancora pagare.

 

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Helmut Kohl, il tempismo che divenne visione

La scomparsa di Helmut Kohl sembra destinata a segnare profondamente anche i simboli della politica europea. Se le intenzioni manifestate dal presidente della Commissione europea Juncker si concretizzeranno, allora, per la prima volta nella storia, si terrà una cerimonia di Stato europea in memoria di un uomo politico. Strasburgo, sede del Parlamento europeo, dovrebbe essere il luogo politico principale di questa cerimonia. A prescindere dai pochi dettagli attuali si comprende fin d’ora l’inedita portata politica di un simile progetto. Dopo essere stato insignito in vita della cittadinanza onoraria europea – un riconoscimento concesso dal Consiglio europeo solo ad altre due figure politiche, Jacques Delors e Jean Monnet – Kohl sarebbe celebrato, nel momento della sua morte, come vero e proprio statista europeo, immortalato da un funerale di Stato organizzato dall’Unione Europea.

Ma l’UE non è uno Stato e dunque quest’ossimoro rivela un fatto politico interessante. Se quel funerale sarà effettivamente celebrato, gli Stati europei avranno per la prima volta condiviso nella loro precaria unione sovranazionale un altro elemento fondamentale di quel formidabile apparato, materiale e immateriale, che per secoli li ha invece separati. Un apparato che ha definito la vita politica in Europa attorno alla dimensione nazionale e, giocoforza, alle divisioni ch’essa strutturalmente produce proprio a partire da un sistema di simboli particolare ed esclusivo, quello statuale, creato per distinguere e separare gli uni dagli altri.

Sarebbe dunque un atto politico di notevole portata quello auspicato da Juncker, oltre che l’omaggio più appropriato a colui che oggi viene considerato uno statista europeo proprio per aver condotto alla riunificazione una grande potenza europea, contribuendo, da una posizione di comando, a richiudere la più profonda e lacerante delle divisioni in Europa, quella tra Germania orientale e occidentale, simbolo fondamentale della separazione europea tra Est e Ovest. Rinsaldare quella divisione resta ancora un’urgenza dell’integrazione europea e la vicenda di Kohl lascia, dunque, ai posteri un’intera lezione da imparare.

Vi è però, in quella lezione, perlomeno un aspetto che si può subito inquadrare. Il tempismo è stato una virtù politica essenziale di quest’uomo che amava citare Bismarck e si considerava nel solco di Adenauer. Esso consiste tanto nel creare occasioni quanto nel coglierle quando si presentano e Kohl ne fu consapevole: «Cito sempre, per la situazione in cui mi venni a trovare, Otto von Bismarck, perché non trovo immagine migliore: “Quando il mantello di Dio agita la storia, si deve saltare e afferrarlo”». Sebbene fosse in parte volto a impressionare, questo elemento filosofico rifletteva il senso profondo che certi risultati in politica non possono essere assicurati come Bismarck stesso spiegò in un celebre discorso alla dieta della Confederazione tedesca del Nord il 16 aprile 1869. «Immaginare di poter sveltire il trascorrere del tempo mettendo avanti gli orologi è uno sbaglio del quale vorrei darvi avvertimento», disse quel giorno. «Non possiamo fare la storia. Possiamo solo attendere che abbia luogo. Non possiamo ottenere più velocemente un frutto maturo mettendolo sotto una lampada. E se cogliamo un frutto prima che sia maturo, ne impediamo solamente la crescita e lo sciupiamo».

Kohl non fu, dunque, un anticipatore, com’è stato scritto. Non precorse il tempo politico; lo colse. Ma cogliere il momento politico non è solo un fatto d’attesa, bensì di discernimento, come quello invocato proprio dall’altro referente di Kohl – Adenauer – in un discorso al Parlamento di Bonn del 29 aprile 1954: «Vi è un grosso pericolo nel rimandare continuamente la realizzazione dei piani per un’unione europea. Nella storia, certe costellazioni favorevoli non durano all’infinito e solo raramente si ripresentano. Dobbiamo essere consapevoli della gravità di questo momento e mostrarci all’altezza delle sfide, affinché le generazioni future non ci condannino come deboli e irresponsabili. Dobbiamo essere consapevoli che se il processo di unificazione europea fallisse l’esistenza stessa del continente potrebbe vacillare». È qui, nel punto in cui il tempismo diventa visione, che il cancelliere della Repubblica Federale di Germania ha superato il “cancelliere di ferro”, unendo, senza sangue e senza ferro, un continente che si prepara a onorarne le spoglie e, forse, a studiarne la lezione diplomatica. 

 

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L’Europa al centro

La condizione attuale dell’Unione Europea (UE) restituisce la diffusa percezione che questo progetto d’integrazione sovranazionale abbia perso appeal. È davvero così? Se si considerano due fatti esemplari degli ultimi giorni, a parte sondaggi e opinioni, la risposta non è ovvia.

Il primo fatto è accaduto in Macedonia, Paese candidato all’adesione da più di un decennio, laddove il Parlamento ha approvato la modifica costituzionale necessaria a cambiare il nome dello Stato dopo un’effimera vittoria referendaria. L’estenuante e grottesca disputa con la Grecia sul proprio nome, ostacolo insuperabile nel percorso macedone d’adesione all’Unione Europea, è stata decisa anche grazie al voto favorevole di otto deputati cosiddetti, inspiegabilmente, ‘nazionalisti’. Ciò sblocca una condizione di rischioso stallo, trasformandola in un’opportunità di slancio. Cosicché oggi, per la prima volta dopo quasi trent’anni, il conflitto greco-macedone presenta anche una soluzione, oltre che molteplici problemi. Se nulla accadrà di contrario, lo storico accordo raggiunto nel giugno scorso dal primo ministro macedone Zoran Zaev e dal primo ministro greco Alexis Tsipras, sostenuto dall’alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza dell’Unione Federica Mogherini, può diventare realtà. L’intesa prevede infatti di modificare il nome della Macedonia garantendo così la revoca del veto greco all’integrazione macedone nell’Unione. I posteri, a differenza dei distratti coevi, chiameranno queste tre persone ‘statisti europei’? Non lo sappiamo. Ciò che sappiamo è che senza il baricentro politico dell’Unione Europea, intesa come progetto e soggetto politico, quell’accordo politico semplicemente non ci sarebbe.

Il secondo fatto è accaduto a Londra, capitale di una delle principali potenze dell’Unione Europea, laddove centinaia di migliaia di persone, tra le quali vari parlamentari, hanno dato vita alla più grande manifestazione pro-Unione Europea nella storia dell’Unione stessa. Qui cambiano i protagonisti ma non la sostanza: l’epicentro della scossa politica riguarda l’Unione Europea e senza di essa non si darebbe. Invece di autorità politiche, la famigerata élite o casta, protagonista a Londra è stato il famoso ‘popolo’, la cui aggettivazione formale ‘populista’ ne ha ormai travolto ogni altro significato storico, a testimonianza di quanto lo Zeitgeist travolga anche la lucidità politica. Quelle persone – un numero incalcolabile per la Polizia metropolitana, forse 700.000 – erano lì non per chiedere un accordo ma per chiedere di ripensare l’idea di farne uno specifico, ossia quello che sancirebbe davvero l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La logorante e patetica ‘Brexit’, parola tanto ridicola quanto inadeguata alla complessità del processo che dovrebbe significare, a partire dalle sue imponderabili conseguenze, ha suscitato l’attivismo nel ‘popolo’, cioè delle persone che non intendono affidare il destino britannico, e dunque gran parte del loro futuro, ad un referendum generato dal fallimentare gioco d’azzardo di James Cameron sull’Unione Europea.

In Italia, invece, i presunti nemici dell’Europa – ‘populisti’, appunto, cosiddetti per mancanza di categorie adeguate o per ostilità politica – sono oggi forze di governo e proprio in quanto tali hanno generato un processo apparentemente paradossale: le prossime elezioni europee saranno davvero europee, forse per la prima volta nella storia d’Italia. S’intende che questa volta non saranno il corollario di altre elezioni: locali, regionali, nazionali; il loro esito non sarà l’esito di un voto espresso col pensiero rivolto a problemi differenti, tutti più importanti di quello per il quale esse si svolgono: l’Europa e la definizione del suo Parlamento. Questa volta la questione europea non sarà il riflesso di altre questioni e il voto che si esprimerà riguarderà quella questione in primis, non altre. Perlomeno una volta – questa volta – le elezioni europee saranno finalmente una presa di posizione politica dei cittadini italiani sull’Unione Europea perché è questo il significato politico che esse hanno assunto ora, allorquando i ‘nemici’ dell’Europa sono diventati forze di governo in una delle potenze più importanti dell’Unione Europea.

