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Francesca D'Ulisse

Francesca D’Ulisse è la Responsabile per l’America latina del Partito Democratico. Laureata in Scienze Politiche con una tesi sul debito dei Paesi in via di sviluppo, a partire dal 2005 ha seguito, come Responsabile di area prima per i Democratici di Sinistra e poi per il PD, i processi politici e gli appuntamenti elettorali del continente latinoamericano. Durante il Governo Prodi2 è stata tra i consiglieri politici del Sottosegretario agli esteri con la delega per l’America latina, Donato Di Santo, con cui ha il privilegio di continuare a condividere spunti, idee e riflessioni su un continente in costante trasformazione.

Pubblicazioni
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L'uomo che provoca il nord del mondo

Lo hanno scovato nell’altro mondo, in America latina. Lo hanno voluto e votato i cardinali del sud del pianeta ma ha dimostrato subito di voler provocare la politica e i politici del nord. È questo papa Francesco, il primo papa globale - come l’hanno definito - ma anche il primo papa che parla come un “no global”. Rigido e intransigente sui temi eticamente sensibili e sui diritti civili come solo un gesuita sa essere, rivoluzionario nello stile e nella forma della chiesa come solo un francescano sa fare, no global come solo un critico severo della globalizzazione neoliberista sa immaginare. Con in più coraggio, passione e visione.

È sceso in Brasile e in America latina a sfidare i pentecostali sul loro stesso terreno: grandi folle, luci, canti e balli, folklore e coinvolgimento collettivo e un messaggio politico chiaro e molto moderno che, partendo dalle spiagge e dalle favelas di Rio de Janeiro, ha come destinatari privilegiati i governi del nord del pianeta, nessuno escluso o esentato da una riflessione che chiama in causa le radici profonde di un governo del mondo che ha provocato squilibri, disuguaglianze e crisi sistemiche. Le parole allora pesano come macigni e sono dosate sapientemente per smascherare l’incapacità della classe politica di comprendere appieno la complessità del reale.

E allora cominciamo proprio dalle parole. “Nessuno può rimanere insensibile alle disuguaglianze che ci sono ancora nel mondo”. Torna qui il tema dell’indifferenza – spesso menzionata nell’angelus domenicale – di una società malata di individualismo ma torna soprattutto il tema politico di una classe dirigente che rimane inerte di fronte alle disuguaglianze sociali. È un’esclusione sociale che ha forme e declinazioni diverse nei differenti angoli del pianeta: è una esclusione dal mondo del lavoro dei giovani dei paesi a capitalismo avanzato ed è un’esclusione dei loro omologhi da una istruzione di qualità, laica e gratuita nei paesi in via di sviluppo. È una esclusione dei ricchi verso gli “scarti” – termine usato proprio da Bergoglio – i tanti che vivono negli slums dell’Asia, nelle favelas brasiliane, nelle villas miserias del resto dell’America latina e nelle periferie dormitorio delle città metropolitane dell’Europa. È, infine, un’umanità esclusa perché nessuno vuole vederla e crea problemi perché imporrebbe una riflessione sul modello di sviluppo finora predominante che ha reso i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e esclusi. Se la classe dirigente decidesse, al contrario, di guardarsi intorno, di uscire da sé constaterebbe che quella che stiamo vivendo “non è un’epoca di cambiamento ma un cambiamento di epoca” – parole di papa Francesco.

Se davvero abbiamo di fronte un cambiamento di epoca, se davvero abbiamo capito che tutto questo è stato conseguenza di una “globalizzazione spesso selvaggia e implacabile” allora è necessario immaginare uno spartiacque politico tra il prima e il dopo e costruire uno spazio diverso e ambizioso di riflessione e di azione politica. Che l’Economist scopra solo nel 2013 che la lotta contro le disuguaglianze produca sviluppo economico e che una società più equa e inclusiva sia un volano non solo di sviluppo umano ma persino di crescita economica è una notizia solo per il ritardo con cui questa riflessione è stata maturata. Ma si sa ormai che la ubris dei teorici della crescita illimitata delle economie lasciate al libero mercato senza vincoli e i controlli imposti dagli stati, ha faticato non poco ad ammettere la fallacia delle proprie previsioni, in questo sostenuti, ahinoi, da una parte non esigua dei liberisti di sinistra e dei seguaci senza se e senza ma della terza via e delle sue figliazioni più o meno autorizzate.

E veniamo al secondo messaggio politico da Rio, il futuro da costruire “esige una visione umanistica dell’economia”. L’uomo è il centro e il motore della Storia e deve tornare a essere l’asse da cui parte la riflessione politica e l’elaborazione di policies. Si tratta di una rivoluzione copernicana non recente ma della quale non abbiamo ancora compreso appieno la portata e  le conseguenze ma che è centrale nel disegnare proprio quel modello di sviluppo “nuovo”, fondato su un diverso paradigma che è la vera sfida del nostro tempo. E arriviamo all’ultimo messaggio politico: il futuro esige” una politica che realizzi di più e meglio la partecipazione della gente”; in questo senso, papa Francesco ritiene che nel tempo presente il dialogo costruttivo deve porsi come opzione sempre possibile “tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta”. Una politica, quella immaginata dal papa, che “eviti gli elitarismi e sradichi la povertà”. La politica eviti, quindi, di costruirsi torri d’avorio in cui rimanere chiusa per paura del fantasma della gente, torni alla sua vocazione originaria, in mezzo alle persone per ascoltare i loro bisogno e risolverli. La politica deve rifuggire dalla tentazione dell’elitarismo. E qui c’è un concetto molto interessante perché fa intravedere una differenza tra politica/governo e élite/potere. La politica per definizione deve essere aperta, attenta agli altri, è movimento e trasformazione della società, vive del rapporto con l’altro perché ne trae spunti per trovare poi una sintesi. L’élite è, al contrario, autoreferenziale, statica, chiusa, prigioniera delle proprie regole e non disponibile a cedere quote di privilegio per lo sviluppo generale pur di garantire la propria innaturale sopravvivenza. Se la politica si trasforma in elitarismo e i politici in élite viene meno la propria funzione storica e il risultato è che il sistema blocca qualsiasi ascensore sociale e ogni processo di inclusione e di sviluppo. Sembra ovvio, eppure abbiamo lasciato che le cose prendessero il sopravvento e la crisi delle economie a capitalismo avanzato ha solo scoperto il vaso di pandora, era già tutto lì. Bastava solo volersene occupare.

A questo punto, unicuique suum, per la cupola del mondo sarà difficile rimanere ancora una volta indifferente o insensibile.

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Gender gap, numeri che contano

Dopo la sbornia di statistiche diffuse in occasione della giornata internazionale delle donne che fanno strage dei tanti presunti passi avanti compiuti in materia di gender equality, è ancora una volta la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina (Cepal) a dare i numeri sulle donne del continente. Una serie di infografiche e di dossiers pubblicati per l’8 marzo presenta un quadro di luci ed ombre perché se è vero che 5 donne guidano altrettanti Paesi latinoamericani (Brasile,Argentina, Cile, Giamaica, Trinidad e Tobago), il continente non è certo un paradiso “women friendly”.

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Tsunami michelle

Aveva chiesto ai cileni un mandato forte, chiaro e inequivocabile per tornare al palazzo della Moneda e chiudere al primo turno la partita elettorale. Così non è stato per Michelle Bachelet, forse perché di voto utile qui non si parla. Forse perché non si è calcolato bene il peso di un voto per le presidenziali per la prima volta volontario (ha votato un cileno su due, dei 13 milioni di aventi diritto poco più di 6milioni e mezzo). Forse perché contro 8 candidati di cui 7 di sinistra era davvero un’impresa impropria. Forse perché, ancora una volta come nel 2005, il discolo Marco Enríquez-Ominami, cresciuto a pane e Concertazione, ha impedito il trionfo al primo turno a una coalizione in cui i suoi elettori in parte si riconoscono. Adesso serve a poco pensare ai tanti perché. Si deve ripartire subito, lo dice la stessa candidata nella notte del risultato beffardo: “godiamoci la vittoria di stanotte e cominciamo a lavorare per il trionfo di dicembre”. È questo l’ordine. Teme, non a torto, che il contraccolpo del verdetto delle urne demotivi il cerchio magico – il “comando de la campaña” – mentre è necessario sfruttare l’entusiasmo di un buon risultato di partenza lavorando pancia a terra per portare ai seggi i tanti che ancora sono delusi dalla vecchia Concertazione o che hanno già deciso che il 15 dicembre resteranno a casa. A ben guardare, infatti, la Bachelet ha ottenuto solo un piccolo margine di voto in più rispetto al primo turno del 2005 e, a parti inverse, tutti ricordano che Eduardo Frei aveva il 29, 60% al primo turno contro Sebastian Piñera nel 2009 ma chiuse al ballottaggio con il più del 48%. In altri termini, un recupero in extremis della Matthei è sempre possibile e non bisogna abbassare la guardia.

Che, in ogni caso, lo “tsunami” Bachelet abbia colpito il Cile è un dato evidente nelle elezioni che sono state da tutti trascurate, quelle legislative. Il Congresso che la Presidenta – comunque vada sarà una donna – si troverà di fronte è molto diverso dalla precedente legislatura. Innanzi tutto il risultato di Nueva Mayoria è di rilievo: alla Camera la coalizione di centro-sinistra ha adesso 68 deputati, 10 in più che nella precedente legislatura, mentre Alianza ne ha 49. Al Senato finisce 21, con un senatore in più della legislatura conclusa, contro 16, più un indipendente. Questi numeri significano che se Bachelet fosse eletta il prossimo 15 dicembre avrà il quorum necessario per approvare le leggi che richiedono la maggioranza semplice e quella qualificata (anche la riforma elettorale binominale, quindi) ma non quelle costituzionali e di riforma costituzionale. In altre parole, per porre in essere il programma ambizioso e avanzato del centro-sinistra si dovrà lavorare molto a livello parlamentare nel costruire geometrie variabili su singoli provvedimenti chiave. Cambia anche il profilo dei congressisti eletti: entrano molti giovani e qualche “dinosauro” perde un seggio dato per acquisito – vedi Camilo Escalona del Partito Socialista o Soledad Alvear, storica leader della Democrazia Cristiana. Entrano, infatti, in Parlamento tutti i leader studenteschi della primavera cilena: da Vallejo a Jackson e Boric. Adesso dovranno dimostrare che oltre la protesta c’è anche la proposta e la capacità di farla passare a livello istituzionale. Si tratta, va detto, di nomi molto interessanti che si cimentano per la prima volta in un momento in cui la Bachelet ha chiesto al Paese un voto per riforme strutturali e di trasformazione radicale del modello. Forse, domenica, è davvero cominciata una nuova era per il Cile. Adesso va fatto l’ultimo sforzo per dare corpo e sostanza a uno dei programmi più ambiziosi e avanzati che un leader latinoamericano abbia immaginato e disegnato per il suo paese. “Cambiamento con governabilità”: l’ha gridato forte dal palco, Michelle, nella notte di domenica ed è un grido che, da oggi, percorrerà di nuovo il Cile dai deserti del nord alla Patagonia antartica.

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Quanto vale un chilo di coca?

Quanto vale un chilo di coca? Se lo chiedete a un esperto vi risponderà che dipende dalla fase di mercato che si attraversa, dalla domanda e dall’offerta o dalla disponibilità del momento. Se vorrà scendere nei dettagli vi dirà che da un chilo di coca se ne ricavano, “molto tagliata”, quattro chili e mezzo che venduta a 50 euro il grammo equivalgono a 225mila euro. Se però il senso della vostra domanda non riguardasse il costo economico di un chilo di merce ma il suo valore in termini di costi umani e sociali, la risposta sarebbe più complessa e articolata. Lo stesso esperto vi spiegherà che, per capire davvero cosa c’è dietro il business della cocaina, non è sufficiente analizzare i suoi effetti in Europa o negli Stati uniti ma bisogna attraversare l’Atlantico, atterrare in Messico e verificare lì le cifre. Ed ecco pronte le risposte.

In Messico, il commercio di cocaina vale 136mila morti ammazzati negli ultimi 6 anni (dal 2006 al 2012, l’era del Presidente Felipe Calderón e della sua “guerra” al narcotraffico), che significano 53 morti al giorno, 1620 al mese, 19.422 all’anno. Tra questi, 116mila sono legati direttamente al narcotraffico mentre i restanti alla delinquenza comune. Non è tutto. Il nostro sballo a buon mercato costa alla società messicana 6000 desaparecidos, persone scomparse nel nulla, che sono tali solo per la Commissione nazionale per i diritti umani. Nessuna autorità vuole riconoscere ufficialmente questo dato perché, giacendo sepolti nelle fosse comuni, semplicemente non esistono.

 

Il “lavoro” dei cartelli

Fanno parte dei costi umani e sociali del narcotraffico anche i 30mila minori che “lavorano” per i cartelli - stime ufficiose parlano però di 35 mila solo al servizio dei Los Zetas e di 18mila che “appartengono” al cartello di Sinaloa. Vittime collaterali sono poi i 56 giornalisti assassinati dal 2006 al 2012 nello svolgimento del loro lavoro, puniti per aver fatto le domande giuste alle persone sbagliate. E le 447 donne orribilmente violate, mutilate e squartate a Ciudad Juárez, 447 delitti irrisolti di cui si è smesso di parlare perché nella sola Juárez si sono contati 11mila morti negli ultimi sette anni e una donna in più o in meno non fa certo la differenza in questo deserto rosso sangue. La polvere bianca vale 784 “municipi” in cui lo Stato non governa perché chi “amministra” sono i cartelli della droga. Con innegabile successo, va detto. Sono ben 22 le attività illecite di cui questi nuovi padroni della “tigre azteca” sono direttamente coinvolti. I proventi del narcotraffico, infatti, circa 14 miliardi di dollari l’anno, sono poca cosa: pesano per il 30% o poco più del fatturato totale. Il resto, la parte sostanziosa, include prostituzione, tratta di esseri umani, pornografia e pedofilia, traffico di organi, gioco d’azzardo, contrabbando di merce contraffatta, racket delle estorsioni e tanto altro.

La polvere bianca costa, in estrema sintesi, una condizione di perenne guerra tra Stato e criminalità organizzata. Una guerra combattuta a suon di AK47, lanciarazzi, lanciagranate, sottomarini e caccia, persa forse già in partenza e che dagli stati di frontiera tra Messico e Stati uniti attraversa ormai tutto il paese, dalla frontiera nord, appunto, a quella sud con il Centro America. Una guerra con il governo centrale, ovvio, ma anche tra gli stessi cartelli per la supremazia e il controllo delle proprie zone e la conquista di nuovi spazi, nuovi territori in cui insediare la “mafiocrazia”, il potere delle mafie. In totale, si contano 12 cartelli della droga, di cui tre – Sinaloa, Golfo e Los Zetas – sono ormai vere e proprie multinazionali del crimine. Lavorano senza confini e la loro minaccia alla “sicurezza globale” riguarda 56 paesi del globo, Italia inclusa.

Ecco, un esperto vi direbbe tutto questo alla domanda sui costi politici, economici e sociali del commercio di cocaina.

 

Torna il PRI al governo

Con la nuova presidenza di Enrique Peña Nieto il Messico parrebbe deciso a voltar pagina e a abbandonare quella guerra al narcotraffico che non solo non ha portato risultati tangibili ma al contrario – come ha ammesso lo stesso neo Presidente – ha “moltiplicato i cartelli, il dolore e il sangue nel paese”. È troppo presto per dire se il nuovo corso avrà successo e il Messico cesserà di essere il Paese in cui il detto più comune è diventato: “Sapete cos’è il Messico? è uno stato federale composto da 21 stati, un distretto con la capitale e 12 cartelli della droga”.

