Atlante

Stefano Cisternino

È un giovane europrogettista e giornalista sociopolitico. Ha conseguito una laurea triennale in Studi internazionali (Università di Trento) e una laurea magistrale in Studi sulla pace e i conflitti (Università di Uppsala, Svezia). Le sue ricerche si focalizzano da un lato sulle dinamiche etno-sociali dei fenomeni migratori, dall’altro sugli effetti che il cambiamento climatico ha sul costrutto globale. Al momento collabora con diverse testate giornalistiche sia nazionali che internazionali, quali The Climate Route, Acume, Uttryck Magazine.

Pubblicazioni
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La sfida UE di conciliare ambiente e agricoltura

 

L’ambizioso obiettivo climatico dell’Unione Europea (UE) ha destato sia applausi che segnali di preoccupazione. Mentre l’UE mira a essere un leader globale nell’azione climatica, il percorso per raggiungere questi obiettivi è intriso di complessità, soprattutto per quanto riguarda l’agricoltura. Gli agricoltori di tutta Europa si trovano al crocevia di queste politiche, spesso percependosi come capri espiatori nel più ampio dibattito climatico. Nei Paesi Bassi, ad esempio, la spinta del governo per la sostenibilità ambientale ha provocato una significativa reazione da parte della comunità agricola. Gli agricoltori olandesi, da tempo lodati per le loro pratiche agricole innovative, si trovano ora sotto la lente d’ingrandimento per il loro contributo alle emissioni di gas serra. Questa dinamica si ripropone in tutta Europa, dove gli agricoltori sono sempre più visti come colpevoli e non come partner nella lotta contro il cambiamento climatico.

Tuttavia, non si tratta solo di emissioni, ma del tema più ampio della sopravvivenza delle comunità rurali. Il movimento dei cittadini agricoltori nei Paesi Bassi (in olandese BoerBurgerBeweging, BBB), ha guadagnato consensi come forza politica, dando voce a coloro che si sentono emarginati dalle politiche orientate alle città. Questo movimento, insieme ad altri simili emersi in tutta Europa, sottolinea l’ampio divario tra aree rurali e urbane, mettendo in discussione l’approccio dell’UE nel bilanciare gli obiettivi ambientali con i mezzi di sussistenza della sua popolazione rurale.

Tuttavia, ci sono segnali di speranza. Prendiamo, ad esempio, Almócita in Spagna. Questo piccolo villaggio è emerso come modello, mostrando come le iniziative locali possano contribuire a obiettivi ambientali più ampi. Attraverso il coinvolgimento della comunità e l’uso di fonti di energia rinnovabile, Almócita offre un approccio più equilibrato allo sviluppo rurale. Allo stesso modo, la Danimarca è stata pioniera nel campo dell’energia eolica, coinvolgendo le comunità locali nella pianificazione e nella redistribuzione dei benefici di questi progetti, creando così un modello più inclusivo. Questi esempi suggeriscono che un approccio più sfumato, che coinvolge agricoltori e comunità rurali nel processo decisionale, può portare a risultati più sostenibili ed equi dal punto di vista sociale.

Ma la domanda rimane: può l’UE attraversare questo complesso labirinto di interessi contrastanti per creare politiche che siano sia ambientalmente sostenibili che socialmente giuste? La traiettoria attuale suggerisce un crescente distacco tra Bruxelles e l’Europa rurale, una lacuna che deve essere colmata per ottenere progressi significativi. Mentre l’UE continua a spingere per obiettivi ambientali ambiziosi, deve anche considerare le ricadute sociali ed economiche di queste politiche, in particolare per le sue comunità rurali.

In conclusione, mentre gli obiettivi climatici dell’UE sono lodevoli, l’attuazione di queste politiche richiede un approccio più equilibrato, che miri non solo alla sostenibilità ambientale, ma tenga conto anche delle realtà socioeconomiche dei suoi diversi Stati membri. Il fallimento nel farlo potrebbe non solo mettere a repentaglio gli obiettivi ambientali dell’UE, ma anche rischiare di alienare una parte significativa della sua popolazione, gettando i semi dell’instabilità sociale e politica.

 

Immagine: Agricoltori che protestano contro le misure volte a ridurre le emissioni di azoto, Stroe, Paesi Bassi (22 giugno 2022). Crediti: pmvfoto / Shutterstock.com

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Nell’era dell’ebollizione globale occorre superare la “cecità al cambiamento”

 

L’era dell’“ebollizione globale” è ormai alle porte, come dimostrano rapporti allarmanti e osservazioni di prima mano in regioni vulnerabili di tutto il mondo. L’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) ha lanciato un severo avvertimento: ci stiamo avvicinando pericolosamente al superamento della soglia di 1,5 °C di riscaldamento globale stabilita dall’accordo di Parigi. Contemporaneamente, la recente visita in Iraq dell’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Volker Türk ha dipinto un quadro sconvolgente di come il cambiamento climatico stia già colpendo alcune delle popolazioni più vulnerabili del mondo. La situazione richiede un’azione immediata, ma molti rimangono indifferenti a causa di un fenomeno psicologico noto come “cecità al cambiamento”.

In primo luogo, analizziamo le basi scientifiche della nostra preoccupazione. Il rapporto dell’OMM non è solo un’altra voce di un elenco di avvertimenti, ma segnala che il tempo sta scorrendo più velocemente di quanto sperassimo. Il superamento dell’aumento di 1,5 °C della temperatura globale porterebbe a una cascata di conseguenze irreversibili, da eventi meteorologici estremi come inondazioni e ondate di calore all’innalzamento a lungo termine del livello del mare e alla perdita di habitat. Non stiamo parlando solo di disagi, ma di una completa alterazione degli ecosistemi, delle economie e delle vite.

Per dare elemento di concretezza a queste statistiche basti pensare alle allarmanti osservazioni di Volker Türk in Iraq. Questo Paese mediorientale è alle prese con la diminuzione delle risorse idriche, con il caldo estremo e il deterioramento delle condizioni umane. I fiumi Tigri ed Eufrate, anticamente culla di antiche civiltà, sono ora troppo scarsamente alimentati per sostenere l’agricoltura che un tempo prosperava lungo le loro sponde. Secondo le Nazioni Unite, l’Iraq è tra i Paesi più vulnerabili al cambiamento climatico e le esperienze vissute dalla sua popolazione riflettono questa dura verità. Le famiglie sono costrette ad abbandonare le terre e i modi di vita ancestrali. Il tessuto stesso delle comunità si sta disintegrando, con implicazioni a lungo termine per la coesione sociale e la pace.

Nonostante queste prove schiaccianti, la reazione dell’opinione pubblica è stata contenuta e, nel cercarne le ragioni, possiamo individuarne anche nella cosiddetta “cecità al cambiamento” o “cecità cognitiva”, un pregiudizio cognitivo che ci impedisce di notare i cambiamenti graduali nel tempo. Questa barriera psicologica ha implicazioni che vanno ben oltre il non notare il nuovo taglio di capelli di un amico. Sta invece contribuendo attivamente alla nostra inazione collettiva sui cambiamenti climatici. Poiché i cambiamenti climatici si verificano lentamente, spesso non suscitano una preoccupazione immediata, consentendo l’insorgere della negazione o dell’indifferenza.

Tuttavia, la storia ha dimostrato che superare la cecità al cambiamento non è impossibile.  Per esempio, il protocollo di Montreal ha affrontato l’allarmante riduzione dello strato di ozono tre decenni fa. Con la volontà collettiva e l’allineamento delle politiche, tutte le 193 nazioni dell’ONU hanno concordato di eliminare gradualmente le sostanze che impoveriscono lo strato di ozono, portando a un suo recupero. Questa azione globale è stata promossa nonostante le incertezze scientifiche e rappresenta un potente esempio di come un’azione coordinata possa produrre un cambiamento reale.

 

Che cosa significa questo oggi per noi? È un invito all’azione su più fronti, che coinvolge i responsabili politici, chiamati a rafforzare le normative ambientali, le industrie, che devono adottare pratiche sostenibili, e ognuno di noi, cui spetta di fare scelte di vita più consapevoli. Questi possono sembrare piccoli passi, ma tutti insieme agiscono per creare un impatto significativo. Così come il problema è stato creato attraverso molteplici piccole azioni, anche la soluzione risiede in cambiamenti collettivi e incrementali. I rapporti critici dell’OMM e il deterioramento della situazione in Iraq sono un invito immediato all’azione. Il pericolo è reale e si sta aggravando. È giunto il momento di superare barriere psicologiche come la cecità al cambiamento e di riconoscere la gravità della crisi climatica che stiamo affrontando. Con l’aumentare della posta in gioco, dovrebbe aumentare anche la nostra determinazione ad agire. Abbiamo le conoscenze, l’esperienza e, soprattutto, l’urgente necessità di mitigare gli effetti devastanti del cambiamento climatico sulle popolazioni più vulnerabili del mondo. Ora abbiamo solo bisogno della volontà collettiva di andare avanti.

 

 

Immagine: Una donna raccoglie acqua nelle zone un tempo umide ma ormai aride delle paludi centrali dell’Iraq meridionale, Al-Chibayish, Iraq (1 novembre 2018). Crediti: John Wreford / Shutterstock.com

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Fumo e cenere: cause e impatto degli incendi in Canada

 

Hanno impressionato le immagini circolate alcuni giorni fa che ritraevano New York avvolta in una densa nuvola di fumo proveniente dagli incendi boschivi in Canada; fumo che ha causato un calo senza precedenti della qualità dell’aria, minacciando la salute pubblica e dimostrando in maniera equivocabile che la crisi climatica sta diventando sempre più pronunciata. Le radici di questo fenomeno possono essere rintracciate in fatti avvenuti oltre un mese fa. Il primo stato di emergenza è stato dichiarato infatti in Alberta il 4 maggio, e da allora centinaia di incendi sono divampati in tutto il Paese, con oltre 400 incendi attivi a partire dal 7 giugno. Si pensa che la maggior parte degli oltre 2.000 incendi che il Canada ha registrato quest’anno siano stati appiccati da esseri umani. Alcuni, in particolare in Québec, sono stati scatenati da fulmini.

È chiaro che i singoli incendi non possono essere collegati direttamente ai cambiamenti climatici e che entrano in gioco altri fattori di origine umana, come ad esempio il modo in cui vengono gestiti le foreste e il territorio. Gli scienziati però concordano nel dire che il cambiamento climatico sta rendendo sempre più probabili condizioni meteorologiche estreme come il caldo e la siccità che favoriscono gli incendi. Robert Scheller, professore di silvicoltura alla North Carolina State University, afferma che: «Il segnale climatico è molto forte. Stiamo vedendo aree bruciate sempre più ampie e assistendo a incendi sempre più intesi».

Quest’anno la primavera in Canada è stata molto più calda e secca del solito, e ha creato un ambiente secco ideale per il diffondersi degli incendi. Ad Halifax, nella provincia orientale della Nuova Scozia, le temperature nella prima settimana di giugno hanno raggiunto i 33 °C, circa 10 gradi in più del normale per quel periodo dell’anno. Parti del Paese, tra cui Alberta e Saskatchewan, sono in siccità dal 2020.

«La vegetazione nelle foreste è eccezionalmente secca», afferma lo scienziato del clima Daniel Swain dell’UCLA (University of California, Los Angeles), il che significa che con un clima più caldo ci saranno più temporali, quindi più fulmini. Centinaia di fuochi possono essere accesi con una singola tempesta di fulmini. Gli incendi boschivi, peraltro, contribuiscono anche alle emissioni di gas serra, quei gas che riscaldano la nostra atmosfera, in un circolo vizioso di cui non si vede la via d’uscita. Secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service, le emissioni degli incendi boschivi in Canada a maggio hanno raggiunto 54,8 milioni di tonnellate, che è più del doppio dei record passati per quel mese da quando sono iniziate le stime nel 2003.

 

In che modo gli incendi influenzano la qualità dell’aria?

Il Nord-Est degli Stati Uniti è stato per giorni avvolto da una fitta foschia che rendeva l’aria irrespirabile. Quello che si sta verificando è un vero e proprio schema meteorologico, ovvero il Canada, e nello specifico la zona a nord-ovest dei Grandi Laghi, è interessata da alta pressione. Questo comporta che finché la direzione dei venti non muterà, il fumo continuerà ad avvolgere – sempre di più – gli Stati Uniti. Ashwin Vasan, commissario del dipartimento della Salute e dell’igiene della città di New York ha dichiarato che i residenti non sperimentavano livelli così significativi di smog cittadino dal 1960, prima che il Clean Air Act federale entrasse in vigore. Mentre è normale in estate a New York City superare un livello AQI (Air Quality Index, Indice di qualità dell’aria) di 100 – il che significa che l’aria è “malsana per i gruppi sensibili” –, in genere non supera i 150. A memoria d’uomo la città non aveva mai superato la soglia dei 200, cosa che è avvenuta brevemente qualche giorno fa. Il particolato fine nell’aria potrebbe entrare nei polmoni delle persone, causare infiammazioni e peggiorare condizioni critiche come asma, malattie polmonari croniche o criticità cardiache preesistenti. Per questa ragione, La governatrice Kathy Hochul ha annunciato mercoledì 7 giugno la distribuzione di un milione di mascherine N95 ai suoi residenti. Il principale consiglio: restate a casa.

Se milioni di americani hanno difficoltà a respirare, il Canada sta sopportando il peso delle centinaia di incendi che imperversano in tutto il Paese e la situazione non mostra segni di miglioramento, con situazioni sempre più estreme in città come Toronto, Montréal e Ottawa.

 

Cosa fare per ridurre il rischio di incendi?

Ridurre il rischio di incendi è alquanto complicato, anche perché gli incendi sono anche una parte naturale del nostro ecosistema. Non si può, né si vuole, spegnere ogni incendio. Mitigare gli incendi e limitarne l’impatto sulle comunità è però una priorità. A questo contribuisce una costante attività di monitoraggio e previsione. Proprio il Canada, ad esempio, sta per lanciare un satellite specificamente progettato per monitorare gli incendi, non solo rilevandoli, ma anche fornendo informazioni sul loro comportamento. Questo è importante perché i satelliti esistenti non riescono a sorvolare gli incendi quando sono più intensi, cosa che accade nel tardo pomeriggio. Questo nuovo satellite mostrerà l’andamento dell’incendio e fornirà informazioni più velocemente dei satelliti esistenti. Tali dati saranno disponibili entro 30 minuti dal passaggio del satellite, in modo da poter essere immediatamente utilizzati dalle forze antincendio. Tutto ciò contribuirà a mettere a regime un sistema di prevenzione e contrasto essenziale per affrontare uno scenario sempre più certo nel nostro futuro e minaccioso per i cittadini più vulnerabili.

 

Immagine: Una coltre di fumo copre New York. Il fumo degli incendi canadesi si sta diffondendo in tutto il Nord-Est causando problemi di qualità dell’aria, New York, Stati Uniti 7 giugno 2023. Crediti: rblfmr/ Shutterstock.com

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Guerre climatiche: il nesso tra cambiamenti climatici e conflitti armati

 

Il conflitto in corso tra Russia e Ucraina ha catturato l’attenzione del mondo, ma le radici di questa crisi geopolitica vanno oltre le rivalità politiche e le tensioni storiche. Sotto la superficie si nasconde una complessa interazione tra cambiamenti climatici, dipendenza dalle risorse e vulnerabilità ambientali. Siamo di fronte ad una guerra climatica.

 

Cause e conseguenze delle guerre climatiche

Il concetto di guerre climatiche è diventato oggetto di attenzione nel 2007, quando il capo delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha suggerito che la guerra nella regione sudanese del Darfur fosse in parte il risultato della diminuzione delle precipitazioni, causa di conflitti per l’acqua e le risorse. Allo stesso modo, sono stati tracciati collegamenti tra le rivolte della Primavera araba del 2011 e le ondate di calore nei Paesi esportatori di cereali, che hanno causato un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari e contribuito ai disordini sociali. Sebbene gli scienziati del clima rimangano cauti nello stabilire una causalità diretta tra cambiamenti climatici e conflitti, gli strateghi militari hanno riconosciuto la necessità di incorporare i cambiamenti climatici come fattore di rischio nella pianificazione dei conflitti. Resta il fatto che il 6° rapporto di valutazione dell’IPCC  è estremamente chiaro: né le misure attuali né quelle promesse dai governi negli ultimi mesi sono lontanamente sufficienti a mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi Celsius; allo stato attuale, ogni singolo luogo abitato del pianeta subirà gli effetti della crisi climatica, con almeno la metà della popolazione mondiale in una condizione di “alto rischio”; non solo, ma la Terra sta perdendo la sua capacità di assorbire il carbonio, il che significa che le nostre possibilità di adattamento stanno diminuendo. Il collegamento diretto tra cambiamento climatico e guerre potrà essere anche debole, ma di certo non si può negare che sia un moltiplicatore di minacce, accentuando l’instabilità e quindi il rischio di conflitti sempre più violenti per risorse sempre più scarse.

 

Sebbene sia impossibile prevedere con certezza dove si verificheranno le prime guerre climatiche, ci sono regioni che presentano un alto rischio di sperimentare tali conflitti a causa della convergenza di vulnerabilità ambientali, instabilità politica e scarsità di risorse.

La regione del Sahel: la regione africana, che si estende su più Paesi come il Mali, il Niger e il Ciad, è altamente suscettibile agli impatti dei cambiamenti climatici. Siccità, desertificazione e scarsità d’acqua hanno già messo a dura prova i fragili ecosistemi e contribuito all’instabilità sociale ed economica. Questa regione è anche alle prese con conflitti in corso e disordini politici, che aggravano i rischi di tensioni e violenze legate al clima.

Asia meridionale: questa regione, che comprende Paesi come l’India, il Pakistan e il Bangladesh, deve affrontare molteplici problemi legati al clima. L’innalzamento del livello del mare rappresenta una minaccia significativa per le aree costiere a bassa quota, con conseguenti spostamenti e conflitti per le risorse. Inoltre, la regione dipende in larga misura dall’acqua dei sistemi fluviali condivisi, come l’Indo e il Gange, creando il potenziale per dispute sulle risorse idriche, che diventano sempre più scarse a causa dei cambiamenti climatici.

Artico: il rapido scioglimento dei ghiacci artici pone una serie di sfide uniche. Con il ritiro dei ghiacci, l’accesso a risorse preziose, tra cui petrolio, gas e stock ittici, diventa sempre più possibile. La potenziale competizione sulle risorse e le dispute territoriali tra le nazioni artiche, tra cui Russia, Stati Uniti e Canada, sollevano preoccupazioni sul futuro della regione e sul potenziale di conflitti.

Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS, Small Island Developing States): i SIDS, come le Maldive e Tuvalu, sono minacciati dall’innalzamento del livello del mare. Queste nazioni sono particolarmente vulnerabili agli impatti del cambiamento climatico, poiché possiedono risorse limitate, piccole aree terrestri e alte densità di popolazione. Lo sfollamento e la perdita di terre abitabili possono portare a un aumento delle tensioni e a potenziali conflitti per la migrazione, le risorse e le rivendicazioni territoriali.

Inoltre, la crisi climatica ha certamente esacerbato la già instabile situazione in Ucraina. Quest’ultima, nota come “granaio d’Europa” grazie alle sue importanti esportazioni di cereali, sperimenta direttamente le ramificazioni del cambiamento climatico, poiché le frequenti siccità influiscono sui raccolti e fanno salire i prezzi dei prodotti alimentari a livello globale, mettendo potenzialmente a rischio la sicurezza alimentare dei Paesi che dipendono dalle importazioni di cereali.

 

Il conflitto russo-ucraino: una guerra (anche) climatica

L’economia russa dipende fortemente dalle esportazioni di gas e petrolio, che contribuiscono per il 36% al bilancio federale. I Paesi europei, che ricevono il 40% del gas dalla Russia, svolgono un ruolo significativo in questo contesto. Per aggirare il territorio dell’Ucraina e di altri Paesi europei, la Russia vuole aprire il gasdotto Nord Stream 2, che consentirebbe il trasporto diretto di 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno verso la Germania attraverso il Mare Baltico. Tuttavia, la Germania sta attualmente bloccando il gasdotto, che darebbe alla Russia un maggiore controllo ed eviterebbe la dipendenza da Paesi di transito come l’Ucraina e gli Stati baltici.

Secondo gli esperti, la decisione di Putin di iniziare l’offensiva durante l’inverno è stata strategica. L’inverno è il periodo in cui la domanda di gas è più elevata e le riserve di gas europee sono solitamente a un livello basso a causa dell’aumento dei consumi dopo la ripresa del freddo. La riduzione delle forniture di gas dalla Russia negli ultimi mesi ha peraltro acuito la penuria energetica nei Paesi europei, cui però si affianca da una parte la scelta legata un cambio di rotta europeo dai combustibili fossili alle rinnovabili (una decisione vista non di buon occhio da Putin, il quale teme fortemente che questo danneggi l’economia russa), dall’altra la possibile autonomia energetica dell’Ucraina grazie alla presenza di ricchi giacimenti di petrolio e gas fossile.

Un altro fattore da considerare sono le risorse idriche: gli attacchi della Russia, per quanto sanguinari e distruttivi, sono mirati. L’esercito russo, nella sua avanzata, ha distrutto rapidamente una diga nella regione di Cherson, nell’Ucraina meridionale. L’obiettivo non era casuale: mirava a ricollegare la Crimea, che la Russia controlla dal 2014, a un canale cruciale lungo il suo confine settentrionale. Questo canale forniva acqua ai 3,7 milioni di abitanti e alle fabbriche della Crimea, fino a quando l’Ucraina non ha interrotto il flusso dopo l’annessione della Russia. Di conseguenza, negli ultimi due anni la Crimea ha dovuto affrontare una grave siccità che ha avuto un impatto significativo sulla regione. È lo stesso IPCC che riconosce l’acqua o meglio la sua scarsità come “propellente” per il sorgere e l’aggravarsi di possibili conflitti. A tal proposito, la crisi climatica dell’Ucraina sta causando siccità più frequenti, con un impatto sui raccolti e un aumento dei prezzi globali. Essendo l’Ucraina, conosciuta come il “granaio dell’Unione Sovietica”, uno dei più grandi esportatori di grano, mais, orzo e colza. Il presente conflitto rappresenta anche una minaccia per la sicurezza alimentare dei Paesi che dipendono dalle importazioni di cereali, sementi e fertilizzanti dalla Russia e dall’Ucraina. I corridoi commerciali verso il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale potrebbero essere interrotti, mettendo in pericolo Paesi come l’Afghanistan che hanno già subito perdite agricole a causa della siccità e dei problemi legati al clima.

Nell’esaminare le ragioni del forte interesse di Putin per l’Ucraina, è fondamentale riconoscere che la Russia, come il resto del mondo, è alle prese con le conseguenze del cambiamento climatico. Inoltre, la forte dipendenza della Russia dal permafrost, che potrebbe ridursi significativamente entro il 2050, comporta un onere finanziario sostanziale di oltre 100 miliardi di euro per le infrastrutture e le industrie del Paese. Da questo punto di vista, l’Ucraina non rappresenta solo un ostacolo agli obiettivi economici e politici della Russia o un potenziale concorrente nella produzione di gas fossile. È un territorio ricco di risorse che la Russia desidera accaparrarsi. In particolare, l’Ucraina vanta numerosi bacini idrici, detiene il 35% della biodiversità europea, nonostante occupi solo il 6% del suo territorio, e il 16% del suo territorio è coperto da foreste. L’esportazione di legname, insieme a quella di cereali, svolge un ruolo fondamentale nell’economia ucraina.

 

Conclusioni

Il conflitto tra Russia e Ucraina non è solo radicato nelle rivalità politiche, ma è significativamente influenzato dal cambiamento climatico e dalla dipendenza dalle risorse. Affrontare la sfida delle guerre climatiche richiede un approccio multiforme e integrato. Per affrontare efficacemente i crescenti conflitti climatici è necessario adottare misure proattive sia per prevenire le tensioni iniziali sia per prepararsi alle ripercussioni del cambiamento delle condizioni climatiche. Un importante studio pubblicato su Nature sottolinea come per migliorare stabilità e sicurezza, e per creare opportunità economiche, soprattutto nelle aree più vulnerabili, possa essere particolarmente utile investire su migliori sistemi di sicurezza e stoccaggio delle risorse alimentari. Queste misure, insieme ad altri fattori rilevanti, possono contribuire ad alleviare il potenziale impatto conflittuale del cambiamento climatico.

È evidente che le scelte decisive sono nelle mani dei politici. Senza il loro intervento, lo scenario peggiore potrebbe diventare una realtà imminente.

