Atlante

Viviana Di Falco

Professionista della comunicazione da oltre vent'anni. Durante la lunga carriera, spazia dal' organizzazione eventi , alle relazioni esterne per importanti aziende internazionali, fino alla proficua collaborazione con Jury Chechi in qualità di assistente personale ed addetta ufficio stampa. Nonostante gli studi in geografia e lo spirito organizzativo nel sangue, la sua più grande passione rimane quella per le arti figurative ed il cinema, che coltiva sin da bambina, approdando alla produzione di video per ImagoArts, un collettivo di artisti indipendenti ideatori di innumerevoli progetti fotografici, video e musicali.

Pubblicazioni
/magazine/atlante/cultura/quelle_proposte_che_non_si_possono_rifiutare.html

Quelle proposte che non si possono rifiutare

«Via col vento sta per diventare il più grande flop della storia del cinema, e sarà Clark Gable a perderci la faccia, non Gary Cooper». Lo affermava lo stesso Cooper, quando nel 1939 rifiutava il ruolo di Reth Butler per dedicarsi al personaggio di Beau Geste, nel film omonimo di William A. Wellman. Questione di scelte, fiuto, coincidenze, quadrature astrali che ci indirizzano verso l'una o l'altra strada: Helen che in “Sliding Doors” perde o prende la metropolitana. La vita di Gary Cooper fu costellata di successi e tre premi Oscar, a prescindere dal suo rifiuto di recitare in “Via col vento”, ma che dimensioni avrebbe preso la sua carriera, impersonando Mr Butler invece di Michael Beau Geste, questo nessuno potrà mai dirlo. Per un attore, ogni casting può rappresentare un nuovo inizio, una conferma oppure la discesa verso il limbo del dimenticatoio mediatico, quello del cinema è un universo scivoloso ed insidioso, nel quale ogni passo falso può essere fatale. Allo stesso modo, per una produzione, affidarsi ad un protagonista piuttosto che un altro può trasformare un copione in un classico, come anche in un flop totale; la sceneggiatura rende appetibile o meno una pellicola, il regista ne tesse la complicata tela, ma sono poi i volti che le danno vita, rappresentando il collante che emotivamente lega il pubblico alla storia. Quello delle audizioni è un microcosmo nel quale tutti, dal regista al protagonista, dal produttore alla comparsa, sopportano il peso della consapevolezza: prendere o meno la “metropolitana del destino” probabilmente avrà conseguenze su più di una carriera e quindi su molte vite. L'impopolare scelta di Coppola, nel volere Marlon Brando come Don Vito Corleone, gli provocò non pochi problemi con la produzione, lo stesso presidente della Paramount, Stanley Jaffe, lo redarguì severamente: “Marlon Brando non apparirà mai in questo film!” . Una volta accantonata l'idea che Laurence Olivier potesse incarnare il capostipite della famiglia Corleone, perché troppo anziano e malato (questo accadeva 18 anni prima della sua morte, c'è da pensare che l'agente di Sir Laurence Olivier avesse la stessa lungimiranza di Gary Cooper), il regista portò avanti la propria battaglia con tenacia, e alla fine la candidatura di Brando fu presa in considerazione anche dalla dirigenza, a patto che il candidato d'eccellenza sostenesse un provino come qualsiasi altro interprete minore. L'attore, all'epoca quarantasettenne e quindi teoricamente troppo giovane per la parte, destò l'attenzione generale presentandosi al provino con del cotone infilato nelle guance: nasceva così l'aspetto da mastino di Don Vito ed una delle migliori interpretazioni della storia del cinema. Brando firmò il contratto, accettando un salario inferiore ai suoi compensi abituali e sottoscrivendo una clausola assicurativa nella quale garantiva di non provocare alcun ritardo nelle riprese, sua radicata, cattiva abitudine. Mentre dalla porta principale entrava un trionfante Marlon Brando, da quella secondaria se ne andava un mesto Robert De Niro che, nonostante una prova esemplare, non otteneva la parte di Santino, primogenito di Don Vito e Carmela. Per questo ruolo aveva la meglio James Caan, inizialmente ingaggiato per interpretare il terzogenito e fondamentale Michael, superando nella corsa colleghi come Robert Redford, Jack Nicholson, Dustin Hoffman. Anche in questo caso, però, Coppola fece valere le sue ragioni di regista, “Micheluzzo” doveva essere interpretato da un attore poco famoso e che avesse la fisionomia di un vero italoamericano, dalle potenti origini siciliane: Al Pacino era il suo uomo. I responsabili della casa produttrice opposero molte resistenze ad accettare la sostituzione di Caan con un collega quasi sconosciuto e a loro avviso troppo basso, Coppola minacciò allora di abbandonare l'intero progetto: Pacino firmò il contratto e Caan sgusciò dai panni di Michael a quelli di Sonny. Un dietro le quinte sinuoso come la trama che si dispiegava sul set e condito, in occasione delle riprese dei sequel, da ripescaggi eccellenti e colpi di scena imbarazzanti: un Robert De Niro straordinario interprete di Vito Corleone da giovane e vincitore di un Oscar nel secondo episodio, un'esordiente Sofia Coppola, sostituta sul set di Wynona Rider nel ruolo di Mary Corleone, vincitrice di un Razzie Award come peggiore attrice non protagonista nell'ultimo atto della trilogia. In questa confusione di successi, svolte improvvise e capitomboli, James Caan riuscì ad ottenere lo stesso notevole compenso sia per la lunga recitazione nel primo episodio, che per il cameo di due minuti interpretato ne “Il Padrino II”, dimostrando un arguto senso degli affari; quando poi a distanza di pochi mesi rifiutò il ruolo di protagonista in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” ingenuamente cadde nella vecchia trappola della metropolitana in partenza e tu che indugi sulla panchina, cambiando il tuo destino. Onore e gratitudine al caro vecchio Jimmy, per aver inconsapevolmente regalato al mondo la straordinaria impersonificazione di Jack Nicholson in Randle McMurphy.

/magazine/atlante/cultura/memorie_apertamente_chiuse.html

Memorie apparentemente chiuse

Chiunque abbia subito un lutto conosce bene il fascino feticistico di alcuni oggetti. Quando non puoi più abbracciare una persona amata e la nostalgia ti divora come una tenia inesorabile, una scatola di cerini usati può divenire il più prezioso dei tesori: l'ineluttabile trasforma immagini e ricordi ordinari in irripetibili. Ma, forse, il valore più grande che certi oggetti custodiscono, non è tanto quello evocativo, ma quello conoscitivo. Per quanto sia sincero il nostro desiderio di apparire come siamo agli occhi di chi ci ama, ci sarà sempre un piccolo segreto inespresso, un sogno troppo banale o irraggiungibile che valga la pena condividere, un ricordo così intimo da non essere raccontato mai. Ed è solo lì, a distanza di anni, che aprendo un cassetto come ce ne sono altri mille in casa, la verità ti si dipana, e allora di un genitore dimesso scopri le velleità drammaturgiche, di una nonnina innocente il primo amore scapestrato e mai obliato! Non esistono individui “ordinari”, abbiamo tutti una nostra straordinaria unicità, che nell'arco di un'esistenza ci fa accumulare emozioni ineguagliabili, c'è però chi dell'emozione, della curiosità e dell'estro ha fatto una ragione di vita, c'è chi, dopo 70 anni, non ti lascia un cassetto da riscoprire, ma più di mille scatole da aprire.

Christiane, vedova Kubrick, ammise: “È un lavoro molto melanconico, entrare nelle cose di qualcun altro...” quando, alla morte del marito Stanley, affidò ad un pugno di persone di fiducia o comunque all'altezza della sfida, l'incarico di aprire e studiare il leggendario archivio del cineasta che era stato il suo compagno per oltre 40 anni. Agli occhi esterrefatti del giornalista Jon Ronson (http://www.jonronson.com/kubrick.html), dell'archivista tedesco Bernd Eichhorn e di pochi altri, la vasta, elegante e tipicamente inglese Childwickbury Manor si mostrava nella veste più intima e reale: un enorme contenitore che custodiva scatole, scatole ed ancora scatole, molte delle quali sigillate e vecchie di decenni e, racchiusa in quelle scatole, la mente geniale che aveva partorito le gemelline dell'Overlook Hotel, i Drughi, HAL e abortito, causa forza maggiore, il più grande progetto riguardante l'epopea napoleonica.