L’impegno dei tre maggiori partiti politici (il PRI, Partido Revolucionario Institucional, il PRD, Partito de la Revolución Democrática, e il PAN, Partido de Acción Nacional) nel superare le aspre conflittualità che hanno caratterizzato il passato e collaborare per una stagione di riforme - sancito formalmente dalla firma del Pacto por México dello scorso 2 dicembre - potrebbe essere l’inizio di un nuovo corso perché questo magnifico paese dispieghi le enormi potenzialità ancora inespresse oppure per sancire definitivamente l’incapacità dello Stato di porre un argine all’offensiva della criminalità organizzata.

 

Perché tutto questo ci riguarda da vicino

La comunità internazionale può accettare che questo avvenga? È possibile che si crei una sorta di narco-Stato, di narco-krazia, in un Paese cerniera tra nord e sud del continente americano? Davvero possiamo pensare che tutto questo non ci riguardi?

I fatti dimostrano, al contrario, che tutto quel che accade in Messico – e che i numeri hanno documentato - ci riguarda moltissimo. Non solo per l’ovvia ragione che la globalizzazione ha reso il mondo piatto e via dicendo, o perché la coca viene consumata soprattutto in Europa e negli Stati uniti e ogni “pista” vale una quota di quei morti. Tutto questo ci riguarda perché è in Italia che sorge la premiata ditta “Cocaina S.p.A”. I cartelli messicani – soprattutto quello di Los Zetas – lavorano, fanno affari, sono soci della nostra ’ndrangheta che ha una sorta di esclusiva per Italia e Europa del traffico di cocaina proveniente dal Messico. Ci stiamo riferendo a una sintonia d’interessi criminali che dura almeno dalla fine del 2007 – secondo quanto testimoniano le inchieste della Dia di Reggio Calabria, l’operazione Solare del 2008 e quella Crimine3 del 2011. Se la sede centrale è in Calabria, i proventi sono però “lavati” ovunque. Una montagna di narco-euro, che vale complessivamente 150 miliardi l’anno (20 miliardi arrivano dalla coca), raggiunge il centro e il nord d’Italia per essere investita in attività economiche in apparenza pulite ma che, in realtà, drogano il mercato e creano un sistema fondato sulla mancanza del rispetto delle norme di legge e di quelle sulla concorrenza. Oltre a costituire, spesso, un sistema di scatole cinesi che evade sistematicamente le tasse.

 

Che fare?

Il volume di Roberto Saviano Zero, Zero, Zero, Feltrinelli 2013, così come il bel libro di Laura Capuzzi Coca rosso sangue. Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro, Edizioni San Paolo 2013, dedicato anch’esso alla rotta della droga, alle tante figure dannate e alle poche figure eroiche di un Messico che non si rassegna alla mattanza infinita dei suoi figli, e l’ultimo pubblicato dalla casa editrice La Nuova Frontiera intitolato Z. La guerra dei narcos di Diego Enrique Osorno, hanno fatto riflettere una opinione pubblica assolutamente ignara della scia di sangue che il traffico transatlantico di cocaina porta con sé. A questo punto, però, è necessario andare oltre la semplice riflessione e impegnarsi nella cooperazione giudiziaria tra Italia-Messico-Centro America-Sud America quale asse qualificante della nostra agenda sulla lotta alle mafie transnazionali. Si può e si deve lavorare perché, anche oltreoceano, la consapevolezza della lotta alla criminalità si traduca in atti legislativi concreti e coerenti che mirino a un coordinamento continentale delle politiche di lotta alla criminalità, che facilitano la destinazione sociale dei beni conquistati alle narcomafie, così come la protezione dei testimoni e delle vittime delle mafie. Nei paesi latinoamericani si guarda all’Italia come al paese che ha più titoli, esperienza, competenze e expertise per essere un partner in queste politiche.

Ma forse non è sufficiente neppure questo. Occorre fare un salto strategico, abbandonando una gestione politica, ideologica e pregiudiziale delle politiche antidroga e arrivando a immaginare soluzioni alternative e creative per colpire i patrimoni e ridurre i proventi nel narcotraffico e delle attività a esso collegate. Prima che sia davvero troppo tardi.

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Finanza e commercio, l’agenda sino-latinoamericana

In attesa che l’Europa torni a guardare al mondo come a una finestra di opportunità per la propria crescita economica, le altre regioni del pianeta intensificano i loro contatti per arrestare gli effetti della crisi economica e finanziaria internazionale.
All’inizio di ottobre a Lima i presidenti latinoamericani hanno accolto i leader dei paesi arabi nel terzo Vertice arabo-latinoamericano dopo quello di Brasilia (nel 2005) e quello di Doha (nel 2009).
Lo scorso 17 e 18 ottobre si è tenuto il summit degli imprenditori sino-latinoamericani. Più di mille tra imprenditori e finanzieri si sono dati appuntamento a Hangzhou, in Cina, con l’obiettivo di dare contenuti e forme a un nuovo modello di sviluppo e di crescita economica. L’idea di creare un vertice con questo formato e che celebra quest’anno la sua sesta edizione http://www.clasummit.net/es/inicio.htm nasce nel 2007 da una felice intuizione del Consiglio cinese per lo sviluppo del commercio estero (CCPIT). L’obiettivo era chiaro: costituire – agli albori della crisi economica e finanziaria che di lì a poco avrebbe colpito Stati Uniti e Europa – una piattaforma interregionale per il dialogo e la cooperazione economica. Con buona pace di coloro che ancora confidano nel fatto che il mercato lasciato libero di operare provveda da sé a colmare lacune e a compensare eventuali squilibri, il Vertice nasceva da una precisa volontà politica del Governo cinese e fin dalla prima edizione vi parteciparono sì esponenti della comunità imprenditoriale ma anche le massime autorità politiche dei Paesi LAC e gli omologhi vertici asiatici. Nelle intenzioni originarie, infatti, doveva essere una riunione operativa in cui i “sistemi-paese” mettessero in campo le loro migliori risorse e potenzialità per incrementare le ragioni di scambio e il dialogo politico e strategico. Il tempo ha confermato e consolidato la bontà degli scopi iniziali. Dal 2007, infatti, si sono tenute sessioni annuali alternativamente in Cina e in America latina. Analizzando le tendenze dell’economia mondiale e del commercio internazionale, si sono create le condizioni per studiare le reciproche pratiche commerciali e porre in essere concreti piani d’investimento e di business. Molto pragmaticamente, accanto alle sessioni plenarie il formato della riunione annuale prevede una serie di mostre espositive con i prodotti e le eccellenze dei singoli paesi, tavole rotonde di approfondimento strategico a cura dei CEO’s e macrosessioni di imprenditori. Questo sesto vertice, patrocinato dal CCPIT in collaborazione con la Banca interamericana per lo sviluppo, BID e la Banca centrale cinese, è stato pensato con una ambizione in più: quella di “accellerare il cambio di modello e la sua implementazione, e ottenere uno sviluppo avanzato”.
Rispetto ai precedenti cinque incontri, quello di Hangzhou ha posto maggiore enfasi su riunioni “match-making” per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di expertise e facilitare pertanto l’esecuzione di progetti concreti. Si è discusso di come aumentare gli investimenti, come dare valore aggiunto alle merci e ai servizi offerti, in che modo far evolvere i servizi finanziari perché rispondano alle esigenze del tempo presente e di come promuovere lo sviluppo delle pmi. Non si è partiti da zero, è ovvio. Negli ultimi dieci anni il commercio sino-latinoamericano ha avuto uno straordinario incremento, come ha ben ricordato Luis Alberto Moreno, il Direttore Generale del BID, nella cerimonia inaugurale. Elencando i numeri di questo progresso, Moreno ha ricordato che a partire dal 2000, il commercio tra Asia e America latina è aumentato a un tasso percentuale superiore al 20% e nel 2011 si è attestato a quasi 450mila milioni di dollari, quasi la metà provenienti proprio dalla Cina. Il direttore generale ha sottolineato, inoltre, come il Vertice sia una occasione unica e straordinaria per generare nuove opportunità e per approfondire la conoscenza delle due culture. Moreno ha messo in luce come ancora oggi esista uno squilibrio nella bilancia commerciale latina con la Cina (nel 2010 il deficit ha toccato 96mila milioni di dollari USA), e come sia necessario creare adesso un nuovo modello d’interscambio tra le due aree. Il messaggio alla controparte cinese è stato chiaro: la Cina non deve sottovalutare i segnali positivi che i paesi latinoamericani hanno nei suoi confronti. Per questo, sarebbe utile e opportuno che si pensasse a un cambio di prospettiva, per esempio con l’installazione di impianti di aziende cinesi in America latina così che il continente possa concretamente beneficiare di una notevole esperienza in termini di know how e di uso di nuove tecnologie (oltre che aumentare l’occupazione in terra latina). D’altra parte, se è innegabile che l’ascesa della potenza cinese ha cambiato profondamente il profilo e la struttura del mercato manifatturiero a livello globale, è altrettanto certo che l’America latina è uno dei primi spazi regionali ad aver adattato il proprio export e le proprie produzioni a queste mutate condizioni, configurandosi, meglio e più di altri, come un partner commerciale solido e affidabile.
Di grande interesse anche gli interventi dei rappresentanti della Repubblica Popolare. Il vicepresidente della Conferenza Consultiva del Popolo (il massimo organo politico consultivo a livello statale), Abulaiti Abudurexiti, ha illustrato come la cooperazione tra le due aree geografiche abbia già raggiunto livelli di grande interesse e come il mutamento del profilo delle imprese nazionali cinesi possa avvantaggiare l’export verso l’America latina. Ha poi aggiunto che anche le imprese cinesi devono avere una costante attenzione alle opportunità che possono presentarsi in seguito alla trasformazione della struttura industriale latinoamericana e che le due regioni devono esplorare nuovi campi di partnership, per esempio in materia di urbanistica. Manifatture con alto valore aggiunto e infrastrutture (fa gola il progetto d’integrazione infrastrutturale latinoamericana così come le grandi opere in costruzione in Brasile in vista dei Campionati del mondo e delle Olimpiadi) ma anche la creazione di un modello produttivo duttile capace di cogliere rapidamente i mutamenti in corso nelle due regioni per essere in grado di rispondere con proposte e piani industriali puntuali. Le due aree devono pensare a un salto di qualità nella loro relazione così da superare la tradizionale dicotomia tra export di materie prime latine e produzione di manufatti cinesi e devono cercare di elaborare una strategia congiunta che sia attenta e flessibile nella sua capacità di reagire a eventuali espansioni o contrazioni della domanda aggregata. Sulle sfide che la Cina ha di fronte a sé è tornato anche il Presidente del Consiglio cinese per lo sviluppo del commercio estero, Wan Jifei, commentando come le imprese del suo paese abbiano ancora carenze per quanto riguarda la gestione transnazionale e si misurino spesso con difficoltà legate alle differenze di lingua e di cultura e a un diverso sistema giuridico di riferimento. Tutto ciò costituisce un problema che può e deve essere superato con uno sforzo e un impegno comune e il Summit serve anche a questo, a conoscersi e a capirsi meglio. Il Presidente, poi, ha chiesto all’America latina uno sforzo ulteriore di apertura dei propri mercati, l’abolizione di qualsiasi forma di protezionismo a tutela della propria bilancia commerciale così come una maggiore cautela nei cambiamenti di normative commerciali. In altri termini, la Cina si mostra disponibile purché il quadro normativo di riferimento sia stabile e meno soggetto a cambiamenti con il mutare delle maggioranze al potere.
In precedenti articoli sulle pagine di questo sito ci siamo occupati dell’incremento dell’intercambio tra Cina e ALC http://www.cepal.org così come delle sfide che le imprese delle due regioni sono chiamate a vincere per stare al passo con i ritmi di crescita o di decrescita del pianeta. La Cina è già il primo mercato per l’export di Brasile, Cile e Perù; il secondo per l’Argentina, Costa Rica e Cuba e il terzo per la maggior parte degli altri paesi LAC. Senza questo vincolo solido con l’impero del sol levante, probabilmente, il continente si sarebbe trovato a fronteggiare una recessione in seguito alla crisi del 2008-2009. Gli effetti economici e politici sarebbero stati devastanti e avrebbero probabilmente compromesso le brillanti politiche di crescita con inclusione sociale dei governi progressisti e riformisti della regione. D’altra parte, tra pochi giorni si aprirà il Congresso del Partito Comunista Cinese (l’8 novembre) e a spaventare le autorità politiche sono i numeri della “decrescita”: il 7,4% del Pil da luglio a settembre è il settimo rallentamento trimestrale consecutivo. Il Paese è sotto l’obiettivo di crescita del 7,5% per il 2012, come aveva annunciato il premier Wen Jiabao al Parlamento.
Settimane intense anche altrove. Gli Stati uniti andranno al voto due giorni prima del Congresso cinese (il 6 novembre) e c’è molta cautela sull’esito della consultazione. L’Europa, grande assente dai tavoli dove si discute del futuro del mondo, tarda a capire che ruolo vuole e può svolgere nei prossimi anni mentre il sud del mondo ripensa alle proprie strategie di sviluppo, crescita e inclusione sociale. Una nuova era – in termini politici, non solo economici - è cominciata. Quando ce ne accorgeremo, sarà comunque troppo tardi.

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Vertice UE-Brasile

Scalo a Brasilia per la delegazione dell’Unione Europea prima del vertice UE-Celac di Santiago del Cile (27 e 28 gennaio). Due giornate intense di lavoro, il 23 e 24 gennaio, dedicate alle relazioni tra l’Europa a 27 e il Brasile alla presenza della Presidente Dilma Rousseff e dei suoi principali ministri e di Herman Van Rompuy, Presidente del consiglio e José Manuel Barroso, Presidente della commissione per la delegazione della UE.

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Messico 2024: una partita tra donne

 

Claudia Sheinbaum e Xóchitl Gálvez: sarà una partita tra queste due donne la presidenza della seconda economia dell’America Latina, il Messico. In uno dei Paesi più machisti del continente, per la prima volta nella storia, una donna occuperà infatti la massima magistratura. Lo scorso 6 settembre si sono tenute le elezioni dei Coordinatori per la difesa della Quarta Trasformazione del Messico, in pratica le primarie interne alla coalizione progressista di governo (Juntos haremos historia) per decidere il candidato destinato a sostituire Andrés Manuel López Obrador, l’attuale presidente, che terminerà il suo mandato nel 2024. La coalizione progressista Juntos haremos historia è formata dal Movimiento de regeneración nacional (MORENA), dal Partido del trabajo (PT) e dal Partido verde. Ebbene, Claudia Sheinbaum ha vinto il sondaggio interno alla coalizione con il 39% delle preferenze e sarà pertanto la candidata presidenziale per l’appuntamento del 2 giugno 2024. Secondo classificato Marcelo Ebrard (ex ministro degli Esteri) con il 26% dei voti che ha però denunciato irregolarità nel sondaggio chiedendone la ripetizione e che ha assunto una posizione di aperta critica alla procedura e che forse abbandonerà MORENA. Il terzo posto è andato all’ex ministro degli Interni Adán Augusto López, con l’11% delle preferenze, seguito dal deputato del PT Gerardo Fernández Noroña, con 10,6%; al quinto posto il senatore dei verdi Manuel Velasco con il 7%; mentre all’ultimo posto, con il 6%, si è collocato Ricardo Monreal, leader di MORENA al Senato. Avranno posti anche il secondo e il terzo classificato: López Obrador ha infatti suggerito che il secondo classificato possa occupare l’incarico di coordinatore del gruppo parlamentare al Senato, e il terzo classificato abbia l’incarico di coordinatore alla Camera dei deputati. Vedremo quale sarà la sorte di Ebrard, se deciderà cioè di assecondare il risultato della consultazione interna o se cambierà addirittura casacca (si dice che potrebbe passare al partito Movimiento Ciudadano).