La polemica categoria del nemico, qui citata, aiuta a capire se si segue il ragionamento del berbero Agostino d’Ippona. Scrisse nella Città di Dio (XIX, 12-13) che chi turba la pace «non vuole che non vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole». La vittoria è la finalità immediata di chi combatte, ma la pace quella ultima: la pace, perciò, non ha nemici. Noi potremmo dire che chi turba l’Unione Europea non vuole che non vi sia ‘Europa’, ma che sia quale lui (o lei) la vuole. La vittoria è la finalità immediata, ma il potere quella ultima: l’Europa, perciò, non ha nemici. Semplicemente, chi fa politica da una posizione insoddisfatta dello status quo, da una posizione di dissenso, qual è quella delle forze di governo italiano in ambito europeo, reclama e lotta per il potere di decidere. A chi depreca e stigmatizza non resta che lottare da antagonista, se ne è capace, oppure, quantomeno, di votare. L’importanza di quel voto, oggi esaltata dai ‘nemici’ e dagli ‘amici’ dell’Europa, chiude così, almeno per ora, la polemica sul deficit democratico dell’Unione Europea proprio perché pone al centro dell’attenzione unanime il suo istituto democratico par excellence, il Parlamento. Se esso nulla contasse, se fosse ‘un contenitore vuoto’ come dicevano i ‘nemici’ dell’Europa, non si capirebbe l’enfasi posta sulle prossime elezioni europee. Cosicché l’Unione Europea è posta al centro del dibattito politico come centro d’interesse di tutti e ciascuno. È questo il vero segno valevole del tempo d’oggi.

Nel tanto esaltato ‘momento di maggior crisi del progetto europeo’ vi sono, certo, segnali contrastanti, come sempre accade nelle questioni politiche. Questo è ciò che permette a ciascuno di pensare e fare politica europea e così partecipare davvero, almeno col proprio voto, alla vicenda dell’Europa. Quella vicenda riguarda però un lungo percorso nella storia e tale percorso non è progressivo e non è regressivo: non è noto. È bene perciò, per chi intende esserne parte consapevole, sfuggire allo Zeitgeist, al meschino e squallido spirito che ci assicura sempre che noi, adesso, ci troviamo all’apice di grandi realizzazioni umane o di catastrofi senza paragoni, dimenticando che ogni fase politica si confronta con problemi d’urgenza soggettiva e acquisire prospettiva è una liberazione dello spirito. Non ci si può invece liberare dall’enigma della politica, da quell’incertezza che è la cifra del pericolo e delle possibilità. Comprenderlo significa trovare la verità della politica nella storia e sottrarsi alle effimere esperienze di amarezza e delusione da tanti immortalate; come nell’atto finale del Discepolo del diavolo di Bernard Shaw dove, di fronte alla vittoria dei patrioti americani sugli inglesi, il maggiore Swindon domanda: «Che dirà la storia, generale Burgoyne?»; e questi replica: «La storia, signore, come al solito dirà bugie».

 

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La nuova pelle dell’Isis

«Non ce ne andremo più [dalla Siria] alla fine di quest’anno, bensì continueremo a restare fino a quando non otterremo una sconfitta duratura [del Daesh]». Questa dichiarazione di James Jeffrey, rappresentante speciale per la Siria del governo statunitense, restituisce l’ambigua condizione attuale del cosiddetto “Stato islamico”. Da un lato, le parole di Jeffrey certificano la sconfitta attuale nel quadrante mediorientale dei farneticanti disegni dei protagonisti di quel progetto politico, emerso come residuo nocivo della destrutturazione politica originata dalla guerra in Iraq e in Siria. Dall’altro, significano che il Daesh costituisce ancora un fattore di calcolo tattico nelle equazioni politiche delle potenze che si confrontano manu militari in Medio Oriente. Ciò non sorprende affatto: il Daesh è sempre stato una pedina soggetta al confronto strategico per ridefinire le sfere d’influenza nella Siria dilaniata dalla guerra e nell’Iraq martoriato. La sua stessa esistenza è coeva alla guerra: nell’inizio della guerra si trova la sua nascita e nella fine della guerra si troverà la sua morte – la “sconfitta duratura” evocata da Jeffrey.

È dunque il contesto bellico ciò che permette ancora la residuale sopravvivenza del Daesh in Medio Oriente, ormai più come oggetto passivo che come soggetto attivo. Dopo sette anni di guerra siriana e quasi il doppio in Iraq, non resta nulla del progetto del Daesh. Restano solo le tracce di morte, distruzione e terrore disseminate a più non posso e una presenza ormai letteralmente marginale. I suoi piani di conquista e ridefinizione territoriale – appunto lo “Stato islamico” – sono stati inconsistenti ed effimeri. I suoi miliziani sono stati spazzati via dai soldati degli Stati “veri”, quelli con gli eserciti, l’aviazione, la marina che ancora si confrontano a Idlib e altrove. A quel confronto militare, ovvero a quel contesto politico, è legato il destino degli ultimi avanzi del fallimentare Daesh, ridotto a un fantasma politico: la sorte della Siria dipende da potenze esterne, idem quella del Daesh.

È altrove, in Asia Centrale, che oggi ricompare con qualche vigore il nome di quel fantasma, la sigla transnazionale dell’Isis divenuta celebre grazie alla campagna terroristica condotta negli anni addietro e riprodotta a livello globale da una magistrale e coreografica propaganda. Lacerato da quarant’anni di guerra consecutiva, l’Afghanistan è l’habitat naturale per la riproduzione di qualsiasi germe di violenza a rischio d’estinzione. Cosicché non deve sorprendere che porzioni significative di quel territorio siano oggi controllate da milizie locali che a quella sigla ricorrono per legittimare la propria partecipazione al grande massacro. Da questo punto di vista la scena siriana si ripete con attori in parte uguali e in parte differenti bensì con logica analoga. Da un lato le potenze esterne, incancrenite sul fronte afghano: Stati Uniti e alleati, Russia, Pakistan, Iran, India. Dall’altro combattenti locali in conflitto tra loro per entrare nell’equazione politica definita da quelle potenze: l’ex minaccia assoluta detta Taliban e, appunto, un sedicente Isis, novello attore sulla scena locale. Cosicché, ad un osservatore ingenuo, le parole di Jim Mattis, segretario alla Difesa degli Stati Uniti giunto in Afghanistan pochi giorni fa, potrebbero quasi sembrare grottesche: «Sia i Taliban che l’alleanza della NATO a sostegno dell’alleanza afghana [sic] vedono l’Isis sotto la stessa luce. Per questo è probabile che continueranno a combattersi e noi continueremo a colpire duramente l’Isis». La guerra, si sa, è un camaleonte. Il Daesh, o Isis, o “Stato islamico”, lo è altrettanto, pronto a mutare pelle nel tipico tentativo di tutte le organizzazioni di sopravvivere alla propria estinzione.

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La politica del prestigio USA si ferma a Helsinki

Per chi osserva l’esito pubblico del primo vertice formale tra Stati Uniti e Federazione Russa, si presenta subito un risultato paradossale: il momento più alto della diplomazia del presidente americano lo precipita in basso nella sua carriera politica. Per Donald Trump non sarà difatti semplice giustificare il sostegno diretto ricevuto, durante la conferenza stampa finale di Helsinki, da Vladimir Putin, capo di uno Stato considerato ostile dagli americani. Il quale, rammentando ai presenti il proprio passato da ex spia, si è diffuso in una spiegazione rivolta, di fatto, a depotenziare la portata delle indagini che da tempo investono e corrodono le basi fondanti dell’autorità di Trump in patria, ossia la sua ambigua vittoria nelle passate elezioni americane. Chiunque acceda alle immagini di quella conferenza e le scruti con attenzione, non può fare altro che constatarne la devastante portata dal punto di vista della politica interna statunitense e del suo impatto globale. Cosicché le accuse rivolte a Trump e al suo entourage dalle indagini in corso in patria – di aver agito di concerto con forze russe per ottenere la propria vittoria elettorale contro Hillary Clinton – sono state smentite, insieme, dai due protagonisti politici principali di tali indagini: l’effetto finale è stato di vero estraniamento.

Da questa prospettiva ha mostrato la forza di un connubio personale che invero esalta la debolezza del presidente americano, la cui autorità, posta in discussione in patria, è stata sostenuta e giustificata dal capo di Stato straniero al centro di quella discussione. Si tratta, probabilmente, del peggiore errore tattico commesso finora da Trump: suscitare all’inverso il patriottismo americano, ossia contro sé stesso invece che a proprio sostegno, colpendo il prestigio dell’autorità del comandante in capo della nazione e, quindi, l’immagine stessa della potenza americana.

La politica del prestigio è intangibile e sottile ma assai importante. Utilizza i modi sofisticati della diplomazia, non quelli banali del commercio. Anche per questo è stata raramente riconosciuta per ciò che veramente è, vale a dire una delle manifestazioni fondamentali della lotta per la potenza nelle relazioni internazionali. Se è così, allora l’esito pubblico principale del vertice di Helsinki consegna alla Russia un netto successo diplomatico perché essa ne è stata la sua migliore interprete.

Lo scopo della politica del prestigio è impressionare gli altri Stati attraverso la potenza di cui si dispone o che si vuole che gli altri stati credano si possegga. «Noi siamo le due grandi potenze nucleari», aveva detto Donald Trump ai margini del vertice, concedendo alla Russia un riconoscimento a lungo agognato, ossia un posto di prestigio alla pari degli Stati Uniti che le mancava dai tempi della fine dell’Unione Sovietica. Dopo la conferenza stampa di ieri la Russia ha ottenuto ancora di più, forse molto di più. Vladimir Putin ha platealmente affermato, col consenso del presidente americano, la capacità russa d’influenzare direttamente gli affari interni degli Stati Uniti d’America, lo Stato più potente del pianeta. Ieri ha stabilito apertamente, di fronte al mondo, con le proprie parole, d’esserne un protagonista e d’essere in grado di modificarne gli equilibri non con le spie ma con l’abilità diplomatica. Se lo scopo di medio periodo degli Stati Uniti era quello d’isolare la Russia – a partire dalle perduranti sanzioni imposte – Helsinki lo ha seppellito definitivamente e con esso ha seppellito il prestigio americano.