(http://www.youtube.com/watchv=5k3BzPXMaPw&list=PL7080338AB4EEEBCA)

Nel 1967 Kubrick iniziò ad alimentare il sogno di girare un film sulla vita di Napoleone Bonaparte, progetto che non abbandonò mai nonostante innumerevoli vicissitudini, che resero impossibile il primo ciak. Per anni, il regista e alcuni assistenti accumularono qualsiasi tipo di documento ed informazione inerente il condottiero corso: 15.000 foto di possibili location, 17.000 immagini riguardanti Napoleone, 500 libri, 16.000 riferimenti iconografici. E fin qui, tutto abbastanza regolare, “Napoleon” doveva essere un film storico, ed era assolutamente prevedibile attendersi una ricerca iconografica quanto meno approfondita. Ma, cercando meglio tra gli scaffali, sui quali tutte quelle scatole venivano stipate, aprendo ad esempio quella dal titolo “Lolita”, ci si imbatte in una folta corrispondenza tra Kubrick e la famiglia Nabokov, nella quale si trattano argomenti lontanissimi dal libro scritto da Vladimir (http://it.wikipedia.org/wiki/Vladimir_Vladimirovič_Nabokov) e dal film di Stanley, che quelle pagine avevano ispirato, chiacchiere cordiali tra persone cortesi, unite da forte stima reciproca, tutte conservate lì, ordinatamente ed affettuosamente custodite. E che dire, delle nottate che Stanley trascorreva a disquisire con il suo assistente, Tony, compagno di 37 anni di avventure professionali e condivisioni profonde, durante le quali il secondo cercava di convincere il primo delle qualità estetiche di alcuni caratteri tipografici, per persuaderlo ad abbandonare il suo amatissimo “Future extra bold”. Ricordate le locandine che pubblicizzavano “Eyes wide shut”, i titoli di testa? (http://www.youtube.com/watch?v=FBrbQSDfh7Q). Nonostante le nottate in bianco, ed innumerevoli volumi contenenti esempi di scrittura e caratteri, Tony aveva perso la battaglia. Per “Eyes wide shut” le scatole accumulate sono numerose, con il passare degli anni l'attenzione di Stanley per i dettagli aumentava, fino ad arrivare a chiedere al nipote di fotografare centinaia di porte per le strade di Londra, per trovare l'ingresso più adatto alla casa della prostituta dalla quale si lascerà adulare un debole Tom Cruise. Documenti gelosamente conservati, come i centinaia di libri di fantasmi e le immagini di quasi tutti gli alberghi di montagna del mondo. Imparare, assimilare, elaborare per assurgere alla “Luccicanza delle luccicanze”: “Shining”. E quando le scatole che comprava nei vari negozi non gli si addicevano più, perchè poco pratiche, Stanley disegnava e faceva produrre la scatola dei suoi sogni, quella dalle dimensioni perfette.

“Portare via tutto quel materiale, è stato come seppellire Stanley per una seconda volta...”, il laconico commento di Christiane vedendo camion pieni di documenti uscire dalla sua proprietà, avviandosi verso l'Università delle Arti di Londra che ora ne custodisce l'immenso valore: tanta intimità condivisa con il proprio compagno e poi con il mondo, ci vuole coraggio, grande generosità.

E se ancora, in queste poche righe che aprono un pertugio nell'universo fatto di creatività e genio, il nostro Stanley non si fosse espresso abbastanza, ecco come commentava la sua professione, nell'ultima dichiarazione ufficiale registrata pochi giorni prima di morire: “Chiunque abbia mai avuto il privilegio di dirigere un film, saprà bene che, sebbene a volte l'impresa possa apparire come tentare di scrivere “Guerra e pace” in una macchinetta a scontro dentro un parco giochi, quando alla fine ci riesci, non ci sono molte gioie nella vita paragonabili a quella sensazione.”

Cosa aggiungere, semplicemente, GRAZIE.