 

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Immagine: Il fondo del bacino idrico della città di Simferopol′, Crimea. Crediti: Alexey Pavlishak / Shutterstosk.com

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Green claims e greenwashing: l’impatto di un falso ecologismo

 

Oggi è difficile per i consumatori dare un senso alle numerose etichette “green” di prodotti (sia beni che servizi) e aziende. Alcune dichiarazioni di ecocompatibilità non sono affidabili e la fiducia dei consumatori verso queste dichiarazioni è estremamente bassa. I consumatori possono essere ingannati e le aziende possono dare un’impressione falsata dell’impatto o dei benefici ambientali della loro attività, una pratica nota come greenwashing. Con oltre la metà dei consumatori dell’Unione Europea (UE) che fanno acquisti all’insegna della sostenibilità, il marketing verde sta proliferando: il 75% dei prodotti presenti sul mercato nel 2014 riportava un’indicazione ambientalista implicita o esplicita. Tuttavia, un recente studio della Commissione europea ha rilevato che più della metà delle indicazioni ecologiche sono vaghe, fuorvianti o infondate. Inoltre, quasi la metà dei 230 marchi ecologici disponibili nell’UE ha procedure di verifica molto deboli o inesistenti.

 

Che cos’è il greenwashing?

Alcune aziende, anzi molte aziende, hanno deciso di godere di tutti i vantaggi associati alla sostenibilità senza, però, essere effettivamente verdi e sostenibili. Si tratta del cosiddetto greenwashing (talvolta chiamato anche green lies, green sheen o green marketing). Il greenwashing, termine coniato dall’ambientalista Jay Westerveld nel 1986, si verifica quando un’azienda tenta di ingannare i consumatori che desiderano condurre uno stile di vita più sostenibile dal punto di vista ambientale facendo loro credere che i suoi prodotti siano rispettosi dell’ambiente, mentre invece non lo sono. Questa pratica ingannevole è, purtroppo, molto più comune di quanto si possa pensare.

 

Molti tipi di greenwashing

Le aziende disoneste non si fermano davanti a nulla pur di approfittare del crescente numero di clienti desiderosi orientare i loro consumi verso prodotti ecologici.

Ecco alcuni dei modi in cui lo fanno:

1) Immagini ecologiche ingannevoli. Questo tipo di greenwashing si verifica quando le etichette dei prodotti o le campagne pubblicitarie utilizzano la natura, gli animali, le foglie, il colore verde e così via, sui loro prodotti o per indicare i loro servizi. Queste immagini sono solitamente associate a un messaggio di sostenibilità. Se utilizzate deliberatamente, tali immagini danno ai consumatori la sensazione che il prodotto o il servizio sia ecologico, mentre la realtà è di solito molto diversa. Ad esempio, la maggior parte dei marchi di acqua in bottiglia presenta immagini di montagne lussureggianti o di ruscelli puliti e cristallini. La realtà è che le bottiglie d’acqua monouso contribuiscono enormemente ai rifiuti plastici globali, provocando un vero e proprio disastro ambientale.

 

2) Adescamento e scambio (bait and switch). Il greenwashing “bait and switch” si verifica quando un’azienda offre una linea limitata di prodotti o servizi ecologici per attirare i clienti attenti all’ambiente e farli entrare in contatto con il proprio marchio (l’esca o bait). Una volta che il cliente è “all’amo”, gli viene presentata una gamma molto più ampia di prodotti non ecologici (lo switch). È questo il caso, ad esempio, di un rivenditore dell’industria del legno che tratta 300 tipi diversi di prodotti di cui solo uno è certificato FSC (Forest Stewardship Council) ‒ ovvero frutto di una gestione forestale rispettosa dell’ambiente, socialmente utile ed economicamente sostenibile ‒, ma viene utilizzato in tutte le campagne pubblicitarie. Il cliente viene così indotto a pensare che l’intera gamma di prodotti in legno proposti sia certificata FSC.

 

3) Affermazioni irrilevanti. Il greenwashing che si avvale di affermazioni irrilevanti si verifica quando le aziende utilizzano affermazioni che vanno nel senso della sostenibilità ambientale per dare l’impressione di essere amiche della Terra, mentre in realtà fanno affermazioni totalmente irrilevanti. Quando, ad esempio, un’azienda produttrice di deodoranti dichiara con orgoglio sulla confezione che i suoi prodotti sono privi di CFC (clorofluorocarburi) sta affermando qualcosa di irrilevante poiché i CFC sono stati vietati da tempo e quindi ogni deodorante è privo per legge di CFC.

 

4) Clickbait. È un termine usato per descrivere in meccanismo per cui si invoglia a cliccare su un link prospettando un contenuto diverso da quello che era stato inizialmente promesso. Nel mondo del greenwashing, il clickbait è usato quando un’azienda o un individuo cerca di guadagnare soldi dai clienti facendo affermazioni false. Questo avviene spesso etichettando i prodotti come “biologici”, “riciclabili”, “biodegradabili”, “certificati” e così via, quando semplicemente non lo sono. Alcune aziende arrivano addirittura a inventare certificazioni o enti abilitati a concederle. Ad esempio, un’azienda energetica fornisce gas naturale certificato come non tossico dallo European Union Gas Board Of Awesome Sustainable Brands, un ente inesistente.

 

Queste sono solo alcune delle forme di greenwashing, ma rendono quanto mai evidente l’esistenza di un problema dilagante.

Di seguito alcuni esempi reali di fin dove le aziende siano disposte a spingersi per apparire più rispettose dell’ambiente di quanto non siano.

 

Il diesel “pulito” di Volkswagen

La Volkswagen ha condotto diverse campagne pubblicitarie affermando che il diesel non è una fonte di carburante dannosa e che i suoi veicoli con motore a combustione interna diesel non contribuiscono al cambiamento climatico perché utilizzano una tecnologia che emette bassi livelli di inquinamento atmosferico e anidride carbonica. Nel 2015 è stato rivelato che Volkswagen aveva dotato circa 11 milioni di autovetture diesel di “dispositivi di manipolazione”, progettati per falsificare i risultati dei test sulle emissioni. Gli investigatori hanno poi scoperto che alcuni di questi veicoli, che in precedenza avevano superato tutti i test, emettevano sostanze inquinanti fino a 40 volte oltre il limite previsto negli Stati Uniti. Nell’aprile 2017, un giudice federale statunitense ha ordinato a Volkswagen di pagare una multa di 2,8 miliardi di dollari per aver contraffatto i risultati dei test sulle emissioni e per la pubblicità ingannevole. Questo tipico scandalo di greenwashing è finito per costare a Volkswagen oltre 30 miliardi di euro.

 

Le emissioni di gas serra della Exxon Mobil

In uno spot pubblicitario durante le cerimonie di apertura delle Olimpiadi del 2016, la Exxon Mobil ha fatto un’operazione di greenwashing circa le proprie emissioni sostenendo che stava «mappando gli oceani», «trasformando le alghe in biocarburante» e «sconfiggendo la malaria». In realtà, gli effetti nocivi delle emissioni della Exxon Mobil erano in aumento da molti anni.

 

La bottiglia di plastica oceanica dell’aceto Windex di SC Johnson

SC Johnson ha dichiarato di aver sviluppato il primo flacone di detergente per vetri al mondo realizzato con plastica oceanica riciclata al 100%. Questa affermazione suggeriva che la plastica fosse stata recuperata dall’oceano. Non è così. La plastica proveniva da banche della plastica di Haiti, Filippine e Indonesia. La plastica utilizzata avrebbe forse potuto finire nell’oceano, ma è un po’ azzardato chiamarla «plastica oceanica».

 

Frito Lay

Frito Lay è un’azienda importante nel settore degli snack. Anch’essa, in una chiara azione di greenwashing, ha rinominato il suo prodotto principale tra le patatine da Classic Lays Potato Chips a Natural Lay’s Potato Chips, così da farlo sembrare più naturale e, per associazione, più sano. Inoltre, ha optato per una confezione con colori più naturali per enfatizzare il messaggio ecologico. Tuttavia, a un esame più attento delle etichette, l’unica differenza tra le versioni Natural e Classic è lo spessore delle patatine e una leggera variazione in merito all’olio e al sale utilizzati. Non c’è alcuna differenza nella quantità di grassi o nel numero di calorie. Si tratta quindi dello stesso prodotto, non salutare ma proposto al consumatore in modo da fargli credere che sia più sano.

 

Divieto delle cannucce di plastica di Starbucks

Nel 2018, Starbucks ha voluto rendere più verde l’immagine dell’azienda vietando tutte le cannucce di plastica monouso e lanciando un coperchio senza cannuccia. Tutto fantastico, all’apparenza, se non fosse che il nuovo coperchio conteneva più plastica del vecchio coperchio e della cannuccia messi insieme.

 

L’UE contro i green claims

La Commissione europea ha presentato mercoledì 22 marzo una proposta di direttiva per contrastare l’uso di dichiarazioni ingannevoli in materia di sostenibilità ambientale, introducendo sanzioni contro il greenwashing e regole più severe per l’approvazione di nuovi marchi ecologici. Tale proposta mira a ridurre il greenwashing e a consentire ai consumatori di prendere decisioni di acquisto consapevoli, basate su informazioni affidabili sulla sostenibilità dei prodotti che acquistano.

«Crediamo che questa proposta porterà un cambiamento reale e darà potere a tutte le persone che vogliono veramente scegliere i prodotti in base al loro ridotto impatto sul nostro pianeta», ha dichiarato il commissario per l’Ambiente Virginijus Sinkevičius presentando la proposta di direttiva, che prevede che gli Stati membri possano imporre multe che privino le aziende dei benefici derivanti dalle violazioni (fino al 4% del fatturato nei casi transfrontalieri), confiscarne i profitti ed escludere le aziende dagli appalti pubblici fino a 12 mesi. Le sanzioni saranno applicate dalle autorità nazionali, che dovranno controllare regolarmente le dichiarazioni ecologiche, divulgare pubblicamente i risultati delle loro verifiche e multare le aziende che ingannano i consumatori. Le aziende che non rispettano le norme rischiano di incorrere in sanzioni significative.

 

Prodotti, iniziative, politiche e innovazioni naturali, ecologiche e sostenibili sono diventati sempre più popolari negli ultimi anni. Tutto si veste di verde, ma è possibile che questo sia solo il colore di una maschera. Non esiste un’unica soluzione, ma ‒ usando un approccio forse scontato ma quanto mai pertinente ‒ l’azione più significativa parte dal basso, dal cittadino. In un mondo che fa del profitto il suo vessillo e la sua arma principale, rifiutarsi di comprare prodotti che si fondano sul greenwashing e optare per soluzioni realmente sostenibili può ‒ nel suo piccolo ‒ fare la differenza.

 

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L’impronta carbonica digitale: il peso di Internet sull’ambiente

 

Internet ha trasformato e rivoluzionato la società moderna. Oggi è possibile accedere virtualmente a qualsiasi informazione, comunicare e interagire con persone dall’altra parte del pianeta o svolgere le attività lavorative quotidiane senza nemmeno dover uscire dalla propria stanza. Dopo l’epidemia da Covid-19 e i conseguenti blocchi, il tempo totale trascorso sui dispositivi digitali è aumentato in modo esponenziale e il 2021 è stato tra gli anni in cui si sono registrati i più alti tassi di consumo digitale e utilizzo di Internet. Secondo il World Global Index, infatti, l’utente “tipico” di Internet a livello globale trascorre quasi 7 ore al giorno su tutti i dispositivi. Nel 2022, il web è stato utilizzato da circa 5 miliardi di persone in tutto il mondo, ovvero il 63% della popolazione mondiale, producendo grandi quantità di rifiuti elettronici e di emissioni di CO2. L’uso di Internet, dei social media e di qualsiasi piattaforma on-line produce infatti un’impronta di carbonio nell’atmosfera, che può essere misurata e che esprime la quantità di emissioni di gas a effetto serra generate durante la vita di un prodotto o di un servizio, solitamente espressa in tonnellate di CO2 equivalente.

 

Anche Internet ha un’impronta di carbonio

Come tutti i prodotti digitali, Internet ha bisogno di grandi quantità di energia per funzionare. Colossali database e server situati in data center ‒ l’infrastruttura di Internet ‒ sono utilizzati per mantenere e conservare le informazioni che vengono presentate direttamente sul world wide web. In altre parole, tutto ciò che si vede e viene fatto sullo schermo di ogni dispositivo digitale e ogni informazione con cui interagiamo, carichiamo o creiamo vengono archiviati in questi data center, composti da migliaia di computer e server. In effetti, se il settore IT (Information Technology) fosse un Paese, sarebbe al terzo posto in termini di consumo globale di energia, dopo Stati Uniti e Cina. Secondo uno studio del Boston Consulting Group, Internet è responsabile di circa 1 miliardo di tonnellate di gas serra all’anno, pari a circa il 2% delle emissioni mondiali.

 

Fonti dell’impronta di carbonio digitale

Le fonti dell’impronta di carbonio di Internet sono numerose, dai data center dislocati in tutto il mondo alle piattaforme di streaming, ai social media e persino ai giochi on-line. L’impronta di carbonio di Internet ammonta a ben 1,6 miliardi di tonnellate annue di gas serra e si prevede che crescerà entro il 2025. Rispetto ad altri produttori di CO2, come automobili, aerei e industrie manifatturiere, le emissioni di Internet sfuggono alla percezione del grande pubblico. Ciò è dovuto alla mancanza di informazioni su come viene prodotta l’energia che lo alimenta. Il consumo energetico dell’IT è imputabile principalmente a quei grandi edifici tecnologici noti come data center in cui si trova tutto l’hardware di Internet. Nella maggior parte dei Paesi, ciò significa che le fonti di energia che alimentano queste infrastrutture non sono rinnovabili (sono cioè i combustibili fossili), il che spiega in ultima analisi la notevole impronta di carbonio di Internet. Secondo recenti studi, la quantità di energia richiesta da tutti i data center del mondo oscilla tra i 200 e i 500 miliardi di chilowattora all’anno, pari all’1-3% dell’elettricità mondiale. Entro il 2030, si stima che il range aumenterà e si fisserà tra i 200 e i 3.000 miliardi di chilowattora.

L’industria dei dati e quella dell’IT sono i principali soggetti da osservare quando si parla dell’impronta di carbonio di Internet. I giganti della tecnologia come Google, Microsoft e Amazon sono alcuni dei principali produttori. Google, ad esempio, gestisce 23 data center in tutto il mondo, che consumano molta energia, producono grandi quantità di calore ed esigono, per il raffreddamento delle macchine, miliardi di litri d’acqua e/o unità di condizionamento. La sola energia utilizzata per il raffreddamento delle macchine copre circa il 25% delle emissioni totali di Internet.

Le piattaforme di streaming come Netflix e YouTube e altri canali di contenuti per i consumatori come Twitch e Discord sono responsabili di circa il 60% del traffico Internet e contribuiscono notevolmente alla sua impronta di carbonio. La domanda di streaming ad alta definizione è peraltro in aumento, il che incentiva le aziende tecnologiche a costruire nuove infrastrutture per soddisfare la clientela. Netflix ha dichiarato che un’ora di streaming sulla sua piattaforma, nel 2020, ha consumato circa 100 g di CO2 all’ora, mentre Twitch ha utilizzato 33 grammi di CO2 all’ora. Considerando che gli utenti utilizzano quotidianamente i siti di streaming, ciò può significare una quantità impressionante di CO2. Se non gestito in modo responsabile, questo causerà ulteriori problemi in termini di emissioni.

Con i progressi dell’ultimo decennio nel campo della tecnologia e della grafica e il perfezionamento di un gameplay realistico, l’industria dei giochi è diventata uno dei settori più redditizi al mondo. Tuttavia, lo streaming dei giochi, il download e l’archiviazione nel cloud e il gioco on-line diretto richiedono molta energia da parte dei server. Sebbene il trasferimento dei videogiochi su piattaforma digitale possa essere potenzialmente vantaggioso in quanto produce meno rifiuti elettronici fisici (ad esempio, involucri di plastica e produzione di CD), la quantità di energia utilizzata per mantenere l’industria dei giochi on-line può essere immensa.

Le piattaforme social come TikTok, WhatsApp e Instagram, per citarne alcune, contribuiscono in modo determinante al traffico di Internet e alla conseguente impronta di carbonio digitale. In soli 60 secondi, TikTok viene scaricato 2.704 volte, WhatsApp condivide 41,7 milioni di messaggi e Instagram pubblica 347.222 storie. Postare una foto su Instagram, ad esempio, emette 0,15 g di CO2, mentre scorrere il proprio newsfeed per 1 minuto emette 1,5 g di CO2. Considerando che nel 2022 l’utente medio ha trascorso 2 ore e 24 minuti al giorno scorrendo le varie piattaforme di social media, è evidente il contributo che questa attività porta all’aumento dell’impronta di carbonio di Internet.

Le aziende stanno iniziando a diventare più consapevoli della loro impronta di carbonio digitale. Netflix e Google sono tra i colossi tecnologici che hanno iniziato a sviluppare, all’interno della loro cultura aziendale, politiche di siti web neutrali dal punto di vista delle emissioni di CO2, con l’intento di rendere la propria attività al 100% verde entro il 2030.

 

Immagine: Attivazione del server dati. Crediti: Gorodenkoff / Shutterstock.com

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Il ruolo dei giochi da tavolo nella lotta al cambiamento climatico

 

L’Europa sta piantando alberi per compensare le proprie emissioni, ma viene rapidamente colpita da incendi distruttivi. Gli Stati Uniti stanno investendo in operazioni minerarie all’estero per liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili, ma nutrono timori sulla possibilità di commerciare con un governo corrotto. Nel frattempo, una coalizione di Paesi del Sud globale deve decidere se accettare finanziamenti per la ricostruzione dalla Cina o dagli Stati Uniti. Queste non sono le conversazioni di un altro vertice globale di alto profilo, ma gli scenari immaginati dal gioco da tavolo Daybreak in cui quattro giocatori ‒ Stati Uniti, Cina, Europa e il “Mondo della Maggioranza”, che comprende il Sud del mondo ‒ cooperano per raggiungere l’obiettivo emissioni zero prima di raggiungere i 2 gradi di riscaldamento.

Secondo il gruppo di ricerca di mercato Euromonitor International, i giochi da tavolo e i rompicapo rappresentano un’industria da 11 miliardi di dollari, che è cresciuta del 20% tra il 2019 e il 2021: un boom alimentato in parte dalla noia legata alle pandemie e dalla stanchezza digitale. Nel mondo dei giochi da tavolo, la maggior parte dei titoli prevede vittorie totali sugli avversari in competizioni a somma zero. Nel nuovo genere di giochi a tema climatico invece, creatori come Matt Leacock fanno della collaborazione la chiave del successo. Leacock, che ha progettato anche il gioco di successo Pandemic, dice che lui e il collega Matteo Menapace hanno inizialmente basato Daybreak su un modello di ciclo delle emissioni atmosferiche. «Ci siamo resi conto che il gioco avrebbe dovuto rappresentare la sofferenza umana e le perdite causate dalla crisi climatica e che la sfida non era semplicemente una guerra al carbonio», afferma il co-creatore Matt Leacock. Si tratta di un modo nuovo di sensibilizzare rispetto al tema della lotta al cambiamento climatico: «C’è un crescente desiderio da parte dell’opinione pubblica di confrontarsi con il cambiamento climatico in modo tangibile», afferma il game designer e professore Matt Parker. «Spesso le persone non vogliono affrontare il cambiamento climatico o si sentono impotenti di fronte alla sua complessità».

Nel 2020, Wingspan, in cui i giocatori sviluppano habitat biodiversi per gli uccelli, è stato nominato miglior gioco di strategia dagli American Tabletop Awards. Il gioco è stato recensito dalla rivista scientifica Nature, oltre che da pubblicazioni di gioco più tradizionali, e ha venduto oltre 750.000 set nel suo primo anno. L’anno scorso, Cascadia, in cui i giocatori competono per creare «l’ecosistema più armonioso» del Pacifico nord-occidentale, ha vinto il prestigioso premio Spiel des Jahres e il miglior concorso di strategia degli American Tabletop Awards. Altri titoli recenti su temi affini sono Kyoto, in cui i giocatori si calano nei panni dei negoziatori sul clima; Renature, in cui l’obiettivo è quello di risanare una valle inquinata; e Tipping Point, in cui i partecipanti costruiscono città che devono adattarsi al riscaldamento globale.

 

La ricerca dimostra che questi giochi fanno molto più che intrattenere. Secondo uno studio del 2018 pubblicato su Climactic Change, i giochi di simulazione possono facilitare in modo considerevole l’apprendimento dei temi della politica climatica internazionale. Gli autori hanno scoperto che giocare a un singolo round del gioco sul clima Keep Cool ha aumentato il senso di responsabilità dei partecipanti verso l’ambiente e la fiducia nella cooperazione climatica.

Uno studio del 2020 pubblicato sulla rivista Simulation & Gaming, giunge a conclusioni simili.

1) I giochi di simulazione consentono un impegno attivo e quindi promuovono l’apprendimento esperienziale. 2) I giochi di simulazione offrono un ambiente di apprendimento sicuro per testare decisioni diverse e sperimentare le dinamiche dei sistemi geofisici, economici e politici che ne derivano. 3) I giochi di simulazione possono rendere i giocatori consapevoli della mancata corrispondenza tra i loro modelli mentali e le dinamiche dei sistemi complessi. 4) I giochi di simulazione rendono la scienza più facilmente accessibile e offrono un linguaggio comune a un pubblico eterogeneo. Possono fungere da oggetto di confine tra la scienza e i decisori politici, rendendo valutabile e tangibile l’analisi scientifica della politica climatica internazionale. Inoltre, un’esperienza di gioco condivisa fornisce basi comuni e scientificamente solide per avviare discussioni tra diversi stakeholder come ricercatori, studenti, responsabili politici, il pubblico in generale e altri attori che si occupano di questioni di sviluppo sostenibile.

 

Sebbene molti di questi giochi, come Daybreak, immaginino scenari climatici futuri, alcuni guardano indietro nel tempo ed esplorano le ingiustizie del passato. È il caso di Rising Waters, pubblicato in ottobre dalla Central Michigan University Press, che descrive la grande alluvione del Mississippi del 1927, che causò centinaia di vittime e circa 700.000 sfollati. I giocatori cooperano per salvare le loro famiglie dalle inondazioni e dalla violenza dei vigilanti bianchi. Elizabeth (Scout) Blum, docente di storia ambientale alla Troy University in Alabama, ha creato Rising Waters insieme a un team di collaboratori e consulenti storici, di gioco e artistici. «Ci si trova di fronte a domande che fanno riflettere. Al punto che, nel progettare le situazioni, abbiamo pensato a come non essere insensibili o provocare le persone, pur includendo temi davvero importanti», dice Blum, sottolineando che il gioco ha toccato argomenti difficili come l’insicurezza alimentare, a cui spesso le persone preferirebbero non pensare, non diversamente dal cambiamento climatico. «La speranza è che il gioco possa insegnare l’empatia e la comprensione o suscitare indignazione e domande». Secondo Blum, i giochi possono offrire agli studenti e al pubblico in generale lo spazio per esplorare questioni impegnative. Sono anche strumenti decisionali fondamentali utilizzati ai più alti livelli di potere. Ed McGrady, ingegnere chimico di formazione, ha condotto giochi di guerra per diversi enti governativi, tra cui la Casa Bianca. Membro aggiunto del Center for a New American Security (CNAS), McGrady sostiene che i giochi possono aiutare i giocatori ad anticipare i conflitti e le emergenze future e a pianificare di conseguenza. «L’interazione competitiva con un essere umano in carne e ossa ti spinge a preoccuparti e a pensare in modo creativo al problema in questione più di quanto possa fare qualsiasi tipo di relazione, dispositivo di apprendimento o meccanismo di briefing», afferma McGrady.

Durante la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Parigi del 2015, McGrady ha organizzato un gioco per esaminare l’impatto del clima sulla sicurezza globale. I giocatori hanno scoperto che il surriscaldamento delle temperature avrebbe innescato flussi migratori verso l’Europa e gli Stati Uniti, portando al malcontento popolare e ad una crescita dei governi e movimenti di estrema destra. All’epoca, McGrady ha dichiarato che lui e altri esperti erano sorpresi dagli esiti di vasta portata del gioco. Ma negli anni successivi, con la progressiva ascesa mondiale di leader sempre più autoritari e di estrema destra, il gioco si è rivelato particolarmente lungimirante.

 

Immagine: Un gioco da tavolo e mani che tirano i dadi. Crediti: Grusho Anna / Shutterstock.com

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Buco dell’ozono, c’è speranza

Le emissioni umane di alcune sostanze chimiche causano ogni anno un buco nello strato di ozono sopra l’Antartico. Ciò influisce sulla capacità dello strato di ozono terrestre, situato tra circa 9 e 22 miglia sopra la superficie del pianeta, di assorbire radiazioni ultraviolette e di altro tipo, proteggendo la vita sulla Terra dai raggi nocivi del Sole. Gli scienziati del British Antarctic Survey hanno annunciato per la prima volta la scoperta di un’area di ozono assottigliata ‒ o “buco” ‒ nel maggio 1985. Spinto da questa scioccante rivelazione, il mondo si mise all’opera. Solo due anni dopo, nel 1987, 197 diversi soggetti hanno firmato il Protocollo di Montreal per cercare di limitare la quantità di sostanze chimiche nocive nell’atmosfera. Il Protocollo ha contribuito all’eliminazione graduale del 99% di queste sostanze e ha ottenuto il sostegno di tutti i Paesi del mondo. Lo scienziato della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) David Fahey ha dichiarato a The Guardian che quello di Montreal dovrebbe essere considerato «il trattato ambientale di maggior successo della storia».