Xóchitl Gálvez sarà invece la candidata alla presidenza per la coalizione di opposizione Frente amplio por México, coalizione composta dal Partido revolucionario institucional (PRI), il partito-Stato che ha a lungo governato il Messico (detenne il potere ininterrottamente per 71 anni fino alla sconfitta nelle elezioni presidenziali del 2000), dal Partido acción nacional (PAN), a cui si è unito il Partido de la revolución democratica (PRD), partito di centrosinistra. I sondaggi danno vincente la Sheinbaum al momento, e l’obiettivo della coalizione di opposizione è sostanzialmente quello di ottenere una maggioranza qualificata in Parlamento (si voterà per le presidenziali e per le legislative nel 2024), obiettivo peraltro comune anche alla coalizione dell’attuale governo per portare avanti le riforme costituzionali e la Quarta Trasformazione (lo stesso López Obrador si è riferito al suo governo come alla «Quarta Trasformazione della vita pubblica del Paese» dopo il periodo della Indipendenza, dopo quello della Riforma e dopo la Rivoluzione messicana).

La certezza che nel 2024 il Messico sarà governato da una donna è stata accompagnata da un’altra buona notizia: lo stesso 6 settembre, la Corte suprema ha depenalizzato l’aborto in tutto il Paese affermando che le norme contenute nel codice penale federale sono incostituzionali in quanto violano i diritti delle donne. In base alla sentenza, il servizio sanitario nazionale dovrà garantire l’aborto a chiunque lo richieda, riconoscendo di fatto legittimità a una battaglia storica delle femministe del Paese.

Sheinbaum e Gálvez non potrebbero essere più diverse anche dal punto di vista personale e caratteriale, timida e discreta la prima, gioviale ed espansiva la seconda. Hanno entrambe però un cursus honorum di tutto rilievo. Sheinbaum, scienziata ed ecologista della prima ora, è stata sindaco di Città di Messico dalla fine del 2018 fino alla vigilia delle primarie (prima donna sindaco della capitale messicana nella storia); prima ancora sindaca di Tlalpan, una delle 16 delegazioni del Distretto Federale della capitale; da dicembre 2000 a maggio 2006 segretaria dell’Ambiente sempre nella capitale. Legatissima a López Obrador, dovrà riuscire, se eletta, a far dimenticare il carisma del suo predecessore e la sua sfida più grande sarà quella di dimostrare che è in grado di governare anche senza il suo mentore, consolidando MORENA e garantendole vittorie elettorali come ha fatto in questi 5 anni López Obrador.

Xóchitl Gálvez ha avuto una vita travagliata nella sua infanzia e fin da subito si è mostrata come una donna libera ed emancipata, indipendente insomma. Nonostante sia candidata di una coalizione conservatrice, si è sempre distinta per le battaglie femministe, come quella per il diritto all’aborto. Ingegnere di professione, è proprietaria di una impresa di tecnologia per “edifici intelligenti”. Di López Obrador critica quasi ogni cosa, tranne i sussidi dati ai meno abbienti. Insomma, sembra che faccia di tutto per smarcarsi dai partiti della coalizione di centrodestra che la appoggiano. Dal 2018 è senatrice per il PAN e prima è stata sindaco di Miguel Hidalgo, un sobborgo del Distretto Federale. È stata direttore generale dell’Istituto nazionale dei Popoli Indigeni (la madre apparteneva ai popoli originari).

Sarà interessante la campagna elettorale tra queste due donne. Senza dubbio entrambe lotteranno per aprirsi uno spazio proprio, lontane da paternalismi e “suggerimenti” di terzi, siano essi leader di partito o direzioni maschili. Quel che è certo, come dice Sheinbaum, è che «è tempo per le donne in Messico». Forse è arrivato davvero il tempo che il Messico sperimenti una leadership “femminile” e “femminista” e chissà che proprio una delle due candidate non sia la soluzione tanto cercata ai problemi endemici che schiere di uomini non sono state in grado di trovare dall’Indipendenza ad oggi.

Chiunque vincerà non avrà un compito facile: nonostante il nearshoring stia avvantaggiando economicamente il Messico per la sua vicinanza con gli Stati Uniti e l’inflazione sia sotto controllo, restano alti i livelli di povertà e disuguaglianza, mentre fuori controllo è la questione della sicurezza e della violenza, con una media di 28 omicidi ogni 100 mila abitanti e, secondo il rapporto della Global Initiative against transnational organised crime, il Messico è il «quarto paese più criminale al mondo e il secondo più pericoloso delle Americhe». Per un Paese ricco di storia e tradizioni, solo la più eclatante delle policrisi che lo strangolano e che finora non hanno trovato soluzione.

 

Immagine: Claudia Sheinbaum, durante un evento governativo in cui sono stati donati fondi ai cittadini per il miglioramento delle strutture scolastiche, Xochimilco, Città di Messico, Messico (18 maggio 2023). Crediti: israel gutierrez / Shutterstock.com

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Usa-Cuba, il dialogo che chiude la guerra fredda

Non si intende la portata della riapertura delle rispettive Ambasciate, a Washington e L’Avana, se non si inserisce questo atto all’interno di un più generale riposizionamento statunitense negli scacchieri planetari di crisi. In altri termini, sarebbe riduttivo leggere il disgelo tra Stati Uniti e Cuba intendendolo solo come un atto di normalizzazione continentale, seppur carico di conseguenze e valenze simboliche per i governi e i popoli coinvolti. Ci sembra, infatti, che la partita sia di più ampia portata e riguardi, piuttosto, il bilancio politico della presidenza di Barack Obama. In questo senso, l’atto del 20 luglio, a nostro avviso, andrebbe messo in relazione con altri due eventi. Il primo è la Dichiarazione congiunta con la Cina sul climate change dello scorso novembre che, seppur con limiti, è pur sempre un contributo politico delle due superpotenze e un impegno vero da mettere sul tavolo alla prossima Conferenza di Parigi che alla fine del 2015 dovrebbe, almeno per il governo ospite, prevedere non solo misure sul cambio climatico ma un contributo effettivo all’agenda per lo sviluppo del prossimo decennio. Il secondo atto, recentissimo, è la firma dell’Accordo di non proliferazione nucleare con l’Iran, sotto gli auspici indispensabili di una rinata Unione Europea, rappresentata ai negoziati dall’Alto Rappresentante per la politica estera e di difesa, Federica Mogherini. Anche in questo caso, la conclusione positiva dei negoziati configura non solo una tappa storica sul controllo dell’armamento nucleare e la ridefinizione di equilibri e alleanze in un quadrante strategico per gli Stati Uniti, ma l’auspicio di un futuro di pace e di sicurezza del pianeta dopo 36 anni di guerra a bassa intensità con l’Iran.

L’accordo con Cuba si inserisce a pieno titolo in questa nuova articolazione strategica che coincide, guarda caso, con la seconda parte della seconda presidenza di Obama. E si inserisce, a nostro avviso, proprio all’interno di questo sforzo di chiudere i dossier critici restati per troppo tempo in sospeso, lasciando in eredità (una legacy tangibile) al prossimo presidente, chiunque egli sia, un’America meno isolata, in cui il soft prevalga sull’hard power, un’America più amata forse perché meno temuta. Si tratta di un cambio di prospettiva storico, frutto anche, ma non solo, della crisi economica e finanziaria che ha colpito i paesi a capitalismo maturo, partner degli Usa - decretandone un declino politico prima ancora che economico - così come dell’emergere di nuovi competitori e di nuove alleanze. Si tratta di atti e fatti che richiedono, in ogni caso, un approccio differente, una visione più articolata che serve, in primis, agli Usa e serve soprattutto in un’area geografica, come quella panamericana, dove questa visione non è posticipabile più oltre. In questo senso, l’apertura delle Ambasciate ha proprio il significato di un ritorno nel continente tutto dopo tante occasioni perse e incontri mancati. Si tratta di un ritorno politico ed economico e non potrebbe essere altrimenti perché non si può essere potenza riluttante nel proprio cortile di casa quando i vicini fanno ormai da sé, in certi casi lo fanno pure bene e proprio con quei competitors economici – come la Cina e più in generale l’Asia – a cui gli Stati Uniti guardano con circospetta attenzione, sapendo bene che il nuovo secolo può essere davvero l’era del Pacifico. Se è vero tutto questo, c’era bisogno di un segnale radicale e profondo, di un cambio vero. Ed ecco Cuba, la spina nel fianco, quel dossier complicato che da più di cinquant’anni toglie il sonno ai presidenti americani. Una lunga storia anche per Obama, va detto, a cui il dossier fu sottoposto con una certa autorevolezza dal Brookings all’inizio della sua presidenza. Era il 2009: il prestigioso think tank - uno dei pensatoi di politica estera dei Democratici Usa - sottolineava l’importanza di dare un segnale di discontinuità unilaterale verso l’isola dei fratelli Castro. Allora il dossier fu accantonato anche perché il tempo della storia batteva altri tocchi: troppo critica la situazione in medio oriente per dedicare il tempo che serve a interrompere decenni di guerra a bassa intensità. Troppe le guerre guerreggiate in corso per poterne chiudere un’altra di guerra, quella “fredda”, abbattendo uno dei pochi muri politici rimasti ancora in piedi. Ci voleva l’arrivo, poi, di Papa Francesco, il papa latino guarda caso, per dire che il tempo dell’accordo è adesso. Ed ecco, quindi, un succedersi impressionante di eventi in una manciata di mesi. Ecco allora l’avvio di colloqui “segreti” in Canada con la mediazione del Governo di Ottawa e della Santa Sede. Ecco la prima storica stretta di mano tra i due Presidenti in occasione del funerale di Nelson Mandela; ecco le lettere inviate da Papa Bergoglio ai due leaders e più recentemente, lo scorso 17 dicembre, l’annuncio breaking news del “Todos somos americanos” e del “dishelo” con Washington. Due discorsi fatti in contemporanea: parole che cambiano la storia di un continente che, per un momento e in mondovisione, torna ad essere “la” America dopo esser stato per troppo tempo “le” Americhe. E con il disgelo arrivano le nuove regole Usa per il commercio e per i viaggi verso L’Avana. Siamo già nel 2015 quando, nel discorso sullo stato dell’Unione, Obama pronuncia l’impronunciabile: “il Congresso dovrebbe iniziare a lavorare per mettere fine all’embargo”. Troppo presto adesso, ma chissà. Tocca a due donne, due diplomatiche di provata esperienza come Josephina Vidal e Roberta Jacobson serrare le fila e tessere la tela per l’attesa riapertura delle relazioni diplomatiche: il 10 aprile, uno storico colloquio al Vertice delle Americhe a Panamà tra il cancelliere Bruno Rodriguez e il Segretario di Stato John Kerry, prima della telefonata notturna tra i due leaders, e il giorno dopo il faccia a faccia. E poi lo scorso del 29 maggio, condizione per tornare amici davvero – che per i cubani vuol dire condizione imprescindibile se si vuole riaprire l’Ambasciata a L’Avana – arriva l’atto con il quale Cuba viene cancellata dalla lista nera dei paesi (in cui c’è l’Iran) che sponsorizzano il terrorismo. Un mese dopo la lettera di Obama annuncia la data del 20 luglio 2015 per la riapertura delle rappresentanze diplomatiche che vuol dire, giuridicamente, la riapertura delle relazioni diplomatiche, ultima tappa per la normalizzazione dei rapporti tra i due governi. Siamo all’oggi. Cosa manca? Il prossimo capitolo dovrà essere, appunto, la fine dell’embargo, la cui subordinazione al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali a Cuba pare un pretesto addotto più che una obiezione di merito. D’altra parte, il tema di una più generale “apertura” non può essere eluso a lungo. Raúl Castro con la sua “actualizaciόn” del socialismo nell’isola sta dimostrando al mondo che cambiare si può. Nei modi e nei tempi dovuti. E soprattutto voluti. L’apertura al business internazionale - che sta scatenando i “viaggi della speranza” di tanti imprenditori europei schiacciati dalla crisi continentale e desiderosi di verificare le possibilità offerte dall’apertura di un mercato vergine e potenzialmente in espansione - è il terminale di un progetto che avrà ripercussioni sulla crescita economica e sull’assetto infrastrutturale dell’intera isola e della regione, se pensiamo al ruolo che potrà assumere il porto del Mariel. Limitarsi a questa gestione della diversificazione del rischio “economico e valutario” tra le tante potenze economiche potrebbe essere una scelta, ovvio, ma sarebbe un’opzione riduttiva rispetto alla portata storica che il cambiamento in corso potrebbe assumere. Se l’attuale dirigenza cubana è stata capace di “dare un esempio al mondo” - secondo le parole dello scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes - superando un muro lungo mezzo secolo adesso il tema dei diritti e delle libertà non dovrebbe essere un tabù nell’agenda politica cubana. Nei modi e nei tempi dovuti. E soprattutto voluti, lo ribadiamo. E questo non perché il mondo lo chieda, ma perché le conquiste della rivoluzione cubana hanno mostrato di poter superare i marosi del tempo e le insidie della storia. La bandiera a strisce blu e bianche con l’unica stella su triangolo rosso che sventola su un palazzo a Washington e quella a stelle e strisce che è ormai libera di mostrarsi sul Malencόn, altro non sono che la plastica dimostrazione che tutto questo è possibile.

 

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I numeri della democrazia in America Latina

 

È stato pubblicato qualche settimana fa il Rapporto 2023 di Latinobarometro, quest’anno intitolato La recesión democrática de América Latina (‘La recessione democratica dell’America Latina’). L’uscita annuale dell’informativa è un appuntamento importante e atteso da studiosi ed esperti per misurare lo stato di salute della democrazia nella regione latinoamericana. Nel primo capitolo, intitolato ‘Le presidenze in America Latina’, si mette in evidenza come dal 1985 al 2023 un totale di venti presidenti latinoamericani in nove Paesi abbiano dovuto lasciare il loro incarico in anticipo rispetto alla scadenza del mandato. Prima di questo periodo, i mandati presidenziali erano sovente interrotti da golpe militari: ora sono interrotti per svariati altri motivi, non succedono militari ma in qualche modo si riannoda il processo democratico con presidenti ad interim o con nuove elezioni anticipate. Il Rapporto mette in evidenza come uno dei fenomeni più nefasti delle democrazie latinoamericane sia la corruzione. Ventuno presidenti in nove Paesi della regione sono stati accusati, condannati o sono in prigione per corruzione. Caso limite il Perù, in cui tutti i presidenti viventi, democraticamente eletti, sono o sono stati in prigione, o sono stati condannati.

Un altro dato interessante è che nel 2023 si sono avute elezioni presidenziali in Paraguay e Guatemala, ad ottobre ci saranno le elezioni in Argentina, mentre ad agosto le elezioni “straordinarie” in Ecuador: ebbene, tornando indietro di qualche anno, dal 2019, possiamo dire che le conseguenze elettorali della crisi di rappresentanza in America Latina si sono manifestate con il fatto che in tutte le elezioni presidenziali che si sono svolte c’è stato un cambio di governo ad eccezione di due casi: in Bolivia nel 2020 quando fu rieletto un candidato del partito di Evo Morales, il MAS (Movimiento Al Socialismo), e in Paraguay nel 2023 quando è stato eletto un candidato del partito di governo, il Partito colorado. Nel 2018 si sono svolte cinque elezioni presidenziali, in tre di esse ha vinto il partito che era all’opposizione, c’è stata cioè una alternanza di potere.

Secondo il Rapporto, i latinoamericani cercano con costanza soluzioni ai loro problemi ed evidentemente non ne trovano nel partito o nella coalizione “oficialista” (‘filogovernativa’). Dopo che i cittadini della regione hanno provato diciotto alternanze di potere, il terreno è pronto per scelte populiste, autocratiche, scelte che possono apparire come le sole opzioni per risolvere i problemi che si manifestano. La pandemia ha soltanto accentuato i problemi esistenti e ha reso manifesta l’incapacità del governo di turno di farvi fronte.