/magazine/atlante/cultura/l_arte_invisibile_del_montaggio.html

L'arte invisibile del montaggio

Sally Menke era una signora di 56 anni dall'aspetto gioviale: occhi azzurri, capelli color miele, curve materne, sorriso intenso ed umile. Sally, un pomeriggio esce di casa con il suo scodinzolante Labrador per una breve escursione e non fa più ritorno. Il giorno seguente viene trovata morta, per cause poco chiare ma non misteriose, probabilmente riconducibili al caldo opprimente di quel settembre californiano del 2010. Il suo cane le era rimasto accanto, vegliando su quell'innaturale immobilità per ore ed ore. A piangerla, oltre a figli, marito e Labrador, tanti colleghi ed il suo addolorato alter-ego professionale: Quentin Tarantino. La signora Menke era uno degli eroi silenziosi del mondo cinematografico, era l'editor di Tarantino da quando, nel 1992, Quentin, presa la decisione di dirigere il suo primo film, si mise alla ricerca di un montatore che avesse soprattutto due caratteristiche: fosse donna ed economico! Sally si candida e, a distanza di qualche tempo, ottiene il contratto. Dall'incontro di entusiasmi e talenti reciproci prende forma Le Iene. Quentin, senza Sally, sarebbe diventato sicuramente il regista formidabile che è oggi, ma senza di lei film come Kill Bill e Pulp Fiction non sarebbero stati altrettanto geniali. In mancanza della signora Menke, non avremmo mai potuto gioire della perfezione stilistica che, sin dalle prime inquadrature, ci scaraventa nel mondo visionario e cruento di Mr White e compagni. Si può non amare Le Iene ma non è possibile negarne l'audacia espressiva che precorre i tempi, inaugurando uno stile ed un ritmo cinematografico difficilmente imitabili. Nel suo ruolo imprescindibile, l'editor lavora all'ombra del regista con il quale condivide lunghi periodi di strettissima collaborazione: il suo compito è quello di trasformare una serie di riprese in una storia che appassioni lo spettatore, lo renda partecipe di quello che vede scorrere sullo schermo, fino a trasformare la finzione in sensazioni reali. Il ritmo dei tagli, il susseguirsi delle scene, la varietà delle inquadrature aumentano il coinvolgimento che il pubblico ha di fronte allo schermo, è una sorta di manipolazione e nasconde un enorme potere comunicativo. Robert Cohen, regista della serie Fast and Furious, sorridendo ammette: "Grazie al lavoro di montaggio ed editing, le persone amano i film, perché, in fondo, non piacerebbe a tutti noi, poter editare la nostra vita? Tagliare i brutti ricordi, eliminare i momenti lenti, concentrandosi soltanto sugli attimi migliori?". Il lavoro dell'editor, o montatore, è quello di un'illusionista appassionato che attraverso tecnica, grande sensibilità e pazienza riduce le tessere infinite di un puzzle in un quadro ben delineato e conciso, ma incredibilmente più completo. Nelle grandi produzioni si girano in media 200 ore di pellicola: la stessa inquadratura può essere ripresa, a discrezione del regista, svariate volte da inclinazioni e campi diversi, per concedere, in fase di montaggio, significative alternative che arricchiranno il risultato finale. Un editor può lavorare per mesi, anche anni, convertendo il nastro in una pellicola di due ore, attraverso una serie innumerevole di tagli e virtuali cuciture: un vero e proprio sarto ipertecnologico. E proprio alla stregua di umili sartine erano considerate le primissime montatrici, agli albori di Hollywood, perché la loro attività aveva simbolicamente a che fare con l'unire i vari stralci di una tappezzeria. Soltanto con l'avvento del sonoro, quindi di una maggiore tecnologia, a questo esercito in gonnella si aggiunsero i primi uomini. Ma a parte le qualità di una buona cucitrice, quello che inizialmente era stato mascolinamente trascurato probabilmente nasconde l'essenza di una professione che richiede contemporaneamente grandissima creatività, devozione, forte senso dell'organizzazione e dell'ordine. Tarantino racconta che, dovendo scegliere un montatore per Le Iene, sin dall'inizio aveva immaginato una donna al suo fianco: un atteggiamento sensibile, un approccio quasi materno nei confronti suoi e della pellicola era quello di cui aveva bisogno. Se avesse optato per un uomo, temeva che una sorta di competizione avrebbe preso il sopravvento. Nei lunghi anni di collaborazione con Sally, nel corso delle infinite discussioni in cui lei voleva tagliare e lui invece mantenere quanto più possibile la sua mente geniale aveva deciso di riprendere ed inquadrare, Quentin a volte si rammaricava del fatto che lei non leggesse nella sua mente al 100% ma "solo" all'80%... quando poi le immagini finali apparivano in sequenza perfetta sullo schermo, lui non riusciva più a ricordare quale scelta, omissione o aggiunta fosse stata un'idea di Sally e quale la sua. Arrivati alla lavorazione di Bastardi senza gloria, nel 2009, la fiducia era tale che il regista consegnava periodicamente il materiale girato all'editor Menke, senza quasi intereferire sul suo operato. Risultato: una tra le migliori pellicole di Tarantino. Una regia ormai matura e consapevole, la recitazione magistrale di Christoph Waltz-Hans Landa ed i tagli perfettamente armonizzati di Sally Menke, hanno trasformato una bevuta di latte ed una fumata di pipa nell'alternarsi sincopato di tensione e cupa violenza psicologica prima e fisica poi, simbolo di un cult-movie sorprendente. Se non si conoscesse la filmografia di Tarantino, questa profonda, emotiva condivisione di intenti professionali, questa straordinaria complicità tra regista e stretti collaboratori, ricondurrebbero più facilmente alla produzione di commedie rosa o tenere soap opera. Stiamo invece parlando di pellicole che racchiudono tra le scene più sanguinolente e brutalmente ironiche della storia del cinema: una Pulp Fiction condita di violenza, tensione emotiva, equivoci tanto macabri quanto esilaranti, difficilmente paragonabili con altre produzioni, se non probabilmente con quelle di un altro indiscutibile maestro, Martin Scorsese. Le sparatorie al limite dell'inverosimile che in rapida successione ed inquietante leggerezza si susseguono, la sottile o conclamata ferocia dei protagonisti di Quei bravi ragazzi o Taxi driver, hanno permesso al cineasta italo-americano di creare uno stile altrettanto personale e crudo.  E, ironia della sorte, all'ombra di quest'altro grandissimo regista c'è una settantenne dai capelli grigi e la voce pacata, Thelma Schoonmaker, che da 31 anni è la sua fedelissima editor. L'aspetto materno di Thelma appare difficilmente riconducibile alla firma originale dei film di Scorsese: azione, ritmi serrati, violenza frequente, colpi di scena. Nonostante l'apparenza, Scorsese afferma senza esitazioni che Thelma è la sua collaboratrice più vicina, con la quale condivide qualsiasi tipo di dubbio o pensiero professionale. In fondo, capolavori come The Departed o Gangs o Toro scatenato sono tali grazie a tecniche cinematografiche quali il fermo immagine, le accelerazioni, i rallentamenti, i tagli netti mascherati da flash, propri dello stile di montaggio della Schoonmaker.   Anche in questo caso, però, di Martin Scorsese si conosce tutto o quasi, mentre di Thelma Schoonmaker si ha difficoltà anche a memorizzare il nome. Meno visibile è il risultato del montaggio, migliore sarà stato il lavoro del montatore: più che una professione, una vocazione, una filosofia di vita. Forse per questo, dalle antesignane signorine che negli Studios tessevano la loro tela di immagini in bianco e nero, fino ad arrivare all'arte febbrile di Sally e Thelma, il montaggio ha avuto come protagoniste molte donne che instancabilmente creavano opere, senza reclamarne mai la gloria.

/magazine/atlante/cultura/il_lato_nobile_dei_rifiuti.html

Il lato nobile dei rifiuti

Trashed è un film-documentario del 2012 diretto da Candida Brady con protagonista un profetico ed umilissimo Jeremy Irons che, grazie a numerose testimonianze e dati scientifici alla mano, attraversa il globo cercando di ricostruire con audacia e semplicità gli effetti catastrofici dell'inquinamento. Durante un'intervista per promuovere il film, lo stesso Irons spiega quanto l'umanità abbia sempre avuto bisogno di storie da ascoltare, e lui, in quanto attore, è parte di questo processo infinito, nel quale uno o più narratori raccontano esperienze proprie o inventate, suscitando negli spettatori le emozioni più disparate e svolgendo perciò un ruolo educativo. Quando ascoltiamo una voce estranea nella quale riconosciamo i nostri stessi sogni, paure e problematiche, facciamo luce su aspetti della vita che tendiamo ad ignorare e, nei casi più fortunati, diveniamo consapevoli di poter cambiare le cose.

“Trashed” è proprio una di quelle pellicole illuminate ed illuminanti che, germogliando nelle coscienze, puntano i riflettori su lati delle nostre abitudini così radicati, comodi e sbagliati che, una volta riconosciuti in quanto tali, non possiamo più trascurare. Prima di aver visto il film, gli 85 milioni di bicchieri usa e getta consumati ogni anno nel mondo ci appaiono come una delle tante statistiche, spesso deprimenti e noiose, di cui lo stesso “Trashed” è pieno.

Inquinamento, scarti tossici, diossine, inceneritori, discariche, sono termini che ci fanno inorridire, ma la cui diffusione imputiamo sempre a qualcun altro: multinazionali avide, governi poco responsabili, interessi economici insondabili. Arrivati però ai titoli di coda, ripensando alla miriade di bicchieri abbandonati nei più impensati angoli della Terra, ci balena nella mente che anche noi abbiamo contribuito alla crescita di una stima così spaventosa e che, a causa della bevanda ghiacciata bevuta oggi per strada, tra sei anni una tartaruga del Pacifico potrà morire per mano nostra. Quando gettiamo un oggetto, non chiudiamo un cerchio, bensì diamo vita ad una storia che, se non destinata ad un serio processo di riciclo, ha risvolti per lo più raccapriccianti e distruttivi. E se la tartarughina oceanica non suscita tutta la nostra compassione, rivolgiamo il pensiero al numero crescente di tumori infantili, ai deficit di apprendimento dilaganti, al degrado; insomma, guardiamoci semplicemente intorno, abbandonando l'inutile senso di sconfitta e dirigendoci verso una consapevolezza fattiva. Consumare meno, buttare via in maniera responsabile, riciclare, regalando nuova dignità ad oggetti che la tendenza globale ci spingerebbe invece a sostituire con estrema leggerezza, possono trasformarsi in attività creative e divertenti.

Per svegliarsi dal torpore non servono grandi conoscenze o capitali, come ci insegna Nek Chand, pakistano trasferitosi in India nel 1947, impiegato nell'amministrazione comunale di Chandigarh. Di giorno, il signor Chand lavora, percorre in bicicletta le vie della città in costruzione e ha la mania di raccogliere materiale di scarto dai cantieri edili: ceramica, acciaio, cavi elettrici. Di notte, nella più completa segretezza, Nek si dedica al suo giardino: un appezzamento di giungla di proprietà statale, che lui cura, pulisce e adorna con le sculture che ricava e plasma dagli scarti che tanto meticolosamente raccoglie ogni giorno. Per 18 anni questo lavoro certosino si perpetua ogni notte, le creature che popolano il giardino magico si espandono su ettari di terreno pubblico senza che nessuno se ne accorga. Arriviamo lentamente al 1976, le autorità aprono gli occhi e si trovano di fronte l'opera ciclopica del signor Chand, la scoperta provoca inizialmente confusione e disordini: un'iniziativa del genere, totalmente illegale, a rigor di logica dovrebbe essere punita severamente. Per fortuna, non sempre la logica segue percorsi così ovvi: l'amministrazione decide di corrispondere a Nek lo scultore un salario che gli permetta di dedicarsi a tempo pieno alla sua arte, con il supporto di 50 operai regolarmente assunti. Nasce il “Giardino di Pietra” di Chandigahr: una perfetta alchimia di rocce, rifiuti, natura ed arte, che vanta attualmente una media di 5000 visitatori al giorno.