 

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Guerra in Siria, perché si riaccende l’attenzione

La politica internazionale è il regno della ricorrenza e della ripetizione. Così l’uso delle armi chimiche da parte del governo del presidente Bashar Assad riaccende sempre l’attenzione sulla guerra siriana, quella che in sette anni ha provocato 470.000 morti, 6 milioni di sfollati e quasi 5 di profughi, e che, con un eufemismo grottesco, viene altrove chiamata «crisi siriana» quando ci si accorge della sua persistenza. Nel 2013 fu sempre un attacco chimico sterminatorio, sempre nella stessa zona di Ghuta, che sostenne la legittimazione internazionale dell’intervento russo nella guerra.

La Russia si fece allora garante della rimozione delle armi chimiche con la farsesca adesione della Siria alla Convenzione sulle armi chimiche e con la parziale distruzione sotto l’egida delle Nazioni Unite dell’arsenale chimico siriano. I risultati sono evidenti. Sempre nel 2013, sempre in quell’occasione, le stesse potenze di oggi – Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna – minacciarono di colpire le forze armate siriane per «punire» l’uso delle armi chimiche da parte del governo del presidente Assad. Non accadde nulla di risolutivo e ciò che resta nella storia diplomatica sono le celebri «linee rosse» tracciate sulla sabbia dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: scomparvero col vento che soffia nel deserto della guerra, quella vera, quella combattuta sul terreno con morti e feriti i quali, in Occidente, nessuno vuole rischiare.

Riaccendere l’attenzione sulla guerra siriana ha almeno due funzioni. La prima è il suo impiego in politica interna. La minaccia di guerra riunisce l’opinione pubblica attorno alla bandiera nazionale. Ciò  permette di deviare i problemi di politica interna verso l’esterno, per dir così, strumentalizzando la tensione bellica per fini politici che non riguardano la vicenda internazionale ai quali, tuttavia, sono strumentalmente riconnessi dalla classe politica. Cosicché la lotta sindacale contro i progetti del presidente Macron in Francia può essere ridimensionata con il richiamo all’unità dello Stato, ovviamente sacra; l’impasse ormai strutturale dell’amministrazione americana sul travagliato fronte interno, compresi i processi legali e morali legati al presidente Trump, può essere alleviata; la condizione patologica del governo May può trovare ulteriore ossigeno per essere procrastinata; persino in Italia la guerra siriana ha una sua perfetta funzione ad hoc, quella di giustificare ipotesi politiche di governo altrimenti irrealistiche e impopolari che risolvano l’apparente stallo politico.

La seconda funzione, anch’essa di politica interna, è quella di generare un effetto placebo per le coscienze. Evitare una guerra diretta fra le potenze occidentali e la Russia – quella che viene immaginata possibile nelle prossime ore – significa che la guerra è scampata, che la guerra non c’è. Cosicché la guerra siriana, quella vera, che già c’è da sette anni e continuerà, possa eclissarsi nuovamente dall’attenzione generale, rientrando solo nei fallimentari calcoli tattici dei suoi protagonisti. È una guerra paradossalmente introversa quella di Siria, tutta chiusa su sé stessa malgrado sia una posta in palio nell’arena internazionale della politica di potenza. Tranne la Cina, tutte le potenze maggiori ne sono coinvolte direttamente.

Ciò malgrado essa è quella raccontata dal regista Philippe Van Leeuw nel film Insyriated, tutta racchiusa in una casa nella quale la capofamiglia rassicura suo figlio: «La guerra finirà presto e saremo di nuovo tutti in pace». Naturalmente c’è molto da temere dalla possibilità che i giochi di guerra sulla guerra di Siria sfuggano al controllo per qualsiasi motivo, ripercuotendosi malamente su chi li pratica e sul resto del mondo. Per questo motivo il segretario generale Guterres ha invitato le potenze maggiori del Consiglio di sicurezza a evitare che ciò accada. Vedremo nelle prossime ore se la guerra simulata sulla cosiddetta crisi siriana finirà presto e saremo di nuovo tutti in pace, noi, qui. 

Sia come sia, la guerra vera non finirà.

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Giochi tra potenze nella penisola arabica

La batteria di missili balistici lanciati ieri l’altro su Riyad e altre quattro città dell’Arabia Saudita ha ucciso una persona e la già moribonda ipotesi che la guerra nello Yemen possa ridimensionarsi dopo tre anni di tormento. Il conto già troppo sanguinoso di decine di migliaia di morti, feriti e di milioni di persone in bisogno d’aiuto resta aperto e tutti lo pagheranno, chi più, chi meno. I missili degli Houthi yemeniti sono giunti a colpire a distanza con esiti mortali, volando ancora una volta per un migliaio di chilometri. Ma stavolta è un salto di qualità verso quella fossa comune che può riempirsi ancor più di cadaveri nel tempo che verrà, com’è accaduto in Siria.

Come l’intera architettura di sicurezza nella penisola arabica, la difesa antimissilistica saudita non è uno scudo immortale bensì un dispositivo che sotto tensione continua è destinato a cedere in qualche punto, per fato o fallimento, prima o poi. L’ora è giunta ieri l’altro, se la vita umana significa ancora qualcosa. La barriera strategica ha ceduto e l’ombra di morte stesa dalla guerra in Yemen ha oltrepassato le linee degli scomposti fronti militari sul terreno dilaniato. D’altronde ormai li sorvola da tempo con cadenza sempre più puntuale e precisa, librandosi a cavallo di missili che volano nello stesso cielo dal quale piovono le altre bombe, quelle sistematicamente sganciate dai velivoli dell’alleanza «saudita» sulle città yemenite controllate dagli Houthi. Il loro ultimo attacco missilistico raggiunge però un obiettivo sempre strategico per chi combatte sul proprio terreno con adeguato sostegno esterno: portare la guerra vicino a chi invece vuole tenerla lontana, accorciare la distanza tra vita e morte che si misura anche con la paura di essere colpiti. Anche in questo fatto si misura l’interesse che salda i combattenti sul terreno a quello dell’Iran, il convitato di pietra di una guerra che solca anche le acque del Golfo Persico.

A ben vedere quella distanza è però per certi versi ormai pura convenzione geometrica perché la guerra yemenita è giunta quasi ovunque. Nel nuovissimo memoriale di Wahat Al Karama, ad Abu Dhabi, il numero dei caduti emiratini combattenti coi sauditi e alleati nella guerra in Yemen equivale ormai a quello di tutti i caduti per la patria dal 1971 al 2015. È un fatto già storico che colpisce quanto il ritmo presente, sempre più regolare, con cui giungono negli Emirati bare di altri «martiri», altri caduti su quel fronte. La guerra dello Yemen non è un fatto locale, non lo è mai stata. È la metafora mortifera della penisola arabica d’oggi, la ferita sanguinante su un corpo lacerato da conflitti politici in cui la forza prevale sulla diplomazia.  

Il blocco del Qatar è ormai al decimo mese e ha disgregato il magistrale Consiglio di cooperazione del Golfo. Il suo perdurare aggrava la crisi politica generale e gli attriti nello spazio aereo internazionale che si moltiplicano, sempre più rischiosi, ne sono un semplice indicatore. Il quadro è banalmente nero, l’equilibrio precario e doloroso. Tutti gli sforzi di mediazione di Oman e Kuwait per allentare i nodi del conflitto diretto sono stati vanificati. Le potenze esterne lucrano sulla disgregazione e, con la loro condotta, la alimentano ad arte, quell’arte celebre che nella divisione altrui ritaglia vantaggi propri.

I regnanti arabi oggi hanno forse ancora visioni comuni ma prospettive sempre più divergenti sul presente e sul futuro. Questa divaricazione produce un effetto sui giochi di potenza e il mazzo di carte sul tavolo strategico si rimescola nell’incertezza prodotta da un mazziere interessato e vari giocatori d’azzardo. È perciò interessante notare come proprio ora l’Arabia Saudita abbia aperto per la prima volta nella storia il proprio spazio aereo a un volo diretto in Israele. Qualcuno crede che anche questo sia un segno dei tempi di crisi profonda tra i regnanti della penisola araba. Di certo è un sintomo dell’urgenza percepita di bilanciare l’Iran e mantenere intatto il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, allineandosi coi suoi alleati anche se dichiarati acerrimi nemici. Il fatto che la potenza americana alloggi la propria flotta «araba» nell’odiato Qatar, paria tra i regnanti arabi ma partner vezzeggiato dagli occidentali, può destare perplessità solo tra chi crede che davvero esistano amici e nemici «naturali». Amicizia e inimicizia non si identificano tramite la morfologia ma al massimo con la filosofia. Senza di questa amici e nemici si confondono e scompongo, come nella penisola arabica.