Dopo che tutti i Paesi della regione hanno ultimato la loro transizione tra il 1978 ed il 2008, l’America Latina, secondo il Rapporto, è entrata in una fase di recessione democratica, non soltanto per la presenza di dittature elette, ma anche a causa del deterioramento e del declino della democrazia. Si osserva non tanto un “consolidamento imperfetto” (come sono stati chiamati i deficit della democrazia nella regione), ma una vera e propria evoluzione in senso contrario al consolidamento della democrazia. A 45 anni dalla prima transizione (quella del 1978 in Repubblica Dominicana), nella regione persistono disuguaglianza, povertà e ingiustizia sociale. La grande differenza con l’onda di recessione democratica degli anni Sessanta del secolo scorso è che oggi non ci sono militari, ma i dittatori sono in primo luogo dei civili eletti in consultazioni libere e competitive, che poi permangono al potere cambiando le regole e facendo pseudo-elezioni per mantenere l’apparenza di “democrazie”. Non si usano armi o militari, ma si tratta pur sempre di dittature elette civili.

Abbiamo visto, analizzando i profili delle loro presidenze, che ci sono davvero pochi Paesi in cui i presidenti non siano stati accusati o condannati per corruzione. Si può a ragione parlare di élite che hanno fallito. Queste hanno minato le istituzioni democratiche, tentando il più delle volte di forzare le regole democratiche per mantenersi al potere. I personalismi, la debolezza dei partiti politici, il sempre maggior potere che hanno i vertici delle istituzioni sono solo alcuni degli elementi perversi che stanno corrodendo la democrazia nella regione. La corruzione, che abbiamo visto essere endemica un po’ dappertutto, mina il potere del voto intervenendo con grandi capitali nelle campagne elettorali e generando una competizione sleale.

Un interessante paragrafo è quello sull’analisi delle élite nella regione, intitolato ‘Il potere senza contrappesi’. Le élite latinoamericane sono definite come caratterizzate da gravi mancanze e corrotte. Secondo il Rapporto, l’America Latina presenta una crisi, principalmente delle sue élite, che a sua volta provoca una crisi di rappresentanza. Questa crisi ha il suo fulcro nella formula della presidenza, e questo proprio in una regione in cui i personalismi hanno indebolito la democrazia. Si osserva, nella regione, una smodata ambizione di potere che motiva i presidenti, i partiti politici e le coalizioni a rimanere al potere anche a costo di infrangere le regole democratiche. A causa della crisi democratica e per l’atomizzazione dei partiti politici, assumono sempre più importanza le persone, con la conseguenza che l’abbondanza di personalismi accentua la crisi di rappresentatività e la parcellizzazione del sistema politico. Il Rapporto individua, poi, i fattori che rendono debole la democrazia nella regione: il personalismo esasperato, la corruzione, le presidenze interrotte, i governanti ad interim.

 

Dopo questa ricca ed interessante analisi, il Rapporto passa a illustrare i dati del sondaggio condotto. Nell’anno in corso, solo il 48% degli intervistati appoggia la democrazia nella regione, e ciò significa una diminuzione di 15 punti percentuali rispetto al 63% registrato nel 2010. Il declino dal 2010 è stato sistematico e testimonia che esistono motivi strutturali ai quali non si è posto rimedio e che fanno sì che si approfondisca il divario tra governanti e governati. Il Rapporto individua due ragioni di questo declino: in primis il ciclo economico, il cui impatto è tuttavia non così incisivo. In secondo luogo, la scarsità di “beni politici” (l’uguaglianza di fronte alla legge, la giustizia, la dignità, la giusta redistribuzione della ricchezza, tra gli altri) che si manifesta nella cattiva qualità delle élite, specie a livello di presidenza della repubblica, nei personalismi, nella corruzione, nella permanenza al potere oltre il lecito. Secondo dato interessante è quello relativo all’indifferenza rispetto al tipo di regime: a un 28% degli intervistati nella regione risulta indifferente il tipo di regime (democratico o non democratico). Il 17% del campione ritiene poi che in talune circostanze, un governo autoritario possa essere preferibile a uno democratico. Tra il 2020 e il 2023 si è registrato un dato preoccupante: coloro che preferiscono un governo autoritario aumentano in tutti i Paesi con l’eccezione di Panamá.

Interessante anche la distribuzione delle risposte in base al sesso, all’età, all’istruzione e alla classe sociale. Le donne (45%) appoggiano meno la democrazia degli uomini latinoamericani e sono più indifferenti al tipo di regime (29% delle donne contro il 26% degli uomini). In base all’età, il sondaggio individua che quanto più questa aumenta tanto più cresce l’appoggio alla democrazia. C’è poi maggiore favore per un governo autoritario tra i giovani che tra gli anziani e lo stesso vale per l’indifferenza rispetto al tipo di regime: diminuisce con il crescere dell’età. Il Rapporto laconicamente ne deduce che gli attuali regimi politici della regione non stanno producendo “cittadini democratici”. In merito all’istruzione, quanto più essa aumenta tanto maggiore è l’appoggio alla democrazia, mentre per quanto riguarda le classi sociali, l’appoggio alla democrazia diminuisce con l’aumentare della classe di riferimento. Il maggior appoggio alla democrazia si registra nella classe medio-bassa, con il 51%. L’indifferenza verso il tipo di regime è maggiore nelle classi alte. Gli ultimi dati riguardano il sostegno alla democrazia come regime di governo teorico, che è del 66% (“la democrazia può avere dei problemi ma in ogni caso è il miglior sistema di governo”); e il dato interessante sulla insoddisfazione nei confronti della democrazia che arriva al 68% nella regione. Il rapporto ne deduce che se l’appoggio alla democrazia è del 48% e l’insoddisfazione è del 68%, ci sono più insoddisfatti che democratici nella regione. Esistono poi insoddisfatti indifferenti al tipo di regime e quelli che accetterebbero l’autoritarismo. Questo tipo di insoddisfatti sono il contingente di elettori più aperti al populismo e all’autoritarismo, e contano per un 21% del campione. Degna di nota è anche la percentuale di coloro ai quali «non interessa che un governo non sia democratico, purché risolva i problemi»: ebbene, sono il 54% dei latinoamericani. E sono il 61% degli intervistati coloro che «non appoggerebbero in nessuna circostanza un governo militare»; il 35% appoggerebbe un governo militare al posto di uno democratico se ci fosse una situazione difficile. Ultime domande sui partiti politici. Alla affermazione «i partiti politici funzionano bene» risponde negativamente il 77% e solo il 44% pensa che non si possa avere democrazia senza partiti politici.

 

La situazione descritta è quindi preoccupante. Il deterioramento democratico della regione non è di oggi, come evidenzia bene il Rapporto e come abbiamo cercato di mettere in luce, e non è solo un male latinoamericano. La democrazia è in pericolo, è minacciata da tensioni esterne ed interne e presenta vulnerabilità alle quali sono arrivati i Paesi della regione dopo almeno un decennio di deterioramento continuo e sistematico. In America Latina la recessione democratica del titolo del Rapporto si esprime in vari modi: nel basso sostegno che ha la democrazia, nell’aumento dell’indifferenza al tipo di regime, nella preferenza a favore dell’autoritarismo, nel crollo della percezione del lavoro dei governi e dei partiti politici. Impietoso il giudizio sulle élite, soprattutto dei presidenti della repubblica: ventuno condannati per corruzione, venti che hanno lasciato l’incarico prima della fine del mandato, presidenti che non hanno pudore a forzare le regole democratiche pur di garantirsi la rielezione. Bassa soddisfazione della democrazia nella regione accentuata certamente dagli effetti della pandemia da Covid-19, ma non solo. Non è un caso che ci siano state diciotto alternanze di potere dal 2018, che si sommano all’allontanamento dai partiti politici, all’astensionismo, alle schede elettorali nulle o in bianco (in alcuni casi i “partiti” più votati). Alternanze di potere che sono il segno di una incapacità a risolvere i veri problemi della cittadinanza e a vincere le sfide che i nuovi scenari internazionali e interni presentano.

«La recessione della democrazia in molti paesi lascia la regione vulnerabile e aperta a opzioni di populismo e a regimi non democratici, le dittature-elette, e ritarda il processo di consolidamento della democrazia»: con queste parole si chiude la presentazione del Rapporto. C’è da riflettere per le classi dirigenti, le cosiddette élite, del continente. Non c’è un allarme “militari” e questo è già qualcosa, ma non basta. Vanno consolidate le istituzioni, troppo spesso minacciate da torsioni antidemocratiche e illiberali da destra e da sinistra. Ma va ripensato lo stesso modo di stare al potere in questo tempo dell’incertezza: le vecchie regole non valgono più e le nuove tardano ad arrivare. Il lavoro per la nuova onda progressista latinoamericana, che governa, salvo rare eccezioni, praticamente tutto il Sud America, è tanto e complesso. Se le élite sono quelle che descrive il Rapporto la strada è davvero impervia e piena di ostacoli. Il rischio è, come scrive bene Otto Granados Roldán sul quotidiano spagnolo El País, che la regione «si converta in un insieme di democrazie formali senza veri democratici». E sarebbe davvero allarmante.

 

Immagine: Mobilitazione popolare per l’attacco alla vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, Buenos Aires, Argentina (9 febbraio 2022). Crediti: Nachoirr / Shutterstock.com

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Vertice UE-CELAC: perché importa l’America Latina

 

«Mi piace pensare che questo 2023 possa rappresentare per noi un punto di partenza. America latina, Italia, Europa non condividono soltanto un passato ricco di memorie condivise. Caratterizza le loro relazioni un presente fatto di sensibilità e interessi convergenti, e un futuro di reciproco benessere. Occorre lavorarci insieme». Con queste parole il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiudeva la sua lectio magistralis intitolata America latina e Europa: due continenti uniti per la pace, la democrazia, lo sviluppo all’Università del Cile lo scorso 5 luglio nel corso della sua visita di Stato nel Paese andino. Va detto però che da qualche tempo ormai la storia delle relazioni tra Europa e America Latina è una storia di incontri e disincontri.  Perché «l’Europa, debitrice largamente verso l’America latina del suo sviluppo, non sempre ha saputo guardare a questo continente con sufficiente lungimiranza e sagacia» sempre citando la lectio magistralis di Mattarella. Se è vero che «servono avvocati di buone cause, America latina ed Europa possono esserlo insieme condividendo la visione di un mondo in cui i rapporti internazionali siano basati sul metodo del multilateralismo e sulla costruzione di istituzioni comuni» – continuava Mattarella. Il presidente ci invitava, in tutta la sua lectio, a consolidare le relazioni tra i due emisferi e a riprendere il filo di un discorso interrotto.

Se torniamo indietro di qualche anno, possiamo dire che dalla crisi del 2008 l’economia mondiale si sta ristrutturando, che la pandemia ha accelerato questo processo e che oggi le catene di produzione stanno cambiando forma. Come conseguenza del Covid-19 e della prolungata chiusura delle frontiere nel 2020 e 2021 oggi si prevede che le catene produttive si accorcino divenendo più regionalizzate e meno interdipendenti. Se questa valutazione della CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi) è corretta, significa forse che negli anni a venire l’America Latina si allontanerà sempre più dall’Europa? A noi Europei interessa che l’America Latina consolidi le sue relazioni con il nostro continente? Una struttura produttiva, quella latinoamericana, basata essenzialmente sulla domanda internazionale di materie prime non permette una crescita economica sostenuta e non riduce le disuguaglianze. Se è così, vogliamo forse lasciare l’America Latina a totale appannaggio della Cina? Sembrerebbe di sì se si guardano i dati macroeconomici: è la Cina infatti ad aver rafforzato la propria influenza nel continente, essendo il primo socio commerciale di molti Paesi della regione, specie nell’America del Sud. La regione latinoamericana fornisce le materie prime necessarie all’economia cinese ed importa tecnologia dal Paese asiatico e con il tempo i legami sono sempre più sofisticati. Basti pensare che dal 2007 ad oggi ci sono stati quindici summit sino-latinoamericani di imprese, contro gli  appena nove Vertici UE-CELAC dal 1999 ad oggi. È evidente che la Cina non ha fatto altro che occupare uno spazio lasciato libero dall’Europa.

 

Sebbene esista una propensione dei cittadini latinoamericani verso il modello sociale e politico europeo, non è per niente scontato che ciò possa costituire la base di una relazione solida tra America Latina e Europa. È tutto perduto allora? Una prima risposta alle mie domande sarà il Vertice UE-CELAC della prossima settimana, un vertice promosso dalla presidenza spagnola con l’obiettivo di rilanciare le relazioni tra i due spazi geopolitici. L’agenda dell’incontro verterà su sei priorità o settori chiave: transizione verde, energie rinnovabili, materie prime critiche, trasformazione digitale, finanza sostenibile e sviluppo umano. Sono questi i temi del futuro delle relazioni tra i due continenti, su cui investire la credibilità di leadership che vorremmo illuminate. Non si parte da zero: l’Unione Europea (UE) ha concluso accordi commerciali, di associazione e politici con 27 dei 33 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi; attualmente la Commissione europea sta lavorando per la positiva conclusione dei principali accordi quali UE-MERCOSUR e l’aggiornamento degli accordi UE-Messico e UE-Cile, nonché all’aumento dei Paesi della regione in seno all’OCSE.

Se questo vale a livello istituzionale, molti sono i motivi per i quali si dovrebbe parlare di una nuova agenda euro-latinoamericana. Proverò a dare qualche titolo.

L’America Latina ha detto no alle armi nucleari, è un continente in pace. Dal Trattato di Tlatelolco del 1967 è la più grande area libera da armi nucleari. Da decenni, poi, non ci sono più conflitti e gli Stati risolvono le loro controversie con la diplomazia, il dialogo, il confronto. È vero, c’è molta violenza ma non ci sono guerre. E in un momento in cui in Europa viviamo una situazione bellica alle nostre porte questa non è cosa di poco conto. Democrazia, Stato di diritto, tutela dei diritti umani sono un patrimonio di valori acquisito. «America latina ed Europa sono chiamate ad uno sforzo più intenso, congiunto a favore della vigenza dello Stato di diritto, nella consapevolezza che non vi è sviluppo sostenibile, equo ed inclusivo senza giustizia e sicurezza» sempre dalla lectio di Mattarella. La democrazia si è consolidata praticamente in tutta la regione e una intera generazione di latinoamericani è cresciuta vedendo nelle elezioni l’unico modo legittimo di eleggere governi. Quanto a sviluppo democratico e rispetto per i diritti umani, l’America Latina occupa senza dubbio il primo posto tra le regioni emergenti. Il 67% dei cittadini latinoamericani crede che «la democrazia possa avere problemi, ma è in ogni caso il miglior sistema di governo». È vero, ci sono Paesi che definiremmo regimi autoritari, ma i governi in America Latina quasi sempre si succedono per elezioni che definiremmo fair and free.

Le università e i centri di ricerca sono in alcuni casi di primissimo livello. La maggior parte dei partiti ha fondazioni di cultura politica che sono veri e propri incubatori di politiche pubbliche e fucine di pensatori che spesso vanno poi ad occupare incarichi di governo. La società civile latinoamericana è molto vivace, colta, preparata, organizzata in movimenti che vanno dalla gioventù, alle donne (l’attuale movimento femminista è più attivo e partecipato che mai da molti decenni a questa parte), ai popoli originari e agli afrodiscendenti. Un panorama variegato e composito con cui sarebbe utile che i nostri movimenti sociali e del terzo settore venissero in contatto.