Come Jeremy, cambiamo orizzonte e voliamo dall'India al Paraguay, a Cateura, uno degli agglomerati più poveri del Sud America, sorto su una discarica e nel quale gli abitanti sopravvivono proprio grazie alla spazzatura, frugandovi ogni giorno per trovare oggetti e materiali da rivendere. Favio Chávez insegna musica ai ragazzi di questo sobborgo, il suo impegno quotidiano è quello di aiutarli a fuggire da tanto degrado, impartendo le sue preziose lezioni teoriche e pratiche ma anche costruendo insieme agli studenti gli strumenti musicali, che altrimenti sarebbe impossibile acquistare. Se infatti le disponibilità economiche sono spaventosamente limitate, la materia prima a Cateura non manca: bidoni dell'olio, forchette, pneumatici, bottoni, cucchiai, lacci, plastica, tutto materiale rigorosamente ricavato dalla discarica cittadina, che unito alla passione di pochi adulti e di tanti ragazzi ha dato forma ed anima alla “Landfill Harmonic”, la prima orchestra al mondo i cui strumenti sono generati esclusivamente dalla spazzatura. Favio  e i suoi ragazzi si sono già esibiti in tutta Europa e nel 2014 è prevista l'uscita di un lungometraggio che li vedrà protagonisti (http://www.landfillharmonicmovie.com/): “Il mondo ci spedisce rifiuti, noi li trasformiamo in musica”, io aggiungerei che la buona volontà di un singolo, può trasformarsi nell'atteggiamento propositivo di una moltitudine. 

/magazine/atlante/cultura/curiosando_a_ritroso_nel_tempo.html

Curiosando a ritroso nel tempo

Per apprezzare l'opera faraonica che costituisce la "Media History Digital Library" non è sufficiente proclamarsi appassionati cinefili, è necessario saper assaporare il gusto romantico della nostalgia, dedicandosi il tempo necessario per un viaggio nel passato che farà sorridere, riflettere, commuovere. Variety, The Hollywood Reporter, Photoplay, Cinema Roma, La Revue du Cinema, Kinematograph Year Book sono soltanto alcune delle pubblicazioni risalenti agli inizi del ventesimo secolo, presenti in questo archivio che ha dello straordinario. Grazie al lavoro certosino di Eric Hoyt e colleghi, che nel 2011 si riuniscono per la prima volta attorno ad un tavolo a Los Altos-California, documenti che sino ad allora erano consultabili esclusivamente negli archivi delle riviste specializzate o in soffitte polverose sono ora accessibili a chiunque lo desideri, attraverso semplici clic e movimenti di mouse. Un progetto che partendo da un'iniziativa privata si è rapidamente trasferito nelle aule dell'Università del Winsconsin-Madison e che sta crescendo in forma esponenziale, coinvolgendo figure apparentemente distanti tra loro ma unite da un unico intento: rendere accessibili al grande pubblico testimonianze che altrimenti sarebbero rimaste appannaggio di pochi. Qualsiasi tipo di memoria, anche quella apparentemente effimera legata all'universo dello "show business", deve essere alla portata di tutti, attraverso mezzi semplici. Appassionati collezionisti di tutto il mondo, generosi benefattori, stimati professionisti, instancabili studenti, chiunque possa rendersi utile mettendo a disposizione documenti, piccole o grandi somme di denaro, tempo e facoltà, è il benvenuto in questa comunità che ha come unico scopo quello di diffondere informazioni ed immagini riguardanti cinema, musica e spettacolo dagli albori del '900 agli anni '70. Ad oggi, i documenti scansionati ed archiviati con ordine chirurgico raggiungono le 800.000 pagine, tutte facilmente consultabili attraverso la biblioteca interattiva "Lantern", una piattaforma grazie alla quale questa inestimabile collezione prende vita. Per il navigatore curioso, è sufficiente inserire nella barra di ricerca il titolo o il nome di un personaggio dell'epoca, da Orson Welles a Greta Garbo, da Pirandello a Rudy Valentino, da Rebecca a Ladri di biciclette, che in pochi secondi sullo schermo sfila una lista interminabile di collegamenti che introducono ad altrettanti articoli, recensioni, interviste, aneddoti, fotografie. Ogni pagina selezionata può essere letta individualmente o inserita nel contesto dal quale è stata estrapolata, e nello stesso modo venire scaricata e stampata integralmente o parzialmente. Il lettore attento che si trova a scoprire le pagine contenute in questo scrigno del giornalismo d'annata può sfruttare a proprio vantaggio la formula del "so già come va a finire" assurgendo ad una consapevolezza che regala spesso scoperte e riflessioni inaspettate sullo showbiz, come anche sull'informazione di massa e la realtà sociale del momento, seguendo dinamiche molto più semplici e leggere dei libri di storia, ma non per questo da sottovalutare. In un'epoca come quella odierna, nella quale qualsiasi avvenimento, a prescindere dalla sua portata, diventa notizia superata nel giro di pochi attimi, dove gli accadimenti mediatici ci assalgono con una rapidità difficilmente sostenibile, ritrovarsi a sfogliare un giornale nel quale passaparola, posta tradizionale, telegrafo e macchina da scrivere la facevano da padroni può donarci il gusto di assaporare ed elaborare le nozioni al ritmo che, una volta tanto, stabiliamo noi.

/magazine/atlante/cultura/Intervista_a_Vittorio_Storaro_II.html

Intervista a Vittorio Storaro. II

L'amore profondo che prova per la sua professione è fortemente radicato, l'ha portata a compiere scelte importanti ed a raggiungere risultati eccezionali. Era questa la vita che sognava da bambino, come vi è approdato?
Non sono stato io a scegliere, mio padre ha intrapreso quella strada per me. Lei ha mai visto Nuovo cinema paradiso di Tornatore? Io ero quel bambino, mio padre era proiezionista della Lux Film ed io ogni tanto andavo con lui. Avevo cinque, sette anni e vedevo sfilare queste immagini mute: nella cabina di proiezione non arriva il sonoro. Mio padre, proiettando quelle pellicole per tutta la sua vita, avrà giustamente sognato di prendere parte a quel mondo, ma lui non poteva più farlo, quindi ha spinto me a studiare fotografia e poi cinema. Un giorno torna a casa con un proiettore dismesso della Lux, ho ancora il ricordo vivido di me e mio fratello che dipingiamo di bianco una parete in giardino, per improvvisare uno schermo. Le scene sfocate e senza suono che sfilano, le emozioni che provammo tutti, quella serata è uno dei miei primi ricordi: Charlie Chaplin ed il suo Luci della città. Momenti indelebili, muti. Per me il cinema era il linguaggio delle immagini, e dovrebbe essere così ancora oggi. Col tempo, la composizione si è arricchita, dopo le immagini è arrivata la musica e poi la parola. Da bambino, vedevo solo fotogrammi senza suoni, negli anni ho capito che un film dev'essere un equilibrio tra immagini, musica e parole, quando questo equilibrio non è ben dosato si crea una stonatura nella composizione.