L’eliminazione globale delle sostanze chimiche che danneggiano l’ozono, precedentemente presenti in spray per capelli, frigoriferi, condizionatori d’aria e prodotti per la pulizia industriale, sta già contribuendo a mitigare il cambiamento climatico e a ridurre l’esposizione umana ai raggi UV.

 

Se le politiche attuali rimarranno in vigore si prevede che lo strato di ozono tornerà ai valori del 1980 ‒ prima della comparsa del buco dell’ozono ‒ entro pochi decenni. Un gruppo di ricerca sostenuto dalle Nazioni Unite, al meeting annuale dell’AMS (American Meteorological Society), ha affermato che lo strato di ozono si ristabilirà entro il 2066 circa nell’Antartico, entro il 2045 nell’Artico ed entro il 2040 nel resto del mondo. Le variazioni nelle dimensioni del buco dell’ozono antartico, in particolare tra il 2019 e il 2021, sono state determinate in gran parte dalle condizioni meteorologiche. Tuttavia, il buco dell’ozono antartico è andato lentamente riducendosi in termini di area e profondità a partire dal 2000.

Il recupero del buco dell’ozono sta «salvando 2 milioni di persone ogni anno dal cancro alla pelle», ha dichiarato all’inizio di quest’anno la direttrice del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP, United Nations Environment Programme), Inger Andersen, in un’e-mail all’Associated Press. Oltre a causare danni alla pelle, le radiazioni nocive sono anche collegate alla cataratta e ai danni alle colture.

«L’azione a favore dell’ozono costituisce un precedente per l’azione a favore del clima» ha affermato il segretario generale dell’OMM (Organizzazione Meteorologica Mondiale), professor Petteri Taalas. «Il nostro successo nell’eliminare gradualmente le sostanze chimiche che danneggiano l’ozono ci mostra cosa si può e si deve fare ‒ con urgenza ‒ per abbandonare i combustibili fossili, ridurre i gas serra e quindi limitare l’aumento delle temperature».

 

Ci sono buone notizie anche per la crisi climatica. Secondo l’UNEP, per sostituire i clorofluorocarburi (CFC), molte industrie hanno in un primo tempo iniziato a utilizzare altre sostanze chiamate idrofluorocarburi (HFC). Tuttavia, si è scoperto che queste sostanze chimiche sono potenti gas a effetto serra. Per risolvere questo problema, i leader mondiali hanno concordato l’Emendamento di Kigali al Protocollo di Montreal per eliminare gradualmente l’80-85% degli HFC entro la fine del 2040. Grazie a questo accordo, il mondo dovrebbe evitare un riscaldamento supplementare di 0,3-0,5 gradi Celsius entro il 2100. Al vaglio sono anche il potenziale utilizzo e l’impatto della geoingegneria solare sullo strato di ozono. Questa forma di ingegneria climatica spruzzerebbe intenzionalmente particelle riflettenti nell’atmosfera per deviare la luce solare e ridurre il riscaldamento globale in un processo noto come iniezione di aerosol stratosferico (SAI, Stratospheric Aerosol Injection). Tuttavia, gli esperti avvertono che le conseguenze indesiderate della SAI «potrebbero anche influenzare le temperature stratosferiche, la circolazione e i tassi di produzione e distruzione dell’ozono e il trasporto».

Sebbene il successo del Protocollo di Montreal e dell’Emendamento di Kigali offrano qualche speranza sulla capacità della cooperazione internazionale di risolvere le crisi ambientali, Fahey ha osservato che il buco nell’ozono è un problema di scala diversa rispetto al cambiamento climatico, sia perché l’anidride carbonica che provoca quest’ultimo rimane nell’atmosfera più a lungo, sia perché è usata in modo molto più diffuso nella società.

 

Crediti immagine: Gli elementi di questa immagine sono stati forniti dalla NASA. Artsiom P / Shutterstock.com

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Le perdite dai gasdotti Nord Stream: un disastro climatico?

 

Un numero crescente di funzionari internazionali ed esperti di sicurezza globale ritiene che la Russia abbia sabotato i propri gasdotti di gas naturale (Nord Stream 1 e 2 ) sotto il Mar Baltico, provocando il rilascio di circa 300.000 tonnellate di gas metano nell’atmosfera. Il gas è stato visto salire sulla superficie del mare lunedì 26 settembre 2022, a seguito di quelle che, secondo i sismologi, sono state due esplosioni che non sembrano essere state causate da forze naturali, come un terremoto o una frana sottomarina. Secondo alcune fonti, navi e sottomarini di supporto della Marina russa sono stati avvistati nelle vicinanze delle perdite dell’oleodotto, lunedì e martedì. Gli ambasciatori della NATO hanno rilasciato una dichiarazione ufficiale il giovedì seguente affermando che «tutte le informazioni attualmente disponibili indicano che si tratta del risultato di atti di sabotaggio deliberati, sconsiderati e irresponsabili», che «stanno causando rischi per la navigazione e danni ambientali sostanziali».

 

Si tratterebbe del più grande rilascio di questo gas serra mai avvenuto, con un impatto simile alle emissioni annuali di 1 milione di automobili. Il gas contenuto nelle tubature è fuoriuscito causando tre chiazze ribollenti nel Mar Baltico, una delle quali con una superficie di circa 1 chilometro. Poiché il metano è in grado di riscaldare il pianeta in un periodo di 20 anni 81 volte più dell’anidride carbonica, la rottura dei gasdotti Nord Stream può essere considerata un disastro climatico a tutti gli effetti, anche alla luce del fatto che non ci sono meccanismi di chiusura lungo le condutture e che quindi la fuoriuscita di gas si interromperà solo con l’esaurimento dell’intero contenuto presente. Lo scienziato Jeffrey Kargel, del Planetary Science Institute di Tucson, in un’intervista a Politico a definito la fuoriuscita come «davvero inquietante» e «un crimine ambientale se avvenuta intenzionalmente». È comunque bene evidenziare che queste perdite sono una frazione infinitesimale rispetto alle enormi quantità di metano cosiddetto “fuggitivo” che vengono emesse ogni giorno in tutto il mondo a causa di attività come il fracking, l’estrazione del carbone e del petrolio. Secondo l’Edinburgh Climate Change Institute, inoltre, non si prevedono effetti a lungo termine sulla fauna e sulla flora marine.

 

L’incidente del Nord Stream rivela ancora una volta la stretta correlazione tra conflitti e danni ambientali. I funzionari delle Nazioni Unite hanno già evidenziato queste preoccupazioni lo scorso anno, durante la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021 (COP26) in Scozia. Sebbene il riscaldamento globale di per sé non sia sempre una causa diretta di conflitto, hanno affermato che spesso può agire come «moltiplicatore di rischi», aggravando gli oneri finanziari per le comunità e i governi che si trovano ad affrontare condizioni meteorologiche estreme, provocando sfollamenti e minando i diritti umani nelle regioni in cui i frequenti disastri stanno contribuendo a un’impennata dei processi migratori, lasciando le donne particolarmente vulnerabili in situazioni in cui le leggi della società e le reti di sicurezza sociale stanno progressivamente venendo meno.

 

A tal riguardo, uno studio pubblicato a marzo dal Pacific Institute, un gruppo di ricerca con sede a Oakland, ha rilevato che il cambiamento climatico sta «inequivocabilmente peggiorando» le condizioni che contribuiscono alle guerre e aggravano la sofferenza umana. Lo studio ha evidenziato che le cosiddette guerre dell’acqua sono aumentate notevolmente negli ultimi 20 anni, soprattutto nelle regioni in cui le condizioni di siccità hanno reso più aspra la competizione per l’accaparramento di risorse in continua diminuzione: Medio Oriente, Asia meridionale e Africa subsahariana. L’esplosione del gasdotto Nord Stream può essere considerato un chiaro esempio di questo trend: l’accesso alle risorse viene limitato ‒ o rischia di essere limitato ‒ per incutere timore e ottenere un vantaggio sui rivali in un conflitto molto più ampio.

 

La Russia è già stata accusata di usare la sua influenza sul mercato energetico europeo per intimidire altri Paesi. Il Turkmenistan, ad esempio, ha incolpato la Russia di aver fatto esplodere un gasdotto nel suo Paese nel 2009 per ottenere vantaggi economici. L’estate scorsa, durante la guerra in corso contro l’Ucraina, le truppe russe hanno occupato la centrale nucleare ucraina di Zaporižžja, aumentando notevolmente il rischio di incidenti.

Il rapporto che lega Mosca ai Paesi europei attraverso il gas è del resto noto. La Russia ricava gran parte del suo reddito dall’esportazione di combustibili fossili e le nazioni dell’Europa occidentale dipendono da questi combustibili per riscaldare le loro case e alimentare le loro reti elettriche. Questo rapporto non è stato finora privo di tensioni, alimentate in parte dagli effetti finanziari e politici impliciti nell’attuazione dei piani europei per il passaggio alle energie rinnovabili, in parte dal progressivo ampliamento dell’ambito di interesse della NATO, una coalizione di difesa globale che la Russia vede da tempo come una minaccia militare ai suoi interessi. Gli analisti politici ritengono che queste dinamiche siano state tra le motivazioni principali alla base della decisione di Putin, a febbraio, di invadere l’Ucraina, di cui si stava ipotizzando una qualche forma di adesione alla NATO.

 

Sin dall’inizio della guerra in Ucraina si è generato un vero e proprio braccio di ferro sul gas tra i Paesi dell’Unione Europea e Mosca, con i primi che imponevano sanzioni sulle importazioni di carburante russo come punizione per l’aggressione a cui la Russia rispondeva limitando le forniture di gas naturale all’Europa occidentale attraverso i gasdotti Nord Stream e causando così una notevole sofferenza economica e un’inflazione globale già da record. Con l’interruzione delle forniture attraverso i gasdotti a poche settimane dall’inizio dell’inverno, un altro scenario si prospetta per gli europei: quello di un futuro senza gas russo.

Queste dinamiche rappresentano inoltre una seria minaccia anche per lo sforzo globale di contenere il cambiamento climatico. Tali cambiamenti geopolitici estremi incidono fortemente sull’utilizzo dei combustibili fossili e sulla volontà di intraprendere una decisa transizione energetica, rendendo quanto mai difficile promuovere la cooperazione tra le nazioni, nonostante la minaccia di un riscaldamento globale catastrofico entro la fine del secolo.

 

L’aggravarsi delle tensioni tra Europa occidentale e Russia, nonché tra Stati Uniti e Cina, sta già mettendo a rischio gli sforzi internazionali per ridurre le emissioni di gas serra nell’ambito dell’accordo di Parigi. Un rapporto pubblicato alla fine di settembre ha rilevato che solo 19 dei 193 Paesi firmatari dell’accordo sul clima hanno mantenuto la promessa fatta l’anno scorso di creare obiettivi più ambiziosi di riduzione delle emissioni. Questa constatazione, unita alla possibilità che la Russia abbia sabotato i propri oleodotti per mantenere il mondo dipendente dai combustibili fossili, non lascia presagire negoziati facili e senza intoppi ai prossimi Climate Talks della COP27.

 

Prevedendo queste sfide, i leader statunitensi ed europei stanno raddoppiando gli sforzi per attuare la transizione energetica a fonti rinnovabili in modo da ridurre la capacità della Russia di usare l’energia come strumento di pressione. Come ha affermato l’esperto americano di energie rinnovabili Scott Brown: «L’energia rinnovabile, come quella eolica e solare, non solo offre un maggiore controllo alle comunità e alle imprese locali» ma può anche «fornire resilienza rispetto all’impatto di guerre, disastri naturali e corruzione».

 

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Perdita della biodiversità e cambiamento climatico: due facce della stessa medaglia

 

Un incendio selvaggio che corre sul fianco di una collina è diventato l’emblema del cambiamento climatico. E per una buona ragione: secondo un recente rapporto sul clima, un quarto dei paesaggi naturali del mondo deve affrontare stagioni di incendi più lunghe e distruttive a causa del riscaldamento e della diminuzione delle precipitazioni. Ma c’è un’altra minaccia globale che aggrava il rischio di incendi. Gli scienziati hanno dimostrato che gli ecosistemi degradati ‒ caratterizzati da una perdita progressiva della loro biodiversità ‒ hanno maggiori probabilità di soccombere alle fiamme.

Il modo in cui il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità possono combinarsi provocando incendi sempre più mortali è solo un esempio delle numerose interconnessioni tra queste due sfide globali. Con l’aggravarsi di entrambi i problemi, gli scienziati stanno facendo a gara per capire in che modo il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità si stiano già sommando e come si possano mettere in campo soluzioni che li affrontino insieme. Sebbene la sovrapposizione tra le due sfide stia diventando più chiara, si continua ad affrontare ciascun problema separatamente.

 

In che modo il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità minacciano l’uomo?

Sia il cambiamento climatico che la perdita di biodiversità stanno già causando gravi danni a tutta l’umanità. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change), le temperature medie globali sono aumentate di 1,2 °C dall’inizio dell’era industriale, mentre la CO2 nell’atmosfera è al livello più alto da almeno due milioni di anni: ciò ha causato un aumento degli estremi climatici e meteorologici in ogni regione del mondo. Poco meno della metà della popolazione mondiale ‒ 3,6 miliardi di persone ‒ vive già in contesti «altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici».

I cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno già influenzando la frequenza e la gravità di eventi estremi, come ondate di calore, inondazioni e incendi. Secondo l’IPCC, in base alle azioni che l’umanità intraprenderà per affrontare il cambiamento climatico, il 50-75% della popolazione globale potrebbe comunque trovarsi ad affrontare un caldo estremo «potenzialmente letale» entro la fine del secolo. Secondo le proiezioni, le barriere coralline tropicali, che forniscono cibo o reddito a mezzo miliardo di persone, scompariranno se le temperature supereranno il limite fissato dall’accordo di Parigi di 1,5 °C. Anche la perdita di biodiversità in tutto il mondo sta avendo un forte impatto sull’umanità. Sebbene molti associno il termine biodiversità alle specie iconiche e alle foreste tropicali, in realtà il concetto va ben oltre, come spiega la dottoressa Nathalie Pettorelli, ricercatrice senior presso l’Istituto di Zoologia della Zoological Society di Londra: «La biodiversità è tutto ciò che definisce il nostro mondo. Non si tratta solo di specie, ma di ecosistemi, di habitat, del patrimonio genetico degli individui. È il modo in cui le comunità si assemblano per essere qualcosa di più grande della somma delle loro parti».

Mentre il ritmo del cambiamento climatico può essere misurato attraverso l’aumento della temperatura globale e l’incremento delle emissioni di gas serra, comprendere l’entità della perdita di biodiversità causata dall’uomo è molto più complesso. E mentre i cambiamenti climatici causati dall’uomo possono essere fatti risalire all’inizio dell’era industriale nel 1800, la perdita di biodiversità rimanda sino agli albori della civiltà umana. Un rapporto separato della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD, United Nation Convention to Combat Desertification), pubblicato quest’anno, ha rilevato che le attività umane hanno già alterato il 70% della superficie terrestre, degradandone fino al 40% (l’uomo ha anche alterato l’87% degli oceani). Secondo tale rapporto, sono già stati superati quattro dei nove «confini planetari», ossia i limiti di utilizzo sicuro delle risorse della Terra da parte dell’uomo. Il rapporto afferma inoltre che, in tutto il mondo, le popolazioni di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci sono diminuite in media del 68% tra il 1970 e il 2016. Nell’America Centrale e Meridionale tropicale, le popolazioni di animali sono diminuite del 94%. Questa perdita di biodiversità ha conseguenze per le persone. Secondo l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), la perdita di specie impollinatrici minaccia in particolare le colture mondiali, che valgono 577 miliardi di dollari.  Inoltre, la perdita di habitat costieri ‒ che forniscono un cuscinetto naturale contro gli eventi meteorologici estremi ‒ ha aumentato il rischio di inondazioni e uragani per 100-300 milioni di persone.

 

Siamo di fronte alla sesta estinzione di massa?

Alla luce di questi fattori, gli esperti sostengono che stiamo perdendo specie molto più rapidamente di quanto l’evoluzione ne crei, e alcuni dicono che questo potrebbe metterci sulla buona strada per una nuova estinzione di massa, che includerebbe la stessa umanità. Secondo il Museo di Storia naturale di Londra, durante un’estinzione di massa, un’alta percentuale della biodiversità globale si estingue più velocemente di quanto possa essere sostituita, e questo avviene in un periodo di tempo relativamente breve per gli standard geologici: meno di 2,8 milioni di anni. Le specie possono estinguersi per una serie di motivi, quindi per capire quale sia il tasso di estinzione “normale”, gli ecologi misurano il cosiddetto “tasso di fondo” dell’estinzione, ha spiegato l’autore unico dello studio, Kunio Kaiho, professore emerito presso il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università Tohoku in Giappone. I tassi di estinzione sono difficili da misurare perché ancora oggi non sappiamo molto della maggior parte delle specie ‒ o quanto potrebbero essere minacciate. I pochi dati disponibili indicano che negli ultimi 500 anni abbiamo perso meno dell’1% delle specie, ma molti scienziati ritengono che la cifra reale potrebbe essere molto più alta, poiché la maggior parte delle specie che conosciamo non è stata documentata fino alla metà del 1800. Anche se non sappiamo esattamente quante specie siano andate perse negli ultimi anni, il numero di animali selvatici sta diminuendo rapidamente. Si stima che le popolazioni globali di animali selvatici siano diminuite in media del 69% in soli 50 anni. «Non ci vogliono molti intervalli di 50 anni per arrivare a un punto in cui la maggior parte delle specie sta per crollare e scomparire», afferma il professor Anthony Barnosky, biologo dell’Università della California, Berkeley. Gli scienziati hanno stimato la velocità con cui stiamo perdendo le specie esaminando la documentazione fossile e usandola per calcolare un tasso di fondo medio. Hanno poi confrontato questo tasso di fondo con i tassi di estinzione moderni raccolti dai registri per vedere come si allineano i due. Secondo il dottor Robert Cowie, ecologo dell’Università delle Hawaii di Mānoa, una media approssimativa delle stime ottenute da questi studi indica che i tassi di estinzione oggi sono significativamente più alti, da 100 a 1.000 volte. A tal riguardo il professore Kaiho sostiene che la velocità del cambiamento ambientale sia più importante della sola entità del cambiamento nel causare tassi di estinzione massicci, perché «durante i cambiamenti climatici lenti, gli animali possono migrare per sopravvivere». Per soddisfare la definizione di grande evento di estinzione di massa, gli scienziati dovrebbero osservare l’estinzione del 60% delle specie. Tuttavia, il fatto che non sia stata ancora osservata un’estinzione di questa portata non significa che essa non sia in corso. La sesta estinzione si differenzia dalle precedenti perché è guidata dai cambiamenti climatici provocati dall’uomo. L’articolo di Kaiho sostiene che, poiché il ritmo di questi cambiamenti climatici è graduale, piuttosto che brusco e drastico, è improbabile che nel prossimo futuro si verifichino tassi di estinzione che soddisfino la definizione di un evento di estinzione di massa maggiore, ma che si possano verificare estinzioni di massa minore.

«Un aumento delle temperature medie globali di 9 gradi Celsius è determinante per le estinzioni di massa maggiori», e tale aumento non si verificherà «almeno fino al 2500», ha detto Kaiho. Poiché il tasso di estinzione delle specie cambia parallelamente alle temperature superficiali globali, nel prossimo futuro non assisteremo a una perdita improvvisa e massiccia di specie, ma piuttosto a un tasso lento e costante di estinzione delle specie, che non culminerà nella perdita del 60% delle specie terrestri. Ciò detto, questi risultati sono accompagnati da un importante avvertimento: l’attuale tasso di estinzione è solo una stima e potrebbe essere imprecisa. Secondo uno studio del gennaio 2022 pubblicato sulla rivista Biological Reviews, il numero di estinzioni di specie registrato è fortemente distorto verso i mammiferi e gli uccelli e trascura molti invertebrati, sottovalutando quindi in modo significativo il vero tasso di estinzione delle specie. Per ora, altre azioni guidate dall’uomo, come la trasformazione dell’habitat attraverso la deforestazione e l’inquinamento, nonché la caccia eccessiva e l’introduzione di specie non autoctone, giocano un ruolo molto più importante nel determinare l’attuale tasso di estinzione delle specie rispetto all’aumento della temperatura media globale.

 

In conclusione, è bene ribadire che cambiamento climatico e perdita della biodiversità non possono essere affrontati separatamente, in quanto sono due facce della stessa medaglia. E ciò che è stato definito il 19 dicembre 2022 a Montreal con il nuovo Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF) sembra andare esattamente in questa direzione.

 

Immagine: Un incendio notturno in California. Crediti: Mikhail Roop / Shutterstock.com

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L’arte o la vita?

Indossando giubbotti arancioni fluorescenti, due attivisti per il clima, dell’organizzazione Letzte Generation,  hanno spalmato del purè di patate sul vetro protettivo che copre i Covoni di Monet al Museo Barberini di Potsdam, in Germania. Poi hanno incollato le mani al muro sotto il dipinto e hanno iniziato a parlare. «La gente muore di fame, la gente muore di freddo, la gente muore» hanno detto. «Siamo in una catastrofe climatica. E tutto ciò di cui avete paura è la zuppa di pomodoro o il purè di patate su un quadro. Sapete di cosa ho paura io? Del fatto che la scienza dice che entro il 2050 non potremo nutrire le nostre famiglie. Ci vuole un purè di patate su un quadro per farvi prestare attenzione?». Questo genere di proteste è diventato comune in Europa e nel mondo, con l’obiettivo di esercitare una pressione psicologica sia sui governi affinché rispondano più rapidamente alle calamità ambientali che sulle istituzioni culturali affinché interrompano le sponsorizzazioni di compagnie petrolifere come BP e Shell. Rispetto a questi atti di protesta, l’opinione pubblica si spacca: alcuni avvertono che le tattiche sono controproducenti, mentre altri rispondono con un attento silenzio.

 

Pro

Elijah McKenzie-Jackson, 18 anni, attivista per il clima e coordinatrice per Fridays for Future International, ha dichiarato ad Axios in una e-mail che la storia ci dice che proteste civili come queste sono necessarie per il cambiamento: «Sebbene possa riconoscere che questi atti di giustizia possano sembrare oltraggiosi per la gente, li sfido a sentire l’indignazione per la distruzione, la morte e l’omicidio che tutti i governi e le corporazioni occidentali stanno commettendo nei confronti dei nostri animali, dei paesi del Sud del mondo e degli ecosistemi». Una posizione condivisa da molti attivisti, i quali concordano con la caratterizzazione di Greta Thunberg, secondo cui, i negoziati sul clima sono solo chiacchiere e nessuna azione concreta, ovvero solo «blah, blah, blah». «Quindi, piuttosto che fare rumore per contribuire al blah blah blah, facciamoci sentire con le nostre azioni», ha detto Jevanic Henry, 25 anni, di Santa Lucia, nei Caraibi. «Siamo noi a guidare l’azione». Un’idea che non è presente solo tra gli attivisti ma anche tra membri dei settori culturali e artistici come Corina Rogge, vicepresidente dell’American Institute of Conservation, che dichiara a Sarah Cascone di Artnet News che bisogna essere più comprensivi e che tali azioni sono relativamente innocue. «Giustamente, sono preoccupati che molti governi non prendano a cuore le questioni climatiche. Dato che i musei preservano la nostra umanità condivisa, è davvero comprensibile che gli attivisti li usino per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica su come il cambiamento climatico stia minacciando il genere umano».

 

Contro

Alcuni si chiedono se vandalizzare opere d’arte sia un mezzo accettabile per fare attivismo: «Faccio fatica a capire perché distruggere un dipinto di girasoli fatto da van Gogh, un uomo impoverito che è stato emarginato nella sua comunità locale a causa della sua malattia mentale, sia l’obiettivo giusto per fare una dichiarazione su quanto sia terribile l’industria petrolifera», ha twittato una persona. Esprimendosi contro questa forma di protesta, il critico d’arte del New York Magazine Jerry Saltz ha avvertito che «le opere meno protette» possono subire danni permanenti nelle mani di manifestanti sempre più sfrontati. Dana Fisher, docente di sociologia all’Università del Maryland e specializzata in movimenti di protesta, avverte che l’inasprimento delle strategie può allontanare coloro che altrimenti potrebbero simpatizzare con la causa. «Le ricerche dimostrano che questo tipo di tattica non funziona per cambiare le menti e i cuori», ha dichiarato al Washington Post. «Funziona per attirare l’attenzione, ma a che scopo?». Una critica condivisa dal climatologo Michael Mann, il quale definisce questi gesti controproducenti, potenzialmente capaci più di allontanare che di avvicinare le persone alla causa ambientalista.