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L’inferno sulla terra di Siria e Yemen

Si vedrà presto se la “tregua umanitaria” in Siria dichiarata dal Consiglio di sicurezza sarà effettiva, o se servirà solo come parafulmine per scaricare la tensione internazionale accumulatasi attorno ai morti di Ghuta. Intanto sui vari fronti la guerra continua e continuerà dopo la tregua. «La situazione è normale, il bombardamento continua»: è questa la descrizione di un giornalista siriano sul fronte di Afrin al trentesimo giorno dell’avanzata turca.

Lo stesso giorno, a Monaco, durante la Conferenza per la sicurezza, il ministro Sigmar Gabriel ha fatto l’ennesimo, ridondante, punto diplomatico: «Dobbiamo lavorare insieme per raggiungere soluzioni politiche in Siria e nello Yemen. È l’unico modo che abbiamo per aiutare le persone distrutte dalla guerra civile. È l’unico modo per opporci con successo all’egemonia iraniana nella regione», ha soggiunto. In questa sequenza di fatti e di parole si possono cogliere due elementi interessanti per spiegare la persistenza, anzi l’acuirsi, delle due devastanti guerre che infuriano da anni in Yemen e Siria.

Il primo è la perdurante descrizione diplomatica di queste guerre come se fossero guerre civili. Questo accadde per la guerra di Bosnia (1992-1995) e accade oggi per la guerra siriana e quella yemenita. Entrambe vengono rappresentate attraverso il topos della guerra civile, il conflitto tra fazioni interne come prima causa e problema. Ciò occulta il fatto altrettanto importante, se non più importante, che quelli in corso sono anche, se non soprattutto, conflitti tra fazioni esterne, ossia tra potenze impegnate a combattersi su quei fronti tramite alleati locali. Le loro cause sono tanto interne quanto internazionali.

Il ministro Gabriel ha offerto però, al tempo stesso, una peculiare descrizione proprio della dimensione internazionale delle guerre siriana e yemenita. Lo ha fatto richiamando tutti all’opposizione «all’egemonia iraniana nella regione». È questo il secondo elemento interessante – anzi il primo dal punto di vista politico – esaltato alla Conferenza di Monaco anche dal colpo di teatro di Benjamin Netanyahu, oratore con un relitto di metallo in mano: «In nessun luogo le ambizioni belligeranti dell’Iran sono chiare come in Siria. L’Iran spera di creare un impero contiguo, unendo Teheran a Tartus, il Caspio al Mediterraneo».

Questa condivisa visione demonologica della politica internazionale, nella quale esiste un unico responsabile delle guerre in corso, ha così segnato la scena monegasca. Essa trascura, però, almeno due fatti principali. Il primo è che la dimensione internazionale della guerra siriana è assai più ampia delle ambizioni iraniane e concerne gli interessi frustrati di almeno una decina di potenze, ognuna delle quali oggi innesta la propria fallimentare condotta bellica nei reciproci conflitti politici con tutte le altre, dopo il tracollo delle ambizioni di ciascuna. Ciò spiega l’acuirsi di una guerra nella quale il Daesh era un fattore, e non il più importante, delle complesse equazioni politiche. Il secondo fatto concerne invece un’equazione umana assai più semplice ma che non interessa quasi nessuno: la morte sistematica di civili non belligeranti. Talché la natura più intima e reale della guerra siriana è stata colta in questi giorni dal segretario Guterres: «l’inferno sulla Terra».

È questa l’unica visione demonologica appropriata della guerra in corso e riguarda non uno ma tanti interlocutori. Non solo i governi delle potenze principali in bancarotta politica, ma tutti quelli che Kant evocava nel suo trattato sulla Pace perpetua. C’è un passo che oggi suona più che mai beffardo: «Siccome ora in fatto di associazione […] di popoli della Terra si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della Terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma una necessaria integrazione del codice non scritto». In realtà oggi come ieri non c’è nulla di necessario in quest’idea e la Siria resta un posto diverso da quello che dovrebbe ospitare il genere umano, «l’inferno sulla Terra». Il resto dei popoli non lo avverte però come un’urgenza. Persino la sistematica violazione del pragmatico diritto bellico – non dell’astratto diritto cosmopolitico – è sostanzialmente irrilevante per le opinioni pubbliche. Nessuna manifestazione, nessuna mobilitazione, nessuna azione significativa reclama il ripensamento delle fallimentari tattiche belliche costruite sul vuoto politico. Tanto meno si reclama la fine di una carneficina che da anni è la più intensa violazione del «codice non scritto»: il diritto alla vita.  Il fatto che ciò ci lasci indifferenti non parla di Kant e delle guerre combattute per le presunte ambizioni altrui. Parla più di noi e delle nostre poche ambizioni. 

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L’offensiva turca contro i Curdi

È stato scritto due anni fa che Parigi poteva essere la tomba del Daesh in Siria. Così è stato. La fine di Daesh, ormai quasi estinto, riporta però al centro della guerra il conflitto internazionale sull’assetto finale della Siria, quello che sorgerà su macerie e cadaveri. Oggi le direttrici delle potenze maggiori nella guerra siriana si divaricano nuovamente, perché divaricati sono sempre stati i loro interessi politici. Esse hanno permesso, volenti o nolenti, che le forze curde avanzassero sui fronti di guerra contro i miliziani del Daesh, fino alla presa di Raqqa. La tormentata “capitale” del defunto “Stato islamico” è caduta sull’avanzata curda, così come la gran parte del suo territorio. In guerra, si sa, il territorio si conquista sul terreno e sul terreno hanno combattuto i Curdi, per la vita e per la terra, sostenuti dagli alleati. Oggi quella vittoria spiega l’offensiva turca contro i territori “curdi” della Siria nord-occidentale. Non si tratta, da questo punto di vista, di una nuova fase di guerra. È una specie di ricorso storico nel quale, però, i rapporti sul teatro si sono invertiti. 

Ciò lo si comprende facilmente: nel 2014 i Curdi si difendevano a Kobane, assediati dal Daesh e bloccati a nord dai carri armati turchi; oggi controllano Kobane e si difendono ad Afrin dall’attacco turco, 200 km più a ovest. Non solo sono sopravissuti; hanno superato l’Eufrate. Al di là del fiume la Turchia intende respingerli, tanto per cominciare: «Una volta ripresa la roccaforte [Afrin] toccherà a Manbij», ha detto il presidente Erdoğan, contando sull’assenso di Russia, Siria e Iran. Il concetto del Blitzkrieg, della guerra-lampo, è stato per questo evocato ad Ankara: vincere tutto subito. Quest’idea è però in collisione diretta non solo con le tenaci forze curde, bensì con quelle statunitensi loro alleate e anch’esse a Manbij. Nessuno conosce il futuro, però è noto il fulcro dell’epopea del popolo curdo: l’abbandono degli alleati e il proprio sacrificio. Sia come sia, gli Stati Uniti – alleati bicefali, in Siria dei Curdi e della Turchia nel Patto atlantico – sono dunque l’ago della bilancia che può segnare destini di morte e di vita, compreso quello dei propri soldati.

In effetti il presidente Erdoğan considera le Unità di protezione del popolo curdo (YPG), legate al partito siriano dell’Unità democratica (PYD), una “minaccia vitale”. Potrebbe cambiare idea ma, nel frattempo, per capirne il pensiero politico non valgono cautele morali. Vale invece un detto di Freund: se il nemico ti considera tale, tu lo sei. Questa è la retorica amico-nemico che sorregge l’attacco turco e occorre vedere fin dove si spinge realmente la sua logica offensiva. Di certo i suoi rinnovati colpi logorano i rapporti già consunti tra Stati Uniti e Turchia: «Uno stato [gli Stati Uniti] che noi chiamiamo alleato – ha detto il presidente Erdoğan – sta insistendo nel formare un esercito terrorista [YPG e forze alleate] ai nostri confini […] La nostra missione è strangolarlo prima che nasca».

“Strangolare” le forze armate d’opposizione è invece lo scopo del governo Assad perché chi fa parte di «queste milizie sostenute dagli americani [è] un traditore del popolo e della nazione, con cui ci si comporterà di conseguenza». “Strangolare” qualsiasi ipotesi di partizione della Siria è lo scopo di Russia e Iran, sostegno di Assad, soprattutto perché significherebbe il mantenimento della presenza statunitense sul territorio, diretta o tramite alleati. Se questa è la realtà, allora si vede bene che, nella matrioska in cui è racchiusa la Siria di Assad, la “madre” russa è sempre la bambola più grande. Non è chiaro, tuttavia, se spostare il tavolo dei negoziati di fine gennaio dalle Nazioni Unite di Ginevra al resort di Sochi sarà un passo verso la pace e, soprattutto, cosa resterà di quel tavolo dopo l’offensiva turca. Di sicuro spostare quel tavolo non sposta di un centimetro la questione politica che da sette anni alimenta la guerra: chi e come deve governare la Siria? Se le potenze maggiori non torneranno a spartirsi le proprie responsabilità, invece che il territorio, la guerra resterà ancora a lungo la continuazione della politica.