 

Nella pratica, come si raggiunge questo equilibrio?
È una continua ricerca, io non lo sapevo, da ragazzo. Lo avevo intuito studiando fotografia, all'istituto tecnico Duca d'Aosta, quando scoprii la meraviglia della camera oscura. Al termine dei cinque anni di Istituto, mio padre chiese all'Ing. Piero Portalupi, personaggio molto valido e preparato della cinematografia italiana, che lavorava spesso con la Lux, se poteva prendermi come assistente. La sua risposta fu negativa, a suo avviso, dovevo approfondire gli studi, iscrivendomi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Per me quel no fu fondamentale. A 16 anni tentai di iscrivermi al Centro Sperimentale, ma ero troppo giovane: “Torni quando avrà 18 anni”, fu la risposta. In quei due anni di attesa, la mattina studiavo ed il pomeriggio lavoravo in un laboratorio fotografico: lavavo i pavimenti, pulivo gli strumenti e mi guardavo intorno. Facevo teoria e pratica contemporaneamente, tenendomi sempre in allenamento. Finalmente, a 18 anni ero pronto per presentarmi di nuovo al Centro Sperimentale. Nel frattempo, però, era cambiato il regolamento: per iscriversi all'esame di ammissione bisognava aver compiuto 20 anni. Io non avevo più altre scuole da frequentare e avevo capito che se non mi fossi preparato bene, sarei rimasto nel laboratorio fotografico a ritoccare le immagini dei defunti. In Segreteria mi spiegarono, vedendomi così addolorato, che la commissione poteva farmi accedere al corso se avesse riconosciuto in me conoscenze sufficienti a passare l'esame, nonostante i limiti di età. Superai le prove e vinsi il concorso. Sono entrato al Centro Sperimentale di Cinematografia e da lì tutto è cominciato. Un sogno che inizialmente era di mio padre è diventato il mio.

 

Per Lei quindi il cinema è questa continua ricerca?
Il Professor Cimino, all'ultimo anno della scuola di fotografia, aveva stretto con noi studenti un rapporto confidenziale, e ci ripeteva spesso: “Cari professori, così ci chiamava, dimenticate di poter saper tutto nella vita! Cercate di capire dove stanno le cose e man mano che ne avete bisogno, andate a cercarle”. Il cinema per me è questo: per fare Il Conformista ho approfondito Platone, per Ultimo Tango a Parigi ho scoperto la pittura di Francis Bacon, per L'Ultimo Imperatore ho studiato la cultura cinese. Il cinema è aprire porte e scoprire cose. Maometto mi ha spinto ad una nuova ricerca: come rappresentare la divinità? Nell'unica maniera possibile, con la Luce. Nel cattolicesimo abbiamo delle rappresentazioni molto chiare: Giotto e tantissimi altri artisti hanno dipinto Gesù, Dio, la Madonna. Maometto non ha una fisionomia, dare un volto alla divinità è addirittura proibito tra i fedeli. Per noi il problema era creare un personaggio, rispetto all'attore che lo interpreta, una figura in cui ci si potesse identificare, giovane o vecchio, bello o brutto, maschio o femmina. La storia diventa interessante quando la sentiamo, quando c'è un'identificazione con gli interpreti: rendere possibile questa immedesimazione è una sfida molto complicata. Per quanto mi riguarda, questo studio, questo continuo viaggio, mi portano ad esplorare sempre nuovi orizzonti, ad ampliare il vocabolario visivo, che poi si utilizza per attribuirlo come metafora ad un personaggio, un' emozione, un luogo, una storia. Ogni colore è una singolarità, soltanto il bianco rappresenta l'unità. Nei primi anni, ho girato film come Il Conformista, Ultimo Tango a Parigi da completo ignorante, seguendo l'istinto che sul piano emozionale mi indicava una scelta stilistica piuttosto che un'altra, poi ho cominciato a studiare i colori, a dar loro un significato non solo emozionale ma anche scientifico e simbolico. Il cinema mi permette di rimanere un eterno studente.

 

Terminata l'intervista, Vittorio Storaro ti accompagna al cancello, sorridendo, dispensando fino all'ultimo pensieri e ricordi, condividendo aneddoti e ascoltando assorto quello che hai da dire, mentre ce la metti tutta per dissimulare un inconfondibile, reverenziale rispetto. Ed è così che, salutandolo, ti lasci coccolare dalla piacevole sensazione di aver trovato un amico disponibile, un Maestro di vita che senza falsa modestia, ha raggiunto la consapevolezza necessaria per essere sincero e rilassato.

 

(prima parte)

/magazine/atlante/cultura/Intervista_a_Vittorio_Storaro_I.html

Intervista a Vittorio Storaro. I

A scuola ci insegnano che scrivere è l'atto di “tracciare sulla carta o su altra superficie i grafici appartenenti a un dato sistema di scrittura...”. Col tempo, apprendiamo che attraverso questo tracciato di segni convenzionali, qualsiasi nostro moto interiore, nozione, emozione, attitudine, possono essere sviscerati, condivisi, esplorati. Da questa consapevolezza ne parte un'altra: scrivere non è soltanto l'atto di tenere in mano una matita, penna o gesso che siano, ma anche quello di esprimere noi stessi nella maniera che la nostra anima reputa più congeniale. Vittorio Storaro è un grande scrittore, la sua penna è la luce. Ultimo tango a Parigi, Il conformista, Reds, Novecento, La luna, L'ultimo imperatore, Il tè nel deserto, Apocalypse now sono solo alcune delle pellicole che, senza bisogno di presentazioni, vedono un unico comun denominatore: Storaro nel ruolo di “cinematografo”. Direttore della fotografia non è un termine col quale ama essere definito: “Di direttore sul set ce n'è solo uno, il regista.” Da questa frase possiamo solo intuire l'umiltà di un uomo che nella professione ha ottenuto i riconoscimenti più alti ma che, nonostante tutto, riesce a regalarti sguardi caldi e sinceri, raccontandosi per ore con la semplicità di chi nella vita ha trovato la sua strada e la percorre con grande dedizione e passione.

 

In questo momento è impegnato nelle riprese di un nuovo progetto?

Non sto girando, ma questo non significa che non stia lavorando. Spesso nella mia professione, per lavoro s’intende solo se fisicamente si sta operando sul set. Io invece sono sempre a lavoro, come sono sempre a riposo: questa è la bellezza di quando non c'è più distinzione tra personale e professionale, tra dovere e hobby, tra piacere e fatica, è un concetto che cerco di trasmettere a figli, nipoti ed assistenti. Quando si arriva a comprendere questo, è una grande felicità e allo stesso tempo un enorme peso: ogni progetto si trasforma in un viaggio personale con tutte le gioie e i dolori che esso può comportare. La professionalità non c'entra, è qualcosa di molto più profondo.

 

Qual è l'ultimo film al quale ha lavorato?

Ho finito di girare da qualche mese la prima parte di Maometto, una trilogia ideata dal governo iraniano e dal regista Majid Majidi che mi era stata offerta circa tre anni fa. Ricevuta la loro proposta, sono andato in Iran, ho approfondito la conoscenza con Majidi e ho incontrato la produzione, ci siamo parlati, confrontati e ho accettato l'incarico. Insieme abbiamo fatto un bellissimo viaggio lungo due anni: il primo di preparazione, il secondo di riprese. Adesso il mio compito è terminato, mentre loro hanno ancora davanti un anno di postproduzione. Non ho mai lavorato con tutti i registi, non si può collaborare con tutti gli autori. Ci sono dei magnetismi che mi attraggono e mi indicano che, nel bene o nel male, sto andando in una direzione, tutto ciò che trovo in quella direzione tento di seguirlo. A volte ho la fortuna di incrociare grandi personalità, altre volte figure mediocri, che cerco di lasciare presto. Un insegnamento che mi impegno a trasmettere a figli e nipoti, come anche agli allievi, è che alle cose bisogna andare incontro, quando si desiderano, le si ama veramente, certe esperienze possono più facilmente accadere. In tutto ciò che facciamo e pensiamo, mettiamo energia e certamente questa energia viene captata, dando forma al cammino che percorriamo. Maometto è uno di questi casi: ero ad Algeri a seguire un piccolo film, mi sentivo molto stanco e affaticato e avrei voluto sollevarmi dall'impegno, ma si trattava del progetto di una persona molto cara, Rachid Benhadj, e il tema era importante: la visione della donna nel mondo islamico (Parfums d'Alger). Durante le riprese in Algeria, mi ero portato come lettura un piccolo libro sulla vita di Maometto scritto da Maxime Rodinson. In Italia non veniamo assolutamente educati verso altre religioni che non siano il cristianesimo, io invece volevo saperne di più sull'islamismo. Una sera in albergo poso il libro appena finito di leggere sul tavolo, accendo il computer e trovo una mail in cui mi propongono un progetto sulla vita di Maometto. La lettura nella quale mi ero immerso, colpito dalle somiglianze tra la vita di Maometto e quella di Gesù, aveva fatto sì che, nella mia mente, germogliasse una certa visualizzazione della vita del Profeta e quei pensieri avevano trasmesso delle onde che qualcuno aveva captato. Quei piccoli segnali che qua e là mi si presentavano e che io avevo accolto erano tutti confluiti in quella mail che mi dava la possibilità di riversare nel lavoro un tema che negli ultimi tempi aveva attirato la mia attenzione. Quel progetto si è realizzato ed è stata un'esperienza molto bella e profonda. 