 

Come vanno interpretati questi gesti?

Da un punto di vista comunicativo sono di certo “spettacolari”, attirano l’attenzione e creano scalpore. Ma in una società così focalizzata sull’effetto wow e sulla spettacolarizzazione degli eventi, il rischio è che finiscano per essere fini a se stessi. Il pericolo è che ci si fermi alla superficie ‒ ovvero l’atto vandalico ‒ e non si approfondiscano le ragioni dietro il gesto, focalizzandosi sul dito e non su cosa si sta puntando: una crisi che ci coinvolge tutti e un atteggiamento diffuso di lassismo e menefreghismo. Le azioni perpetrate dagli attivisti ci pongono di fronte ad un dilemma o meglio una dicotomia: scegliere tra un mondo ricco d’arte ma insostenibile oppure “ripudiare” l’arte a favore dell’ambiente e della biodiversità. In queste dinamiche, ciò che viene effettivamente messo sotto i riflettori non è né l’arte né l’azione sovversiva, ma è la stessa bilancia morale che porta l’umanità a restare passiva o a indignarsi rispetto a tutto ciò: ci scandalizziamo per il lancio di una zuppa di pomodoro su un quadro coperto da uno spesso vetro protettivo ma restiamo indifferenti di fronte a cambiamenti climatici ormai quotidiani, alla perdita di interi ecosistemi e in generale rispetto a tutto ciò che non nuoce direttamente al nostro orticello personale.

In ogni possibile salsa è stato detto, urlato, proclamato da scienziati, esperti e attivisti che si sta sottovalutando enormemente quanto rapido, grave e permanente sarà il collasso climatico ed ecologico se l’umanità non si mobilita. Ai tassi di emissioni attuali, potrebbero rimanere solo cinque anni prima che l’umanità spenda tutto il suo carbon budget per rimanere al di sotto di 1,5 °C di riscaldamento globale, un livello che, molto probabilmente, non sarà compatibile con la civiltà come la conosciamo. E potrebbero esserci solo cinque anni prima che la foresta amazzonica e la grande calotta glaciale antartica superino punti di rottura irreversibili.

Dato che la distruzione del clima si sviluppa nell’arco di decenni ‒ in modo fulmineo per quanto riguarda il pianeta, ma lentamente per quanto riguarda il ciclo delle notizie ‒ non è così immediata e visibile come la cometa del film Don’t Look up ma possiamo essere sicuri che gli effetti saranno altrettanto distruttivi.

 

Immagine: Protesta di Just Stop Oil ai BAFTA (British Academy Film Awards), Londra, Regno Unito (13 marzo 2022). Crediti: William Joshua Templeton / Shutterstock.com

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Il Mar Mediterraneo: un mare privo di pesci

La cultura e le tradizioni del Mediterraneo si intrecciano con la pesca. Per secoli, il Mar Mediterraneo ha fornito ai Paesi e alle comunità circostanti abbondanti risorse marine, mezzi di sussistenza e opportunità commerciali, fungendo al contempo da ponte tra le ricche culture che caratterizzano la regione. L’industria della pesca nel Mediterraneo sostiene un settore del valore di 4,6 miliardi di euro e impiega 180.000 persone. Inoltre, ospita fino al 18 % della vita marina del mondo, pur essendo solo lo 0,82% della superficie complessiva dei mari e degli oceani. Questo enorme patrimonio sta venendo progressivamente distrutto. Infatti, le risorse ittiche totali sono diminuite di oltre un terzo nell’ultimo mezzo secolo: negli ultimi 50 anni, il Mediterraneo ha perso il 41% delle popolazioni di mammiferi marini e il 34% della popolazione ittica totale, mentre il 53% delle specie di squali presenti nel Mediterraneo è a rischio di estinzione locale. Per questa ragione, ad oggi, il Mar Mediterraneo viene riconosciuto come il mare più sovrapescato del mondo, con un sovrasfruttamento di circa il 75% di tutti gli stock ittici. Se non si prendono delle misure drastiche, il Mediterraneo sarà molto presto un mare completamente svuotato.

 

La sovrapesca (overfishing) e il Mediterraneo

La sovrapesca è, in un certo senso, una reazione razionale all’aumento del fabbisogno di pesce da parte del mercato. La maggior parte delle persone consuma circa il doppio del pesce rispetto a 50 anni fa e il numero di abitanti della Terra è quadruplicato rispetto alla fine degli anni Sessanta. Questo è uno dei motivi per cui il 30% delle acque pescate commercialmente è classificato come “sovrasfruttato”. Ciò significa che lo stock di acque disponibili per la pesca si sta esaurendo più velocemente di quanto possa essere rimpiazzato.

Esiste una definizione semplice e chiara di quando un’area è “sovrasfruttata” e non si tratta semplicemente di catturare "troppi" pesci. La pesca eccessiva si verifica quando lo stock riproduttivo di un’area si esaurisce a tal punto che i pesci presenti nell’area non riescono a riprodursi. Nella migliore delle ipotesi, ciò significa che l’anno prossimo ci saranno meno pesci di quest’anno. Nel peggiore dei casi, significa che una specie di pesce non può più essere pescata in una determinata area. Ciò va di pari passo con le forme di pesca distruttive che non raccolgono solo il pesce che il peschereccio sta cercando, ma anche ogni altro organismo abbastanza grande da poter essere catturato in una rete. Oltre l’80% dei pesci viene catturato in questo tipo di reti, ma i pesci non sono gli unici ad essere catturati nelle reti. La pesca a strascico nel Mediterraneo è la pratica che ha l’effetto più significativo sugli ecosistemi e sulle popolazioni ittiche di questa regione. È anche il settore più redditizio dell’industria, che gode di un notevole sostegno sociale e politico, ed è impossibile da contrastare se affrontato da un singolo Paese. L’abituale disinteresse per le trasgressioni di questo settore da parte delle autorità riflette tale situazione e rende la prospettiva di raggiungere la piena conformità nelle future aree protette del Mediterraneo una prospettiva nominale, nella migliore delle ipotesi. Per salvare il Mar Mediterraneo da pratiche di pesca devastanti, dobbiamo innanzitutto cambiare la cultura in cui le regole vengono fatte per poi essere infrante.

 

L’impatto dell’overfishing

La sovrapesca ha una serie di conseguenze di ampia portata.

 

Aumento delle alghe nell’acqua: come nel caso di molti altri organismi, la presenza di alghe è un elemento positivo, ma quando queste sono in quantità eccessiva, si trasformano in un fattore negativo. Quando non ci sono abbastanza pesci nell’acqua, le alghe non vengono da questi mangiate e ciò aumenta l’acidità degli oceani, con un impatto negativo non solo sui pesci rimasti, ma anche sulle barriere coralline e sul plancton.

 

Distruzione delle comunità di pescatori: la pesca eccessiva può distruggere completamente le popolazioni ittiche e le comunità che un tempo facevano affidamento sul pesce presente. Ciò è particolarmente vero per le comunità insulari. Vale la pena ricordare che ci sono molti punti isolati del pianeta in cui la pesca non è solo il motore dell’economia, ma anche la fonte primaria di proteine per la popolazione. Quando la pesca viene meno, la comunità scompare con essa.

 

Pesca più difficile per i piccoli pescherecci: se siete amanti delle piccole imprese, dovreste preoccuparvi della pesca eccessiva. Questo perché l’overfishing è praticato per lo più da grandi imbarcazioni e rende più difficile per quelle più piccole rispettare le proprie quote. Con oltre 40 milioni di persone nel mondo che traggono il loro cibo e il loro sostentamento dalla pesca, questo è un problema serio.

 

Pesca fantasma: la pesca fantasma si riferisce agli attrezzi da pesca abbandonati dall’uomo. Si stima che circa 25.000 reti galleggino nell’Atlantico nordorientale. Questi attrezzi abbandonati diventano una trappola mortale per tutta la fauna marina che nuota in quell’area. Sebbene gran parte del fenomeno sia dovuto a tempeste e disastri naturali, esso è il risultato dell’ignoranza e della negligenza dei pescatori commerciali.

 

Bycatch (cattura accidentale di specie a rischio): la fauna marina non ricercata dai pescatori commerciali viene catturata nelle loro reti come prodotto secondario. Le catture accidentali sono uno dei principali fattori di rischio di estinzione per molte specie vulnerabili del Mediterraneo. Le tartarughe marine e numerose specie di squali e razze sono tra le specie vulnerabili catturate accidentalmente dalla flotta a strascico ‒ infatti, i pescherecci a strascico sono responsabili di oltre il 90% delle catture accidentali di Elasmobranchi (sottoclasse di Pesci Condritti, comprendente gli squali, le razze e le torpedini) nel Mediterraneo occidentale.

 

Scarti del pescato: è una pratica molto diffusa quella di gettare in mare le catture indesiderate, vive o morte. La pesca a strascico è uno dei metodi di pesca meno selettivi attualmente in uso e causa un’elevata mortalità del novellame e delle specie non bersaglio, riducendo sia gli stock commerciali che la più ampia biodiversità marina. Delle 300 specie catturate nella pesca a strascico nel Mediterraneo, solo il 10% viene costantemente commercializzato, mentre il 60% viene sempre rigettato in mare.

 

Prodotto finale sconosciuto: a causa del sovrasfruttamento delle risorse ittiche, in pescheria e negli scaffali dei negozi di alimentari si trova una quantità significativa di pesce che non è quello indicato sull’etichetta. Date l’intensità e le dimensioni dell’industria ittica, in assenza di una chiara regolamentazione di controllo, prodotti inferiori vengono venduti a clienti inconsapevoli.

 

Tropicalizzazione del Mediterraneo e perdita della biodiversità

L’overfishing sta accentuando gli effetti del cambiamento climatico portando ad una tropicalizzazione del Mediterraneo, con temperature che aumentano del 20% in più rispetto alla media globale, migrazioni di pesci, comparsa di specie invasive e scomparsa di specie autoctone, distruzione di praterie marine di Angiosperme e di barriere coralline e diffusione di popolazioni di meduse. L’aumento della temperatura dell’acqua crea condizioni “tropicali”, con il risultato che le specie autoctone si disperdono o si estinguono. Quasi 1.000 nuove specie straniere (126 delle quali sono pesci) sono entrate nel Mediterraneo, causando una diminuzione delle popolazioni autoctone. Nelle acque israeliane, le popolazioni di molluschi autoctoni sono diminuite di circa il 90%, mentre le specie straniere, tra cui il pesce spinoso crepuscolare, costituiscono oggi l’80% delle catture in Turchia. Parallelamente, specie provenienti da aree più a sud, come il barracuda e la cernia crepuscolare, sono ora presenti al largo delle coste liguri, nel Nord Italia. Si è verificata una notevole espansione delle popolazioni di meduse, in particolare nelle regioni meridionali, che hanno registrato esplosioni demografiche sempre più frequenti e lunghe. Il sovrasfruttamento a lungo termine ha ridotto drasticamente le popolazioni di specie ittiche che prima competevano con le meduse per il cibo, e oggi alcuni pescatori catturano più meduse che pesci.

Le praterie di posidonia, detta anche erba di Nettuno, sono minacciate da acque sempre più calde e dall’innalzamento del livello del mare, che ha avuto un impatto devastante sia sulla biodiversità che sullo stoccaggio del “carbonio blu”, ovvero le piante marine che assorbono l’anidride carbonica dall’atmosfera. Si stima che le praterie di posidonia immagazzinino l’11-42% delle emissioni di CO2 della regione mediterranea. Circa il 30% di tutto il corallo rosso costituito da gorgonie nel Mar Ligure è stato distrutto a seguito di un’unica tempesta nell’ottobre 2018. Inoltre, molti altri tipi di corallo che contribuiscono ai complessi ecosistemi mediterranei vengono distrutti da fenomeni meteorologici estremi con crescente frequenza. Si stima che l’80-100% delle popolazioni di mitili a ventaglio sia andato recentemente perduto al largo della Spagna, dell’Italia e di altre regioni a causa dei crescenti tassi di mortalità. Questo mollusco bivalve, il più grande mollusco endemico del Mediterraneo, fornisce rifugio ad altre 146 specie più piccole.

L’impatto complessivo è tale che questi habitat possono impiegare decenni per riprendersi; spesso può essere addirittura irreversibile. Una misura cruciale necessaria per arrestare tale impatto negativo sul mare è la creazione e la gestione efficace delle aree marine protette (AMP). Oggi tali aree coprono appena il 9,68% del Mediterraneo, di cui solo l’1,27% è sostanzialmente regolamentato. Recentemente, una ricerca del WWF Mediterranean Marine Initiative ha rilevato che il 30% del Mediterraneo dovrebbe essere protetto per iniziare a ripristinare gli ecosistemi, consentire alle popolazioni ittiche di riprendersi, mitigare gli effetti del cambiamento climatico e garantire una pesca e un turismo sostenibili, nonché la sicurezza alimentare e la prosperità delle comunità locali.

 

In conclusione, è quanto mai importante riconoscere la condizione di profonda crisi in cui ci troviamo e definire un obiettivo comune: un Mar Mediterraneo con un ecosistema ricco e resiliente, dove le regole e la pratica della pesca sostengono la salute dell’ambiente marino per le generazioni a venire.

 

Crediti immagine: Daniele RUSSO / Shutterstock.com

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Quale legame tra cambiamenti climatici e malattie infettive?

 

Secondo un nuovo, allarmante studio, oltre la metà di tutte le malattie infettive note che minacciano l’uomo sono state aggravate dai cambiamenti climatici. La premessa è quanto descritto nel secondo rapporto del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) del marzo 2022, ossia che se nei prossimi anni non ci sarà un’azione concreta per contrastare la crisi climatica, assisteremo a un’escalation di malattie infettive. Si diffonderanno in nuove regioni (e potrebbero diminuire in alcune aree endemiche) e aumenteranno in aree dove prima erano sotto controllo. Malattie che non hanno mai infettato l’uomo in precedenza, inoltre, potrebbero “svilupparsi” attraverso la trasmissione animale.

L’8 agosto scorso su Nature Climate Change, Camilo Mora (professore di geografia al College of Social Sciences) e i suoi colleghi presso l’ University of Hawaiʻi a Mānoa, hanno pubblicato una ricerca nella la quale hanno passato al setaccio tutta la letteratura attinente (più di 70 mila articoli scientifici) al fine di trovare prove di come dieci rischi indotti dal cambiamento climatico ‒ tra cui l’aumento delle temperature, l’innalzamento del livello del mare e la siccità ‒ abbiano influito su tutte le malattie infettive documentate.

I ricercatori hanno scoperto che il cambiamento climatico ha aggravato 218, ovvero il 58%, delle 375 malattie infettive elencate nel Global Infectious Diseases and Epidemiology Network (GIDEON) e nel National Notifiable Diseases Surveillance System (NNDSS) dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi. Il totale sale a 277 se si includono le condizioni non trasmissibili, come l’asma e le punture di serpenti o insetti velenosi. Il team ha anche identificato 1.006 modi in cui i rischi climatici hanno portato a casi di malattia. Molti di questi hanno comportato un avvicinamento tra agenti patogeni e persone. L’aumento della temperatura e delle precipitazioni, ad esempio, ha ampliato il raggio d’azione delle zanzare e ha contribuito all’insorgenza di febbre dengue, chikungunya e malaria. Allo stesso tempo, le ondate di calore attirano un maggior numero di persone verso attività legate all’acqua, portando a un aumento dei casi di malattie trasmesse dall’acqua, come la gastroenterite. Le tempeste, l’innalzamento del livello del mare e le inondazioni costringono le persone a spostarsi in condizioni di scarsa salubrità, esponendole quindi ad epidemie di febbre di Lassa, colera e febbre tifoidea. Inoltre, vivere in condizioni di rischio climatico può anche indurre un aumento della produzione di cortisolo a causa dello stress, con conseguente riduzione della risposta immunitaria del corpo umano.

Esempi della relazione tra cambiamento climatico e malattie infettive sono ben documentati fin dall’antichità: ad esempio, nell’antica Roma, gli aristocratici si ritiravano in estate in località collinari per evitare la malaria, una malattia il cui nome deriva dal latino mal + aria, ovvero “aria cattiva”. Un caso recente di morte da “cattiva aria” si è registrato nel 2016, quando un ragazzo di 12 anni è morto in Russia dopo essere stato infettato dall’antrace. La malattia è stata ricondotta a una carcassa di renna infetta rimasta congelata nel sottosuolo ma che è emersa e si è scongelata a causa delle temperature della tundra siberiana che in quell’estate hanno raggiunto i 35 °C. Quasi 20 persone sono finite in ospedale a causa dell’epidemia.

 

I gas a effetto serra derivanti dalla combustione di combustibili fossili hanno fatto aumentare le temperature medie globali di poco più di 1 °C dal 1850. Se le proiezioni più recenti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) delle Nazioni Unite si riveleranno veritiere, le temperature medie globali potrebbero aumentare di oltre 1,5 °C nei prossimi 20 anni, portando a un drammatico innalzamento del livello del mare, a ondate di calore sempre più lunghe e frequenti, nonché a eventi meteorologici estremi, devastando le comunità e gli ecosistemi agricoli e naturali. Secondo l’IPCC, ogni aumento delle temperature globali porterà a un maggior numero di morti per malattie infettive.

L’attuale aumento delle temperature – spiegano i ricercatori dell’ University of Hawaiʻi a Mānoa e dell’IPCC – potrebbe aver già spinto il pianeta al di là di uno «stato climatico sicuro». Per questo dobbiamo fare di tutto per limitare l’aumento delle temperature rispetto all’epoca preindustriale al di sotto di 1,5 °C. Tutti i parametri attuali proiettano, invece, il pianeta verso un innalzamento delle temperature compreso tra i 2 °C e i 3 °C. Camilo Mora conclude affermando: «Ci sono troppe malattie e vie di trasmissione per farci pensare che possiamo davvero adattarci ai cambiamenti climatici. Questo evidenzia l’urgente necessità di ridurre le emissioni di gas serra a livello globale».

 

Immagine: Una strada allagata a Dhaka, Bangladesh (4 luglio 2021). Crediti: Sk Hasan Ali / Shutterstock.com

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Non è solo maltempo: la connessione tra crisi climatica e ed eventi estremi

 

Il clima è cambiato e sta continuando a cambiare. Ultima testimonianza le alluvioni che hanno interessato gran parte del Centro Italia, in particolare Marche e Umbria. Non si può più parlare di temporali estivi o di maltempo, la soglia della crisi climatica è stata già varcata. Ma in che modo influiscono i cambiamenti climatici su questi eventi estremi? L’Italia (e non solo) è stata interessata nei mesi scorsi da temperature record: un caldo eccessivo che ha fatto alzare la temperatura del Mar Mediterraneo ‒ enorme magazzino per il calore in eccesso generato dai gas serra ‒, con gravi danni per la biodiversità marina e conseguenze su quanto accade in atmosfera. Il mare trasferisce all’atmosfera questo surplus di energia, che tende a riversarsi sul suolo attraverso fenomeni metereologici devastanti, intensi e sempre più frequenti. In questo caso, le Marche, a causa dell’orografia del territorio e delle particolari condizioni dell’atmosfera, sono state interessate da una forte stazionarietà dei temporali, che ha generato il pericoloso fenomeno dei temporali autorigeneranti, ossia un evento temporalesco che tende ad autoalimentarsi per via del contrasto tra due masse d’aria con caratteristiche termiche e igrometriche differenti: una più fresca ad alta quota e una caldo-umida presente alle basse quote, generando la condensazione di grandi quantità di vapore acqueo, le quali progressivamente accrescono le dimensioni della cella temporalesca, fino a generare fenomeni estremi e distruttivi.

In genere, la precipitazione media annua nelle Marche è di 800 millimetri sulla costa e 1.200 millimetri nelle zone interne. Con i temporali della scorsa settimana sono caduti 420 millimetri di pioggia in poche ore. Gi effetti delle piogge sono stati resi ancora più pericolosi dalla prolungata siccità che ha interessato il territorio: un terreno secco ha minore capacità di assorbire acqua piovana, portando ad un maggior rischio di inondazioni e allagamenti. Un rischio da non sottovalutare e che si sposa con quello legato al dissesto idrogeologico del nostro Paese. Secondo l’ultimo rapporto Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio di Ispra, quasi il 94% dei Comuni è a rischio dissesto idrologico, un milione e 300 mila residenti abitano in zone a rischio frana e quasi 7 milioni vivono in zone soggette alle alluvioni. Gli esperti di tutto il mondo sono concordi nel ritenere che la miglior strategia d’azione in questa situazione critica sia da un lato la riduzione delle emissioni e dall’altro lo sviluppo di piani per la prevenzione e l’adattamento.

A tal riguardo, in Italia, dal 2010 ad oggi, si sono verificati 1.318 eventi estremi, tra cui: 516 allagamenti da piogge intense, 367 trombe d’aria, 123 esondazioni fluviali e 55 frane causate da piogge intense, ma tutto questo non sembra aver portato a grandi cambiamenti: l’Italia continua a rimanere l’unico grande Paese europeo senza un piano di adattamento al clima; il cosiddetto PNACC (Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici), elaborato nel 2017, rimane al più un simbolo privo di significato. Ma come si fa ad avere un miglioramento o una corretta applicazione del PNACC se ‒ alle soglie delle elezioni ‒ gran parte delle forze politiche considera marginale la crisi climatica, esprimendosi solo in funzione del voto? Il think tank Ecco, analizzando le proposte politiche legate al clima in vista del voto del 25 settembre, evidenzia che le politiche di adattamento sono un tema largamente ignorato (PD, Verdi-SI e Fd’I sono gli unici a parlare dell’aggiornamento del piano).

Se il cambiamento climatico e i fenomeni metereologici estremi risultano marginali nei programmi politici e non in grado di attrarre voto popolare, è bene evidenziare un tratto che lega tutti: la perdita economica che deriva dalla crisi climatica. Secondo i dati della Protezione civile e di Legambiente, ogni anno spendiamo 1,55 miliardi per la gestione delle emergenze, in un rapporto di 1 a 5 tra spese per la prevenzione e quelle per riparare i danni. Dal 1999 al 2019 sono stati 6.303 gli interventi avviati per mitigare il rischio idrogeologico in Italia, per un totale di circa di 6,6 miliardi di euro (Ispra, piattaforma Rendis), con una media di 330 milioni di euro l’anno. In altre parole, nell’ultimo decennio, l’Italia ha perso 20,3 miliardi di euro, per una media di circa 3 miliardi all’anno. Potrebbe bastare questo dato per spingere ad agire immediatamente.

 

Immagine: Un albero abbattuto da una tromba d’aria a Carrara, Toscana (18 agosto 2022). Crediti: Cristian Storto / Shutterstock.com

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L’Italia a rischio desertificazione

Nel corso di questa estate, il governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza in cinque regioni a causa della crescente siccità. Basta vedere le immagini del Po per capire quanto sia drammatica la situazione: Il fiume ha più di 100 milioni di metri cubi d’acqua in meno rispetto a quanto dovrebbe avere in questo periodo dell’anno. Non c’è da stupirsi del perché: il primo semestre del 2022 è stato caldissimo in Italia, dello 0,76% in più rispetto alla media. Tuttavia, è stato anche il più secco, con un’enorme diminuzione delle precipitazioni, pari al 45%. Questi effetti evidenti e scioccanti non costituiscono un problema solo del 2022: sono decenni che si lancia l’allarme rispetto a tale fenomeno; in particolare nel Sud Italia. Regioni quali Sicilia, Puglia e Sardegna sono da tempo riconosciute come altamente vulnerabili alla desertificazione e ora stanno incominciando ad affrontare le prime fasi di questo processo. Una minaccia che lungi dall’essere localizzata solo nel Sud si estende a tutto il Bel Paese, trasformando anche i terreni fertili del Veneto, del basso Piemonte e dell’Emilia-Romagna in deserto e polvere. Ad oggi ben il 28% del territorio italiano è a rischio.

 

Numerosi fattori contribuiscono al problema ‒ salinizzazione, erosione dell’acqua, urbanizzazione, inquinamento e tecniche agricole ‒, ma è la crisi climatica a rendere sempre più rapida la trasformazione dell’Italia in deserto: già a partire da questo inverno sono previste diminuzioni drastiche delle precipitazioni, esattamente del 40 %, nonché una riduzione dell’80% delle nevicate. Tutto ciò inciderà nel prossimo futuro sul rischio di incendi sempre più estesi e distruttivi, di fatto intaccando l’unica vera protezione verso la desertificazione: il polmone verde costituito da alberi e vegetazione. A lungo termine, gli impatti sono prevedibili: meno agricoltura, meno disponibilità di acqua e quindi costi crescenti. Quello che si viene a creare è un circolo vizioso che si autoalimenta, diminuendo progressivamente le nostre possibilità di sopravvivenza e trasformando l’Italia in un dust bowl (‘catino di polvere’), un deserto inospitale per qualsiasi forma di vita. Per fare un paragone, è come se progressivamente stessimo volontariamente trasformando il nostro Paese nella superficie della Luna.