La ratifica dell’Accordo UE-MERCOSUR non è un fine in sé stesso ma il punto di partenza per un progetto più ambizioso che avrà come obiettivo gli interessi strategici ed economici dell’Europa e dell’America Latina allo stesso tempo. Si è calcolato che l’invasione e le conseguenti sanzioni imposte alla Russia abbiano provocato, nel solo 2022,  una perdita commerciale di 350.000 milioni di euro in Europa. Bene, più della metà di questa perdita potrebbe essere recuperata consolidando le relazioni con il MERCOSUR. Non è solo necessario, è urgente siglare il trattato UE-MERCOSUR , che porterebbe al più vasto mercato comune del mondo e che ormai da troppi anni è bloccato dai veti di diverse cancellerie da entrambe le parti dell’oceano. Se l’accordo in questione venisse firmato, l’Europa avrebbe accordi con il 94% del PIL dell’America Latina.

 

Le economie europea e latinoamericana sono poi complementari anche sul fronte dell’economia verde. L’America Latina dispone di abbondanti risorse energetiche e minerali, di sole, di vento, di acqua e di terre fertili, ha capacità di produrre energia pulita, abbondante e a basso prezzo, oltre che alimenti da produzione sostenibile in grande scala. L’Unione Europea può apportare alla regione il capitale, la tecnologia di avanguardia e il know-how indispensabile per il suo sviluppo. Ancora, l’America Latina torna a parlare di integrazione regionale, terreno sul quale l’Europa può avviare un dialogo ritagliandosi un ruolo proprio, autonomo da Cina e USA. Gli interlocutori potrebbero essere non solo la CELAC, ma anche le istanze subregionali, come la Comunità andina, il MERCOSUR e il SICA. Sul piano dell’integrazione regionale, l’Europa potrebbe far valere la propria esperienza consolidata per far sì che gli accordi vadano oltre la semplice liberalizzazione commerciale e includano temi più avanzati quali la protezione degli investimenti, il commercio di servizi, le procedure doganali, la protezione dei diritti di proprietà intellettuale. L’Europa potrebbe altresì farsi promotrice dell’adozione di iniziative volte ad aumentare il commercio intra-America latina e bi-regionale di beni manufatti. L’Alleanza del Pacifico potrebbe rappresentare un buon punto di partenza, dato che Messico, Cile, Colombia e Perù hanno già firmato accordi di libero scambio con l’UE. Si potrebbero poi stimolare ed incoraggiare l’adozione di modelli di business sostenibili, dal punto di vista sociale ed ambientale, da parte delle aziende europee che operano già in America Latina. Un ulteriore ambito strategico potrebbe essere quello della sicurezza, della lotta alle mafie, della lotta al narcotraffico e alla corruzione. Su questo campo l’Italia potrebbe esportare buone pratiche  così come già avviene con il Programma Falcone e Borsellino.

Ultimo motivo, ma non ultimo, l’Italia e l’Europa sono di casa in America Latina. Questo è davvero il nostro Estremo Occidente! Pensiamo soltanto alla vasta comunità di italo-discendenti ed euro-discendenti che vivono in America Latina, profondamente integrati e che costituiscono uno degli asset per lo sviluppo di quel continente e che potrebbero essere una leva per continuare ad avere influenza in quella regione esercitando un soft power verso i Paesi che ospitano queste grandi comunità. Specularmente, si potrebbe fare lo stesso discorso per le comunità di latinoamericani presenti in Europa che sono un vero e proprio ponte commerciale e culturale tra le due regioni.

È arrivato ed è maturo il tempo di pensare a nuove relazioni transatlantiche tra Europa e America Latina: il tempo per porre in essere queste sinergie è adesso! L’America Latina si sta ritagliando un ruolo strategico nell’economia mondiale, anche grazie alla presenza nel suo sottosuolo di terre rare, ma continua ad essere marginale nelle dinamiche geopolitiche. In altri termini, l’abbondanza di materie prime e le caratteristiche geofisiche ne fanno un blocco regionale ben posizionato per l’economia verde e la transizione energetica, dossier sui quali si lavora in Europa sempre più. Tuttavia, le caratteristiche socioeconomiche, l’instabilità politica e le divisioni interne la rendono un soggetto geopolitico debole. Crescendo l’influenza cinese e diminuendo quella USA, l’Europa rischia di rimanere indietro proprio quando ha interessi economici e non solo che dovrebbero spingerla ad approfondire la relazione con la regione. L’Europa ha dei punti di forza da far valere, oltre ai temi che ho evidenziato: una politica estera basata sul regionalismo e il multilateralismo (contro potenze che preferiscono un approccio bilaterale), politiche di avanguardia (cambio climatico, lotta al narcotraffico e coesione sociale) e lo stesso modello di integrazione UE.

È vero, nuovi spazi geopolitici si stanno consolidando, penso soprattutto alla sfera dell’Indo-Pacifico, anche grazie alla maggiore copertura mediatica che è praticamente assente per quanto riguarda la regione latinoamericana. Ma  nessuno ha le potenzialità dell’America Latina almeno per il nostro continente. Il Vertice UE-CELAC di lunedì e martedì sarà un concreto banco di prova per valutare davvero la lungimiranza della leadership europea e di quella latinoamericana.

 

Immagine: Mappa dell’America Latina. Crediti: Alexander Lukatskiy / Shutterstock.com

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Soft power in salsa uruguayana

Joseph Nye dovrà prendere atto e aggiornare, integrandolo, qualche capitolo del suo celebre saggio Soft Power. Se infatti con questo fortunato binomio il politologo statunitense intendeva la capacità di un Paese di migliorare la propria immagine internazionale, consolidare il proprio potere e diventare punto di riferimento attraverso la cultura, le buone pratiche, i valori e più in generale la politica, un nuovo Paese sembra essersi imposto all’attenzione della comunità internazionale.

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São Paulo si risveglia lulista

Le elezioni amministrative hanno spesso un significato politico che va oltre la contingente competizione elettorale. Proprio per questo, è sempre opportuno provare a leggerne i risultati immaginando quali scenari possibili possano tracciare. A volte, molto semplicemente, l’esito conferma gli assetti esistenti e consolida il profilo e il peso politico dei vincitori. Altre volte, invece, il day after ci offre l’opportunità di evidenziare nuove tendenze che il tempo avrà il compito di confermare o di smentire. A queste regole di buon senso politico non fa eccezione un continente complesso come l’America latina, dove la scorsa domenica si sono tenute le elezioni amministrative nel paese più rappresentativo, il Brasile. Nel caso di specie, la competizione elettorale, oltre a quello fra i partiti in corsa, avrebbe dovuto misurare lo stato di salute del Governo federale, guidato dalla Presidente Dilma Rousseff da meno di due anni. Un primo dato esce incontrovertibile: il governo ne esce rinforzato e la Presidente consolida il suo consenso nel paese e all’interno del suo stesso partito. È stata altresì premiata la coalizione di governo, seppur riveduta e corretta secondo le alleanze spurie che sempre le regioni sono in grado di confezionare. Ma c’è altro e non è un caso che l’attenzione dei media e degli osservatori internazionali fosse puntata, in particolare, sul risultato di una città sopra tutte, São Paulo, megalopoli di quasi dodici milioni di abitanti e che il Partido dos Trabalhadores, PT (http://www.pt.org.br), dopo due appuntamenti elettorali falliti, è riuscito a riconquistare. Perché, se ha vinto Fernando Haddad con il 55,57% dei voti contro José Serra, un veterano del Partido da Social Democracia Brasileira, PSDB (http://www.psdb.org.br/), è pur vero che la competizione ha evidenziato ben altro, come proverò a dimostrare. Quando un anno fa si cominciò a parlare di Haddad quale probabile candidato, il nostro raggiungeva appena il 2% nelle intenzioni di voto. Tra l’altro, non risultava neppure la “prima scelta” tra i compagni del suo PT. Scalando i sondaggi, settimane dopo settimane, si è presentato alla vigilia del primo turno al terzo posto, dietro a Celso Russomanno del Partido Republicano Brasileiro di centro-destra (http://www.prb.org.br/), e allo stesso Serra. Alle urne, il 6 ottobre, i sondaggi dei giorni precedenti erano totalmente ribaltati: Russomanno usciva di scena e Serra si piazzava primo con il 30,75% dei consensi, a pochi punti percentuali da Haddad, che chiudeva la prima tornata con un eccellente 28,98%. Non ce l’avrebbe fatta, Haddad, senza l’aiuto di Lula. L’ex Presidente lo ha imposto come candidato del PT quando era solo un outsider. È sceso in campo al suo fianco, minato nella forza ma non nello spirito dai postumi di un tumore, per battere la città palmo a palmo, farlo conoscere e imporlo all’attenzione dell’opinione pubblica come la migliore scelta per le sfide che attendono la città e il Brasile intero nei prossimi anni. Ancora una volta, hanno avuto ragione il suo fiuto politico e il suo innato carisma: Lula ha creato un vincitore, come aveva fatto, peraltro, con la semisconosciuta Dilma Rousseff quando, a sorpresa, la presentò come la candidata del PT alle presidenziali. È per questo che non è apparso affatto fuori luogo che nel primo discorso da Sindaco, Haddad abbia ringraziato proprio il suo mentore per la fiducia accordatagli, i consigli e l’appoggio profuso, riconoscendone l’apporto fondamentale per la sua vittoria. Ha avuto un peso, ovvio, anche la macchina partitica del PT, che nella città paulista ha un bacino elettorale di circa il 30% degli elettori. In ogni caso, che la capitale finanziaria si risvegliasse petista e lulista non era affatto scontato.
Ma è a un’altra analisi del voto, forse più lungimirante, a cui voglio riferirmi e che spetta a un altro padre nobile della politica brasiliana, al fondatore del partito di opposizione al governo federale, Fernando Henrique Cardoso. La sua considerazione, infatti, guarda al futuro, alle presidenziali del 2014 e marca gli scenari futuri per il Brasile. Parla al suo partito, l’anziano sociologo, per riflettere, in realtà, sulla politica brasiliana nel suo complesso. FHC ha ammesso che servirà una maggiore vicinanza alle istanze del popolo brasiliano e che sarà necessario saper cogliere sempre più le esigenze che le nuove generazioni sollecitano. Abbastanza scontato. Non altrettanto lo sono le conclusioni del suo ragionamento che, manco a dirlo, segnano il dibattito post voto. Per portare a termine questo programma, conclude infatti l’ex Presidente, servirà un profondo rinnovamento nelle figure politiche chiamate a incarnare queste istanze. In altri termini, per FHC, si chiude una parentesi politica, quella della transizione democratica, e il Brasile, potenza economica ed esempio in America latina di consolidamento delle istituzioni democratiche, è ormai pronto perché una nuova generazione politica e una nuova classe dirigente si facciano pienamente carico e interpretino il salto di qualità. È cominciata l’era 3.0 e il vecchio gruppo dirigente deve trarne le dovute conseguenze. Non c’è chi non abbia visto in quest’analisi precisi riferimenti politici, in primis, al suo stesso partito. José Serra, infatti, pur incarnando una traiettoria politica illustre e prestigiosa, non è stata la scelta migliore da contrapporre a Haddad. Dopo aver corso - e perso – le presidenziali nel 2002 e nel 2010, essere stato Governatore e Sindaco di San Paolo, deputato, senatore e ministro, farsi catapultare di nuovo nella politica paulista è sembrata una decisione contro natura. Per lo meno antistorica. La megalopoli non è un buen retiro in attesa della pensione ma, al contrario, pone tante e tali sfide (mobilità, sostenibilità ambientale, infrastrutture, urbanistica) da non ammettere cali di tensione.
Solo per informazione, visto che FHC ha evocato il rinnovamento e che questo non nasce dal nulla ma, al contrario, soprattutto in politica, si costruisce con pazienza e determinazione, il PSDB già da qualche anno fa scaldare all’angolo del ring Geraldo Alkmin, l’attuale governatore e rivale di sempre proprio nello Stato di San Paolo, e Aecio Neves senatore e ex governatore di Minas Gerais. Due figure che escono consolidate dall’ennesima sconfitta di Serra e legittimate in vista del 2014. Aecio, tra l’altro, ha messo un altro tassello in Minas Gerais facendo eleggere il “suo” candidato a Belo Horizonte. Perché se è vero che il PT esce bene dalla competizione elettorale - nonostante il processo per corruzione davanti alla Corte suprema che ha coinvolto alcuni importanti figure del partito (lo scandalo del mensalão) - il panorama politico appare quanto mai composito e articolato. C’è la rivalità PT-PSDB ma si consolida e comincia a preoccupare la forza politica del Partido Socialista Brasileiro, PSB (www.psb.org.br) di Eduardo Campos, i cui candidati hanno sconfitto quelli del PT a Belo Horizonte, Recife a Campinas e amministreranno anche Cuiabá e Fortaleza, per un totale di 11 tra le maggiori città del Brasile. Un giovane promettente e molto stimato che comincia a farsi conoscere anche all’estero come una figura da osservare con attenzione. È tra questi nomi nuovi che si giocherà la partita delle prossime presidenziali. Con Dilma Rousseff favorita su tutti. A meno che il solito Lula non tiri fuori un jolly che, al momento, sfugge ai riflettori.

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Il presidente Lasso scioglie l’Assemblea nazionale in Ecuador

 

Con una mossa non così tanto a sorpresa, il presidente dell’Ecuador Guillermo Lasso ha sciolto l’Assemblea nazionale adottando una misura prevista dall’art. 148 della Costituzione del 2008 che prevede che il presidente possa sciogliere il Parlamento «per grave crisi politica e agitazione interna». Ora potrà governare per decreto per i prossimi sei mesi, fino a nuove elezioni. La decisione di Lasso blocca il processo di impeachment che era cominciato martedì 16 maggio contro di lui con l’obiettivo di rimuoverlo dall’incarico: l’Assemblea nazionale, dove la maggioranza è detenuta dall’opposizione, lo aveva messo in stato di accusa per appropriazione indebita di fondi pubblici (peculato) e per essere stato a conoscenza di una truffa legata a due società pubbliche senza intervenire. La risposta di Lasso è stata quella più dirompente: la cosiddetta “muerte cruzada” (morte incrociata) che è il meccanismo costituzionale che consente al capo dello Stato di sciogliere l’Assemblea ma al prezzo di convocare entro sei mesi elezioni generali (il Consiglio nazionale elettorale prevede di svolgerle entro il mese di agosto). Decadenza del presidente e decadenza del legislativo, una morte incrociata appunto.

«Ho deciso di applicare l’articolo 148 della Costituzione che mi concede la facoltà di dissolvere l’Assemblea nazionale per grave crisi politica e agitazione interna» ha dichiarato Lasso mercoledì scorso, inviando un forte contingente di forze dell’ordine e dell’esercito a presidiare il Parlamento, il palazzo presidenziale e il ministero della Difesa. Aggiungendo di voler così restituire «al popolo ecuadoriano il potere di decidere il suo destino alle prossime elezioni» e mettendo in stato di accusa le opposizioni. «Io vi accuso. Vi accuso di aver abbandonato il vostro ruolo di legislatori. Voi siete ora anti-legislatori di questa Repubblica, perché non create leggi, ma le distruggete». Le opposizioni, dal canto loro, confermano le accuse al presidente e non si dolgono più di tanto della dissoluzione del Parlamento: non era infatti scontato che avrebbero raccolto i 92 voti necessari a destituirlo e ora vedono nelle prossime elezioni una possibilità di cambiare i rapporti di forza. D’altra parte, avevano già provato a destituire Lasso nel giugno del 2022, nel pieno delle proteste dei popoli indigeni contro il governo, ma non erano arrivate che a 80 voti. In ogni caso, di fronte al rischio dell’impeachment, Lasso ha preferito togliere lui il disturbo, alle sue condizioni, piuttosto che farsi sfiduciare e mettere sotto accusa.