 

Apocalypse now è il film che ha rappresentato la chiave di volta della sua carriera: come è giunto ad un progetto del genere? Anche in quel caso ci fu un susseguirsi di coincidenze e pensieri che la spinsero in quella direzione?

Avevo terminato da poco Novecento, ed ero in contatto con Alejandro Jodorowski, che mi aveva proposto di partecipare alle riprese di Dune. Ho sempre amato la fantascienza e Dune era uno dei miei libri preferiti: è la storia della formazione di un Messia. Mi stupii della proposta, Jodorowski solitamente seguiva personalmente la cinematografia dei suoi film. Chiesi: “Perché io?” - “Perché in questo progetto ho bisogno di qualcuno che di luce ne sappia più di me” - fu la sua risposta. Nonostante il tema mi appassionasse molto, nei contatti che avevo avuto con Alejandro c'era sempre stata una certa freddezza, non mi sentivo a mio agio. Proprio in quei giorni incontrai il coproduttore di Francis Ford Coppola, Fred Roos, che, inviato dallo stesso Francis, mi propose di girare Apocalypse now. Ancora una volta domandai: “Perché io?”. Stavo seguendo un mio percorso psicologico, da Giordano Bruno al Conformista, venivo da una realtà prettamente europea e mi stavo approcciando a un nuovo film che aveva radici filosofiche profonde, Dune, appunto. Cosa c'entravo io, con una produzione americana, con un film di guerra ambientato in Vietnam? Coppola mi suggerì di leggere Cuore di tenebra di Joseph Conrad, il libro dal quale la sceneggiatura del film prendeva ispirazione, non c'entrava la guerra, si parlava di violenza, di civilizzazione: quella che l'uomo più forte impone a un altro uomo, quella che una cultura utilizza per prevaricare un'altra cultura. Lessi il libro, compresi ciò che Francis tentava di dirmi, affascinato dalla sua personalità, lasciai a malincuore il progetto di Dune e mi immersi nella sfida di Apocalypse now. Ma sopra ogni altra cosa, a farmi decidere fu la straordinaria umanità di Francis. Apocalypse è stata la grande svolta della mia vita, che mi ha portato alla vincita del mio primo Oscar. Dopo un riconoscimento del genere, segue sempre un lungo periodo di stanchezza, le emozioni che si provano in quei momenti possono far bene come anche molto male, per qualcuno, preso dall'idolo del successo, ha significato anche la rovina. A distanza di qualche anno sono arrivati gli Oscar per Reds e L'ultimo imperatore, e ogni volta è stata un'emozione fortissima e unica, ognuno di quei film ha rappresentato qualcosa di diverso per me, la mia vita e la mia carriera. L'Oscar ricevuto per L'ultimo imperatore ha suggellato il connubio eccezionale e l'affetto che mi legano a Bernardo Bertolucci. Tornando ad Apocalypse now, non mi aspettavo assolutamente di vincere, mi sentivo troppo giovane, vedevo quel riconoscimento come un Premio alla carriera, mi sbagliavo. Nel mio intimo, anelavo in realtà a un ex aequo con il mio caro amico e bravissimo collega, Giuseppe Rotunno, in lizza per la cinematografia di All that jazz. Quando fecero il mio nome, io non capii, fu mia moglie letteralmente a “buttarmi” fuori dalle file. Non avevo neanche preparato un discorso, ma espressi l'unico pensiero che per me aveva importanza: la mia gratitudine nei confronti di Coppola. Ringraziai Francis per la fiducia illimitata e la grande libertà che mi aveva lasciato durante la lavorazione del film, libertà assoluta di esprimermi. Dopo Apocalypse now, ricordo che sono stato fermo un anno. Per lo più rimanevo in casa, non guidavo, non parlavo quasi. Giravo con un pigiama vietnamita nero e bianco che mi aveva regalato Francis, mi portava fuori mia moglie. Per me è stato uno shock totale, lo scarico psicologico e mentale che c'è dopo un progetto del genere non è raccontabile: da un'esperienza così forte non si torna a casa semplicemente scendendo dall'aereo. Fu il desiderio di conoscere, di tornare ancora studente a salvarmi. Lo studio fatto su tanti libri alla ricerca dei significati simbolici, fisiologici dei colori, mi aiutò nella crescita creativa e umana. Il mio fermo quindi non fu solo una stasi, ma una necessità di conoscere ancora più a fondo il significato della luce e dei suoi componenti: i colori.

E con il film Maometto è ancora peggio...

 

Ci troviamo nel suo studio. Durante la breve pausa che ci concediamo per bere un bicchiere d'acqua, mi alzo e ne approfitto per chiedere timidamente di sfogliare un volume che ha colpito la mia attenzione dal primo istante: il copione di Apocalypse now. Lo sfilo delicatamente dalla libreria, ne accarezzo la copertina, lo apro, leggo le note del regista, gli appunti indirizzati a Marlon Brando, le cancellature: è un testo apparentemente leggero, ma l'energia che emana è inspiegabile. In quelle righe scorre la storia del cinema, e tu non puoi far altro che prenderne atto, maneggiandolo con rispetto e amore.

 

(seconda parte)