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Clima: a Parigi ha vinto la diplomazia

La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici mostra certi fatti importanti, noti o meno ma tutti connessi. Il primo è che la cosiddetta ‘crisi dello Stato’ sembra soprattutto una specie di pareidolia politica, ossia un processo mentale politologico consistente nell’elaborazione fantastica di percezioni reali incomplete e inesatte. In effetti, gli Stati dimostrano capacità inedite. Per la prima volta nella storia tutti gli Stati del pianeta riuniti a Parigi hanno definito e condiviso concretamente l’interesse comune ad affrontare nel lungo periodo la minaccia ecologica e ambientale. Gli Stati si sono impegnati a ridurre le emissioni inquinanti, siglando patti storici sui limiti all’anidride carbonica. Questo e gli altri impegni avranno un impatto cruciale per la vita sulla Terra se saranno mantenuti e soddisfatti almeno in parte. In nome dell’interesse comune gli Stati ricchi hanno destinato agli Stati più poveri un fondo economico di 100 miliardi, sgravandoli dalla responsabilità di ulteriori sacrifici economico-industriali attribuiti invece a sé stessi, quali Stati storicamente inquinatori e maggiori sfruttatori delle risorse comuni. L’interesse supremo della politica internazionale – garantire la sopravvivenza dell’umanità, ossia di noi stessi – ha perciò prevalso sui potenti limiti alla cooperazione in mancanza di un governo mondiale che imponga decisioni a tutti e garantisca ciascuno.

Il secondo fatto è che, probabilmente, in assenza dell’ordine politico garantito dagli Stati i problemi ambientali comuni non potrebbero essere nemmeno affrontati a Parigi o altrove. L’ordine internazionale è un ordine minimo, ma è un ordine politico che struttura e aggrega gli interessi dell’umanità i quali, in sua assenza, non hanno oggi alcun modo alternativo d’esserlo. Non è affatto chiaro come la questione ambientale, ossia l’insieme dei problemi globali generati dal rapporto tra uomo e ambiente, potrebbe essere affrontata dal genere umano senza questo modello d’ordine politico. Nella realtà non è la presenza o la ‘crisi’ degli Stati ciò che ostacola una soluzione comune globale alla questione ambientale. È la scarsità delle risorse e l’ostilità tra gli uomini. Interagendo esse generano conflitto politico su tale questione. Se non vivessimo in una condizione di scarsità relativa, nella quale beni e risorse non sono infiniti, la loro equa distribuzione potrebbe essere possibile. D’altra parte, se non vi fosse ostilità tra gli uomini verso questa e altre idee di giustizia, cioè su cos’è nei fatti un’equa distribuzione, la questione ambientale sarebbe già risolta nei suoi aspetti politici, come lo sarebbero tutte le questioni politiche. Ma a Parigi tale ostilità è stata mitigata e canalizzata grazie all’arte della diplomazia e questo è il fatto principale. Le maggiori potenze coinvolte, Cina e Stati Uniti, sono riuscite a raggiungere il compromesso su un accordo politico fondamentale per difendere sé stessi e il Mondo. Non è stato uno slancio di bontà ma di realismo. Come tutti i compromessi, anche se liberamente accettati, quello di Parigi ha essenzialmente un carattere coattivo. È pur sempre un prodotto compreso in una mentalità ostile perché l’aspirazione che porta al compromesso non è motivata da sé medesima, ma dall’esterno, e cioè dall’aspirazione opposta che genera conflitto. Da qui il sentimento fondamentale di ogni compromesso: “Sarebbe meglio altrimenti”. Ma la diplomazia sostituisce al conflitto la ragione discorsiva, base della mutua comprensione e freno prudenziale alla violenza latente.

Se la minaccia ecologica e ambientale è la sfida principale che incombe sull’uomo e sulla natura, la tesi della crisi dello Stato trascura le capacità delle relazioni internazionali di affrontare questa e altre sfide analoghe. Le relazioni internazionali forniscono la struttura attuale dell’organizzazione politica dell’umanità e sono la principale espressione politica globale della solidarietà umana attualmente esistente. Sulla sua conservazione e sul suo sviluppo poggiano le prospettive di una maggiore unità del genere umano per vincere le sfide globali del futuro.

 

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Chi sarà il prossimo segretario generale delle Nazioni Unite?

Chi incarnerà le sorti della maggiore organizzazione mondiale esistente? Chi sarà il più alto funzionario dell’unica associazione politica universale dell’umanità? Chi rappresenterà, unitariamente, “noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi possano essere mantenuti, a promuovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà”? Chi sarà, insomma, il prossimo segretario generale delle Nazioni Unite?

Fuori dal circolo diplomatico pochi si pongono questa domanda e ancor meno riflettono sulle risposte possibili. Eppure l’oscuro processo politico volto alla nomina del successore di Bank Ki-moon è in pieno svolgimento. Rimbomba dunque, se lo si vuol sentire, il silenzio assordante attorno a questo passaggio cruciale. Si tratta della consueta indifferenza verso molti eventi della politica mondiale, un ambito tanto cruciale quanto trascurato della nostra introversa esistenza, rattrappita dai confini della politica locale. Sono sintomatiche la scarsità d’informazione e la carenza di pubblico confronto sulle vicende del “Parlamento dell’uomo”, destinato a sostenere la cooperazione laddove gli Stati non possono agire da soli con efficacia. Paul Kennedy affermava in quel libro: “È difficile immaginare quanto più spaccato e rovinoso sarebbe il nostro mondo di sei miliardi d’abitanti se non ci fossero le Nazioni Unite”. È invece facile notare quanto le Nazioni Unite siano investite dall’oblio riservato a qualsiasi progetto di sicurezza collettiva, a confronto della diffusa passione per qualsiasi diatriba o lutto – pur minore che sia.    

Ora, a prescindere dai giudizi di valore, e comunque si giudichi il complicato operare delle Nazioni Unite, è arduo sostenere che la diffusa ignoranza della sua vicenda ne sia la cifra dell’irrilevanza attuale nelle relazioni internazionali. Ciò non spiegherebbe perché i membri permanenti del Consiglio di sicurezza si stiano severamente confrontando per influenzare e dirigere, con le proprie scelte, la nomina del segretario generale. È ciò che accade ormai da tempo, all’ombra del pubblico disinteresse inconsapevole. Si tratta peraltro di una nomina che offre motivi specifici di notevole interesse, oltre a quelli consueti. Le Nazioni Unite hanno infatti avviato un processo di selezione più chiaro e verificabile, chiedendo agli Stati, per la prima volta nella storia di nominare dei candidati, cosicché oggi alcuni di essi sono donne e altri hanno avanzato un’agenda programmatica. Queste sono novità rilevanti se si considera la storia dell’organizzazione, fondata su una pratica consuetudinaria che, per più di mezzo secolo, ha condotto alla scelta di segretari generali nella stanza riservata del Consiglio di sicurezza, infine sottoposti alla scontata ratifica dell’Assemblea generale. 

Agli esigenti del mondo perfetto, intenti sulla soave bellezza dell’ideale, o a coloro i quali confondono l’ONU con il “governo mondiale”, travisando la sua natura, ciò potrà sembrar poco. Può darsi sia così, al prezzo di trascurare un dato di realtà: spesso, in politica, poco è meglio di niente. Oggi non esiste nemmeno la più piccola evidenza del fatto che gli Stati accetteranno mai di sottomettersi a un governo mondiale e alle procedure coerenti con tale struttura politica. Al contrario, perdurano le condizioni per le quali le relazioni internazionali sono condizionate dalla possibilità che i conflitti politici degenerino in guerra.

In effetti, il processo della nomina del segretario generale è oggi condizionato dalle divisioni generate dal riverbero delle guerre passate – Kosovo – e di quelle attuali – Siria, Libia e Ucraina. Esse contribuiscono a corrodere il consenso necessario a un esito condiviso su tale nomina, l’unica soluzione possibile. Si tratta di un processo affidato alla diplomazia più che alla legge. La Carta ONU indica succintamente, in un rigo dell’articolo 97, che il segretario è nominato dall’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza. Si sa che qualsiasi decisione del Consiglio di sicurezza deve includere tutti i membri permanenti e che tutti i membri permanenti possono impedire, anche legalmente, col proprio veto, qualsiasi decisione. Si sa altrettanto bene che ciascuna di queste potenze reclamò nel 1944 a Dumbarton Oaks questo potere. Da allora tutti contestano, di volta in volta, l’uso “irresponsabile” del veto, ma nessuno è stato in grado di rinunciarvi una volta per tutte. Al contrario, ciascuno lo rivendica costantemente usandolo a proprio fine. Pertanto, in un tempo intriso di retorica democratica, segnato dalla vulgata della globalizzazione, sembra lecito attendersi una diffusa considerazione critica ma realistica sulla democrazia rappresentativa in prospettiva mondiale, per quel tanto o poco che l’ONU rappresenta.

Sembra corretto sostenere, come fa Kennedy, che la cognizione di queste questioni debba essere patrimonio comune di chi possiede un’educazione. Così non è. Nel ventunesimo secolo questo impegno è calante, non crescente. Talché ci si potrebbe domandare se è più interessante il fatto che così tante persone si dedichino, ai margini delle loro attività, a considerare i problemi della politica mondiale, o che così poche persone facciano di questi problemi il loro interesse preminente. Sia come sia, resta una conclusione. La vita istituzionale della più ambiziosa delle organizzazioni mondiali è pressoché ignorata. Ciò riguarda più noi che l’ONU. Noi non siamo i popoli delle Nazioni Unite. Siamo quelli immortalati da Majakovskij nella chiusa di un monumentale componimento: “Noi siamo gente senz’ambizioni. Se non ci chiamano a nome non ci muoviamo. Piacciamo a nostra moglie, e di ciò ci sentiamo soddisfatti”.