Come abbiamo scritto, l’adozione dell’art. 148 della Costituzione è stata vista dall’opposizione quasi come un vantaggio: Rafael Correa (l’ex presidente dell’Ecuador) l’ha definita come un’occasione per «mandarlo a casa». Più dura la CONAIE, la Confederación de nacionalidades indígenas dell’Ecuador che si era espressa a favore dell’impeachment e che ha annunciato la convocazione di un consiglio straordinario per valutare la situazione. Il suo presidente Leonidas Iza è stato durissimo: «Non disponendo dei voti necessari per salvarsi dalla sua imminente destituzione, Lasso ha realizzato un vile autogolpe con l’aiuto della polizia e delle forze armate, avviandosi verso una dittatura». Altrettanto dura la risposta dei mercati alla crisi politica in corso: i buoni del tesoro ecuadoriani hanno perso il 10% del loro valore e il rischio Paese è schizzato in alto, gli analisti valutando che l’incertezza e l’instabilità continueranno almeno fino al 2025, data di scadenza prevista dell’attuale mandato.

Va detto che se è la prima volta che un presidente ricorre all’art. 148, prima di adesso l’instabilità politica del Paese aveva provocato tre colpi di Stato (nel 1997, nel 2000 e nel 2005) e la nomina di sette presidenti in dieci anni. Lasso, fondatore del CREO (Creando Oportunidades, Creando opportunità, movimento politico liberalconservatore), candidato presidente per ben tre volte prima di essere eletto nel 2021, membro dell’Opus Dei, ex banchiere, avrebbe terminato il suo mandato nel 2025. Vedremo se si ricandiderà.

 

Quel che non cambia di certo in sei mesi è la situazione interna del Paese, colpito da una grave crisi economica causata anche dall’aumento dell’inflazione che ha provocato ampie proteste sociali (l’Ecuador è uno dei pochi Paesi sudamericani a non aver recuperato il ritmo di crescita anteriore alla pandemia) e colpito da un aumento incontrollato della criminalità organizzata che lo sta rendendo uno dei Paesi meno sicuri della regione (il 2022 è stato l’anno più violento della sua storia con 4.450 assassinii e più di 322 femminicidi, i massacri nelle prigioni sono cronaca abituale e la violenza del narcotraffico, articolato in bande locali, non solo controlla le carceri ma estese zone associate al transito di cocaina. Si calcola che più di un terzo della produzione colombiana arrivi negli Stati Uniti e in Europa attraverso l’Ecuador).

Non solo: più che gli scandali che hanno provocato l’impeachment, la fragilità presidenziale risponde alla crisi strutturale del Paese – comparabile, secondo alcuni analisti, a quella che portò alla dollarizzazione dell’economia (1999-2000) –, alla scarsa capacità di gestione dei nuovi quadri della destra libertaria che affianca Lasso e alla sua assenza di attitudine democratica nel riconoscere alleati e avversari. I risultati delle elezioni locali e del referendum del 5 febbraio scorso (che comprendeva una vasta serie di riforme) sono testimonianza di queste tendenze e ancor prima dei fatti della settimana scorsa avevano seriamente compromesso le possibilità di Lasso di recuperare consenso nella seconda parte del suo mandato. 

In una situazione così difficile dal punto di vista politico, sociale ed economico, l’Ecuador si appresta a vivere i mesi che lo separano dalle elezioni governato da un presidente dimissionario ma che può emanare decreti: la crisi statale e l’erosione democratica descritta sono davvero solo l’apice delle crisi multiple che vive il Paese.

 

Immagine: Guillermo Lasso (26 marzo 2017). Crediti: Fotos593 / SHutterstock.com

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Perde il peronismo, anzi no

Già tutti pronti a fare il funerale al peronismo K, quello del (Frente para la Victoria) della presidente Cristina? Parrebbe di sì dai titoli dei principali quotidiani argentini. E saremmo tentati di fare lo stesso anche noi qui al di là dell’Atlantico se non scontassimo una certa consuetudine con quel Paese sudamericano e non fossimo abituati, noi italiani, a vivere in un paese e a convivere con una politica che è tutto tranne che da paese normale. Ecco perché le cassandre che in questo momento vaticinano sulla fine del kirchnerismo e danno già per certa la sconfitta alle presidenziali del 2015 peccano di ingenuità o quantomeno anticipano i tempi. Non cade in questa trappola un veterano della stampa e della cultura argentina, Horacio Verbitsky, che, in un pezzo pubblicato la scorsa domenica, dati alla mano ha dimostrato la fallacia di ogni vaticinio fondato sulle elezioni di mid term. E lo stesso fa, ma forse per motivi differenti e partendo da convenienze politiche più che da un’analisi dei dati, lo stesso Daniel Scioli, governatore della Provincia di Buenos Aires quando in un’intervista allo stesso quotidiano dichiara, in sintesi, che non è cambiato nulla. Sempre di peronismo si tratta e quindi è inutile voler distinguere tra affluenti diversi: da una parte si perde, dall’altra si guadagna. Una condizione a somma zero, in altri termini.

Anche a noi piace credere che non sia già tutto scritto e che la tornata elettorale di domenica 27 in Argentina – in cui si eleggeva la metà della Camera e un terzo del Senato a metà mandato esatto delle ultime presidenziali del 2011 – abbia bisogno di essere valutata nel medio termine. Perché parlare di politica in quel Paese significa parlare di partito peronista, di quel grande e multiforme partito popolare, con correnti che vanno dalla destra alla sinistra e che informa di sé la storia, la cultura e l’antropologia di un popolo, riservando le briciole o quasi al resto delle forze politiche.

Se è vero questo, è altrettanto vero che qualcosa è però successo domenica scorsa e che alcuni punti fermi sono incontrovertibili. In primo luogo, il Frente para la victoria a livello nazionale ha perso in 15 dei 24 distretti e soprattutto ha perso nei quattro più importanti del Paese dove hanno prevalso quattro candidati di opposizioni diverse (e questa è la debolezza degli stessi). L’FPV perde, infatti, nella provincia di Buenos Aires - dove vota il 40% degli argentini – dove ha vinto di Sergio Massa (attenti a questo nome perché forse è uno dei pochi che resterà in campo anche nel 2015); ha perso a Cordoba (a vantaggio di Juan Carlos Schiaretti); ha perso a Mendoza (contro Julio Cobos); ha perso a Santa Fé dove il socialista Hermes Binner si conferma un caterpillar e prenota un posto per le presidenziali del 2015 sul fronte dell’opposizione riformista e progressista; e, infine, ha perso anche nella città di Buenos Aires (contro Pino Solanas). In termini numerici, significa che la presidente dispone solo, si fa per dire, della maggioranza semplice dei seggi. Stessa situazione al Senato. Niente voti, in altri termini, per la riforma costituzionale che permetterebbe alla presidente di aspirare a una terza candidatura, sempre che le sue condizioni di salute (quasi un segreto di Stato, come fu per Fidel a Cuba) e la sua forza politica glielo consentissero.

Se questa è la frammentata geografia politica che esce dalle urne, va detto che le tante opposizioni vincitrici nei diversi collegi difficilmente sono riconducibili ad unum. Ed è questa la grande forza del peronismo. In questi giorni, da più parti si sente ripetere una vecchia massima attribuita nientemeno che a Perón che dice “i peronisti sono come i gatti: quando pare che stiano litigando in realtà si stanno solo riproducendo”. Non stupisce, quindi, la moltiplicazione delle correnti e dei rivoli in cui si sono “riprodotti” in questi anni di governo targato Kirchner.

Volendo fare la tara di questa tornata elettorale, con i limiti evidenziati, due nomi su tutti hanno brillato. Il primo è quello di Daniel Scioli, il presidente della provincia di Buenos Aires che, dopo due anni complessi e molto difficili con Cristina, non privi di episodi di quasi rottura, ha fatto campagna elettorale nel suo collegio per il candidato “k”. Tra i moderati rispetto a quelli che spingono verso la radicalizzazione del modello (stile Campora, insomma), che il candidato del peronismo ufficiale abbia perso proprio nel suo collegio lo pone contemporaneamente come colui che ha provato a salvare la baracca ma anche come colui che non c’è riuscito. E non è detto che questa manifestazione di fedeltà e di debolezza allo stesso tempo non lo avvicini paradossalmente alla presidenza rendendo evidente che, per vincere, ha bisogno anche di lei nel 2015. L’altro nome è quello di Sergio Massa, ex capo di gabinetto della stessa Cristina, ora peronista dissidente a capo del Frente Renovador (FR), con il suo 44% di voti ottenuto contro il candidato Martín Insaurralde (super cristinista) comincia a far paura.

Quel che è certo è che il peronismo ufficiale ha perso il suo smalto dopo la trionfale elezione di Cristina Kirchner nel 2011 (54% dei voti contro il 32% ottenuto stavolta a livello nazionale). Il peso di una situazione economica complessa e con molti dossier aperti sul tavolo che peseranno come un macigno anche sulla prossima presidenza, l’inflazione fuori controllo e una situazione sociale difficile non hanno certo avvantaggiato l’ala governativa. La presidente stessa sembra aver perso un po’ del suo smalto dopo il trionfo di dieci anni fa. D’altra parte, è noto che un secondo mandato sia per definizione più logorante del precedente, specie se cade in un periodo di crisi economica e finanziaria internazionale, e sia pertanto difficile porre le basi per una continuità di governo da affidare ad altri esecutori “fidati”. Perché, a scanso di equivoci, sarà lei, Cristina, a designare il suo successore e nessuno esclude che in due anni il borsino delle preferenze possa cambiare radicalmente. L’Argentina è il paese dell’impossibile. E la politica non fa certo eccezione.

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Per un Cile di tutti

Tra continuità e rinnovamento: è questa la partita che si gioca domenica in Cile con le elezioni presidenziali. Si vota anche per eleggere 120 deputati e 20 dei 38 senatori. A sfidarsi per la presidenza nove candidati, cosa che rende difficile l’affermazione al primo turno di un vincitore (si richiede la maggioranza assoluta). L’eventuale ballottaggio è previsto per il 15 dicembre, anche se nel comitato elettorale di Michelle Bachelet non fanno mistero di sperare che il voto non si disperda e che a prevalere sia la candidata progressista. Molti sono i punti percentuali che la separano da Evelyn Matthei, candidata della coalizione attualmente al governo e chiamata in extremis a sostituire il vincitore delle primarie del 30 giugno, Pablo Longueira, ritiratosi dalla campagna per il risorgere di una brutta depressione. La sfida è ardua ma non impossibile.

Ci sono molte aspettative sull’esito del voto in Cile, e anche in America latina soprattutto sul fronte progressista. Il programma elettorale con cui si è candidata Bachelet segna un deciso cambio di passo rispetto ai precedenti governi della Concertación por la democrazia. Prevede infatti una serie di riforme strutturali che dovrebbero cambiare profondamente il profilo sociale ed economico del paese nel senso di una maggiore equità sociale. Il Cile, infatti, conferma elevate performance di crescita nonostante la crisi economica e finanziaria internazionale (si prevede che anche nel 2013 il paese crescerà del 4,3%), ma è anche uno dei paesi più disuguali del continente. Tre le riforme di sistema previste si segnalano quella fiscale, quella costituzionale e quella dell’istruzione. I cambiamenti previsti vanno nel senso di far pagare di più a chi ha di più, di ampliare i diritti civili e delle minoranze e di garantire uguaglianza di opportunità attraverso un sistema scolastico gratuito e di qualità. In altri termini, si cerca di controbilanciare gli effetti della crescita delle disuguaglianze quasi congenite alla globalizzazione in quanto tale con misure specifiche che, tra l’altro, avvicinano il Cile alle sfide che hanno di fronte tutte le grandi democrazie del continente latinoamericano (Messico e Brasile in primo luogo).

Qualora Bachelet riuscisse a vincere al primo turno avrebbe certamente le carte in regola per imporre la svolta con maggiore forza politica, ma ci sembra di poter dire che il clima che ha accompagnato la campagna elettorale e l’aurea carismatica che circonda ormai la ex presidente siano un viatico su cui non ci sono dubbi. Se il suo primo mandato si era segnalato per un continuo mediare tra le forze politiche presenti nella coalizione, questa volta la candidata pare brillare davvero di luce propria. Mette in gioco sé stessa e la sua credibilità con un programma avanzato e di trasformazione profonda. Spetta adesso ai cileni dire l’ultima parola.

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Obiettivo Asia: la nuova sfida per l’America latina