/magazine/atlante/cultura/Il_set_della_porta_accanto.html

Il set della porta accanto

"Peppe er Carzolaro" era il ciabattino del mio quartiere, uno di quei personaggi che, nella memoria paesana collettiva, nascono già con i capelli bianchi, hanno pochi denti ma tanta voglia di sorridere e, a prescindere dalla maestria nello svolgere il proprio mestiere, sono rispettati e benvoluti da tutti. Un giorno, Peppe aprì la porta della sua bottega e notò un'insolita confusione, nel borgo di Ostia Antica era arrivata una troupe cinematografica, tante persone, molto clamore e delle videocamere, che al nostro eroe, sinceramente, non suscitarono molta curiosità. Era l'aprile del 1989, a dirigere quella troupe c'era Meiert Avis, i committenti erano gli U2 e quel semplice calzolaio, affacciandosi una volta di troppo dall'uscio di casa, andò a finire nel video di “All I want is you”.
Sono passati quasi 25 anni, Peppe non c'è più, ma è sicuramente entrato a far parte dell'immaginaria “Walk of fame” del paesino.
Il baraccone dello “show business” viaggia, a volte approdando in posti tanto belli quanto sconosciuti, portando scompiglio, lasciando qua e là briciole della celebrità che si trascina dietro, disseminando bei ricordi a molti, possibilità di business a qualcuno, oppure, semplicemente, aneddoti da poter raccontare con orgoglio.
Grazie proprio ad una di queste fortuite coincidenze, la vita di Maria D'Arrigo, proprietaria del “bar Vitelli” a Savoca, nel 1971 subì un cambiamento fondamentale. In quell'anno, Francis Ford Coppola scelse proprio questo piccolo borgo dalla bellezza prorompente in provincia di Messina, per girare diverse scene de “Il Padrino II”. Al Pacino, lo stesso Coppola, durante quel breve lasso di tempo, divennero affezionati frequentatori di quel locale che appare anche nella pellicola (http://www.youtube.com/watch?v=AFkIq10hpPw) e non dimenticarono mai la proprietaria, una signora dall'ospitalità sincera, schietta, tipicamente siciliana. Per un lungo periodo, Maria ricevette regali e pensieri affettuosi dai suoi amici americani, divenne una celebrità all'interno della propria comunità e quel bar, a distanza di oltre 40 anni, è luogo di pellegrinaggio per appassionati cinefili.
Nel 2002, Matera si trovò al centro di uno sconvolgimento ancora maggiore di quanto potesse aver vissuto Savoca molto tempo prima. Mel Gibson decide di ambientare la sua “Passione di Cristo” in Italia, e per la precisione, di girare le scene di esterni in Basilicata e Puglia. Regista, attori, produzione, centinaia di comparse prendono d'assalto Matera, location principale, che non è certo abituata a tanto clamore e all'atmosfera blindata di un business miliardario. Improvvisamente, il cineasta australiano diventa di casa, si aggira per le strade del capoluogo lucano disquisendo di religione col parroco locale, esce dall'albergo che lo ospita in pantofole, sorridendo gioviale a chiunque incontri. Finiscono le riprese, protrattesi per più di un anno, la pellicola esce nelle sale e solleva diversi argomenti di discussione. A Matera nel frattempo sembrava ristabilita la calma, e invece, orde di curiosi, giornalisti, appassionati cinefili, fedeli, si riversano in quei luoghi, per carpire segreti e aneddoti, o anche soltanto per camminare laddove ha preso forma un'opera tanto controversa. Confusione? Probabilmente, ma anche fermento, ribalta, attenzione per luoghi bellissimi ma troppo spesso dimenticati.
Se Mel Gibson era diventata una presenza fissa tra i sassi di Matera, altrettanto non si può dire per Russel Crowe, protagonista dell'indimenticabile “Il Gladiatore”, la cui troupe, composta da oltre 200 persone, approdò rumorosamente tra Pienza e dintorni quali Poggio Manzuoli e Terrapille, per girare due scene di questo indimenticabile Kolossal vincitore di 5 premi Oscar. Il rogo della casa del tanto amato condottiero romano ed il finale memorabile, quando proprio Massimo passeggia per i Campi Elisi, accarezzando spighe di grano e avviandosi verso il tanto sospirato ricongiungimento con la moglie ed il figlio (http://www.youtube.com/watch?hl=it&gl=IT&client=mv-google&v=72uwmHsFSAg&nomobile=1), sono state girate proprio sulle colline della Val D'Orcia. Rappresentazioni assolutamente coinvolgenti, che rimangono indelebili nella memoria per la poesia dei colori, la bellezza dei paesaggi, la profondità del contenuto. Impensabile quindi convincersi che Russel Crowe-Massimo Decimo Meridio, non abbia mai camminato per quei campi, ma sia stato sostituito da una controfigura.
Ma questo è il grande potere del cinema, quello di dare corpo ai sogni, costruendo realtà dietro ad invenzione e fantasia. Quando le emozioni che regala sono così grandi, poco importa cosa sia accaduto dietro la macchina da presa.

/magazine/atlante/cultura/Il_film_che_visse_due_volte.html

Il film che visse due volte

Le cose ripetute aiutano, o stufano? Il “remake” stuzzica la nostra fantasia oppure semplicemente ci annoia? Una buona regola per abbandonare eventuali pregiudizi sarebbe quella di considerare che anche il rifacimento più bieco e deludente offre, all'osservatore attento, innumerevoli spunti di riflessione: “Non avevo proprio niente di meglio da fare, stasera?”. Ebbene sì, capita anche questo ma, non gettiamo le armi, ogni domanda è lecita ed ogni risposta è ragionamento, vita. Detto questo, l'unica cosa che ci rimane da fare per dare corpo all'assioma è spegnere le luci, accendere i ricordi e far parlare loro, le immagini.
Mancano un paio di minuti alla fine dei 109 che hai trascorso davanti allo schermo.
Nei 107 che sono già passati, hai respirato l'odore di detersivo stantio che rende asettici i motel, provato tenerezza per un ragazzo timido, vittima di una madre possessiva e psicopatica, ti sei irrigidito sulla poltrona nei 22 interminabili secondi di accoltellamento e sangue, hai imparato a goderti quei rari momenti di silenzio, intervallati dalla musica delirante che puntualmente preannunciava nuovo sangue e tensione nuda.
Infine, ti sei rammaricato, alla scoperta che dietro ad un volto così angelico ed inoffensivo, si celasse un efferato pazzo assassino ma, ora, ti accendi una sigaretta, sorseggi una bibita, scambi una battuta simpatica, abbassi le spalle, sei rilassato. Norman è in una cella, bofonchia frasi sciocche con la voce della madre, non può più nuocere, finalmente. Poi, Norman alza lo sguardo, cerca e trova i tuoi occhi e, improvvisamente, sorride, non all'obiettivo, quel sogghigno è rivolto proprio a te al di là dello schermo, e allora, un nuovo brivido ti scorre lungo la schiena, l'ultimo, quello che non ti abbandona. Nessuno è al sicuro, mai. The end. “Psycho”, 1960.
Arriviamo al 1998, il talentuoso Gus Van Sant si cimenta in un rifacimento del classico di Hitchcock.
E allora tu, che a distanza di anni hai ancora impressi nella memoria quel sogghigno feroce e il brivido derivante... ti chiedi, ingenuamente: “Perché?”.
Perché non investire 60.000.000 di dollari in un progetto nuovo, piuttosto che incaponirsi nella fantasia di copiare ed in qualche modo migliorare, qualcosa che nel suo genere aveva già raggiunto la perfezione?
Sono passati quasi 40 anni, l'emancipazione sessuale permette al cineasta di sostituire le allusioni ad immagini più spinte, la violenza si fa decisamene più esplicita. L'intento principale rimane comunque quello di attenersi fedelmente alla versione originale. E in effetti, Gus Van Sant dirige un film che pedissequamente segue trama e montaggio, dialoghi ed inquadrature dello “Psycho” firmato Hitchcock. 
Vince Vaughn desidera, con ogni neurone del suo essere interprete, calarsi nel personaggio, incarnare il male che si dipinge ingenuità, ma non si chiama Anthony Perkins e per questo, non sarà mai Norman Bates. Frustrazioni da attore.
La pellicola, con un incasso poco superiore a 37.000.000 $, è nella lista dei film con maggiori perdite della storia del cinema.(http://it.wikipedia.org/wiki/Film_con_maggiori_perdite_nella_storia_del_cinema)
Nel 1968, la produzione del primo Psycho, aveva investito 800,000 $, incassandone circa 50 milioni.
Gioie e dolori del remake, questo conosciuto. Lo stesso Hitchcock si era appassionato al tema del rifacimento e nel 1934 e poi nel '56 diresse il medesimo film: “L'uomo che sapeva troppo”. A questo punto, potrebbe sorgere altrettanto spontaneamente ed ingenuamente l'ennesimo: “Perché?”. Ma questa volta, a chi si fa troppe domande, la risposta giungerebbe direttamente dal protagonista della cinematografica diatriba: “La prima versione è stata fatta da un dilettante di talento, mentre la seconda da un professionista”. (http://it.wikipedia.org/wiki/L'uomo_che_sapeva_troppo_(film_1956)) E così, lo stesso Hitchcock zittisce tutti, non soltanto con frasi d'effetto, che si sa a Hollywood sono di casa, ma con argomentazioni che non lasciano dubbi: “L'uomo che sapeva troppo” versione 1956, è veramente più completo, una nuova interpretazione che rispecchia 18 anni di maturazione artistica.
L'esempio di questo maestro è solo uno dei tanti, molti altri suoi colleghi si sono cimentati in operazioni di rifacimento, come sempre, con esiti più o meno riusciti, ma cinema è arte, e arte è libertà di espressione, fortunatamente. George Sluizer nasce a Parigi nel 1932, da famiglia olandese, profondamente europeo, da adulto diventa regista. Nel 1988 dirige “Spoorloos - Il mistero della donna scomparsa”, un lungometraggio dalla trama essenziale, cruda, nessun “happy ending”. Un noir europeo, appunto.
Qualcuno dell'establishment si rende conto che il film, opportunamente riadattato, ha le potenzialità per piacere in America e così nel 1992 lo stesso Sluizer, firma “The Vanishing”.
A parte la maggiore risonanza degli attori della nuova edizione, ed un taglio decisamente più statunitense, il film sembra rimanere fedele all'originale, e quel “perché?” ricomincia a serpeggiare nella tua testa. Ma, anche qui, quando ormai la soglia di attenzione è calata e sei in attesa dei titoli di coda, al finale che pensavi di conoscere già, vengono aggiunti due minuti fondamentali, che sconvolgono l'essenza stessa del film.
Il lieto fine, che mai delude il pubblico delle major, è sempre in agguato.
La lista degli “accanimenti terapeutico-cinematografici” o che dir si voglia “remakes” è lunga, ma cerchiamo di focalizzarci sull'obiettivo: non cadiamo nella scontatezza dell'accezione negativa, continuiamo a domandarci, a riflettere. Quanti di noi ricordano “Infernal Affairs”, di Andrew Lau e Alan Mak? http://it.wikipedia.org/wiki/Infernal_Affairs_(film) Forse, “The departed” ci suona più familiare, e non solo perché questo remake del 2006 si è guadagnato 4 premi Oscar. Più probabilmente ce lo ricordiamo bene perché tutti quei prestigiosi riconoscimenti, se li è meritati. Sì, la versione del 2006 rimane nel nostro cuore di fedeli cinefili, perché è migliore della già ottima pellicola cinese girata quattro anni prima. Quando regia, personaggi, montaggio, fotografia, dialoghi, si incastrano creando un'alchimia equilibrata di emozioni, quelle emozioni le facciamo nostre, e non le dimentichiamo più, l'unica cosa che appare trascurabile, a quel punto, è l'originalità o meno del tema.
Infine, torniamo a noi, veri appassionati del cinema, che, visione dopo visione, abbiamo finalmente appurato fino a che punto anche la pellicola più insignificante, il remake meno riuscito, possano regalarci rivelazioni tanto inaspettate quanto preziose. In moltissimi abbiamo amato nel 1997 “Apri gli occhi” di  Alejandro Amenábar, un numero decisamente inferiore ha apprezzato nel 2001 “Vanilla Sky” diretto da Cameron Crowe. Ma, a questo punto, memori della lezione appena assimilata, siamo pronti a spezzare una lancia anche in favore del lungometraggio di Cameron Crowe. Ultima scena: -Tom Cruise: “Io sono ibernato e tu sei morta. E ti amo!” - Penelope Cruz: “È un problema?”
http://www.youtube.com/watch?v=5C0kZLQ9D3Q
Amore, allo stato puro. Ma questa, è un'altra storia...