 

Per contrastare l’avanzare del fenomeno occorre un cambiamento radicale nel modo di utilizzare l’acqua. È necessario attuare politiche di rafforzamento della rete di infrastrutture idriche per ridurre gli sprechi, puntando, per soluzioni a breve termine, sull’adattamento piuttosto che sulla mitigazione. Anche gli agricoltori dovranno lavorare in modo più efficiente con l’acqua e contribuire alla protezione dei loro terreni. Ma al di là delle strategie pubbliche per ridurre il consumo di acqua, potrebbe essere necessario cambiare il nostro modo di vivere e alimentarci, in quanto la desertificazione non incide solo sul rischio di gravi incendi, ma anche sul nostro accesso a risorse essenziali come acqua e cibo.

 

Di fronte a siccità, caldo fuori stagione e segnali della crisi climatica sempre più palesi, rimangono ancora diffusi lo scetticismo e il negazionismo, sia a livello internazionale – il premio Nobel norvegese Ivar Giaever si è posto tra i promotori di un documento, subito condiviso su Facebook, che ha trovato l’adesione di oltre mille firmatari, denominato Dichiarazione mondiale sul clima (WCD, World Climate Declaration), dove si nega la responsabilità umana nel cambiamento climatico – sia nazionale: durante il talk show politico Carta Bianca, il climatologo Luca Mercalli ha lasciato lo studio dopo che Francesco Borgonovo, vicedirettore del giornale La Verità, ha affermato che il cambiamento climatico e i dati dell’IPCC non costituiscono più una verità scientifica ma un oggetto di dibattito.

 

Il rischio che si corre è di ritrovarsi, quando non si sentirà più il suono delle grasse risate e degli applausi del pubblico, dopo l’ennesima condivisione sui social di notizie false, dopo il milionesimo commento negazionista da parte di figure di spicco, solo con cumuli di polvere.

 

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Le microplastiche sono ormai, letteralmente, parte di noi

 

L’inquinamento da plastica è uno dei principali problemi ambientali. Ogni anno vengono prodotte oltre 300 milioni di tonnellate di plastica, e di queste almeno 14 milioni di tonnellate finiscono negli oceani. Non solo inquinano l’ambiente, danneggiando la vita marina, ma, decomponendosi in microplastiche, causano danni ad ambiente e salute a livello mondiale. Secondo la definizione dell’Agenzia Europea per le Sostanze Chimiche (ECHA), le microplastiche sono frammenti di qualsiasi tipo di plastica dalle dimensioni comprese tra 0,33 e 5 millimetri. Possono essere frammenti di praticamente ogni prodotto di uso quotidiano: dagli indumenti alle bottiglie per l’acqua, dalle reti da pesca ai contenitori per alimenti e persino cosmetici e pneumatici. Come tutta la plastica, le microplastiche non sono biodegradabili, e prima che vengano scomposte possono passare centinaia di anni.

 

Gli scienziati hanno rilevato la presenza di microplastiche vicino alla vetta del Monte Everest, nella Fossa delle Marianne e persino nelle feci dei bambini. Ma ora i ricercatori hanno trovato un nuovo vettore per le microplastiche: il sangue umano. Secondo un articolo pubblicato su Environment International, i ricercatori hanno trovato plastica nel sangue di 17 dei 22 partecipanti allo studio, ovvero circa il 77% del campione. «Il nostro studio offre la prima indicazione di presenza di particelle polimeriche nel sangue: è un risultato rivoluzionario» ha dichiarato l’autore dello studio Dick Vethaak, ecotossicologo presso la Vrije Universiteit di Amsterdam nei Paesi Bassi a Damian Carrington del Guardian. I risultati supportano l’ipotesi che l’esposizione umana alle microplastiche presenti nell’ambiente comporti l’assorbimento delle stesse particelle da parte dell’organismo e quindi la loro presenza nel flusso sanguigno. Il polietilene tereftalato (PET), comunemente usato per le bottiglie dell’acqua usa e getta, è il polimero plastico risultato più diffuso e presente in circa il 50% dei soggetti partecipanti. Il secondo più comune, il polistirene (PS), utilizzato per gli imballaggi alimentari, mentre il polistirolo espanso è stato trovato in circa il 36%. A tal riguardo, il ricercatore ha aggiunto che «è certamente ragionevole essere preoccupati». Una preoccupazione confermata anche da altri studi, come quello condotto presso l’Università di Hull, nel Regno Unito, il quale ha mostrato quanto possano essere invasive le particelle volatili: gli scienziati si aspettavano di trovare fibre plastiche nei polmoni dei pazienti sottoposti a interventi chirurgici, ma sono rimasti sorpresi dal trovarne in grandi quantità, di varie forme e misure, in profondità nel lobo polmonare inferiore. Una delle fibre individuate era lunga ben 2 millimetri.

 

Le microplastiche ci circondano, e l’esposizione umana a queste particelle a causa della loro presenza nell’aria, nell’acqua, negli alimenti, nei prodotti per la cura personale, come dentifricio o lucidalabbra, polimeri dentali, parti di impianti che potrebbero essere ingeriti accidentalmente o residui di inchiostro per tatuaggi, può avvenire per inalazione, ingestione e assorbimento cutaneo. Gli scienziati ritengono che ogni giorno sia possibile ingerire da alcune decine a più di 100.000 particelle di microplastica ‒per rendere l’idea, si tratta di circa l’equivalente della massa di una carta di credito nell’arco di un anno. Anche gli indumenti sintetici che indossiamo possono disperdere fibre ‒ alcuni studi hanno rivelato che i tessuti sono la principale fonte di microplastiche trasportate dall’aria. Oggi il nucleo del problema non sta più nell’individuare dove siano le microplastiche, ma di fermare la loro diffusione e limitarne i danni per la salute: «Quando ho iniziato a fare questo lavoro, nel 2014, gli unici studi in corso riguardavano l’individuazione delle microplastiche nelle varie aree geografiche», spiega Alice Horton, scienziata marina del National Oceanography Center del Regno Unito, specializzata in inquinamento da microplastiche. «Adesso possiamo smettere di cercare. Sappiamo che sono ovunque».

Nonostante le implicazioni per la salute non siano ancora del tutto note, alcuni studi mostrano che le particelle di plastica possono viaggiare all’interno del corpo e depositarsi negli organi. Si pensa che possano agire come irritanti, proprio come le fibre di amianto che, come è noto, infiammano i polmoni e causano il cancro. Si ritiene inoltre che le microplastiche possano fungere da vettori per microrganismi e sostanze chimiche tossiche, con ulteriori rischi per la salute. Le ricerche hanno dimostrato il potenziale di disturbi metabolici, neurotossicità ed effetti cancerogeni. È stato dimostrato anche che le microplastiche possono agire come interferenti endocrini, compromettendo la normale funzione ormonale e causando potenzialmente un aumento di peso. Si ritiene inoltre che alcune microplastiche, ad esempio i ritardanti di fiamma, interferiscano con lo sviluppo cerebrale del feto e, allo stesso modo, possano influire sul normale sviluppo cerebrale dei bambini.

 

Nel 2020 sono state prodotte 367 milioni di tonnellate di plastica, una quantità destinata a triplicarsi entro il 2050. «Si tratta di un dato allarmante, perché ci troviamo immersi in questo problema e ancora non ne comprendiamo le conseguenze, e sarà molto difficile fare marcia indietro in caso di necessità», conclude Janice Brahney, esperta di biochimica presso la Utah State University.

 

Immagine: Microplastiche che galleggiano nell’oceano. Crediti: xalien / Shutterstock.com

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Agricoltura verticale. L’unica strada è in salita?

La questione di come e dove produrremo cibo in futuro è centrale in tempi di cambiamenti climatici, crescita della popolazione mondiale, processi di urbanizzazione, diminuzione della disponibilità di terreni coltivabili e di diete che cambiano. Con una popolazione mondiale che, secondo le stime, raggiungerà i 9,8 miliardi di persone entro il 2050, l’agricoltura verticale è un’opzione valida per nutrire le nostre città in rapida crescita, evitando il suicidio climatico? La vita in città è molto ambita. Secondo le Nazioni Unite, ogni settimana 3 milioni di persone in tutto il mondo si trasferiscono in città e si ritiene che questo numero continui ad aumentare. Le Nazioni Unite prevedono che tra 15-30 anni due terzi della popolazione mondiale vivrà in città. D’altro canto, secondo gli esperti, fino al 23% dei gas serra globali può essere ricondotto all’agricoltura e all’uso del suolo (i fertilizzanti utilizzati dagli agricoltori tendono a contenere protossido di azoto, 300 volte più potente dell’anidride carbonica). Si tratta di quasi un quarto delle nostre emissioni totali di gas serra. Ma questo vale solo per la produzione: il cibo deve poi essere trasportato nelle grandi città e, in molti casi, ciò significa muovere grossi camion a 18 ruote che emettono gasolio.

Una soluzione semplice per ridurre i chilometri percorsi a fini alimentari è coltivare il cibo vicino alle nostre città. Ma una soluzione ancora migliore potrebbe essere quella di coltivare il cibo proprio all’interno dei contesti urbani. L’agricoltura verticale consiste nel coltivare il cibo in strati verticali al chiuso per tutto l’anno, controllando la luce, la temperatura e l’acqua, spesso senza l’uso di terra. Con l’aggravarsi dei cambiamenti climatici, molti luoghi in cui siamo stati in grado di coltivare cibo per anni inizieranno a sperimentare problemi senza precedenti. Le stagioni delle piogge, gli anni di siccità, le alluvioni possono diventare meno prevedibili e i modelli meteorologici irregolari. Cambieranno anche le aree favorevoli per la vita degli insetti, che potrebbero portare parassiti e malattie in zone diverse da quelle attuali. La possibilità di coltivare il cibo al chiuso, e senza terra, eliminerebbe, secondo i suoi sostenitori, queste incertezze. Tuttavia, l’agricoltura verticale è ancora una tecnologia relativamente nuova e la sua economicità, scalabilità e sostenibilità ambientale non superano attualmente le pratiche agricole convenzionali. Le opportunità e le sfide che si presentano possono essere raggruppate in quattro dimensioni: (1) economica, (2) ambientale, (3) sociale e (4) politica.

 

Economia

L’agricoltura verticale creerebbe specifici vantaggi economici rispetto ai sistemi di produzione agricola convenzionali. Permette una crescita stratificata, garantendo la massima resa per metro quadrato di spazio di coltivazione, una caratteristica particolarmente vantaggiosa nelle aree urbane. Ad esempio, un’azienda agricola verticale può raggiungere una produzione di lattuga per metro quadro di oltre 80 volte superiore a quella dell’agricoltura in campo aperto e di oltre 12 volte rispetto a quella in serra. Inoltre, i sistemi di crescita indoor proteggono le piante dagli agenti atmosferici esterni e dai cambiamenti climatici. Pertanto, la crescita indoor non solo consente di produrre colture per tutto l’anno senza il rischio di perdite di resa dovute alle condizioni atmosferiche, ma rende anche possibile la coltivazione di colture in ambienti difficili, dove il clima può rendere impervio l’uso di pratiche agricole convenzionali. Un altro vantaggio economico è la riduzione dei requisiti di trasporto degli alimenti, poiché il posizionamento delle aziende agricole verticali vicino ai consumatori può ridurre drasticamente i tempi di viaggio e i costi di stoccaggio, refrigerazione e trasporto. Inoltre, i consumatori non sono gli unici utenti finali. Le aziende agricole verticali possono essere collocate in diverse posizioni della catena alimentare, ad esempio presso i distributori o i punti vendita al dettaglio.

 

Ciò detto è bene considerare anche gli svantaggi: al di là al prezzo del terreno, i costi di costruzione e gestione della fattoria verticale sono molto più elevati rispetto ad una serra high-tech. Il consumo di energia costituisce un costo non indifferente, considerando l’illuminazione artificiale e il sistema HVAC (Heating, Ventilation and Air Conditioning, ovvero “riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria”). Secondo alcuni studiosi, l’elevato uso di illuminazione artificiale nelle aziende agricole verticali rende le serre in Europa attualmente più efficienti in termini energetici. Tuttavia, la redditività delle aziende agricole verticali non dipende solo dalle prestazioni energetiche, ma anche dalla scarsità e dal costo delle risorse locali: per esempio, nelle aree in cui l’energia è a buon mercato e l’acqua è scarsa (ad esempio, in Medio Oriente), le water use-efficient vertical farms (impianti efficienti dal punto di vista idrico) possono essere più desiderabili.

 

Inoltre, dato che i costi di produzione dell’agricoltura verticale sono relativamente elevati, attualmente, per essere economicamente vantaggiose, nelle fattorie verticali vengono coltivate soprattutto colture a crescita rapida, di altezza ridotta e con un’ampia percentuale di parti vegetali vendibili (ad esempio, verdure a foglia, microgreens ed erbe aromatiche). In uno studio del 2018 è stato stimato che anche se i LED raggiungessero la massima efficienza in futuro, il costo effettivo dei fotoni supererebbe di gran lunga il valore di molti ortaggi e colture di base (ad esempio, patate, grano, riso). Secondo gli autori, la produzione di pomodori in fattorie verticali diventerà redditizia in futuro, mentre le (micro)verdure a foglia rimarranno le colture più convenienti. Tuttavia, il rapporto costo-efficacia delle fattorie verticali può essere aumentato commercializzando le colture come un prodotto di qualità superiore, tracciabile, privo di pesticidi ed erbicidi, fresco e prodotto localmente. In alcuni casi, le coltivazioni verticali possono essere commercializzate come prodotti biologici (ad esempio, negli Stati Uniti d’America, mentre nell’Unione Europea le colture coltivate in verticale non possono essere certificate come biologiche). Inoltre, l’interesse delle aziende di breeding per l’agricoltura verticale può portare allo sviluppo di colture nane, a crescita rapida, ad alto rendimento, di alta qualità e facili da raccogliere, ottimizzate per un ambiente di coltivazione verticale altamente controllato.

 

Ambiente

La circolarità di una fattoria verticale deriva principalmente dalla capacità del suo sistema idroponico di catturare e far ricircolare la soluzione nutritiva per un periodo prolungato. Rispetto ai sistemi agricoli a cielo aperto, il ricircolo migliora drasticamente l’efficienza nell’uso dell’acqua e riduce l’utilizzo di fertilizzanti e i pesticidi immessi nell’ambiente. Per esempio, in un impianto agricolo verticale, l’utilizzo di acqua per kg di lattuga può essere fino a 18 volte inferiore rispetto all’agricoltura in campo aperto ‒ con irrigazione artificiale ‒ e fino a nove volte inferiore rispetto all’agricoltura in campo aperto che utilizza l’irrigazione a goccia. Inoltre, la produzione in fattorie verticali può ridurre l’uso di acqua fino al 95% rispetto alle serre, soprattutto perché le serre richiedono un sistema di nebulizzazione per il raffreddamento e le perdite di traspirazione delle colture devono essere compensate, mentre l’acqua traspirata può essere raccolta nelle fattorie verticali indoor. Nell’agricoltura in campo aperto, il ruscellamento e la lisciviazione di fosforo e azoto in eccesso possono causare l’eutrofizzazione degli ecosistemi acquatici e terrestri. Nelle fattorie verticali, invece, la soluzione nutritiva viene catturata e riutilizzata, riducendo al minimo l’eutrofizzazione. Di conseguenza, nelle aziende agricole verticali si può ottenere una riduzione dell’eutrofizzazione del 70-90% rispetto all’agricoltura in campo aperto.

Un’altra opportunità offerta dalle aziende agricole verticali è l’integrazione delle acque reflue domestiche come fonte di nutrienti. Gli escrementi umani sono la fonte primaria di nutrienti essenziali nelle acque reflue domestiche e la separazione alla fonte dell’urina per la produzione di fertilizzanti può ridurre l’impatto ambientale rispetto ai fertilizzanti sintetici. Inoltre, i fertilizzanti derivati dall’urina sono stati applicati con successo in colture senza suolo. Pertanto, i fertilizzanti derivati dall’urina potrebbero fornire una fonte di nutrienti per le colture prodotte nelle fattorie verticali in ambiente urbano, consentendoci di passare a un approccio completo di ciclo chiuso dei nutrienti.

 

Uno dei principali argomenti a sostegno dell’agricoltura verticale è la riduzione dell’uso del suolo, poiché la crescita multistrato aumenta i rendimenti per superficie, riducendo la necessità di terreni supplementari, che possono essere restituiti alla loro funzione ecologica originale. In effetti, diverse fonti hanno rilevato che le aziende agricole verticali possono risparmiare terreno rispetto ai sistemi di orticoltura convenzionali. Tuttavia, la produzione di energia elettrica richiede una grande quantità di terreno, rendendo completamente vano il guadagno di terreno derivante dalla produzione multistrato. Per quanto riguarda l’impatto delle aziende agricole verticali sulle emissioni di gas serra, la riduzione del chilometraggio per il trasporto degli alimenti, grazie alla collocazione delle aziende agricole verticali più vicine al consumatore, può ridurre le emissioni di gas serra. Tuttavia, la grande richiesta di energia elettrica delle aziende agricole verticali ha una notevole influenza sulle emissioni di gas serra, risultando più elevata rispetto all’agricoltura convenzionale (a seconda della fonte energetica). A tal riguardo, le emissioni di gas serra delle fattorie verticali possono essere ridotte in modo sostanziale quando si utilizza energia nucleare o rinnovabile (eolica, idrica, solare) invece di energia di origine fossile (carbone e gas). Pertanto, per rendere l’agricoltura verticale sostenibile dal punto di vista ambientale, è necessaria una transizione dalle fonti energetiche fossili all’energia nucleare o rinnovabile.

 

Società e politica

L’industria dell’agricoltura verticale crea nuove opportunità di lavoro per agricoltori, tecnologi, project manager, addetti alla manutenzione, al marketing e alla vendita al dettaglio. Tuttavia, gli agricoltori verticali intervistati hanno segnalato la necessità di un maggior numero di datori di lavoro specializzati nella scienza delle piante, nella coltivazione e nella manutenzione di esse, poiché attualmente l’industria dell’agricoltura verticale attira principalmente personale con una formazione tecnica che non ha molte competenze in campo agricolo. L’aumento dei consumatori attenti alla salute e all’ambiente ha incrementato la domanda di alimenti sani e puliti prodotti con un basso impatto sull’ambiente. L’agricoltura verticale può migliorare la sicurezza alimentare massimizzando la tracciabilità delle colture e riducendo o eliminando la necessità di pesticidi ed erbicidi. Inoltre, la sicurezza alimentare può essere migliorata aumentando l’autosufficienza alimentare nelle aree urbane o in quelle con risorse scarse o climi rigidi. L’accettazione sociale delle fattorie verticali nelle aree urbane è generalmente negativa. Ad esempio, gli abitanti delle aree urbane sono stati più propensi a rifiutare l’implementazione di progetti di agricoltura verticale ad alta tecnologia nei loro quartieri e hanno percepito le colture senza suolo come prodotti innaturali e malsani a causa del loro ambiente di coltivazione (senza suolo e/o per la presenza di inquinamento urbano). Tuttavia, l’effetto negativo dell’inquinamento atmosferico nelle città sugli alimenti coltivati in città è un preconcetto comune che è stato smentito. In generale, i consumatori sono poco informati sul concetto di coltivazione senza suolo e hanno una percezione negativa della coltivazione in ambiente verticale. Pertanto, è necessario organizzare una migliore comunicazione ed educazione sulla qualità di tali colture e sui suoi vantaggi. Gli agricoltori verticali hanno indicato che i principali problemi di integrazione che hanno dovuto affrontare erano legati ai vincoli normativi locali. Ad esempio, i regolamenti urbani per le aziende agricole verticali che riutilizzano edifici vuoti sono ancora poco chiari e richiedono una revisione da parte dei governi locali, impedendo l’ingresso di questi impianti nelle aree urbane.

 

Il potenziale futuro dell’agricoltura verticale: la necessità di espandere il settore

La coltivazione al chiuso di colture che utilizzano l’illuminazione artificiale rende l’agricoltura verticale un metodo di produzione ad alta intensità energetica, comportando un elevato impatto ambientale nella nostra attuale economia basata sui combustibili fossili. Tuttavia, con la transizione verso fonti energetiche più sostenibili, le fattorie verticali possono diventare un’aggiunta alle pratiche agricole convenzionali, in grado di migliorare la sicurezza alimentare per la crescente popolazione urbana mondiale. Già oggi, l’agricoltura verticale può ridurre i costi di trasporto degli alimenti, l’uso dell’acqua e l’eutrofizzazione. Ciò nonostante, a causa degli elevati costi di investimento e di gestione, le aziende agricole verticali sono redditizie solo in specifiche nicchie di mercato e in determinati contesti geografici (in base al clima locale o al grado di urbanizzazione). Perché questa pratica possa svilupparsi e l’agricoltura verticale divenga un sistema fattibile e vantaggioso a livello mondiale è necessario che le opportunità di mercato vengano ampliate per rendere.

 

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Guerra, pace e deforestazione

L’avvento della pace in quattro Paesi che hanno vissuto a lungo conflitti armati mortali non è stato benevolo nei confronti dell’ambiente: un nuovo studio mostra infatti tassi di deforestazione più elevati in tempo di pace che durante gli anni di guerra. Il recente lavoro, pubblicato sulla rivista Land Use Policy, mostra come Sri Lanka, Nepal, Perù e Costa d’Avorio abbiano registrato «un’allarmante perdita di foreste» negli anni immediatamente successivi alla fine dei rispettivi conflitti civili, sulla base dell’analisi dei dati sulla copertura forestale raccolti con metodi di telerilevamento.

«I tassi di deforestazione nelle zone di guerra aumentano drasticamente una volta dichiarata la pace e, ad eccezione del Nepal, sono significativamente elevati negli altri tre Paesi che abbiamo studiato», ha dichiarato a Mongabay Nelson Grima, coautore della pubblicazione e post-doc presso la Rubenstein School of Environment and Natural Resources dell’Università del Vermont. La natura e la durata del conflitto in ogni Paese sono diverse, dalle due brevi guerre civili combattute tra il 2002 e il 2011 in Costa d’Avorio, spinte dalla xenofobia e dai cambiamenti politici, all’insurrezione di un quarto di secolo in Sri Lanka per un’enclave etnica Tamil nel Nord del Paese. In Nepal e in Perù, le rivolte comuniste sono durate rispettivamente 10 e 30 anni (in Perù continua a ribollire un’insurrezione di minore intensità). Ciò che accomuna i quattro Paesi, tuttavia, è la spaventosa perdita di interi ecosistemi forestali. Secondo lo studio, il tasso medio di deforestazione nei cinque anni successivi alla fine dei rispettivi conflitti è stato del 68% superiore a quello degli ultimi cinque anni di conflitto. I dati, basati sull’analisi delle immagini satellitari Landsat, indicano un tasso medio globale di aumento della deforestazione del 7,2%. «Non vogliamo che si pensi che sosteniamo in qualche modo la violenza armata. Ma i nostri risultati dimostrano che quando i combattimenti cessano, una serie di fattori porta a un aumento del tasso di deforestazione», ha dichiarato in un comunicato Simron Singh, coautore e ricercatore dell’Università di Waterloo, in Canada. Secondo i ricercatori, in tempo di guerra le foreste vengono utilizzate come copertura per la guerriglia e come basi isolate. Diverse ricerche indicano che le guerre moderne sono spesso ambientate in aree remote dove i gruppi armati possono trovare copertura e sostentamento nelle foreste. Anche nelle aree urbane soggette alle pressioni della guerra, come nell’assedio di Sarajevo (1992-96), capitale della Bosnia ed Erzegovina, gli alberi e i parchi urbani hanno protetto i cittadini dai cecchini e dall’artiglieria, a tal punto che alcuni alberi sono stati considerati “beni militari” e quindi non era consentito tagliarli. Ciò è particolarmente importante, se si considera che durante i 44 mesi di assedio (l’assedio più lungo nella storia della guerra moderna), la maggior parte degli alberi presenti nelle strade, nei parchi e nelle foreste periurbane della città furono tagliati per fornire legna da ardere agli abitanti, privati delle erogazioni energetiche. La fornitura di un riparo da parte dell’ecosistema in tempi di crisi non dovrebbe essere dimenticata in tempi meno impegnativi, e la capacità delle foreste di offrire questo servizio dovrebbe essere mantenuta tenendo presente che un giorno sarà necessario.

Le cose cambiano quando i combattimenti finiscono e le foreste non sono più considerate zone pericolose: «Quando i combattimenti cessano, spesso gli sforzi di ricostruzione richiedono risorse, e le foreste offrono ampio materiale e opportunità per aiutare a ricostruire un’economia e una società. Spesso l’instabilità politica e sociale consente uno sfruttamento incontrollato». I ricercatori affermano che gli effetti negativi derivano da una combinazione di riduzione o sospensione delle attività di conservazione ‒ a causa di problemi di sicurezza ‒ e dirottamento delle risorse degli aiuti internazionali verso il mantenimento della pace. Ma notano anche effetti positivi, come l’allentamento della pressione sugli ecosistemi e sulle risorse naturali dovuto ai cambiamenti degli insediamenti, alla creazione di zone cuscinetto e alla riduzione o soppressione di alcune attività economiche.