Un ritorno al passato. Potremmo definire così la fase che caratterizza le relazioni tra America latina e Asia da almeno dieci anni. Storicamente, infatti, i primi contatti tra le due aree risalgono alla scoperta dello stretto di Magellano, quella lingua di mare che consentì agli spagnoli di aprire la prima rotta verso le Filippine e da lì al resto dell’oriente, alla Cina, all’Indonesia e poi all’Australia e alla Nuova Zelanda.
Si trattava sostanzialmente di traffici privati, di commercio, di ricerca di nuovi sbocchi per le tante risorse naturali di cui era ricca ed è tuttora ricca l’America latina. Nei secoli successivi poco cambiò finché la rivoluzione industriale mutò le priorità geostrategiche, le rotte e i traffici e, a livello politico, l’America latina si ritrovò nella sfera del Nord del mondo, periferia di un impero che guardava gli Stati Uniti e al suo estremo oriente, l’Atlantico e l’Europa.
Dai primi anni di questo nuovo secolo la prospettiva sembra però cambiata e i tra i due continenti transpacifici sono cominciati intensi e fruttuosi contatti.
Forse è presto per considerare quello che stiamo vivendo “il secolo del Pacifico”, come ha affermato il presidente Obama a Camberra o scritto Hillary Clinton in un suo articolo su Foreign Policy. Ammettere questo cambio di priorità geografica, economica e politica significherebbe, infatti, relegare al ruolo di comprimari quei Paesi a capitalismo maturo che sono stati i protagonisti della storia recente e che si trovano ora in una fase di recessione e di perdita di leadership politica.
Senza arrivare a queste estreme conseguenze, quel che sembra chiaro è che nei prossimi anni il mondo dovrà guardare sempre più alla relazione Sud-Sud come a un nuovo polo della geografia post-globalizzazione neoliberista.
Risponde proprio a questa esigenza di nuove geometrie economiche il consolidamento della Alianza del Pacifico, ultimo nato tra i blocchi regionali latinoamericani. Siglato nel 2011 da Cile, Messico, Perù e Colombia (Costa Rica, Panama e Canada sono per ora paesi osservatori) con il proposito di consolidare le relazioni tra i Paesi latinoamericani che si affacciano sul Pacifico, il trattato istitutivo della Alianza ha subìto un’accelerazione con la firma, lo scorso 6 giugno a Antofagasta in Cile, di un accordo-macro in materia di libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone.
Si tratta, in altri termini, del consolidamento del processo attraverso la creazione di un’area di libero commercio e d’integrazione infrastrutturale ed energetica che guarda, per vocazione geografica, a quell’area del mondo, l’Asia-Pacifico, che in questa fase sta sostenendo la domanda e trascinando la crescita mondiale. Un accordo-macro, tra l’altro, che segue di pochi mesi la creazione del MILA (Mercato Integrato Latinoamericano) di cui fanno parte le borse valori dei quattro soci e che rappresenta il sistema di borse valori più grande dell’America latina in termini di società quotate.
L’alleanza del Pacifico si candida a fornire materie prime, alimenti e servizi di cui quei Paesi hanno bisogno e offre come contropartita un mercato di più di 200mila potenziali consumatori, che sviluppa un Pil pari al 36% di quello dell’intera America latina e con un export che pesa per il 55% del totale dell’area.
Paesi molto dinamici, insomma, quelli che si affacciano sul Pacifico, che hanno tassi di crescita economica elevati, che scommettono su un’economia aperta e fondano la propria sfida a un sistema progressivamente sempre più protezionistico sulla firma di accordi di libero scambio (al giugno del 2011, si contano dodici TLC transpacifici già siglati e in vigore, tre siglati ma non ancora in vigore e altri sei in fase di negoziazione).
L’obiettivo è chiaro e le potenzialità altrettanto. Il nuovo blocco si propone come una piattaforma strategica verso i Paesi dell’Asia. Soprattutto e in primo luogo la Cina, che è già il primo mercato delle esportazioni del Brasile e del Cile e il secondo per il Perù, Cuba e Costa Rica. Secondo i dati resi noti del rapporto CEPAL “Cina e America latina e Caraibi: verso una partnership economica e commerciale” pubblicato lo scorso marzo, l’intercambio commerciale tra le due aree è ormai vicino ai 200 milioni di dollari e la Cina è già un socio commerciale importantissimo per la regione. L’Alleanza guarda a tutta un’area – non solo “impero del dragone”, quindi – che include Giappone, India, Australia, Corea, Vietnam, Indonesia e Malesia: tutte potenze economiche a pieno titolo valutabili come regional players.
L’Alleanza del Pacifico può avere potenzialità interessanti anche per la sua configurazione strutturale innovativa. Alla presenza di tre Paesi sudamericani ne unisce uno nordamericano, cosa che fa preludere a nuove geometrie anche su altri scacchieri come quello del Nafta che già lega Stati Uniti, Canada e Messico.
Stiamo parlando, insomma, di lunga dorsale di costa del Pacifico che potenzialmente va dall’Alaska alla Patagonia cilena.
In un contesto americano, poi, in cui i blocchi regionali emisferici sembrano in affanno, privi come sono di incisività e autorevolezza politica (la situazione di semi-conflittualità su molti dossier in cui versa Organizzazione degli Stati Americani ne è l’esempio più evidente) e quelli regionali come il Mercosur attraversano un fase di paralisi e di mancanza di iniziativa politica, l’Alleanza potrebbe essere uno strumento da valutare positivamente nel più generale ripensamento delle alleanze regionali e globali in corso in America latina.
Sempre dal punto di vista delle dinamiche geografiche regionali, un ulteriore elemento di riflessione riguarda il fatto che questo blocco escluda, per ora, il Brasile, un paese continente che, al pari della Cina, ambisce a giocare un “suo” ruolo nella ricomposizione dei nuovi rapporti di forza che si avranno al termine della crisi finanziaria e economica che stiamo vivendo. Sarà interessante capire quale ruolo intenda ritagliare per sé quello che è il paese leader per superficie, popolazione, Pil e Pil pro-capite dell’Alleanza, il Messico, e se la sua classe dirigente intenda procedere verso un proprio ruolo autonomo o decida, al contrario, di orientarsi verso una partnership strategica con Brasilia.
Il fatto, poi, di configurare il blocco, almeno in una prima fase, come un accordo molto meno burocratico dal punto di vista commerciale e senza un’agenda programmatica definita dal punto di vista della cooperazione politica potrebbe agevolare gli obiettivi macroeconomici dei soci. Resta il dubbio, tuttavia, che questa scelta di disimpegno in tema di dialogo politico corra il rischio di mostrare a lungo andare l’intrinseca e strutturale debolezza della Alianza.
Un altro tema, poi, su cui si misurerà l’efficacia del progetto riguarda la “clausola democratica” prevista per i partners del Trattato. L’accordo-macro prevede, infatti, la vigenza dello stato di diritto, la presenza di un sistema democratico nei paesi aderenti e il rispetto delle norme costituzionali (l’eco delle dittature, così vicine nel tempo per quei Paesi, è evidente). Si tratta chiaramente di caveat che limitano i Paesi che intendono associarsi. Tuttavia, risulta stridente la contraddizione politico-culturale di una richiesta di natura squisitamente “politica” ai membri interni latinoamericani e la disponibilità, allo stesso tempo, a trattare impegni e accordi con Paesi, quali quelli asiatico-pacifici, che in molti casi non rispettano al proprio interno queste pre-condizioni o che le percepiscono come una richiesta inutile e, al limite, come un ostacolo insormontabile per un dialogo politico culturale che trascenda il mero dato commerciale. In questo senso, solo il tempo ci mostrerà fino a che punto i vari sistemi saranno capaci di integrarsi e diventare complementari e se e in che misura si riuscirà a sviluppare un dialogo e una cooperazione politica bilaterale e multilaterale, che devono essere, in ogni caso, l’obiettivo ultimo di una strategia di lungo termine.
Qual che va auspicato, in ogni caso, è che la relazione tra Asia e America latina possa finalmente fare un salto di qualità, dando vita a alleanze imprenditoriali, commerciali e tecnologiche su nuove basi. Finora, infatti, i flussi commerciali transpacifici sono stati caratterizzati dall’export di materie prime per i latinoamericani e per quello di manufatti a basso valore aggiunto nel caso degli asiatici. In altri termini, l’aumento delle relazioni commerciali con la Cina, e più in generale con l’Asia, non ha comportato un miglioramento dell’inserzione commerciale dell’America latina nell’economia globale e ancor meno un miglioramento in termini di produttività e innovazione tecnologica.
Il consolidamento della Alianza quale blocco economico avrà certamente l’effetto di migliorare la capacità di negoziato ma resta il sospetto che, in un sistema economico del presente e del futuro in cui innovazione e tecnologia faranno la differenza, rimanere arretrati proprio su questi fronti significhi relegarsi al ruolo di “paesi satellite” delle grandi potenze. Il caso del Messico, in questo senso, presenta ulteriori spunti di analisi. Questo Paese, infatti, più che complementare alle economie asiatiche sembra piuttosto concorrenziale ad esse. Recenti studi di J.P. Morgan sul Messico mettono in evidenza che se dieci anni fa il settore manifatturiero cinese era del 237% più economico di quello messicano, oggi lo è solo del 14 %. Se a questa percentuale sottraiamo gli alti costi di logistica e trasporto dalla Cina agli Stati Uniti, il Canada o il Brasile, non è peregrino affermare che, forse, la vera Cina è il Messico ed è più vicina di quanto di pensi.
In conclusione, le riflessioni che il consolidamento dell’Alleanza del Pacifico sollecita sono molte e complesse e investono considerazioni di carattere politico e valutazioni di natura economica. Dipendono, oltre tutto, dalla necessità di ripensare il ruolo che alcuni Paesi hanno assunto finora nell’ambito della divisione internazionale del lavoro e dalla capacità delle prossime classi dirigenti di saper immaginare e realizzare un salto di qualità nella fase successiva alla crisi economica e finanziaria. La frontiera del Pacifico resta, in ogni caso, una sfida che l’America latina del XXI secolo non può non accettare e provare a vincere, soprattutto in un momento in cui l’Europa sembra distratta dalla sua agenda interna e poco attenta a quel tanto che si muove al suo estremo occidente.

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Successo dell’estrema destra in Cile

I risultati delle elezioni di domenica scorsa per il Consiglio costituzionale ‒ che avrà il compito di redigere una nuova Costituzione in Cile che sarà sottoposta a plebiscito a dicembre ‒ sono stati un duro colpo per i partiti di governo. Ha stravinto l’estrema destra del Partito repubblicano di José Antonio Kast che ha ottenuto il 35,48% dei voti e 23 dei 50 seggi. Il centrodestra (Rinnovamento nazionale, Unione democratica indipendente ed Evópoli) ha ottenuto il 21% dei consensi e 11 consiglieri. Insieme, destra estrema e centrodestra ottengono il 56,48% e 34 seggi, i tre quinti del totale e potranno di conseguenza avere un potere reale e molto forte nella riscrittura della Costituzione, non ultimo quello di veto che nella precedente Costituente aveva la sinistra.

 

La lista del governo (Frente Amplio, Partito comunista e Partito socialista) ha ottenuto solo un 28,5% dei voti (era auspicabile almeno ottenere il 38% dei voti, che era il risultato dello scorso settembre nel referendum costituzionale perso). La lista di centrosinistra (PPD, Partito radicale e Democrazia cristiana – che ricordiamo non fa parte del governo attuale) ha ottenuto l’8,96% e nessun seggio. Insieme raggiungono il 37,46% che è una buona percentuale di appoggio a Boric dopo 15 mesi complicati di governo. Ma le percentuali non bastano a spiegare il fatto che il governo Boric si è diviso in due liste: una di sinistra e una di centrosinistra che hanno plasticamente mostrato la fragilità del governo su una partita importante qual è la riscrittura della Costituzione. Una unica lista unita probabilmente non avrebbe contrastato lo strapotere delle destre in questo momento ma avrebbe certamente dato l’immagine di una compagine governativa centrata sull’obiettivo e disposta a misurarsi su un dossier tanto importante senza inutili distinzioni. Come alcuni analisti sottolineano, con un “centro politico vuoto” non sarà possibile produrre accordi di lungo periodo quali sono quelli richiesti per una riforma costituzionale. Vedremo se davvero l’Unione democratica indipendente e i socialisti avranno un ruolo preponderante o se prevarranno le estreme: il referendum perso a settembre dovrebbe essere di monito.

 

Il successo del Partito repubblicano in questa competizione elettorale si deve al fatto che ha attratto voti dall’Unione democratica indipendente, che sta sempre più diventando un partito di centrodestra, e dal nuovo Partito della gente (un partito populista di destra, che non è riuscito a istituzionalizzarsi dopo le lezioni del 2022 e che ha perso consensi nell’ultimo periodo per alcune accuse ai suoi vertici di narcotraffico). I repubblicani hanno anche recuperato voti di precedenti astenuti vicini alle forze conservatrici estreme che in passato non avevano rappresentanza politica e che sono stati attratti dal discorso radicale di destra del Partito repubblicano. Kast ha una enorme responsabilità in questo processo costituente: se anche questo tentativo non andasse in porto, il primo a esserne colpito sarebbe proprio lui. Pertanto ora ha tutto l’interesse a che la Costituente vada a buon fine, ovviamente con i limiti dettati dal suo partito e con i contenuti che vorrà: vedremo col tempo quali reali cambiamenti ci saranno rispetto alla Costituzione di Pinochet anche se abbiamo il sospetto che la nuova versione della Carta Magna non si discosterà molto dal modello che si vorrebbe superare.

 

Il paradosso è tutto qui: Kast la Costituente non la voleva proprio e ora ha nelle sue mani il futuro del progetto. La conseguenza di questa tornata elettorale è che ora il suo partito avrà un peso più forte nella politica parlamentare per imporre i suoi termini e condizioni anche nelle importanti riforme politiche che il Paese si trova ad affrontare: la riforma delle pensioni, quella tributaria e quella della sanità.

La bassa percentuale ottenuta dalla lista di governo (28,5%) è certamente un segnale per Boric. Anche se il presidente ha mantenuto in questa circostanza un profilo basso, è evidente che a dettare l’agenda è stato Kast, che ha fatto presa sul dossier della violenza e della delinquenza, cavalli di battaglia della destra cilena. In ogni caso, il 28% ottenuto dalla lista di sinistra è molto vicino alla percentuale di approvazione del presidente Boric negli ultimi tempi: in altre parole, l’insieme delle forze di governo ha una percentuale di consenso uguale a quella del presidente da solo. E non è un buon segnale. Le forze di governo sono arrivate a questo appuntamento elettorale indebolite dalla sconfitta del referendum di settembre e dalle incertezze del quadro complessivo caratterizzato da un’alta inflazione e dalla crisi della sicurezza pubblica. Certamente a vantaggio del quadro complessivo sono due misure molto importanti approvate recentemente: la settimana di 40 ore e l’aumento del salario minimo che sono rilevanti risultati sul fronte delle politiche sociali.

«Voglio invitare il Partito Repubblicano a non commettere lo stesso errore che abbiamo commesso noi», ha dichiarato il presidente Boric a risultati ormai acquisiti e ricordando il fallito processo costituente dello scorso anno. «Il Cile ha sconfitto un governo fallito», gli ha risposto Kast. Le premesse non sono le migliori anche questa volta. Vedremo se i consiglieri costituenti sapranno agire «con saggezza e fiducia», come auspica Boric, ma la sensazione è che la polarizzazione sia davvero un ostacolo difficile da superare.

 

Immagine: José Antonio Kast (30 agosto 2021). Crediti: Mediabanco Agencia [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

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I primi 100 giorni di Lula, tra misure interne e proiezione internazionale

 

Intervistata recentemente da Carta Capital, settimanale brasiliano progressista, la professoressa Heloisa Starling dell’Università Federale di Minas Gerais, faceva una diagnosi senza sconti del quadriennio di Bolsonaro. La docente parlava del Brasile come di un Paese che aveva perso la dimensione del futuro e il progetto di nazione, mettendo in evidenza come il primo compito di Lula fosse quello di ricostruirlo. La professoressa parlava anche di una democrazia distrutta dall’interno e sottolineava come mai nella storia del Brasile ci fosse stato un tale processo di destrutturazione intenzionale. Effetto di tutto questo era il crescere della paura e dell’impotenza, con un’idea di comunità devastata e con gli individui che si erano sentiti via via più soli. In sintesi, una situazione politica, economica e sociale disperante per il nuovo corso iniziato il 1° gennaio con il Lula ter. Il neopresidente brasiliano non ha però perso tempo: il primo obiettivo è stato infatti quello di pacificare il Paese, perché non si governa un gigante delle dimensioni del Brasile con metà della popolazione che non riconosce il nuovo inquilino di Planalto. Lula lo ha detto chiaramente: i primi 100 giorni sono una tappa importante, ma ci sono ancora 1.360 giorni di lavoro. Giudicatemi alla fine del mandato, è il sottinteso.

 

I primi provvedimenti sono un po’ un ritorno al passato: una riedizione aggiornata e poco corretta dei programmi sociali che sono stati il cardine delle politiche pubbliche dei suoi precedenti mandati e che hanno consentito al Brasile di far uscire dalla soglia di povertà quasi 40 milioni di cittadini. In primis il nuovo programma Bolsa Família, che ha visto aumentare il trasferimento a 600 reais e che ha incluso una addizionale di 150 reais per i figli a carico. Il programma Mais Médicos è stato rilanciato dopo gli anni bui della gestione della pandemia che hanno reso evidente quanto il sistema di salute pubblica fosse in condizioni pessime. Ricordiamo che questo programma è parte di un vasto sforzo del governo federale, con appoggio degli Stati e dei municipi, per migliorare la fruizione da parte dei cittadini del Sistema unico di salute, il SUS (Sistema Único de Saúde). Oltre a portare medici in zone che ne sono prive o dove c’è scarsità di camici bianchi, il programma prevede più investimenti per la costruzione, la riforma e l’ampliamento delle Unità di base della salute. Insomma, un programma sociale rivolto principalmente alle classi meno abbienti della popolazione brasiliana che non possono permettersi le cure nelle cliniche private a pagamento. È stato infine resuscitato il programma Minha casa, minha vida che promuove il diritto a una casa di proprietà e che si avvale di finanziamenti pubblici ad hoc e prestiti a tasso di interesse inferiore a quello di mercato. Lula lo aveva promesso al suo insediamento: c’era da ricostruire il Brasile e bisognava pertanto mettere mano ai programmi sociali già sperimentati in passato per alleviare le sofferenze di classi sociali abbandonate dalle politiche di Bolsonaro.

 

I risultati in termini di consenso non si sono fatti attendere, anche se con alcune dovute precisazioni. Secondo uno degli ultimi sondaggi disponibili, il governo Lula è considerato “buono o ottimo” dal 40% dei brasiliani. Se si considera il giudizio della classe media, la situazione peggiora un po’: in questa fascia di popolazione il giudizio “buono o ottimo” scende al 30% tra i brasiliani che guadagnano da 2 a 5 volte il salario minimo e scende al 26% tra quelli che percepiscono tra le 5 e le 10 volte il salario minimo. Nel primo gruppo, il 36% pensa che il governo Lula sia “pessimo”, nel secondo gruppo la percentuale sale al 47%. Se non si considera il reddito, la disapprovazione generale rispetto al governo è del 28%. Questi risultati sono stati ben accolti dall’entourage di Lula: ricordiamo, infatti, che il rifiuto totale di Lula durante la campagna elettorale era del 40-50%. Gli “anti-Lula” sono oggi circa il 30%. È vero che il sostegno al neopresidente è oggi molto inferiore rispetto a quando aveva lasciato il potere nel 2010 (si attestava al livello record dell’80%-85%), ma va considerato che il mondo, e il Brasile non fa eccezione, è molto più polarizzato oggi che nella prima decade del secolo e che la destra interna e internazionale è molto più forte e organizzata oggi che nel 2010.