 

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Chi comanda un drone è ancora un soldato?

L’uccisione di Giovanni Lo Porto in Pakistan è avvenuta per mano di chi? Tecnicamente di un oggetto violento non identificabile: un Drone da guerra. Uno degli oltre 6000 che pattugliano i cieli afghani e pakistani, compiendo in media un attacco ogni quattro giorni. Quest’arma ha un impiego straordinario: il numero di droni armati americani è aumentato del 1200% dal 2005. Negli Stati Uniti si formano forse più operatori di droni che piloti da guerra. Concretamente, dunque, l’uccisione di Lo Porto è avvenuta per mano di una persona. Ma Lo Porto, è stato detto, è un “danno collaterale” della dronizzazione della guerra. Nessuno sapeva della sua presenza laggiù. Che sia vero è ininfluente, perché il problema politico che il Drone genera sta tutto nell’incapacità di convertire un’immagine visiva, costruita per somma di indizi probabili (il ‘target’), in una definizione di bersaglio legittimo. Annulla di fatto la distinzione fondamentale che ritaglia uno spazio d’immunità per le persone: la distinzione tra civili e combattenti. La annulla perché il drone non mantiene le promesse del miraggio tecnologico che lo ha generato, ben riassunto dalla propaganda: “Nessuno muore eccetto il nemico”. È vero il contrario: tutti possono morire, e spesso muoiono, quando è l’ora di colpire, ossia sempre. Donne pakistane, bambini afghani, civili italiani colpiti da bombe in cerca di bersaglio.

Il Drone difatti non avverte e non irrompe. Il Drone colpisce silente. Vede tutto dal cielo ma in fondo è cieco perché non può riconoscere alcun effetto reale sul terreno. È pura violenza, senza corpo e senza mente, perché corpo e mente sono dislocati a migliaia di chilometri. Là, di fronte agli schermi, i piloti dei droni sono invulnerabili e non hanno alcun rapporto col rischio della morte. Al massimo, con le nevrosi da macabra routine. In effetti, non c’è sangue sullo schermo. Solo coordinate. Per loro che guidano la morte a distanza, essa è non solo impossibile bensì astratta. Non esiste perché non esiste nemico concreto, né reale campo di battaglia. Solo il Drone pilotato esiste e colpisce dal cielo, solitario. Nessuno combatte proprio perché lui interviene, cioè si pone in mezzo. Matteo Renzi ha ben spiegato tutto: “Non si è trattato di un blitz, gli Stati Uniti non hanno cercato di liberare ostaggi. Si è trattato di un intervento di cui solo tempo dopo si è capito che non aveva colpito soltanto terroristi di Al Qaida ma anche altre due persone”. Nella guerra al terrore nessuno era pronto a morire per Lo Porto. L’operatore del drone stava in un ufficio. Amministrava la guerra da una zona di pace, incarnando la rassicurante contraddizione della nostra società in guerra permanente all’esterno ma in pace costante all’interno. Solo lui, l’operatore, ha vissuto sulla sua pelle questa duplicità che ha un chiaro effetto dissociante. Oltre a lui nessuno può veramente collegare decisioni, azioni e risultati in modo distinguibile – ammesso che lui possa. Se è così, la dronizzazione della guerra è l’apoteosi di una procedura di separazione materiale e morale, dall’effetto confondente, fra noi e la realtà della guerra: tutto è legittimo, a prescindere. Si è allora giunti a uno stadio importante dell’età dell’immaginario virtuale. Esso non permette neanche più d’assistere alla morte in guerra, come durante i bombardamenti aerei trasmessi in TV, ma solo d’immaginarla. Di qui la domanda: l’operatore del drone è ancora un vero soldato, l’unità politica nel nome della quale uccide? Lo è, risponde Barack Obama che si è assunto la responsabilità di quanto accaduto. Renzi ha però instillato un dubbio: “La responsabilità è chiara”, ha detto, riferendosi agli ostaggi morti, perché “erano nelle mani di un’organizzazione terroristica che ne ha messo a rischio la vita”. Paolo Gentiloni ha mostrato più certezze: la responsabilità è “integralmente dei terroristi”. Con una spiazzante selezione morale si esclude dal computo bellico chi la vita l’ha tolta in un intervento detto “di guerra” ma che, a rigore, guerra non è per un semplice motivo: non esiste guerra senza responsabilità, seppur minima, per chi la combatte effettivamente. Il disallineamento tra la nostra società che dà mandato alla politica di uccidere nella guerra al terrore e l’esistenza stessa di quella guerra è quindi totale. Toglie persino la possibilità di una concreta empatia per le vittime che non sia pura retorica umanitaria, ovvero dissimulazione politica.

In fondo, però, costoro sembrano aver ragione. L’operatore del drone amministra la morte del bersaglio, legittimo o no, sottraendoci definitivamente dal codice della guerra e dalle sue scabrose implicazioni sociali e dal problema della scelta. Nessuna apparente responsabilità è iscritta nella routine dei raid di armamenti robotici senza uomini a bordo e perennemente in azione. Nessuna scelta esecutiva spetta alla politica, se non la burocratica autorizzazione di un ciclo perpetuo di bombardamenti. Non ci sono caduti da ricordare a futura memoria; solo morti. Nessun ricordo, nessun onore, nessun disonore. Vuoto politico. D’altronde, chi ha condotto il Drone sul cielo pakistano non poteva cadere in una guerra che non c’è. Si trovava in un rifugio climatizzato, forse in Nevada. Come noi, quel giorno ha ‘staccato’ tornando a casa. Non sappiamo se indossasse lo stemma del celebre drone MQ 9. Sappiamo invece della visionaria lucidità di quello stemma, con la morte mietitrice dalla falce acuminata e gocciolante sangue. Riassume nel proprio motto, truculento ma onesto, l’etica del drone, superba sintesi della nostra etica: “Che muoiano gli altri”.

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Elezioni catalane, dove tutti hanno già perso

Prim’ancora della chiusura delle urne catalane esiste già una possibile risposta alla domanda su chi sarà il vincitore: nessuno dei principali contendenti, «unionisti» o «indipendentisti». A ben vedere tutti hanno già perso, ammesso che la vittoria non significhi solo sopravvivere politicamente. Il fatto è che la Spagna non ha guadagnato nulla dalla vicenda catalana e idem la Catalogna; l’Unione Europea, anche. Notevoli risorse politiche sono state impegnate, consumate e infine disperse in un conflitto che non troverà alcuna nuova composizione nell’imminente esito elettorale. Ciò è del tutto logico, se è vero che le risposte logiche dipendono dalle domande. La domanda d’indipendenza catalana e la risposta che ha ricevuto sono entrambe logore, generatrici solo del conflitto sfociante in queste elezioni ma che con esse non cesserà. Sono domande e risposte che si reggono su categorie fruste, quelle del nazionalismo europeo, utili ormai ad alimentare solo spirali di conflitto sterile nel quale le logiche di contrapposizione non creano terreni fertili e tantomeno producono sbocchi fruttuosi. A ben vedere la sfida indipendentista catalana non ha avuto alcuna capacità creativa e, di conseguenza, non ha generato alcuna risposta creativa. Invece di ipotizzare uno sbocco alternativo a quello tipico della sovranità nazionale – ad esempio la creazione di un distretto europeo nello Stato spagnolo – la rivendicazione catalana si è data uno scopo irraggiungibile pacificamente e collocato integralmente nel vecchio schema antagonistico per cui a uno Stato nazionale s’intende sostituirne un altro, differente nell’aspetto ma identico nella logica, la logica della sovranità.

Cessata l’ebbrezza dello scontro, a nulla è valsa la vicenda degli ultimi mesi. La sua logica è tuttora immutata e, da entrambe le parti, definisce le elezioni che si stanno celebrando in queste ore attorno alla divisione tra «indipendentisti» e «unionisti». Questa vicenda locale traduce così un aspetto generale. La realizzazione d’istanze politiche in Stati territoriali particolari è ancora un fatto talmente familiare nell’ambiente politico europeo da essere comunemente assunto come inevitabile e ineludibile. Ciò accade proprio in Europa, laddove esiste, da più di mezzo secolo, il tentativo di ridefinire questo fatto favorendo l’espressione delle istanze politiche attraverso dispositivi di mediazione e decisione più ampi e innovativi; alcuni dei quali passano attraverso il concetto dell’Unione Europea ma non, necessariamente, attraverso la costituzione di nuovi Stati nazionali.

D’altronde anche il passato meno recente tramanda altri concetti: se a un europeo istruito del medioevo fosse stato chiesto quale fosse la prima associazione di idee che la parola «nazione» richiamasse alla sua mente, avrebbe risposto senza dubbio la costituzione di un’università, non quella di uno Stato. Vero è che, da allora, l’espressione giuridica della credenza nello Stato sovrano come compimento finale dell’esperienza politica delle persone non ha subito conclusivi arretramenti. Perlomeno non nella vicenda catalana, dove l’istanza dello Stato sovrano e indipendente ha assorbito quasi tutta l’energia intellettuale consacrata all’azione politica, cristallizzata sulla rivendicazione di un nuovo Stato e sull’opposizione uguale e contraria a questa rivendicazione. Nella contrapposizione fra interpreti dello Stato spagnolo e dello Stato catalano è già chiaro chi ha vinto le elezioni catalane del dicembre 2017: il concetto dello Stato sovrano.