Sulla base di quanto detto, una possibile soluzione per migliorare i sistemi di salvaguardia ambientale nelle fasi post-conflitto è l’adaptive co-management o cogestione adattiva, definita come «un accordo di collaborazione in cui la comunità e i governi locali condividono la responsabilità e l’autorità nella gestione delle risorse naturali in questione». In sostanza, la cogestione adattiva è un approccio di governance interdisciplinare (sia concettuale che operativo) per costruire fiducia attraverso la collaborazione, che utilizza lo sviluppo istituzionale e l’apprendimento sociale per problemi socio-ecologici su diverse scale, fornendo capacità di adattamento e resilienza istituzionale. Un esempio di attuazione della cogestione adattiva nel settore forestale è il caso del bacino idrografico di Llancahue. In questa regione del Cile centro-meridionale, un’università (Universidad Austral de Chile) ha implementato da anni un processo di cogestione adattativa ‒ in più fasi ‒ nel bacino idrografico. Questo processo si focalizza su un approccio inclusivo, tenendo conto delle considerazioni e percezioni degli stakeholder interessati, per sviluppare un piano di gestione in grado di bilanciare le molteplici richieste della società locale nonché le funzioni dell’ecosistema. Di conseguenza, le foreste della regione forniscono in modo sostenibile legname, opportunità di lavoro per i proprietari terrieri locali e acqua dolce alla città di Valdivia.

Grima e Singh concludono: «L’obiettivo dei servizi ecosistemici efficienti in qualsiasi ambiente, pacifico o meno, è una gestione responsabile», afferma Singh. «I conflitti armati sono una parte spiacevole del nostro mondo. Comprendere appieno il ruolo delle foreste durante e dopo la violenza armata aiuterà a governare e gestire meglio le nostre risorse in ogni circostanza. A prescindere da quanto terribili siano i conflitti».

 

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Italia in fiamme. L’impatto dei cambiamenti climatici sugli incendi

 

Ininterrotte le attività dei vigili del fuoco dei comandi di Gorizia, Pordenone, Udine e Trieste che cercano di domare il vasto incendio di interfaccia e boschivo che da ieri (19 luglio 2022) arde sul Carso. Caso limitato? Assolutamente no. L’Italia sta letteralmente bruciando. Nel solo 2021 gli incendi hanno divorato 150 mila ettari di territorio. E già le statistiche di giugno 2022 evidenziano un numero di roghi superiori a giugno 2021. Dati sconcertanti che fanno riflettere sull’impatto che cambiamento climatico e umana noncuranza hanno sul Belpaese: secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, istituto di ricerca del ministero della Transizione ecologica, il 28% del territorio italiano è a rischio desertificazione con conseguenze sempre più pesanti a livello di perdita di qualità degli habitat, erosione del suolo, frammentazione del territorio e densità delle coperture artificiali. Le regioni più minacciate si trovano al Meridione. «In Sicilia le aree che potrebbero essere interessate da desertificazione sono addirittura il 70% ‒ avverte il direttore dell’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle ricerche, Mauro Centritto ‒ in Puglia il 57%, nel Molise il 58%, in Basilicata il 55%, mentre in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania sono comprese tra il 30 e il 50%». Il Nord non è al riparo dal fenomeno, infatti numerose ricerche evidenziano un continuo peggioramento dello stato di fiumi e laghi, con una situazione particolarmente critica nell’area del bacino Padano ‒ Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto ‒ dove la siccità del Po sta toccando livelli record. I dati IPSOS  parlano di un calo rispetto alla media stagionale del 60% per quanto riguarda la pioggia e addirittura dell’80% per la neve, con una conseguente sofferenza per gli invasi di acqua. Uno dei tanti campanelli d’allarme di un clima che sta cambiando, e non in meglio.

 

Entro la fine di questo secolo, si prevedono aumenti delle temperature tra 4 e 6 gradi e una significativa riduzione delle precipitazioni: una combinazione fatale che genererà una forte aridità. Ciò che è interessante evidenziare è che, per mitigare ‒ o fermare completamente ‒ gli effetti dei cambiamenti climatici “basterebbe” cambiare per tempo la nostra politica energetica; per avere una qualche possibilità di fermare l’inaridimento estremo questo però non sarebbe sufficiente, visto che a determinare il fenomeno contribuiscono significativamente anche altre dinamiche.

L’insieme dei fattori sopra elencati sta infatti rendendo l’Italia una Dust Bowl: da dust, polvere, e bowl, conca. Si tratta di un fenomeno diverso dalla desertificazione perché anche i più estremi deserti sono comunque degli ecosistemi, mentre le conche di polvere costituiscono a tutti gli effetti un punto di non ritorno.

Una situazione drammatica, spinta dal cambiamento climatico, che genera un vero e proprio circolo vizioso distruttivo, caratterizzato da incendi sempre più frequenti e intensi, i quali a loro volta causano crescenti emissioni di C02 che accentuano tutti i fattori coinvolti nella cosiddetta “Dust Bowlification”.

Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports guidato dall’Università di Barcellona, con un importante contributo italiano dell’Università del Salento e dell’ESRIN, il Centro europeo per l'osservazione della Terra di Frascati dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). I ricercatori hanno evidenziato come l’aumento delle condizioni meteorologiche favorevoli allo scatenarsi d’incendi non costituisca un fenomeno nuovo: dal 1980 fino al 2020, esso ha continuato a variare, raggiungendo livelli d’allerta mai visti. Ciò soprattutto durante l’estate, stagione in cui le condizioni meteorologiche complessive presentano il rischio più elevato di episodi incendiari. Una stagione che sta progressivamente diventando sempre più lunga e calda. Infatti, un altro dei fattori sottolineati dalla ricerca riguarda la possibilità che il cambiamento climatico vada a incidere in modo ulteriore estendendo la “durata” delle stagioni a rischio incendio.

In pericolo sono tutte le foreste del continente europeo, prezioso polmone verde capace di assorbire ogni anno circa il 10% del totale delle emissioni di gas serra, catturando circa 360 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. In caso d’incendio questo “serbatoio” di carbonio sarebbe irrimediabilmente perso e si riverserebbe nell’ambiente con conseguenze disastrose.

 

Per questa ragione agire ora è quanto mai fondamentale, altrimenti la nuova Strategia Forestale Europea, che propone di mantenere una riduzione annuale di almeno 310 milioni di tonnellate di CO2 grazie al settore forestale e agricolo entro il 2030, rischia di essere del tutto inefficace, ritrovandosi senza ecosistemi da salvaguardare ma solo da rimpiangere.

 

Immagine: Un grande incendio sulle colline genovesi (luglio 2022). Crediti: Andrea Izzotti / Shutterstock.com

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A rischio d’estinzione: le popolazioni incontattate dell’Amazzonia

 

La foresta amazzonica, immenso polmone verde, grande due volte l’Irlanda, sovrapposto al confine tra Brasile e Perù, ospita un numero imprecisato di popolazioni indigene che vivono e prosperano “a riparo” dalla pressante antropizzazione globale: sono gli Isconahua, i Matsigenka, i Matsés, i Mashco-Piro, i Mastanahua, i Murunahua (o Chitonahua), i Nanti, i Sapanawa e i Nahua – e molti altri dal nome sconosciuto. Di loro non si sa molto. Ma sappiamo che rifiutano il contatto, spesso a seguito di violenze terribili e malattie portate dall’esterno. Alcuni hanno scelto l’isolamento dopo essere sopravvissuti al boom della gomma, durante il quale migliaia di indigeni furono ridotti in schiavitù e assassinati. Molti sono fuggiti nelle aree più remote dell’Amazzonia e da allora evitano il contatto prolungato con altri. Quando i membri di una tribù avviano un contatto, o la presenza degli esterni li costringe a subirlo, il governo del Paese ha l’obbligo di intervenire velocemente e con decisione per ridurre l’alto rischio di perdite umane. Squadre di medici esperti devono recarsi nell’area immediatamente e rimanervi a lungo. È necessario prestare attenzione a non incoraggiare i popoli indigeni a diventare dipendenti.

I confini dei territori dei popoli incontattati devono essere sorvegliati per impedire incursioni di persone non autorizzate. Queste devono essere tenute lontane anche nel caso in cui gli indigeni abbiano lasciato volontariamente la propria terra. Il contatto non deve essere avviato da nessun altro se non dalla tribù interessata, poiché quasi tutti i contatti portano alla perdita di vite umane. Nelle rare occasioni in cui sono stati avvistati o in cui qualcuno li ha incontrati, hanno reso esplicito il loro desiderio di essere lasciati soli. A volte reagiscono in modo aggressivo, per difendere il loro territorio, oppure lasciano segnali nella foresta per mettere in guardia gli esterni e suggerirgli di stare alla larga.

Questa è la cosiddetta Frontiera incontattata, un ecosistema in grave pericolo: l’antropologa ed esperta di tribù isolate Beatriz Huertas afferma che il disboscamento illegale e le concessioni legali di legname sono la minaccia principale, ma è aumentata anche la presenza di narcotrafficanti che usano i fiumi per contrabbandare droga. Inoltre, le piantagioni di coca stanno crescendo nell’adiacente regione di Ucayali e portano violenza e morte, oltre ad accendere conflitti interni alle comunità indigene vicine. A questi fattori già di per sé critici si sommano le forti pressioni del presidente brasiliano Bolsonaro per sfruttare le risorse della regione amazzonica, ledendo uno dei principali baluardi contro il cambiamento climatico. Nonostante il Brasile si sia sempre impegnato nella difesa della valle del Javari, uno dei più grandi territori indigeni del Brasile, Bolsonaro ha progressivamente indebolito la Fundação Nacional do Índio (FUNAI), ovvero l’organizzazione governativa responsabile della protezione dei popoli indigeni e delle loro terre, aprendo le porte ad uno sfruttamento incontrollato e illegale. Basti pensare all’apertura di una vera e propria ferita nel cuore amazzonico con la costruzione da parte del governo brasiliano di una strada che collega Cruzeiro do Sul in Brasile a Pucallpa in Perù, con il solo obiettivo di aumentare le esportazioni di soia verso la Cina. Questo ecocidio incontra la ferma opposizione di organizzazioni nazionali ed internazionali: l’ORPIO (Organización de Pueblos Indígenas del Oriente, Organizzazione dei popoli indigeni dell’Amazzonia orientale del Perù), esige un’azione congiunta da parte dei governi di entrambi i Paesi per proteggere la regione, abbandonare i piani per una strada transfrontaliera che colleghi l’Atlantico al Pacifico, far rispettare le leggi ambientali e reprimere le attività criminali.

Beto Marubo, rappresentante degli indigeni della valle del Javari ed ex funzionario del FUNAI, ha dichiarato che è quanto mai necessario creare un sistema di cooperazione internazionale per fermare l’avanzata di «minatori illegali, taglialegna, cacciatori e missionari cristiani». Ma non è ottimista. «Il Brasile ha un governo che non ha mostrato alcuna sensibilità verso l’ambiente e tanto meno verso le questioni indigene. Credo che succederà ben poco».

 

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Una corsa contro il sale: l’Iraq e il cambiamento climatico

 

L’Iraq, che si estende lungo quella che un tempo era conosciuta come Mesopotamia o Mezzaluna fertile, una terra bagnata dal Tigri e dall’Eufrate e ricca di risorse, è oggi uno specchio emblematico del cambiamento climatico. Il vasto patrimonio dell’Iraq è oggi “divorato” dalle crescenti concentrazioni di sale e dalle tempeste di sabbia che stanno rapidamente diventando più problematiche e devastanti.  Elementi unici del patrimonio culturale dell’umanità ‒ come l’antica capitale sumera Ur o la leggendaria città di Babilonia ‒ potrebbero subire danni irreversibili più rapidamente del previsto. La diminuzione delle precipitazioni e la crescente carenza d’acqua causata dalle dighe costruite a monte dall’Iran e dalla Turchia sui fiumi Eufrate e Tigri hanno fatto aumentare la concentrazione naturale di sale nel suolo. Il sale si insinua nei mattoni delle costruzioni antiche e li spacca dall’interno. In determinate circostanze, il sale nel terreno può aiutare gli archeologi, ma il minerale stesso può anche essere devastante e distruggere il patrimonio. La crisi climatica sta aggravando il problema. Si prevede che nei prossimi anni l’Iraq e la regione circostante diventeranno progressivamente più caldi e più secchi.

Per gli esperti, il pericolo di un «disastro sociale ed economico» è reale, mentre un rapporto dello scorso novembre della Banca mondiale parlava di un collasso di oltre il 20% delle risorse idriche entro il 2050, con conseguenze devastanti per i 41 milioni di abitanti. Le Nazioni Unite stimano che le temperature medie annue aumenteranno di 2 °C entro il 2050, con un numero maggiore di giornate caratterizzate da temperature estreme, ovvero superiori a 50 °C. Mentre le precipitazioni diminuiranno fino al 17% durante la stagione delle piogge e il numero di tempeste di sabbia e polvere sarà più che raddoppiato, passando da 120 a 300 all’anno. Nel frattempo, l’innalzamento del livello delle acque marine potrebbe portare sott’acqua gran parte del Sud in meno di 30 anni. «Immaginate», sottolinea il geoarcheologo Jaafar Jotheri, professore all’Università al-Qadisiyah «che entro 10 anni la maggior parte dei nostri siti potrebbe essere coperta da una coltre di acqua salata». Un pericolo già reale a Babilonia, patrimonio dell’UNESCO, dove un velo di sale copre mattoni di fango di 2600 anni fa. Nel frattempo nel tempio di Ishtar, la dea sumera dell’amore e della guerra, le murature si stanno rapidamente sgretolando. Il sale si accumula fino a cristallizzarsi nello spessore dei muri, incrinando i mattoni e provocandone la rottura.

 

Un ulteriore problema da non sottovalutare è la progressiva perdita del patrimonio immateriale, che comprende rituali e pratiche uniche delle culture, come danze, canti tradizionali, artigianato. Nel Sud dell’Iraq, ad esempio, i cambiamenti climatici hanno aggravato le già enormi difficoltà delle popolazioni indigene delle paludi, manifestate dopo che queste sono state prosciugate da Saddam Hussein. «Le loro tradizioni non erano documentate, quindi la loro perdita per noi iracheni è un disastro», afferma Jaafar Jotheri. «Prima del 2003 c’erano 300.000 beduini. Ora ne rimangono circa 3.000 o meno che vivono nel deserto. In 15 anni abbiamo perso 300.000 persone, con la loro cultura, la loro comunità, il loro artigianato. Perché? A causa dei cambiamenti climatici: niente pioggia, temperature elevate, niente più acqua nelle sorgenti». Jotheri stima che entro 10 anni il popolo delle paludi e le sue tradizioni saranno completamente scomparsi a causa dell’emigrazione verso le aree urbane e dell’assimilazione alla cultura irachena tradizionale. Lui e altri membri del Nahrein Network (un gruppo di archeologi che si occupa della condizione socioeconomica in Iraq, con sede all’University College di Londra) stanno cercando di salvare queste pratiche tradizionali, ma – come dice lui stesso – è una corsa contro il tempo.

 

Immagine: La ziggurat di Ur, Iraq. Crediti: mushtaq saad / Shutterstock.com

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India, caldo record ed effetti del cambiamento climatico

 

Un’ondata di calore senza precedenti per questo periodo dell’anno sta opprimendo da settimane l’India, trasformandola nella dimostrazione pratica delle previsioni contenute negli ultimi rapporti IPCC sui cambiamenti climatici. Se le ondate di calore sono comuni in India, specialmente in maggio e giugno, l’estate è iniziata presto quest’anno, con temperature particolarmente alte fin da marzo (le più alte in 122 anni). Il Centro per la scienza e l’ambiente evidenzia come siano stati colpiti 15 Stati, compreso lo Stato settentrionale di Himachal Pradesh, noto per le sue temperature gradevoli. In questi giorni la temperatura nella capitale Delhi, dovrebbe superare i 44 °C. Secondo il Dipartimento meteorologico dell’India, Bikaner è stato il luogo più caldo del Paese con 47,1 °C. Tuttavia, in alcune parti del Nord-Ovest dell’India, le immagini catturate dai satelliti hanno mostrato che le temperature della superficie terrestre avevano superato i 60 °C, un dato senza precedenti per questo periodo dell’anno, considerando che le temperature superficiali di solito non superano mai i 45 °C.

Sebbene non sia ancora chiaro esattamente quali fattori abbiano concorso a determinare questa storica ondata di calore, gli scienziati credono che essa sia stata influenzata significativamente dal cambiamento climatico. «Questo è ciò che ci aspettiamo dal cambiamento climatico», ha detto Raghu Murtugudde, scienziato ricercatore in visita presso il Centro interdisciplinare di scienze del sistema Terra dell’Università del Maryland: «Dal 1990, il Medio Oriente e la regione Mediterranea, si sono riscaldate progressivamente, rendendo il vento che soffia verso l’India sempre più caldo», ha affermato.

 

Ciò detto, è bene considerare anche l’influenza naturale di potenti fenomeni oceanici-atmosferici, come la fase estrema di un ciclo climatico naturale (El Niño-Southern Oscillation, ENSO) che determina il raffreddamento della temperatura delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico centrale e orientale, arrivando a influenzare il clima del nostro Pianeta, con riflessi anche in Europa e in Italia. Tale ciclo climatico include da una parte El Niño (oscillazione meridionale) e La Niña dall’altra, che ne rappresenta la fase fredda.  «La Niña crea un modello di pressione che porta il freddo molto, molto in basso nell’India peninsulare», ha detto Murtugudde. «Abbiamo avuto un inverno più freddo del normale, come ci aspettiamo da La Niña. Ora stiamo avendo una primavera molto più calda del normale, perché quell’aria calda si sta incanalando direttamente verso l’India peninsulare».

«L’altro fattore che sta contribuendo a queste forti ondate di calore è il caldo eccessivo e inusuale proveniente dall’Artico, capace di generare forti variazioni metereologiche sia in Pakistan che in India».

In questo caso il cambiamento climatico, agendo e accentuando gli effetti di tutti questi fattori ‒ El Niño e La Niña, il riscaldamento antropogenico globale ‒ sta generando un’ondata di calore senza precedenti, causando morte e devastazione ad ogni livello. Basti pensare che l’ultima grande ondata di calore, che si è verificata nel 2015, si ritiene abbia ucciso 2.500 persone in India e altre 1.100 in Pakistan. Inoltre, le conseguenze economiche incominciano a farsi sentire, in particolare sul settore agricolo: «I raccolti di grano sono stati gravemente colpiti. La forte diminuzione degli acquazzoni pre-monsonici e l’alto calore diffuso hanno devastato il settore cerealicolo», ha affermato Aditi Mukherji, ricercatore presso l’Istituto internazionale di gestione dell’acqua. Secondo Monika Tothova, economista che lavora alla FAO citata da The Atlantic, fino al 15% dei raccolti è andato perduto a causa di queste alte temperature. Secondo un reportage del Guardian, ci sono zone dove il grano perso arriva al 50% del totale.  Ci sono stati anche significativi problemi di elettricità, con blackout continui: queste carenze hanno colpito gli agricoltori, i quali hanno bisogno di elettricità per irrigare le loro colture con pozzi e pompe alimentate elettricamente. A sua volta, la scarsità di cibo sta comportando un progressivo aumento dei prezzi alimentari non solo a livello interno, ma anche internazionale, considerando che l’India è l’ottavo esportatore mondiale di grano.

L’impatto di queste ondate di calore sul sistema elettrico indiano sta mostrando palesemente la dipendenza dal carbone di questo Paese: più fa caldo in India, più la gente usa l’elettricità per mantenersi fresca. Il continuo aumento della domanda di elettricità genera un circolo vizioso che aggrava il cambiamento climatico, non solo in India, ma in tutto il mondo, con effetti insostenibili soprattutto per i più poveri. Quello che sta succedendo in India è una sfida per la capacità umana di sopravvivenza, soprattutto per la combinazione tra le elevate temperature e l’alto tasso di umidità. Una sfida che non può essere assolutamente ignorata o posticipata, pena il superamento della cosiddetta “temperatura di bulbo umido” (si arriva in questa zona di estremo pericolo con una temperatura superiore ai 31°C e con un’umidità del 95%), oltre la quale un corpo umano – anche quello di una persona sana a riposo – non riesce più a gestire la sudorazione e a raffreddarsi. In India solo il 12% della popolazione dispone di aria condizionata per affrontare tutto questo, in Pakistan ancora meno.

 

Quello che si sta osservando in India, per quanto tragico, costituisce solo una frazione minima di quanto potrebbe effettivamente accadere se le temperature continuassero a crescere. I fenomeni descritti, apparentemente estremi, derivano da un aumento “minimo” della temperatura, “solo” 1,1 °C in più rispetto all’era preindustriale. Se non si interviene ora con un approccio sistemico, le temperature medie in India rischiano di superare i 3,5 °C di aumento medio entro fine secolo con conseguenze sempre più distruttive.

 

Immagine: Due ragazzi indiani che camminano sul letto di un fiume in secca, New Delhi, India (8 maggio 2022). Crediti: PradeepGaurs / Shutterstock.com

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Iraq, lo spettro delle tempeste di sabbia

Sabato 9 aprile 2022 una tempesta di polvere ha spazzato gran parte dell’Iraq e ha lasciato decine di persone in ospedale con problemi respiratori. La tempesta è scoppiata nel Nord del Paese, portando alla completa cancellazione dei voli che servono Arbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan. La tempesta ha avvolto in un arancione spettrale Baghdad e le città a sud fino a Nasiriyah. La tempesta ha causato «decine di ricoveri in tutto l’Iraq a causa di problemi respiratori», ha detto all’AFP il portavoce del ministero della Sanità Saif al-Badr. Il direttore dell’ufficio meteorologico iracheno, Amer al-Jabri, ha detto che mentre le tempeste di polvere non sono rare in Iraq, stanno diventando più frequenti «a causa della siccità, della desertificazione e del calo delle precipitazioni».

L’Iraq è particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico, avendo già assistito a precipitazioni record e temperature elevate negli ultimi anni: a Novembre, la Banca mondiale ha avvertito che l’Iraq potrebbe subire un calo del 20% delle risorse idriche entro il 2050. «Ci saranno tempeste di polvere per circa 243 giorni all’anno», ha detto il direttore generale del ministero della Salute e dell’Ambiente iracheno Essa Raheem Dakheel Al-Fayadh. «E nel 2050, l’Iraq avrà 300 giorni di tempeste di polvere durante tutto l’anno». Al-Fayadh ha chiarito che l’aumento del numero di queste tempeste deriva dalla diminuzione delle risorse idriche: «La mancanza d’acqua causa la continua diminuzione delle aree verdi in Iraq». La profonda desertificazione che sta colpendo il Paese è determinata da una pluralità di fattori, quali la diminuzione dell’acqua nel sottosuolo, la cattiva gestione dell’acqua e la salinizzazione, influenzando fortemente il fenomeno delle tempeste. Inoltre, la costruzione industriale di dighe e il prosciugamento di zone umide per l’agricoltura hanno indebolito fortemente i corsi d’acqua in tutta la regione, causando desertificazione.

 

Le tempeste di sabbia diffondono nell’atmosfera polveri minerali con texture differenti, tra cui quarzo, feldspati, calcite, dolomite, mica, anfiboli e pirosseni. I depositi di polvere a volte possono essere benefici per il clima come fonti di micronutrienti per gli ecosistemi, ma le polveri possono anche danneggiare i raccolti e causare malattie respiratorie trasportando pesticidi, erbicidi, metalli pesanti e materiali radioattivi. Le tempeste possono diffondere la radioattività a livello globale, influenzando il cambiamento climatico in modi che sono ancora sconosciuti. Inoltre, le guerre e la pesante militarizzazione del Golfo hanno anche rilasciato materiali pericolosi radioattivi nell’ambiente che potrebbero potenzialmente essere trasportati dalle tempeste di sabbia in tutta la regione.