/magazine/atlante/cultura/Ehi_James_dici_a_me.html

“Ehi, James, dici a me?”

James Lipton, classe 1926, è stato attore, autore e personaggio di spicco di alcune tra le maggiori soap opera americane: Sentieri, Destini, Capitol, Ai confini della notte. No, non cambiate pagina, continuate a leggere! Perché forse non tutti i teleromanzi vengono per nuocere. Diamo una possibilità al nostro James, ascoltiamo la sua storia e, poi, semmai, storciamo il naso. Eravamo rimasti ai confini di notti buie ed intricate, a Jim che si barcamenava tra sceneggiature e comparsate, ma c'è un altro lato della medaglia, quello che vede il nostro eroe studiare per oltre un decennio arti sceniche a New York, formarsi all'ombra della più grande insegnante di recitazione di tutti i tempi (“americanamente” parlando...), Stella Adler e, in silenzio, progettare altro. Dal 1926 al 1994 il salto è lungo e tempestato di rocambolesche esperienze, drammaturgia, canti, balli, libri, e sempre meno “soap”. Finalmente, il tempo è maturo, il nostro Jimmy, ormai più corpulento e stempiato, può tenere a battesimo la sua creatura: l'Actors Studio Drama School, e contemporaneamente inaugurare un programma che, alla soglia dei vent'anni, è entrato in 89 milioni di case di 125 differenti nazioni. Siamo passati dalle soap opera ad un talk show il cui format è abbastanza semplice, apparentemente scontato e noioso: un palco, due sedie, una platea chiassosa, un conduttore, un ospite e ore di domande. Cerchiamo di aggiungere un po' di colore ad un quadro sbiadito: l'arredamento rimane, ma in platea ecco fare capolino gli studenti dell'Actors Studio, tra le quinte avanzare James Lipton da una parte, e dall'altra a turno Arthur Miller, Paul Newman, Sean Penn, Sidney Pollack, Jodie Foster, Martin Scorsese, Vanessa Redgrave ed altri duecento “compagnoni”, pronti a calare la maschera in un confronto che imbarazza, diverte, commuove, stimola.

Inside the Actor's Studio” è un programma visto e rivisto, unico ed avvincente, un seminario di approfondimento rivolto a chi studia ed ama il cinema, nel quale Lipton intrattiene, coccola, stuzzica. Sempre preciso ed attento, il nostro anfitrione studia per settimane ogni singola biografia, ed allora ecco che, quando chiede a Robert De Niro il nome della strada newyorkese in cui è cresciuto e lui non ricorda, Jim gli corre in aiuto: “200, Bleecker Street”.

Ma a parte le note bibliografiche, gli aneddoti privati e le risposte non sempre originali, col passare dei minuti quello che affascina di più è il dipanarsi delle personalità degli intervistati, la gestualità, il linguaggio inconsapevole del corpo, le reazioni via via più istintive che ci aiutano a comprendere molto meglio rispetto alle stereotipate confessioni che professionisti di quel calibro ripetono da anni. Kevin Spacey, con le sue battute intelligenti, le allusioni, gli atteggiamenti plateali, ammalia e destabilizza, ed è li, fuori del set e dismessi gli abiti di scena, che ritroviamo comunque la dialettica spiazzante, lo sguardo acuto ed inespugnabile di un Verbal Kint che innocentemente racconta una falsa verità, di un Keyser Söze che manipola e “come niente, sparisce!” (http://www.youtube.com/watch?v=fUahe0eGZkw). Potremmo abbassare l'audio, sentiremmo comunque note affilate che corrono lungo la schiena e attanagliano dietro un'occhiata sfuggente. Meryl Streep si siede, agita le mani, si tocca i capelli, allunga le gambe, arrossisce come una debuttante, e in quella semplicità, sorridi e provi tenerezza per una signora che mai avresti immaginato così banalmente normale ed inimitabile. Come anche Clint Eastwood che laconico sghignazza, ti racconta del debutto, si imbarazza, guarda altrove e finge di non rammentare quanto pesava alla nascita (5,200 Kg), ricorda i tempi di Per un pugno di dollari, e ridendo ammette che gli inseparabili sigari li aveva acquistati lui, una stecca a Beverly Hills, e di come ogni sigaro fosse stato diligentemente suddiviso in tre mozziconi, affinché durassero per tutte le riprese (http://www.youtube.com/watch?v=XFZcUHzV1fM ). Robert De Niro, serioso e sulle sue, comincia a sorridere solo a metà intervista, si emoziona parlando di “Bronx” e del padre, timidamente tace e cambia discorso. Un inaspettatamente fragile Bob che si rifiuta di pronunciare quattro parole che hanno fatto la sua storia: “Ma dici a me!?”, e racconta di come quella parte del copione di Taxi driver indicasse soltanto: “Travis si guarda allo specchio”. A fronte di un dialogo inesistente, il genio improvvisa (http://www.youtube.com/watch?v=r6hp5g9Cx2Q). James Gandolfini (da poco scomparso proprio in Italia), grande uomo incurvato su una sedia troppo stretta, confessa che in casa con la moglie parla italiano, quando si trattano argomenti che i figli non devono comprendere, e alla domanda che Lipton porge a tutti i suoi ospiti: “Se dovessi trovarti alle porte del Paradiso, cosa vorresti che Dio ti dicesse?”, candidamente risponde: “Occupatene tu, io torno subito!”.