Il suo pregiudizio intellettuale non è decantato e non ha perso il proprio, formidabile, sapore politico considerato ineguagliabile – si direbbe per antonomasia. Riproduce intatte le stesse emozioni anche in chi, nel XXI secolo, in una delle terre d’Europa più avanzate e prospere, potrebbe coltivare altre forme d’organizzazione politica per sostenere e alimentare le proprie rivendicazioni sociali. Cosicché la lotta politica degli indipendentisti e degli unionisti non segnala la presunta crisi dello Stato ma il suo rinnovato trionfo. Per cosa hanno lottato, e continuano a lottare, gli indipendentisti, se non per la realizzazione di uno Stato sovrano come quello dal quale s’intendono separare? E costoro cosa hanno cercato e continuano a cercare, se non la realizzazione e il riconoscimento di un’unità politica con inno, bandiera e prerogative sovrane riconosciute dagli altri Stati sovrani? È soprattutto a questo che s’oppongono coloro che hanno scelto d’ostacolarne il progetto, fronteggiandolo in strada, nei palazzi e oggi nelle urne. Ancora una volta unionisti e indipendentisti si sfidano per il trionfo dello Stato sovrano nell’Europa del XXI secolo. Appongono così, forse senza saperlo, il sigillo dell’eternità alla filosofia della storia del XXI secolo europeo. È questa la vecchia novità delle elezioni catalane, dove anche i vincitori hanno già perso la sfida del futuro.

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Catalogna. Lo stallo che cela un vuoto

Scaduto il primo ultimatum del governo di Spagna a quello catalano, le convulsioni politiche della crisi spagnola non cessano. La richiesta di chiarire il significato della dichiarazione d’indipendenza affermata e sospesa nei giorni scorsi è caduta finora nel vuoto. Si tratta dunque di capire se quel vuoto sia parte di una tattica inserita in un piano strategico oppure celi, più semplicemente, un vuoto politico. Ciò si chiarirà forse nei prossimi giorni, quando scadrà il secondo ultimatum del governo di Spagna e altri fatti si compiranno.

Nel frattempo la condizione critica di questa situazione di tensione s’evince dall’ultimo scambio epistolare ufficiale tra i due protagonisti principali, Carles Puigdemont e Mariano Rajoy. A conti fatti, la lettera di Puigdemont invoca un dialogo impossibile da svolgersi in un tempo inesistente. Il problema centrale che pone il «cammino come paese indipendente nel contesto europeo» della Catalogna non è un tema per Rajoy, né lo sarà mai. Tale cammino fondato sul dialogo non esiste. Quel che esiste è una corsa contro il tempo per stemperare una crisi politica di consistente pericolosità. La quale, come tutte le crisi, rischia di degenerare a causa della propria inerzia, di rischi incontrollati e di calcoli sbagliati. Consideriamo un elemento cruciale di questi ultimi.

Il calcolo politico di Puigdemont d’internazionalizzare la crisi non ha prodotto risultati e la questione catalana è ormai ricondotta alla dinamica interna della politica spagnola, unita contro la «secessione». Non è chiaro, d’altra parte, come avrebbe potuto essere diversamente. Quel «contesto europeo» ripetutamente invocato, ossia la legittimazione internazionale posta a corollario della dichiarazione d’indipendenza catalana, occlude il cammino politico immaginato dal governatore catalano. Quella politica d’indipendenza unilaterale non può ottenere riconoscimento in Europa. Il «contesto europeo» attuale, l’unione di Stati detta Unione Europea, non è il luogo dove essa può vivere ma quello dov’è destinata a perire. L’Unione stessa rischierebbe la disintegrazione se così non fosse. Né gli Stati membri né la Commissione possono difatti sostenere un principio disgregativo quale quello dell’indipendentismo territoriale unilaterale. Esso significherebbe il collasso del sistema politico dell’Unione che è, in prima istanza, un sistema di Stati sovrani. In assenza di un governo comune europeo gli Stati svolgono un ruolo politico fondamentale, imponendo un principio d’ordine – la propria sovranità. A essa è ricondotta la complessa struttura di autorità sovrapposte e lealtà incrociate che da sempre caratterizza il territorio europeo e i suoi abitanti. L’integrazione europea non ha spostato i termini fondamentali di questa questione: se gli interessi della popolazione europea sono oggi articolati e aggregati, conciliati e legittimati, ciò avviene anzitutto attraverso il meccanismo politico di un sistema di Stati che ha dato vita all’Unione Europea e la fa esistere. Se questo meccanismo politico statuale cede, cede anche l’integrazione europea. 

Non vi è nulla di recondito in queste considerazioni e l’isolamento internazionale della politica di Puigdemont ne reca oggi implicita conferma. Di fronte a questo isolamento la domanda è dunque come sia possibile, per il governo catalano, eludere o ridimensionare il conflitto interno innescatosi sulla «rottura del principio di legalità» citato da Rajoy nella propria lettera. Questo è il vero problema di Puigdemont oggi, non il «cammino come paese indipendente nel contesto europeo» della Catalogna. A tale problema la procura spagnola ha già fatto fronte con la richiesta d’arresto per sedizione del capo della politica catalana Josep Lluís Trapero e l’arresto di due leader indipendentisti. Sembra questa la risposta concreta alla seconda richiesta della lettera di Puigdemont, «far cessare la repressione contro il popolo e il governo della Catalogna». Sia come sia, il tempo di due mesi auspicato da Puigdemont per il dialogo si è subito ridotto a due ore effettive – il tempo della risposta di Rajoy – e lo spazio di manovra rimastogli evoca più la libertà condizionata inflitta a Trapero che la libertà assoluta dallo Stato spagnolo. In questo quadro politico, avverso e introverso, il governo catalano dovrà infine chiarire la propria decisione definitiva sulla scelta politica d’indipendenza, comunicandola entro giovedì. Quella decisione, anche se omessa, potrà condurre al punto del non ritorno rappresentato dalle misure straordinarie previste dalla Carta costituzionale spagnola e finora mai attuate. Nessuno può oggi sapere con certezza cosa deciderà il governo catalano di fronte a questo rischio. Ciò che si sa è che la crisi catalana ha riproposto un insegnamento politico forse ormai chiaro anche ai suoi protagonisti principali: prima di prendere decisioni gravi occorre considerarne i rischi.

 

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Il ritorno della paura dell’atomica

L’umanità ha scoperto l’energia atomica il 2 dicembre 1942, quando Enrico Fermi attivò a Chicago il primo reattore nucleare CP-1. Tre anni dopo il mondo ne scoprì la potenza bellica, quando gli Stati Uniti d’America scagliarono contro il Giappone il primo e finora unico bombardamento atomico. A settantacinque anni da quella scoperta le profonde conseguenze politiche del suo impiego bellico sono intatte e riemergono implicitamente nelle crisi d’Iran e Corea, entrambe legate allo sviluppo vero o presunto di programmi nucleari. Ciò accade per un motivo essenziale: l’uso dell’arma nucleare ha sconvolto l’umanità irrompendo nella cultura popolare e il riemergere della sua minaccia si presenta sempre, incubo non sopito, come minaccia esistenziale.

È un atteggiamento comprensibile e realistico. La vera portata storica del fatto nucleare non è racchiusa nella complessità della risposta che l’equilibrio del terrore ha offerto durante la guerra fredda, cioè all’ipotesi inverificabile che la terza guerra mondiale sia stata evitata dallo stallo nucleare fra URSS e USA, dalla presenza di un sistema d’arma il cui uso poteva essere solo artatamente minacciato ma non razionalmente attuato. La vera portata storica del fatto nucleare risiede nella semplicità del quesito che Norberto Bobbio pose proprio in quel periodo, evocando la realtà di Hiroshima e l’epilogo della seconda guerra mondiale: «Quando mai erano stati sterminati in un sol colpo più di centomila uomini?». Meditando una risposta ciascuno può riflettere su un «prima» e un «dopo» che divaricano il concetto di vita e di morte, al punto di rendere patrimonio collettivo e non più individuale il senso della possibilità della seconda.

È vero che gli esseri umani sono diventati gli uni per gli altri il pericolo più grande da quando possiedono utensili di metallo per procurarsi i mezzi di sostentamento. È però altrettanto vero che la minaccia di quel reciproco pericolo cambia al cambiare delle capacità distruttive delle armi possedute dagli uni e dagli altri. L’avvento dell’era atomica, consacrato dall’invenzione di missili balistici in grado di scagliare ordigni nucleari a migliaia di chilometri, rappresenta l’apoteosi della possibilità umana di minacciare i propri simili d’estinzione fisica improvvisa e quasi immediata. La percezione di questa possibilità produce, di per sé, un senso di minaccia diffuso che solo il possesso del nucleare genera. La ragione di questa tensione è semplice.

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Brexit nell’interesse nazionale. Di quale nazione?