Nel caso della polvere soffiata dal deserto del Sahara alla Francia l’anno scorso, le analisi hanno mostrato livelli anormali di radiazioni ritenute un residuo dei test nucleari francesi in Algeria durante gli anni Sessanta, ma gli scienziati hanno insistito che i livelli di contaminazione radioattiva erano sicuri e intorno a quelli naturalmente presenti nei minerali. Anche se le tempeste di sabbia non causano direttamente il cambiamento climatico, secondo Mohammed Mahmoud, direttore del programma Clima e Acqua del MEI (Middle East Institute), l’aumento della polvere o della sedimentazione sull’acqua superficiale degli oceani può portare a un maggiore assorbimento della radiazione solare negli oceani. Questo riscalda la superficie del mare e può quindi aumentare le temperature regionali e amplificare gli eventi meteorologici estremi. Tra i fattori legati alle tempeste di sabbia, sospettati di causare indirettamente il cambiamento climatico, ci sono i depositi di particelle fini trasportate dall’aria, i quali creano sedimenti che possono intasare i laghi e le paludi vicine, e a volte coprire ampie fasce marine del Golfo Persico. Dati questi fattori, diventa evidente che le tempeste di sabbia innescano un circolo vizioso: il cambiamento climatico causa le tempeste e le tempeste esacerbano i suoi effetti. La vita socioeconomica ruota intorno ai modelli meteorologici, quindi i mezzi di sussistenza sono gravemente minacciati.

Quando le persone non possono dipendere dalla terra per il loro sostentamento, migrano verso aree urbane come Bassora o Najaf in cerca di lavoro. «Il futuro è l’emigrazione», ha detto Adel Al-Attar, consigliere iracheno per l’acqua e l’habitat del CICR (Comitato internazionale della Croce Rossa), aggiungendo che «la disoccupazione è alta, così come le tensioni, il che non è di buon auspicio per la ripresa e la stabilità». Igor Malgrati, consigliere regionale per il Vicino e Medio Oriente del CICR per l’acqua e l’habitat, ha infine commentato che «in Iraq, si ha un ambiente che è stato progressivamente danneggiato da anni di conflitto, da una cattiva gestione ambientale e da una governance debole. Quando si aggiunge il cambiamento climatico al mix, si ha la tempesta perfetta».

 

Immagine: Tempesta di sabbia a Bassora, Iraq (4 marzo 2022). Crediti: Mohammed_Al_Ali / Shutterstock.com 

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Cos’è l’eco-gender gap?

Eco-gender gap è un termine apparso di recente e utilizzato per descrivere la differenza di consapevolezza ambientale e di comportamento ecologico tra uomini e donne. Gli uomini, infatti, sembrerebbero essere meno sensibili ai temi ambientali rispetto alle donne. Ma da cosa scaturisce questa differenza di comportamento e come mai persiste?

Se nel passato, l’impegno femminile verso la preservazione dell’ambiente veniva principalmente ricondotto ad una tendenza delle donne ad essere prosociali, altruiste ed empatiche, a mostrare un’etica di cura più forte e ad assumere una prospettiva orientata al futuro, ossia, in altre parole, a differenze di personalità o di condizionamento sociale, oggi molti altri fattori entrano in gioco.

Da un lato le donne sono le principali vittime di catastrofi naturali. Hanno infatti maggiori probabilità di essere colpite dal cambiamento climatico e dai danni ambientali, come dimostra l’impatto sulle popolazioni di eventi meteorologici estremi. È questo, ad esempio, il caso delle catastrofiche inondazioni del Bangladesh del 1991, dove il 90% delle 140.000 vittime furono donne, o lo tsunami dell’Oceano Indiano del 2004, che ebbe tra le donne il 70% delle vittime.

Vi è poi da considerare come femminismo e ambientalismo siano stati spesso movimenti strettamente legati. È quanto, ad esempio, è avvenuto a partire dagli anni Ottanta, durante la seconda ondata del femminismo, quando il degrado ambientale e l’oppressione delle donne sono stati visti come fenomeni caratterizzati da una certa contiguità.

Vi è inoltre da segnalare una dimensione legata al green marketing: i prodotti ecologici sono spesso più presenti in ambiti in cui, pur se per effetto di stereotipi di genere, le donne sono generalmente considerate più coinvolte, come la pulizia, il cibo, la salute della famiglia. È quanto evidenziato ad esempio da The Guardian in un’inchiesta della giornalista Elle Hunt, la quale descrive come la gran parte dei prodotti ecologici abbiano come principale target le consumatrici. Questo sta creando un circuito che si autoalimenta e che vede i prodotti e i marchi ecologici sempre più mirati alle donne. Un effetto perverso di ciò è che, ad esempio, uno tra i brand a maggiore impatto ambientale ha sviluppato una campagna pubblicitaria “al maschile” come quella di McDonald’s del 2012 in Cina, che recita “100% uomo virile, 100% puro manzo”.

Vi è infine, per converso, ma in continuità con quanto detto sopra, da registrare il rapporto inverso percepito tra mascolinità e ambientalismo: come sottolineato da alcune ricerche e articoli, tra cui, per fare alcuni esempi, un articolo apparso su Sex Roles nel 2019, uno pubblicato dal Journal of Consumer Research nel 2016 e uno studio di Global Environmental Change del 2018, gli uomini sarebbero demotivati nell’adottare comportamenti ecologici e nel compiere scelte di consumo sostenibili per il timore di vedere messa in discussione la loro stessa mascolinità.

Questo tipo di dinamiche, che si spera siano legate a concezioni e paradigmi del passato, gettano però un’ombra anche sul presente. Un ruolo chiave al fine di colmare tale gap è quello che possono giocare le giovani generazioni, che hanno in più occasioni dimostrato di sapersi allineare in maniera compatta e senza alcun divario di genere nella lotta per la giustizia climatica e provato come il gender gap si stia progressivamente riducendo almeno in alcuni ambiti e aree del mondo.

 

Immagine: Un’attivista mette una bottiglia di plastica in un sacchetto della spazzatura durante la Giornata mondiale della Terra. Crediti: STEKLO / Shutterstock.com

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Geoingegneria: può essere la soluzione alla crisi climatica?

 

Immaginate un futuro ormai non così lontano: alla fine del XXI secolo, l’umanità sta diventando sempre più disperata. Decenni di ondate di calore e siccità hanno portato a raccolti insolitamente scarsi, mentre oceani sempre più caldi producono sempre meno pesci. Nelle zone tropicali, milioni di persone soffrono la fame e le guerre per le poche risorse rimaste hanno fatto fuggire milioni di persone verso il Nord del pianeta. Mentre le cose peggiorano rapidamente, in un atto di disperazione, i governi del mondo decidono di attuare un piano di emergenza.

Non è certo che si verifichi uno scenario cupo come questo, anche se il fallimento nell’affrontare efficacemente il cambiamento climatico, lo rende tutt’altro che impossibile. Pertanto, nel prossimo futuro, potrebbe diventare necessario provare un’azione radicale per rallentare il rapido cambiamento climatico: la geoingegneria. Interventi su scala mondiale che potrebbero annullare secoli di disinteresse umano verso il proprio pianeta o rendere la situazione molto peggiore. Cos’è la geoingegneria? È davvero un’opzione, e cosa succederebbe se fallisse?

I metodi di geoingegneria variano da quelli più fantasiosi, come la costruzione di gigantesche vele luminose nello spazio, a quelli più audaci come la fertilizzazione degli oceani con il ferro per accelerare la crescita di trilioni di cellule di alghe.

In questo articolo sarà esaminato un intervento di geoingegneria che potremmo ipoteticamente vedere anche durante la nostra vita: l’iniezione di aerosol stratosferico, ovvero il rilascio di particelle di aerosol nella stratosfera. Queste particelle dovrebbero riflettere la luce solare facendo “rimbalzare” parte di essa nello spazio e ciò dovrebbe ridurre il riscaldamento della superficie terrestre.

Per quanto riguarda quest’ultima parte è bene comprendere che la CO2 non riscalda da sola il pianeta; quasi tutta l’energia proviene dal Sole sotto forma di radiazione elettromagnetica. Circa il 71% di questa energia viene assorbita dalla superficie terrestre e dall’atmosfera, mentre la restante parte viene emessa di nuovo come radiazione infrarossa. In questo caso, la CO2 è in grado di intrappolare questa radiazione infrarossa e mantenerla nell’atmosfera per un certo tempo.

Quindi, ipoteticamente, un modo per raffreddare il pianeta potrebbe essere quello di evitare che l’energia venga intrappolata sotto il nostro manto planetario. Un processo che sta già accadendo naturalmente; infatti circa il 29% della radiazione solare che colpisce la terra viene riflessa verso lo spazio da superfici luminose come ghiaccio, deserti, neve o nuvole. Più rifrazione, meno energia, meno riscaldamento.

A tal proposito, possiamo prendere la natura stessa come fonte d’ispirazione, esaminando l’eruzione del Monte Pinatubo del 1991, la seconda più grande eruzione vulcanica del XX secolo. A parte la devastazione causata e le centinaia di morti, gli scienziati hanno notato il suo forte impatto sul clima globale. L’esplosione ha espulso milioni di tonnellate di particelle e gas fino alla stratosfera, portando alla formazione di uno strato particellare rimasto nelle fasce alte dell’atmosfera per anni.

Ciò che risulta interessante per la geoingegneria è l’anidride solforosa. Nella stratosfera, quest’ultima aveva prodotto una foschia di goccioline di acido solforico, che si mescolavano con l’acqua e creavano veli giganti. Tali veli riducevano l’impatto dei raggi solari, permettendo il passaggio di meno dell’1%. In questo modo, le temperature medie globali diminuirono di 0,5 °C. Ci vollero tre anni prima che questo effetto di raffreddamento si fermasse. Quindi, gli esseri umani potrebbero imitare tale processo iniettando particelle di zolfo o anidride solforosa direttamente nella stratosfera. Secondo alcuni scienziati, l’intero processo potrebbe essere sorprendentemente facile da attuare e senza la necessità di nuove tecnologie per metterlo in pratica. Una piccola flotta di aerei specializzati potrebbe salire una volta all’anno e distribuire particelle d’aerosol lungo l’equatore, da dove verrebbero diffuse in tutto il mondo. Le proiezioni ipotizzano che iniettare tra i cinque e gli otto megatoni di materiale all’anno rifletterebbe abbastanza luce solare da rallentare o addirittura fermare il riscaldamento globale, dandoci tempo prezioso per la transizione dai combustibili fossili. Sfortunatamente, potrebbero esserci alcuni infelici effetti collaterali.

Ci sono una serie di potenziali problemi con le iniezioni di aerosol: i ritmi pluviometrici potrebbero cambiare, il che potrebbe influenzare negativamente l’agricoltura e causare carestie. Inoltre, è bene evidenziare che dopo l’eruzione del Monte Pinatubo del 1991, i veli di acido/acqua non solo hanno raffreddato la superficie, ma hanno anche riscaldato la stratosfera. Come si è scoperto successivamente, l’acido ha danneggiato ulteriormente lo strato di ozono, portando ad un allargamento senza precedenti del buco dell’ozono sopra l’Antartide. Iniettare particelle di zolfo per decenni potrebbe avere un effetto simile.

Gli scienziati hanno già suggerito di usare una combinazione di diversi minerali che potrebbero avere effetti molto meno dannosi per lo strato di ozono, ma bisogna fare più ricerche ed esperimenti per essere sicuri che questo possa funzionare. Ma anche nel caso in cui non danneggiassimo lo strato di ozono, ci sono altri rischi: leader politici e settori industriali potrebbero usare l’effetto di raffreddamento come scusa per ritardare il passaggio a un’economia a zero emissioni di carbonio.

 

Inoltre, se anche la geoingegneria riuscisse a rallentare il riscaldamento globale, è bene considerare che l’umanità ‒ attraverso i suoi ritmi sfrenati di produzione e consumo ‒ continuerebbe comunque ad aggiungere ulteriore CO2 all’atmosfera. La presenza di sempre più CO2 nell’aria comporta una rapida e continua acidificazione degli oceani, i quali, assorbendo quantità sempre più grandi di CO2 stanno diventando mortali per enormi ecosistemi come le barriere coralline.

Ma non è tutto: una volta cominciato a pompare particelle nell’atmosfera su larga scala, potremmo essere costretti a farlo per molto tempo, per evitare il rischio di un “Termination shock”, uno shock derivante dall’interruzione del raffreddamento artificiale. In altre parole, se l’umanità continuasse ad “arricchire” l’atmosfera di CO2, ma allo stesso tempo impedisse al pianeta di riscaldarsi bloccando le radiazioni solari, creerebbe le basi per una catastrofe su scala mondiale. Nel momento in cui si smettesse di fare geoingegneria, il ciclo naturale riprenderebbe il sopravvento e la terra si riscalderebbe. Ma dopo alcuni decenni la compresenza dei due processi di mantenimento del pianeta artificialmente freddo e di produzione di grandi quantità di CO2 porterebbe il pianeta a riscaldarsi molto più rapidamente. Un aumento di temperatura che oggi richiederebbe 50 anni, potrebbe avvenire in soli 10 anni. Un tale shock termico in un tempo così breve sconvolgerebbe tutti i principali sistemi della Terra, tanto che sarebbe impossibile adattarsi in tempo. Lo scenario peggiore potrebbe essere quello di drammatiche carestie e rapida distruzione degli ecosistemi. L’umanità potrebbe sopravvivere, ma i sopravvissuti abiterebbero un mondo sconosciuto e ostile. Lo scenario migliore prevede che una volta che il mondo avrà finalmente compreso appieno il pericolo esistenziale del rapido cambiamento climatico, la geoingegneria potrà permetterci di guadagnare un decennio o due: il tempo di avviare e consolidare realmente la transizione ecologica su scala mondiale e magari implementare tecnologie che permettano di  estrarre la CO2 dall’atmosfera.

Dal quadro tracciato la geoingegneria risulta essere un che di spaventoso. Non è una soluzione al cambiamento climatico e potrebbe anche essere una scusa gradita alle industrie per ritardare la fine dell’era dei combustibili fossili. Negli ultimi decenni la geoingegneria è stata così controversa che ha impedito a molti scienziati di fare gli esperimenti necessari per capirla meglio. Ma opporsi in modo generico alla geoingegneria è a dir poco miope. Di certo, nonostante i dubbi e le incertezze derivanti da questa situazione, non è possibile più citare Alessandro Manzoni dicendo “ai posteri l’ardua sentenza” in quanto la triste verità è che stiamo già facendo un esperimento di geoingegneria: stiamo testando quanto velocemente cambia il mondo se aggiungiamo circa 40 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno.

 

Crediti immagine: Happy Together / Shutterstock.com

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Effetti del cambiamento climatico e violenza nel bacino del Ciad

 

Il cambiamento climatico sta minacciando sempre più la stabilità degli Stati e la sicurezza umana nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo. Sebbene non esista un legame mono-causale tra il cambiamento climatico e i conflitti, l’impatto del cambiamento ambientale e degli spostamenti della popolazione non può essere sottovalutato. Nel contesto della sicurezza globale, il cambiamento climatico è meglio inteso come un “moltiplicatore di minacce” che interagisce con i rischi e le vulnerabilità esistenti e li aggrava per causare conflitti.

 

Un esempio chiave è il caso della regione del bacino del Lago Ciad, uno dei più grandi laghi africani, che assicura il sostentamento di oltre 30 milioni di persone in Camerun, Ciad, Niger e Nigeria.

Per secoli, il lago ha sostenuto la produzione agricola ed è stato un’ancora di salvezza per la pesca, l’agricoltura e l’allevamento, i pilastri dell’economia della regione. Il Lago Ciad è stato anche una preziosa risorsa idrica per coloro che vivono nelle comunità del bacino. Tuttavia, negli ultimi sei decenni, la variabilità del clima ha significativamente ridotto le dimensioni del lago e le sue risorse. In breve, il Lago Ciad ha perso un sorprendente 90% del suo volume dagli anni Sessanta. L’allarmante impoverimento delle risorse del lago è il risultato dell’aumento delle temperature, della desertificazione, dell’infertilità del suolo e di altre degradazioni ambientali. Il cambiamento climatico ha ridotto drasticamente l’allevamento di bestiame e i raccolti, esacerbando così l’insicurezza alimentare e la povertà, dato che l’80-90% della popolazione locale nel bacino del lago dipende dall’agricoltura, dall’allevamento e dalla pesca. Questo sviluppo ha avuto un impatto in particolare sui giovani e sulle donne, che sono stati esclusi da un’occupazione produttiva che normalmente li avrebbe sostenuti.

Gli effetti della vulnerabilità del bacino del Lago Ciad al cambiamento climatico sono accresciuti dalla mancanza di diversificazione economica della regione e dalle sue pratiche agricole antiquate, oltre che da un quadro generale aggravato da investimenti pubblici inadeguati nell’istruzione, nella sanità e nelle opportunità di lavoro per i giovani. Come risultato di tutto ciò si è assistito ad un aumento del livello di disoccupazione giovanile e alla crescita del settore informale a bassa produttività e al declino della percentuale di lavoratori salariati. Questi fattori, a loro volta, hanno contribuito a determinare picchi di migrazione, criminalità e tensioni sociali.

La presenza di un tessuto economico e sociale così compromesso ha contribuito a favorire nella regione la diffusione della criminalità e della violenza esercitata da organizzazioni terroristiche come Boko Haram e lo Stato islamico della Provincia dell’Africa Occidentale (ISWAP, Islamic State in West Africa Province). È infatti cresciuto il traffico di droga e di esseri umani, si registra un numero crescente di rapimenti di donne, ragazze e bambini, così come si è sviluppato il contrabbando di beni illeciti: tutti fenomeni che contribuiscono a sostenere i conflitti violenti e le operazioni dei gruppi armati nella regione. Inoltre, la scarsità d’acqua, il degrado ambientale e la poca fertilità del suolo hanno aumentato la deprivazione economica tra i giovani della regione, tanto che molti si volgono alla violenza e al crimine organizzato.

 

Questa situazione critica ha portato partner regionali e internazionali a sviluppare una serie di strategie per mitigare le sfide associate alla sicurezza umana, con risultati finora deludenti e insufficienti.

Per quanto riguarda l’ambito ambientale e climatico, la Lake Chad Basin Commission (LCBC) ha introdotto nel 2008 il Lake Chad Basin Strategic Action Programme (SAP); tuttavia, gli sforzi compiuti per contrastare il degrado e il progressivo impoverimento dell’area sono minati dalla profonda inefficacia istituzionale del progetto, come dimostra l’incapacità della Commissione di impedire la costruzione di dighe da parte degli Stati e di controllare altre attività pericolose per il bacino. Inoltre, un ulteriore fattore critico è dato dalla totale mancanza di coinvolgimento della popolazione indigena nel lavoro della Commissione, che di fatto impedisce la realizzazione di misure di gestione adattiva delle risorse idriche.

Per quanto riguarda l’ambito della sicurezza, la Multinational Joint Task Force (MNJTF) è stata istituita dalla LCBC nel 2012 per combattere Boko Haram e altre organizzazioni terroristiche attive nel bacino. La strategia antiterrorismo della regione è consistita nel creare un ambiente sicuro nelle aree colpite dall’attività terroristica e nel facilitare l’attuazione dei programmi generali di stabilizzazione degli Stati membri della LCBC: ciò include il ripristino della piena autorità statale, il ritorno degli sfollati interni e dei rifugiati e la garanzia di assistenza umanitaria alle popolazioni colpite nella regione. Come risultato, la MNJTF ha fatto modesti progressi nel contrastare Boko Haram, arrestando militanti, salvando ostaggi e recuperando aree precedentemente controllate da terroristi e altri gruppi armati in Niger, Camerun e Nigeria nord-orientale. Tuttavia, i terroristi e altri gruppi estremisti violenti continuano ad adattarsi alle condizioni e a sfruttare le vulnerabilità dell’area per aumentare la diffusione della violenza nel bacino del Lago Ciad.

Infine, i partner internazionali hanno fornito assistenza umanitaria (cibo, acqua e supporto medico) alle popolazioni vulnerabili colpite dai conflitti. Sfortunatamente, l’inadeguato coordinamento tra queste organizzazioni internazionali e i loro programmi ha portato al mancato allineamento delle loro risposte e dei loro obiettivi con le risposte locali, nazionali e regionali, generando ulteriore caos.

 

Da questo quadro generale si può concludere che la mancanza di una convinta e coordinata volontà politica d’intervento sulla crisi climatica abbia contribuito a rendere maggiormente instabile la situazione economica e sociale della regione del Lago Ciad, le cui popolazioni sono quindi destinate a rimanere esposte, per un tempo ancora imprecisabile, all’effetto congiunto dell’azione di gruppi terroristici sanguinari e di interventi umanitari inefficaci.

 

Immagine: Donne prendono acqua sporca per bere e usarla per la vita quotidiana, Abeche, Ciad (2 luglio 2018). Crediti: Amors photos / Shutterstock.com

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Quali flussi di rifugiati per effetto del cambiamento climatico?

 

Nel prossimo futuro, si prevede che il riscaldamento globale creerà milioni di rifugiati climatici, ed enti e organizzazioni di tutto il mondo si stanno già interessando della questione.

Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il numero globale di rifugiati ha superato gli 80 milioni nel corso del 2020 ‒ la cifra più alta mai registrata. Diversi fattori hanno contribuito a questo aumento, tra cui una crescita della violenza politica e dell’instabilità, eventi meteorologici estremi e ‒ più recentemente ‒ gli effetti a catena della pandemia di Covid-19. Prevedere questi spostamenti di massa sta diventando sempre più cruciale, al fine di definire chiare forme di coordinamento interstatali ed efficaci metodi di prevenzione (early warning systems). Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha registrato un aumento significativo nel numero di richiedenti asilo, soprattutto dall’Afghanistan e dal Medio Oriente. Questa recente impennata sta generando gravi sfide umanitarie, con numerosi migranti e rifugiati che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. A causa degli alti rischi e dei costi associati allo spostamento, i cittadini dei Paesi colpiti dai conflitti che non sono direttamente minacciati dai combattimenti cercano di rimanere e aspettare che il conflitto finisca.

Tuttavia, questa scelta è perseguibile solo finché l’ambiente fisico può sostenere il loro modo di vivere. Quando una grave siccità colpisce una società dilaniata dalla guerra, il risultato non solo è potenzialmente devastante per i mezzi di sostentamento locali, l’attività economica e la sicurezza alimentare, ma può anche provocare un aumento degli spostamenti e delle migrazioni forzate, accentuando il bisogno di protezione internazionale.

In altre parole, la migrazione per asilo è plausibilmente reattiva ai fattori di stress legati al clima. Riconoscendo le minacce climatiche ai diritti umani di base, compreso il diritto alla vita, l’UNHCR ha sostenuto che gli effetti negativi del cambiamento climatico e dei disastri naturali possono produrre richieste valide per lo status di rifugiato, e la Commissione europea sta attualmente esplorando un potenziale quadro europeo per i “rifugiati climatici”.

 

Gli effetti negativi del cambiamento climatico sono ormai visibili in tempo reale, pertanto numerosi policy maker ed esperti stanno cercando di sviluppare strumenti che permettano di anticipare i futuri flussi migratori grazie alle previsioni climatiche su larga scala. Questo è effettivamente possibile?

 

La variabilità del clima e gli eventi meteorologici estremi influenzano la migrazione umana, direttamente attraverso la distruzione di case e infrastrutture, indirettamente attraverso l’interruzione dell’attività economica e del benessere, e preventivamente come adattamento ai fattori di stress emergenti. Le risposte migratorie possono assumere molte forme, tra cui lo spostamento temporaneo, l’accelerazione dell’urbanizzazione e la migrazione transfrontaliera. I pericoli naturali possono anche intrappolare le popolazioni vulnerabili mentre la loro capacità di muoversi si erode. Quantificare il numero di persone che migrano almeno in parte a causa di eventi legati al clima e alle intemperie è intrinsecamente difficile, a causa dell’ambiguità concettuale, della mancanza di metodologie solide e della scarsità di dati. Questa lacuna costituisce un ostacolo non indifferente, in quanto impedisce un’efficace gestione politica dei fattori di spostamento e, inoltre, invita a speculare sulle vere motivazioni alla base dei flussi migratori. In generale, ci sono più prove che le condizioni climatiche influenzino gli spostamenti temporanei a breve distanza rispetto alle migrazioni internazionali. Tuttavia, diversi studi recenti hanno collegato le condizioni climatiche avverse nei Paesi d’origine alla migrazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, per i quali le statistiche sono più complete. È una forma di migrazione che potrebbe rispondere in modo relativamente rapido all’aumento delle difficoltà climatiche nei Paesi d’origine (ad es., Afghanistan, Siria, Iraq, Sudan).

 

Mentre alcuni studiosi invitano alla cautela nel collegare il cambiamento climatico alla migrazione forzata, altri sostengono che il riscaldamento globale potrebbe triplicare il volume delle migrazioni per asilo in Europa entro questo secolo, assumendo che altri fattori rimangano costanti. Il bisogno di prove scientifiche che possano contestualizzare l’effetto del clima è ovvio. Tra le più recenti ricerche in materia, risalta quella dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) in collaborazione con il  Peace Research Institute di Oslo (PRIO), i quali hanno cercato di definire se attraverso gli effetti negativi del cambiamento climatico fosse possibile prevedere le future migrazioni per asilo (asylum migration). Il risultato è che il cambiamento climatico non può (ancora) essere usato come principale predittore dei flussi migratori, neanche grazie ai nuovi supercomputer e a sistemi di machine learning avanzati, in quanto l’incertezza determinata dalla componente umana impedisce di ottenere dati attendibili nel lungo periodo. Ciò detto, la ricerca evidenzia che l’esposizione alla violenza politica e le ampie restrizioni alle libertà civili costituiscono importanti segnali d’allarme politicamente rilevanti per le future migrazioni transfrontaliere forzate.

In conclusione, il cambiamento climatico è una sfida globale cruciale, ma non ancora determinante rispetto alla prospettiva di una crescita esponenziale dei flussi migratori in Europa. Tuttavia, il numero crescente di migranti e rifugiati deve costituire sia un campanello d’allarme che un promemoria per policy maker ed esperti circa la necessità di affrontare il problema alla radice, intervenendo e riducendo progressivamente la violenza e l’oppressione diffusa nei Paesi di origine dei richiedenti asilo.

 

Immagine: Persone in cerca di acqua in Tanzania. Crediti: Herr Loeffler / Shutterstock.com

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Madagascar, l’ingiustizia climatica

Un rapporto di Oxfam ha portato alla luce come il mix esplosivo di crisi climatica, pandemia e guerre nel corso del 2020 abbia pesantemente aggravato la situazione della fame nel mondo, facendo balzare a 155 milioni il numero di persone che rischiano di morire a causa di carestie. La situazione si presenta particolarmente grave in alcune aree geografiche, dove l’innalzamento delle temperature incide in maniera decisiva sulla possibilità di procurarsi cibo e acqua. I prolungati periodi di siccità – effetto diretto dei cambiamenti climatici – stanno causando una crescita della desertificazione, fattore che, in aree in cui l’agricoltura dipende strettamente dalle condizioni climatiche, ha riflessi importanti sull’accesso al cibo. Il Madagascar, la quarta isola più grande del mondo, dotata di un ecosistema unico che comprende animali e piante che non si trovano in nessun’altra parte del pianeta, è interessato ormai da una crescente siccità e conseguente carestia. È importante evidenziare che questa condizione di crisi non è di per sé “rara” nel continente africano: i conflitti sono stati una causa centrale della  grave insufficienza di derrate alimentari in Paesi come l’Etiopia, il Sud Sudan, la Somalia e lo Yemen, in particolare quando i combattimenti hanno impedito alle persone di muoversi per trovare cibo. Ma il Madagascar è in pace. Il cambiamento climatico sta colpendo l’isola dell’Oceano Indiano e diverse agenzie dell’ONU hanno evidenziato nei mesi scorsi di essere di fronte alla prima “carestia da cambiamento climatico”.

Precipitazioni scarse ed erratiche, temperature sempre più alte e cicloni distruttivi stanno portando ad una progressiva desertificazione e alla scomparsa dell’ecosistema malgascio con conseguenze devastanti per una popolazione che per l’80% vive al di sotto della soglia di povertà. Alice Rahmoun, una portavoce del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite in Madagascar, descrive la situazione nel Paese come catastrofica: «In alcuni villaggi, l’ultima pioggia è stata tre anni fa, in altri, otto anni fa o addirittura 10 anni fa», ha detto Rahmoun. «I campi sono spogli, i semi non germogliano e non c’è cibo». Oggi, a causa della crescente insicurezza alimentare, più di un milione di persone ha bisogno di aiuti umanitari e il numero continua a crescere continuamente. Secondo le stime delle Nazioni Unite si parla di 1,14 milioni di malgasci in condizioni d’insicurezza alimentare, di cui 14.000 versano già in condizioni di catastrofe, la cosiddetta Fase 5 dell’IPC (Integrated food security Phase Classification). Le testimonianze riportate da giornalisti e operatori umanitari raccontano di famiglie costrette a vendere tutti i propri averi e la terra per comprare cibo. Finito il denaro non resta che ricorrere all’elemosina e nutrirsi di insetti, tuberi selvatici e foglie di cactus, o rubare dai campi che ancora danno frutti. Le donne fanno chilometri per procurarsi quel po’ di acqua che è necessaria per la sopravvivenza della famiglia. 

Il fenomeno climatico alla base di questa crisi, chiamato “El Niño”, genera un anomalo riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico centrale. Esso si verifica periodicamente, più o meno ogni 4-6 anni nel periodo compreso tra dicembre e gennaio, e le conseguenze che questo aumento della temperatura sono diverse e interessano differenti aree del globo. Proprio per la sua enorme portata, tale fenomeno è in grado di condizionare il clima dell’intero pianeta, provocando inondazioni nelle zone a ridosso delle coste, ma anche grande siccità nell’entroterra. Può rallentare e modificare il flusso dei venti e delle perturbazioni, causando cambiamenti anche all’interno dell’ecosistema oceanico dovuti allo stravolgimento delle correnti marine che determinano lo spostamento del plancton verso i fondali. Quando il fenomeno si protrae a lungo, gli effetti su pesca, agricoltura ed economia in genere sono devastanti. Secondo i dati del NOAA’s Climate Prediction Center negli ultimi 5 anni El Niño è passato da essere un evento periodico ad un fenomeno onnipresente, con un impatto costante sul globo e annullando quasi completamente i periodi climatici e ambientali di ripresa nella restante parte dell’anno (febbraio-novembre). Questo cambiamento è stato indotto dalla crescita sfrenata dei Paesi sviluppati, i quali si trovano oggi a dover trovare delle soluzioni immediate (ad esempio, COP26) per evitare di raggiungere il cosiddetto “Tipping point” ovvero il punto di non ritorno.  Al momento, lo scotto è pagato direttamente dai Paesi più vulnerabili, come il Madagascar, vittima di una vera e propria “ingiustizia climatica”, in quanto il suo contributo alle emissioni globali di anidride carbonica è inferiore allo 0,01%. A tal riguardo, in un’intervista alla BBC News Africa, Shelley Thakral del World Food Programme (WFP) ha sottolineato come «queste persone non hanno fatto nulla per contribuire al cambiamento climatico. Non bruciano combustibili fossili, eppure stanno sopportando il peso del cambiamento climatico».

In Madagascar il WFP sta collaborando con altre organizzazioni umanitarie e con il governo per fornire due tipi di risposta alla crisi. La prima, costituita dalla distribuzione a circa 700.000 persone di aiuti alimentari salvavita, compresi prodotti per prevenire la malnutrizione. Mentre, come spiega Rahmoun,  «La seconda è una risposta più a lungo termine per consentire alle comunità locali di prepararsi, rispondere e riprendersi meglio dagli shock climatici. Quindi, questo include progetti di resilienza come i progetti idrici. Ad esempio, stiamo realizzando canali di irrigazione, rimboschimento e persino microassicurazioni per aiutare i piccoli agricoltori a riprendersi da un raccolto perso. Il WFP mira a supportare fino a un milione di persone da qui ad aprile 2022 e sta cercando quasi 70 milioni di dollari per finanziare le operazioni. Ma stiamo anche coinvolgendo più partner per trovare e finanziare soluzioni ai cambiamenti climatici per consentire alla comunità di adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici nel sud del Madagascar».

In conclusione, l’attuale situazione del Madagascar sottolinea la necessità di spostare l’attenzione dalla risposta alle crisi alla gestione del rischio. Tutti i Paesi devono essere preparati agli shock climatici e devono agire insieme per ridurre i gravi impatti sulle persone più vulnerabili del mondo. Purtroppo, a livello globale, gli attori coinvolti si riuniscono continuamente, ma gli accordi sono o sembrano estremamente difficili da raggiungere. Paesi come la Cina e l’India non hanno intenzione di ridurre lo sfruttamento degli idrocarburi e di altre energie estremamente inquinanti e puntano il dito contro l’Occidente, accusandolo di esser il principale “carnefice”. Tutto ciò comporta una condizione di stagnazione e inattività, capace sia di vanificare i timidi percorsi green intrapresi da differenti Paesi sia di produrre un costante aumento di CO2 nell’atmosfera. Questo spinge a chiedersi se solo una colossale catastrofe climatica possa destare le coscienze e modificare concretamente le politiche mondiali. In questo quadro, la COP26 e gli altri futuri summit e conferenze sul tema dovranno essere concepiti come opportunità uniche (forse irripetibili) per chiedere a governi e donatori di dare priorità ai finanziamenti relativi ai programmi di adattamento climatico, per aiutare i singoli Paesi a costruire un migliore sistema di gestione del rischio, perché se non si fa nulla, la fame aumenterà in modo esponenziale nei prossimi anni a causa del cambiamento climatico, non solo in Madagascar, ma anche in altri Paesi.

 

Immagine: Il letto asciutto di un fiume durante la siccità, Riserva dell’Ankarana, Madagascar. Crediti: Vladislav T. Jirousek / Shutterstock.com

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COP26, per invertire la rotta sul cambiamento climatico

 

Fino a pochi anni fa erano i modelli matematici a dirci che il clima del pianeta stava cambiando e alcuni governi e pochissimi esponenti del mondo scientifico mostravano scetticismo. Oggi siamo di fronte a fenomeni climatici sempre più estremi, frequenti e devastanti. La crisi climatica è ormai un dato di fatto. Per questa ragione, la COP26, summit globale delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, è quanto mai importante per riuscire a salvare il pianeta dal completo collasso. COP sta per Conferenza delle Parti, dove per Parti si intendono le 197 nazioni appartenenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC, UN Framework Convention on Climate Change), concordata nel 1994. Quest’anno è ospitata dal Regno Unito, in particolare presso lo Scottish Events Campus (SEC) di Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre. La Conferenza vede una partnership con l’Italia, dove diversi eventi, come il Youth4Climate e la PreCOP26, si sono tenuti all’inizio di ottobre. Il significato di questo incontro è spesso sottovalutato, ma si tratta di un appuntamento importante, per stabilire obiettivi, traguardi e limiti degli accordi internazionali sul clima, volti a mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi. Si è preferito usare la definizione “Parties” ovvero Parti, al posto di Nazioni per includere non solo i governi centrali, ma anche quelli locali e altri enti che possano contribuire al cambiamento. La COP26 è la prima edizione dopo lo scoppio della pandemia e costituisce quindi un evento critico per riprendere quanto lasciato nel 2019 con la COP25, tenutasi a Madrid a dicembre 2019.

Dal punto di vista storico, la UNFCCC è stata introdotta per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1992, in occasione del vertice della Terra. La Convenzione, stabilendo che esistono dei cambiamenti climatici in atto di origine antropica, provocati cioè dalle attività umane, chiede ai Paesi industrializzati, responsabili in larga misura di tale crisi, di agire per risolvere il problema. La prima COP (COP1) si è tenuta a Berlino nel 1995. Il primo testo importante, scaturito da questo processo, è stato il Protocollo di Kyoto: un testo contenente le linee guida per combattere a livello globale i cambiamenti climatici. È stato pubblicato l’11 dicembre 1997 nella città giapponese di Kyoto. Lo hanno sottoscritto più di 180 Paesi in occasione della Conferenza delle Parti “COP3” della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In questa occasione sono stati definiti degli obiettivi per la riduzione delle emissioni di gas serra nei Paesi industrializzati. Non era mai successo prima.

Il protocollo è entrato in vigore nel 2005, per poter divenire operativo nel periodo compreso tra il 2008 e il 2012. In occasione, invece, della Conferenza di Doha (Qatar) del 2012, il Protocollo di Kyoto è stato esteso al periodo che dal 2013 è arrivato al 2020, anno della grande pandemia.

Lo step successivo più importante è stata sicuramente la COP21 di Parigi, che si è svolta nella città francese nel 2015 e durante la quale sono nati degli accordi sul clima, sottoscritti dai Paesi del mondo partecipanti, che sono ancora oggi ritenuti validi per poter tentare di salvare il pianeta. Per la prima volta è successo qualcosa di epocale: tutti i Paesi hanno accettato di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi, puntando a limitarlo a 1,5 gradi. Inoltre, i partecipanti si sono impegnati ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi. Nel quadro dell’accordo di Parigi ciascun Paese si è ripromesso di creare un piano nazionale indicante la misura della riduzione delle proprie emissioni, detto Nationally Determined Contribution (NDC, Contributo determinato a livello nazionale). I Paesi hanno concordato che ogni cinque anni avrebbero presentato un piano aggiornato che riflettesse la loro massima ambizione possibile in quel momento. La COP26 è il momento in cui i Paesi aggiorneranno i propri piani.

L’UNFCCC ha identificato quattro grandi obiettivi nel suo manifesto per la COP26, che sono: azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi; adattarsi per la salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali; mobilitare i finanziamenti; collaborare.

Sebbene questi obiettivi sembrino condivisi da tutti i Paesi è bene considerare in che modo le decisioni globali influenzano le loro realtà specifiche. Ogni decisione deve essere sottoscritta da quasi 200 Paesi ed essendoci in tutto 2.217 organizzazioni partecipanti, la COP è da sempre una macchina monumentale ma fragile. Questo significa che l’unità può essere un fattore incredibilmente positivo, come si è visto nel caso dell’accordo di Parigi, per esempio. Ma è possibile anche che i confronti si arenino nella burocrazia e si perdano nei voltafaccia della politica, come abbiamo visto quando l’amministrazione Trump avviò il processo per ritirare gli USA – il secondo maggior emettitore di carbonio al mondo – dall’accordo di Parigi nel 2017.

Ciò detto, secondo gli esperti la COP26 è l’ultimo appuntamento che abbiamo per invertire la rotta: secondo le previsioni, al ritmo attuale, il punto di non ritorno sarà raggiunto nel 2030. Oltre quel momento recuperare il collasso dell’ecosistema del pianeta Terra potrebbe diventare impossibile. Resta quindi da constatare se agli impegni presi dai potenti della Terra seguiranno azioni concrete o come evidenziato dall’attivista svedese Greta Thunberg sarà solo l’ennesimo “bla, bla, bla”.

 

Immagine: Barche abbandonate nell’area del lago d’Aral, Asia centro-occidentale, in corso di prosciugamento. Crediti: Vladimir Tretyakov / Shutterstock.com

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India, Bangalore e la mafia dell’acqua

L’acqua sta diventando una risorsa rara in tutto il mondo. Nella Silicon Valley indiana, Bangalore, situata a 920 metri di altitudine, trae ogni singola goccia d’acqua dal fiume Cauvery a circa 95 km di distanza. In questo modo la città riceve approssimativamente 1,9 miliardi di litri d’acqua, una cifra considerevole ma non sufficiente, in quanto l’amministrazione locale deve farla bastare a una popolazione di 13 milioni di persone.

Bangalore sta vivendo un boom urbanistico alimentato dalla crescita dell’industria informatica: dal 2011 la sua popolazione è quasi raddoppiata, passando da 6,5 a oltre 12 milioni di persone. Secondo le previsioni ufficiali, nel 2031 arriverà a 20 milioni di persone. Uffici e complessi residenziali sono molto cresciuti rispetto alla rete idrica, cosicché le condotte riescono a trasportare ogni giorno solo poco più della metà dell’acqua necessaria.

Il Consiglio per la fornitura idrica e la rete fognaria (BWSSB, Bangalore Water Supply and Sewerage Board), il principale ente per la gestione dell’acqua potabile, raggiunge appena il 60% delle abitazioni. Questo significa che, all’interno dei confini cittadini, più di 3 milioni di persone non hanno un accesso regolare all’acqua. Inoltre, le scarse fonti idriche sono interessate da crescenti livelli d’inquinamento e scarsa depurazione e, come se non bastasse, più del 20% si perde per strada a causa di tubi vecchi e corrosi, con conseguenze rilevanti sulla salute delle fasce più deboli della popolazione e sulla stessa economia della città.

Ormai da vari anni Bangalore, al pari di altre città indiane “assetate”, sta sperimentando nuove soluzioni, come l’uso di autocisterne per rifornire in particolare le zone periferiche della città (come Sarjapura e Whitefield), dove la rete idrica non arriva. Queste aree si affidano unicamente alle autobotti (pubbliche e private), che prelevano l’acqua da pozzi scavati a ritmo frenetico e sempre più in profondità a causa della riduzione delle falde che, secondo le previsioni, potrebbero esaurirsi completamente entro il 2025. Nel corso degli anni, il sistema di distribuzione pubblico è diventato il simbolo dell’incapacità e della corruzione del governo; infatti, progressivamente il controllo idrico è passato nelle mani di organizzazioni private. Questo processo ha comportato la nascita della cosiddetta “mafia dell’acqua”, costituita da aziende private che gestiscono le autobotti e che ormai detengono il monopolio del comparto. A tal riguardo le autorità locali danno un consenso aperto o tacito, delegando in modo informale la gestione dei servizi e delle iniziative pubbliche. Il risultato? L’acqua, e soprattutto l’acqua pulita, diviene un bene di lusso riservato a chi può permettersi questo servizio.

La continua espansione della città costituisce la base per un parallelo processo autodistruttivo, in quanto i pozzi cittadini si stanno progressivamente esaurendo e gli stessi proprietari delle autobotti sono costretti a scavare sempre più in profondità o a spostarsi nelle zone rurali “prosciugandole completamente”. Una reazione a catena che anno dopo anno diventa sempre meno reversibile.

Bangalore è stata costruita intorno a una serie di laghi che funzionavano da bacini idrici e ricaricavano le falde, garantendo una fonte rinnovabile. Tuttavia, i laghi hanno subito gli effetti dell’urbanizzazione: sono finiti dentro progetti edilizi che non ne tengono conto o sono stati riempiti di prodotti tossici, scarichi e spazzatura prodotti dalle industrie e dalle abitazioni. A volte il lago Bellandur, il più grande della città, prende letteralmente fuoco. Dei 260 laghi presenti a Bangalore, oggi ne sono rimasti circa 80, di cui la metà sono ecologicamente morti. Oltre a fiumi e laghi, i monsoni ‒ tra luglio e settembre ‒ costituiscono per la città una delle principali fonti di approvvigionamento idrico. Tuttavia, numerosi ricercatori evidenziano che le precipitazioni, divenute sempre più instabili a causa del cambiamento climatico, stanno stravolgendo la loro regolarità. Per di più quando arriva un monsone, il sistema idrico cittadino, essendo vecchio e corroso, non riesce a reggere la portata dell’acqua che finisce per riversarsi per le strade.

Come imbrigliare le acque piovane  per ridistribuirle lungo tutto l’arco dell’anno e nei periodi necessari è il problema da risolvere. Sono distanze enormi quelle da superare per eventuali canalizzazioni. Creare invasi e bacini per raccogliere le acque piovane è una sfida ingegneristica enorme. Solo una minima parte delle piogge o delle acque provenienti dallo scioglimento annuale dei ghiacciai viene raccolta correttamente: la stragrande maggioranza finisce nell’Oceano. Non esiste una soluzione semplice. I finanziamenti necessari per grandi infrastrutture e per le riconversioni che sarebbero necessarie sono pochi.

Il sistema che potrebbe avere il maggiore successo è quello che prevede una raccolta e redistribuzione generalizzata. Vasche e bacini sui tetti per trattenere l’acqua piovana, impianti agricoli a goccia, pozzi irregolari posti sotto controllo delle autorità. Per realizzare tutto ciò c’è però bisogno anche di un cambio di atteggiamento, di una visione molto più green. Un’educazione al benessere comune che sembra ancora assente nella società indiana.

 

Immagine: Alcune donne aspettano di fare scorta d’acqua con i loro vasi di plastica a una fontana pubblica, Bangalore, India (18 aprile 2013). CamBuff / Shutterstock.com

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Afghanistan, la minaccia del cambiamento climatico che ha favorito i Talebani

 

In Afghanistan, dal 1950, si è assistito ad una crescita progressiva della temperatura media annuale (aumentata di 1,8 °C), che ha determinato una riduzione dei ghiacciai del Paese del 13%. Inoltre, negli ultimi trenta anni, le precipitazioni sono diventate gradualmente sempre più instabili, con un aumento dei fenomeni di pioggia intensa invernali tra il 10% e il 25% ed una contestuale diminuzione di quelle primaverili. Inoltre, il Paese è stato interessato da periodi di siccità sempre più numerosi e lunghi: se dapprima si verificavano ogni sette anni, oggi ogni tre o quattro anni. A peggiorare la situazione, i conflitti e il vuoto di potere provocati da quarant’anni di guerra ininterrotta hanno portato alla distruzione delle poche infrastrutture idriche, energetiche e di trasporto costruite prima dell’invasione sovietica alla fine degli anni Settanta. In una realtà come quella afghana, dove si alternano siccità e precipitazioni estreme, non avere un sistema idrico efficiente significa condannare un’intera popolazione, che dipende per l’85% dalla produzione agricola.

L’agricoltura costituisce infatti la principale fonte di reddito per più del 60% degli afghani, occupando circa il 44% della popolazione. Di tutta la superficie del Paese, solo il 3,8% è coltivato e costantemente irrigato, di questo meno del 10% sfrutta tecniche di irrigazione moderne, basandosi invece sulla quantità di neve che cade in inverno sulle montagne dell’Hindukush o sugli altopiani centrali. Per quanto riguarda l’allevamento, si stima che negli ultimi trent’anni la popolazione di bestiame abbia oscillato tra 3,7-5 milioni di bovini e 16-30 milioni di pecore e capre: questi numeri enormi e il pascolo eccessivo hanno portato a danni critici per il suolo, comportando un progressivo impoverimento e favorendo così la siccità. A causa di tutto ciò, secondo il report di Climate Security, l’Afghanistan è interessato da una drammatica crisi alimentare e umanitaria: sono più di 13,5 milioni le persone che vivono in una quotidiana condizione di insicurezza alimentare. Inoltre, differenti studiosi evidenziano che gli interventi esterni per aiutare gli afghani a gestire e contrastare i diversi disagi provocati dal cambiamento climatico sono principalmente a breve termine e/o assumono una prospettiva occidentale, avulsa dai bisogni effettivi della popolazione. Questi fattori spingono inevitabilmente la popolazione a migrare: secondo un’analisi di ActionAid, a causa dei conflitti e della siccità ci sono già 4 milioni di sfollati interni e più di 2,7 milioni di rifugiati in altri Paesi.

A causa di queste condizioni estreme, gli agricoltori sono stati costretti a richiedere prestiti per mantenere coltivazioni e bestiame produttivi ma, vivendo in uno stato di estrema povertà, sono stati raramente in grado di restituire la somma di denaro ricevuta e conseguentemente hanno perso la loro attività. In questo clima di frustrazione e malcontento, hanno trovato terreno fertile sia le parole che le azioni dei Talebani, i quali hanno capitalizzato lo stress agricolo e la conseguente sfiducia nel governo per reclutare nuovi sostenitori privi di qualsiasi altra alternativa. Secondo Cara Korte ‒ giornalista della CBS ‒ i Talebani pagano i loro soldati tra i 5 e i 10 dollari al giorno, che è molto più di quanto ciascun agricoltore potrebbe mai ottenere dalla sua attività.

I Talebani sono consapevoli che è imprescindibile per la loro stessa sopravvivenza affrontare la crisi climatica e umanitaria che interessa l’Afghanistan. In agosto, prima dell’annuncio del nuovo governo formato dai Talebani, Abdul Qahar Balkhi, membro della commissione culturale talebana, ha dichiarato alla rivista statunitense Newsweek che essi volevano il riconoscimento globale del cosiddetto “Emirato islamico”, sottolineando che il cambiamento climatico è una sfida che può essere superata solo con gli sforzi collettivi di tutti.  In questo contesto, l’aiuto della comunità internazionale non è scontato, dato che un eventuale intervento esterno per soccorrere la popolazione afghana affamata implicherebbe sia sostegno che collaborazione con il governo talebano.

Tuttavia, sia il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente che l’Agenzia nazionale per la protezione ambientale dell’Afghanistan consigliano di agire congiuntamente e subito, in quanto il Paese va incontro a cambiamenti climatici estremi: i modelli ottimistici prevedono che entro il 2100 la temperatura media dell’Afghanistan potrebbe aumentare di 2,5 °C, mentre in uno scenario caratterizzato da alte emissioni di gas serra, la temperatura potrebbe aumentare fino a 7 °C verso fine secolo. Le crescenti temperature incideranno ulteriormente sullo scioglimento dei ghiacciai (si prevede una riduzione per il 2050 del 25-30%), rendendo l’acqua per le coltivazioni e il bestiame ancora più scarsa. Inoltre, le precipitazioni diventeranno sempre più brevi ma distruttive, aumentando le possibilità di frane mortali e valanghe in un Paese montagnoso come l’Afghanistan.

Considerando che anni di guerre hanno completamente derubato l’Afghanistan di qualsiasi capacità interna di adattamento e resistenza al cambiamento, uno sforzo congiunto ‒ sia nazionale che internazionale ‒ è fondamentale per la pace e la resilienza climatica di questo Paese.

 

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Vezzosi, Maurizio (14.12.2020), L’Afghanistan della guerra infinita, Treccani

Spatafora, Giuseppe (11.09.2021), La caduta di Kabul: la cattiva gestione dell’alleato afghano e il ritorno dei talebani, Treccani

 

 

Immagine: Paesaggio tra Kabul e Bamiyan, Afghanistan. Crediti: Jono Photography / Shutterstock.com