In ‘Fumo di Londra’, diretto nel 1966 da Alberto Sordi, un modesto antiquario perugino, Dario Fontana, si reca a Londra per conoscere da vicino l’adorata Inghilterra. Dopo una rocambolesca vicenda, conclude in modo imbarazzante la sua avventura. Oggi è il fumo da Londra che colpisce lo spettatore della politica. I protagonisti di Brexit faranno la fine di Fontana? In effetti la vicenda sembra evocare, man mano che si avviluppa, generi sempre diversi. Se non fosse per il serio tenore politico della questione gli ultimi episodi ricorderebbero certi tratti della commedia dell’arte. Di certo colpisce una dirompente formula comune: l’irruzione delle donne sul palcoscenico.

Dopo il torvo discorso del 17 gennaio scorso, Theresa May, Primo ministro britannico, è ritornata sulla scena politica d’Europa. Stavolta accade involontariamente, in una situazione imbarazzante, allorquando è stato stabilito che il suo governo non può dare esecuzione al percorso di separazione dall’Unione europea. La Corte suprema di Londra ha disposto, in via definitiva, che la notifica dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona per l’avvio dei negoziati per l’uscita dall’Unione europea dovrà infine essere autorizzato da un voto del Parlamento britannico ma non di quello gallese, nord-irlandese e scozzese.

È proprio da quest’ultimo passaggio che si evince un dato politico cruciale ma talvolta trascurato, aldilà dell’imbarazzo governativo e dell’incerto futuro creato dalla sentenza. Il devastante impatto del processo avviato con la Brexit dal Governo inglese rischia d’incendiare, come fosse una vampata di ritorno, non solo l’Europa unita bensì il Regno Unito. In effetti Theresa May ha richiamato nel suo discorso del 17 gennaio un concetto certo venerabile ma ambiguo e, in questa situazione, incandescente: l’interesse nazionale. Nel negoziato con l’Unione europea ha affermato ruvidamente che «il Governo non subirà pressioni per dichiarare nulla che non sia ciò che io intendo dire nel nostro interesse nazionale». La questione cruciale posta da Brexit è: l’interesse di quale nazione? Su questo dilemma s’innescano oggi tensioni che attraversano le isole britanniche.

È difatti accaduto che nell’ottobre scorso un’altra donna, il Primo ministro scozzese Nicola Sturgeon, aveva ben chiarito il proprio pensiero politico sull’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, poi ribadito recentemente. «Se qualcuno pensa, anche solo per un istante, che io non sia seriamente intenzionata a fare ciò che è necessario fare per proteggere gli interessi della Scozia, allora è bene che rifletta ulteriormente». Fu una riflessione rivolta verso Londra, all’indirizzo del Primo ministro inglese dal Primo ministro di una delle nazioni costitutive del Regno Unito. La signora Sturgeon chiarì che «se qualcuno non può, o non vuole, permetterci di difendere i nostri interessi nel Regno Unito allora la Scozia avrà di nuovo il diritto di decidere se essa intende seguire una strada differente». Questa chiara allusione politica fu il preludio alla decisione del Governo di Dublino di depositare una nuova proposta di legge per celebrare un secondo referendum sull’indipendenza scozzese dal Regno Unito.  Accade dunque che la Scozia reclami la decisione di difendere il proprio interesse nazionale definito nell’appartenenza non solo al Regno Unito bensì all’Europa unita. D’altra parte, e forse ancor più stridente, è la questione che oggi investe l’Irlanda del Nord, laddove l’accordo del Venerdì Santo a suggello del processo di pace è legato all’adesione europea del Regno Unito la quale, tra l’altro, consente tuttora l’esistenza di un confine ‘europeo’ con l’Irlanda, Stato dell’Unione.

Naturalmente il Regno Unito esisteva prima dell’Unione Europea e potrà certamente esistere anche dopo – questo è ovvio. Ciò detto, nella fumosa politica di Brexit non sembra ancora chiaro come affrontare questi fatti. L’incertezza è dominante, eppure sembra sempre più svelarsi uno degli esiti politici della decisione del Governo inglese sulla Brexit: aver posto le condizioni per una crisi dell’unione britannica, oltre a quella dell’Unione europea. In una classica ironia della politica, l’imprudente scelta dei Conservatori inglesi ha generato anche questo effetto imprevisto e perverso. Sarebbe paradossale che il peggior nemico del Regno Unito nel XXI secolo si rivelasse in un’insospettabile «quinta colonna», il Governo inglese.

Sia come sia, David Davis, Segretario di Stato per l’uscita dall’Unione europea, ha ripetuto dopo la sentenza della Corte che nulla cambia perché il “punto di non ritorno” per Brexit è ormai passato. Se nulla cambierà è da vedersi; che si sia giunti a un punto di non ritorno potrebbe anche essere vero. Ma questo punto non è solo quello in cui la giovane unione degli Stati d’Europa rischia la disintegrazione; è anche quello dove la vecchia unione delle isole britanniche rischia la frantumazione. Se così fosse il fallimentare gioco d’azzardo di David Cameron e successori avrebbe raggiunto il nadir della propria futilità, passando alla storia come la peggior bancarotta politica d’oltremanica.

 

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Brexit: divisione in Gran Bretagna e coesione in Europa

«È importante che intorno al tavolo si sieda un forte premier del Regno Unito con un forte mandato da parte del popolo del Regno Unito, un fatto che rafforzerà la nostra posizione negoziale per garantire che otterremo il migliore accordo possibile». Questo è il motivo delle elezioni anticipate inglesi che si terranno l’8 giugno, chiarito dal primo ministro May: la centralità politica del negoziato sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Gli eventi di questi giorni mostrano dunque il peso reale della Brexit rispetto alle elezioni britanniche. Si tratta di un macigno politico, non di un sassolino. Per la seconda volta nell’esplosiva storia della Brexit, il governo conservatore ha deciso di aprire le urne per far fronte a un problema interno al proprio partito. Stavolta è Theresa May a puntare la propria debolezza sulla ruota della fortuna politica, dopo il fallimentare gioco d’azzardo di Cameron. Il fatto è che la decisione di uscire dall’Unione Europea ha finora prodotto divisione in Gran Bretagna e coesione in Europa continentale. È un paradosso della storia, e un fatto rilevatore, che la dinamica politica dell’Unione Europea abbia generato una spinta aggregatrice non di fronte a una minaccia esterna bensì nel contrasto all’azione politica di uno Stato membro. È chiaro altresì che l’esito del negoziato sia percepito come una minaccia esistenziale all’integrità dell’Unione. In questo contesto possono intendersi le parole pronunciate da Juncker il primo maggio scorso: «Brexit non può essere un successo».

Nei giorni scorsi gli Stati dell’Unione hanno mostrato singolare comunanza nell’assumere una postura diplomatica arcigna per la definizione delle linee negoziali verso il Regno Unito. In effetti le possibilità del successo negoziale britannico, così com’è stato finora definito dal governo, sono direttamente proporzionali alla capacità d’incrinare l’unità euro-continentale. Le questioni divisive fondamentali sono tre, ben note, e altre ne seguiranno. Primo, la protezione dei diritti dei cittadini europei presenti in Gran Bretagna. Secondo, il saldo degli astronomici conti aperti che l’Unione Europea rivendica nei confronti del Regno unito (60 miliardi). Terzo, la questione della definizione dello status del confine nord-irlandese.

Sono tutte questioni scabrose che hanno già prodotto effetti dirompenti. Il più emblematico è che la peggiore delle divisioni politiche volute con Brexit, ossia quella prodotta tra le persone, si è già realizzata. Cosicché il presidente del Consiglio europeo ha rivendicato nei confronti del governo britannico «reali garanzie per il nostro popolo». Esiste dunque ormai nello schema politico un popolo europeo («il nostro») del quale quello britannico non è più parte. Se questo schema politico non muterà, produrrà ben presto effetti concreti. Ad ogni modo annuncia fin d’ora il conto salato di Brexit, il primo fra i tanti: il ritorno di un vecchio confine mentale nello spazio che s’immaginava comune. Quest’immagine di comunanza sembra per ora defunta e un simbolo politico di divisione marchia a fuoco il concetto stesso del negoziato. In questa vicenda non sorprende scoprire quanto l’Europa di Brexit assomigli, per questi versi, più a quella di Richelieu che a quella di Erasmo. «I princìpi comandano ai popoli e l’interesse comanda ai princìpi», scriveva nel 1638 il soldato ugonotto Henri de Rohan. Oggi sembra riproporsi spirito e lettera di questo motto esemplare, visibile nelle parole del presidente Hollande verso Downing Street: «L’Europa sa come difendere i propri interessi». D’altra parte la presunta pretesa della signora May che del negoziato «tutto debba rimanere segreto» reclama il ritorno a uno stile diplomatico delegittimato in Europa almeno da un secolo, ossia la diplomazia segreta. Altre pretese analoghe di questi giorni sono parse «piuttosto incredibili» e un commento diplomatico emerge significativo: «sembrano giungere da una realtà parallela». Per questo gli europei hanno invitato la May «a non farsi illusioni» e a recuperare il realismo necessario ad affrontare un negoziato che non può portare l’Europa continentale laddove l’attuale governo inglese vorrebbe condurlo: in mare aperto. È questa cornice europea che racchiude il quadro delle prossime elezioni inglesi. Chi ne sarà l’interprete migliore non è noto. Per ora, lo si voglia o no, quella parte della Manica resta ancora parte integrante del destino comune dell’Europa politica.