 

Portati a casa i programmi sociali, per Lula comincia ora una nuova tappa di governo con al centro la classe media, che a suo avviso è quella che ha sofferto di più per il malgoverno del Paese. Ritornare alla classe media significa migliorare il potere di acquisto di questa fascia di popolazione, e una prima misura in tal senso sarà l’aumento della quota di esenzione delle imposte che passerà a 5.000 reais. Una proposta che porterà un beneficio tangibile a 17 milioni di contribuenti. L’andamento dell’economia del gigante latinoamericano sarà cruciale per la sopravvivenza politica di Lula. Secondo un sondaggio Datafolha, i brasiliani sono oggi scettici nei confronti della situazione economica del Paese. A dicembre scorso, il 49% pensava che sarebbe migliorata, oggi questa percentuale è scesa al 46%. A dicembre il 20% riteneva che sarebbe peggiorata, oggi questa percentuale è salita al 29%. Importantissimo in questo senso il controllo del tasso di inflazione, che erode i salari soprattutto della fascia di reddito medio e basso: negli ultimi 12 mesi (il dato è di febbraio) il tasso di inflazione era del 5,6%, sostanzialmente in linea con quello dell’anno precedente (5,7%), ma si mantiene molto alto il tasso di interesse (al 13,75%) applicato dalla Banca centrale brasiliana e che più volte Lula ha auspicato scenda almeno un po’ per favorire l’espansione degli investimenti e dell’economia brasiliana. In salita è la disoccupazione, che è passata in pochi mesi dal 7,9% all’8,6%.

 

Questi primi mesi sono stati utili anche per riprendere il filo interrotto da Bolsonaro delle relazioni internazionali. Dopo le visite di Stato in Argentina (una consuetudine della diplomazia brasiliana vuole che il primo viaggio all’estero del neopresidente sia nel Paese vicino; tradizione interrotta, manco a dirlo, dallo stesso Bolsonaro) e negli Stati Uniti, Lula ha festeggiato i 100 cento giorni di governo con una imponente missione in Cina. La prima giornata a Shangai è stata segnata da due appuntamenti: il primo è stato l’insediamento di Dilma Rousseff a presidente della New Development Bank (Nuova banca di sviluppo) dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). L’istituzione si pone come contraltare del Fondo monetario internazionale (FMI) e della Banca mondiale che a detta dei BRICS sono controllati soprattutto dagli USA e dai suoi alleati occidentali. Costituita sette anni fa, la Banca ha finora approvato 99 progetti nei BRICS per più di 34 miliardi di dollari, principalmente per infrastrutture, e la maggior parte di questi crediti è andata a beneficio del Brasile (ad esempio, per il progetto della metro di San Paolo). Durante la cerimonia, il presidente Lula ha patrocinato l’uso della loro moneta nazionale nelle transazioni tra i Paesi della Banca ‒ «chi ha deciso che debba essere il dollaro la moneta?» ha aggiunto ‒, sancendo di fatto un asse sud-sud nella governance economica internazionale. Ha inoltre criticato gli ostacoli che incontrano le economie emergenti all’interno dell’FMI o della Banca mondiale ed è tornato a chiedere l’ampliamento della Banca dei BRICS ad altre economie, dicendosi certo che Dilma darà impulso a questa richiesta. «La Banca dei BRICS rappresenta molto per tutti quelli che sognano un mondo diverso, per quelli che hanno coscienza della necessità dello sviluppo e che, pertanto, hanno bisogno di denaro per fare investimenti» ha chiosato. Rousseff, nel suo discorso, ha difeso la Banca dei BRICS come la banca del «Sud globale», volta a lavorare non solo con gli attuali membri ma con molti altri Paesi in via di sviluppo. Ha aggiunto poi che è sua intenzione estendere l’uso delle monete locali.

Seconda tappa è stata la visita alla Huawei, che lavora in Brasile da più di 20 anni, è impegnata nello sviluppo del 5G e del 6G, e nel 2021 ha vinto un bando di gara per l’implementazione di queste tecnologie nel Paese sudamericano. Non è sfuggito ai commentatori il fatto che Huawei è azienda bandita dagli Stati Uniti poiché la Commissione statunitense per le comunicazioni federali la ha inclusa nella lista di imprese di telecomunicazione e tecnologia considerate pericolose per la sicurezza nazionale. Un piccolo sgarbo agli Stati Uniti quindi? Non proprio, ma è certo che il Brasile di Lula non si farà dettare l’agenda da altri.

 

Gli occhi del mondo erano però tutti sul bilaterale Lula-Xi Jinping del venerdì, rispetto al quale valgono più i sottintesi (nel senso della costruzione di nuovi rapporti di forza e di una nuova geografia tra le potenze) che non le dichiarazioni esplicite. L’atteso bilaterale tra Lula e Xi Jinping si è svolto in un clima di grande complicità e intesa. Al centro del colloquio sono stati i temi economici e commerciali. Sono stati siglati 15 accordi commerciali (rilevanti soprattutto quelli su scienza e tecnologia). Tra questi spicca quello relativo allo sviluppo di un satellite CBERS 6 (China-Brazil Earth Resources Satellite 6), per monitorare la regione amazzonica, oltre a quelli che riguardano la facilitazione delle transazioni commerciali, la promozione degli investimenti e gli standard sanitari applicati al commercio alimentare. «Nessuno può impedire al Brasile di migliorare le proprie relazioni con la Cina e non solo dal punto di vista economico», ha detto Lula. Gli ha risposto Xi affermando che la Cina considera le relazioni con il Brasile prioritarie e che è pronta a cooperare per rafforzare il loro partenariato allo scopo di apportare benefici ai rispettivi popoli. «La Cina e il Brasile sono i due maggiori Paesi in via di sviluppo e mercati emergenti negli emisferi orientale e occidentale, e in qualità di partner strategici condividono ampi interessi comuni», ha detto il presidente cinese. Ha poi aggiunto che la relazione «solida e costante» fra Cina e Brasile «è destinata a svolgere un ruolo importante e positivo per la pace, la stabilità e la prosperità». «La Cina considera e sviluppa sempre le relazioni con il Brasile da un’altezza strategica e da una prospettiva a lungo termine, ponendo gli scambi con Brasilia tra le priorità della sua diplomazia. Il presidente [Lula] è un vecchio amico del popolo cinese. Ha a lungo curato e sostenuto la causa dell’amicizia tra la Cina e il Brasile, promuovendo a grandi passi lo sviluppo delle relazioni bilaterali. Sono disposto a lavorare con Lula per guidare e inaugurare un nuovo futuro per le relazioni bilaterali nella nuova era, così da apportare maggiori benefici ai due popoli».

I primi 100 giorni di governo non potevano avere un epilogo migliore: il Brasile è tornato a parlare con una grande potenza, qual è la Cina, da pari a pari, e questo non era per nulla scontato per un Paese che per quattro anni è stato lontano dalla scena internazionale. Una buona premessa per il futuro prossimo (è in programma una visita di Lula in Europa: Parigi, Berlino, Madrid e Lisbona le mete scelte per questo primo viaggio nel Vecchio Continente). Meno lusinghieri sono necessariamente i commenti se si guarda all’accoglienza riservata al ministro per gli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, a Brasilia: uno scivolone in cui una potenza del G20 qual è il Brasile, che difende democrazia, le istituzioni democratiche e i diritti umani in ogni sede possibile non dovrebbe incorrere.

È evidente che 100 giorni sono pochi per valutare i progressi economici e sociali di un governo ma sono abbastanza per valutare se ci sia o meno una inversione di tendenza rispetto al passato. E a noi sembra che sia così. Lo ha detto bene Lula chiudendo la riunione con i ministri per fare un bilancio di questi tre mesi e poco più: «Il Brasile è ritornato al futuro e questo è solo l’inizio».

 

Immagine: Luiz Inácio Lula da Silva 21 settembre 2022. Crediti: Isaac Fontana / Shutterstock.com

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La nuova destra in America Latina

 

A uno sguardo superficiale nessuno direbbe che l’estrema destra in America Latina costituisca una fonte di preoccupazione per i governi della regione. La maggioranza dei Paesi del continente è amministrata da governi che, seppur con le dovute differenze, diremmo progressisti o di sinistra, tanto da far parlare gli esperti di una nuova onda di sinistra dopo quella del primo decennio del secolo. E allora perché dedicare la nostra attenzione all’estrema destra latinoamericana? A nostro avviso non è un esercizio teorico e avulso dalla realtà. Ma cominciamo con il chiederci: è davvero così forte la destra nel continente latinoamericano o siamo di fronte a esperienze singole, di poco conto, che non costituiscono una vera e propria internazionale transregionale?

Facciamo un passo indietro. Qualche mese fa, Vox, il partito di estrema destra spagnolo, ha tenuto un incontro internazionale per celebrare, a detta loro, la storia della Spagna. In quella occasione, hanno convocato in presenza e on-line una serie di leader internazionali che potessero condividere con i militanti e i dirigenti del partito i valori comuni. Ebbene chi c’era in questo gruppo di invitati internazionali? In primo luogo l’estrema destra europea (con Giorgia Meloni in prima fila) e poi esponenti del resto del mondo. Chi c’era per l’America Latina, per restare al continente di cui ci stiamo occupando? C’erano José Antonio Kast, candidato presidenziale cileno, nostalgico della dittatura di Pinochet, che è arrivato al ballottaggio contro Gabriel Boric alle elezioni dello scorso anno classificandosi al primo posto al primo turno con il 27,91% dei voti. C’era poi Jeanine Áñez, presidente golpista della Bolivia e oggi in stato di arresto. C’era anche Álvaro Uribe, ex presidente della Colombia, che durante i suoi mandati si è macchiato di delitti di lesa umanità, di violazione dei diritti umani, è accusato di aver dato grande spazio a reparti paramilitari che sono stati autori di ogni nefandezza nel Paese, comprese sparizioni forzate, omicidi di difensori dei diritti umani, di campesinos, di dirigenti sindacali e di leader dei villaggi. E per questo, per inciso, è oggi sotto processo.

Ebbene in questo gruppo di persone, a nostro avviso, ci sarebbero stati bene e a pieno titolo anche Jair Bolsonaro, l’ex presidente della Repubblica del Brasile che ha minacciato fino all’ultimo la vittoria di Lula, spaccando praticamente a metà il gigante latinoamericano, così come Keiko Fujimori, figlia del dittatore Alberto ed eterna candidata alla presidenza peruviana con un pacchetto di voti consolidato e rilevante tanto da essere battuta da Pedro Castillo, lo scorso anno, con il 50,12% dei voti validi, una vittoria risicata con soli 44.263 voti più di Fujimori. Anche qui un Paese spaccato a metà con le conseguenze che abbiamo visto dopo il 7 dicembre dello scorso anno con il tentato autogolpe di Castillo, la sua destituzione da parte del Congresso e i disordini conseguenti che durano ancora oggi.

 

Si tratta, a ben vedere, di una internazionale della estrema destra che presenta tanti punti in comune, riferimenti ideologici condivisi, strategie politiche e di comunicazione molto simili. In ogni caso, stiamo parlando di una destra latinoamericana forte, robusta e che gode di ottima salute come forse mai prima da quando la regione è tornata alla democrazia dopo la parentesi luttuosa delle dittature militari. Il principale elemento in comune di questa famiglia politica transnazionale è la guerra al comunismo, che per loro significa guerra a tutte le forme di progressismo che possono incontrarsi in un sistema politico. Da qui discendono una restrizione dei diritti e delle libertà e l’ideale di una democrazia illiberale o, ancora, di una autocrazia elettorale. Fa parte di questa visione del mondo, in cui prevalgono il motto “Dio, Patria e famiglia”, una visione restrittiva, reazionaria e conservatrice del cristianesimo nelle sue varie Chiese. In America Latina, una visione tridentina del cattolicesimo e una visione pentecostale del cristianesimo. Ancora, fanno parte di questo catalogo di valori la retorica sulla sovranità, il recupero di competenze allo Stato nazionale contro le organizzazioni sovranazionali e la difesa degli interessi nazionali nei confronti di qualsiasi organismo sovranazionale regionale cui lo Stato appartenga. In politica economica prevale un neoliberismo spinto, erede, nella regione dei Chicago Boys degli anni Settanta e Ottanta, delle politiche economiche dei tempi delle dittature adattati ovviamente alla globalizzazione neoliberista che questi protagonisti della estrema destra della regione seguono pedissequamente.

 

A questa estrema destra 2.0 non manca un uso disinvolto dei social media: la campagna di comunicazione è essenziale per diffondere paure e risentimenti nei confronti di un nemico su cui far ricadere le carenze e le debolezze della propria proposta politica o gli insuccessi delle politiche pubbliche attuate. Questa estrema destra latinoamericana non si limita alla competizione elettorale: agita gli animi in grandi adunate di protesta fino ad arrivare all’estrema mobilitazione rappresentata dal caso brasiliano dello scorso 8 gennaio. Ci riferiamo alla mobilitazione dei seguaci di Bolsonaro con l’obiettivo di destabilizzare il sistema con un golpe contro il presidente Lula. Non è un caso che sia avvenuta proprio in Brasile la “Capitol Hill” in salsa sudamericana: Bolsonaro si candida ad essere il campione del politico latinoamericano di estrema destra, un modello per gli altri nella regione. Vale la pena, quindi, approfondire un altro aspetto dell’estrema destra bolsonarista perché evidenzia caratteristiche interessanti e comuni a tutto il subcontinente.

Emblematico è il caso delle relazioni internazionali e di come vengono concepiti i rapporti tra Stati da questo campione sudamericano. Tutte le relazioni internazionali dell’ex presidente brasiliano sono improntate a una costante: l’agenda ideologica prevale sull’interesse nazionale. E questo può costituire un problema oggettivo. Quando si prendono in considerazione le relazioni internazionali il punto di vista dello spettro ideologico della controparte diviene fondamentale. Molto stretti, quindi, sono stati i rapporti con gli Stati Uniti di Trump, ma anche i legami con la Russia di Putin: solo otto giorni prima della invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Bolsonaro si trovava a Mosca ed elogiava il suo amico russo. Stessa comunione di intenti con la Polonia e l’Ungheria, due Paesi che in Europa appartengono a pieno titolo al fronte sovranista internazionale e che a livello interno sono ormai due autocrazie elettorali. In America Latina, un rapporto privilegiato era quello con il Guatemala di Giammattei, un leader che ha fatto della difesa dei valori cristiani una parte importante della sua agenda di governo, e con Bukele in El Salvador, Paese che si sta via via trasformando in una vera e propria dittatura elettorale, con pugno di ferro in materia di sicurezza e disprezzo dei diritti umani. Non proprio due giganti latinoamericani! Poco noti ma altrettanto stretti erano i legami con le monarchie del Golfo, a cui lo univano i valori oscurantisti della limitazione dei diritti civili e dei diritti delle donne, monarchie del Golfo che spesso hanno fatto fronte comune con il Brasile negli organismi internazionali.

 

Identità forte e ben definita, uso spregiudicato dei mass media e dei social network, rete internazionale di partiti politici strutturata e in costante contatto per delineare un’agenda comune transnazionale: ecco i punti forti di questa nuova internazionale della estrema destra mondiale. E l’America Latina ne è una appendice di tutto rispetto con esponenti politici determinati e dal consistente e comprovato consenso. Spetterà ai molti governi progressisti della regione porre un argine alla deriva sovranista che avanza: l’esempio brasiliano del golpe dei seguaci di Bolsonaro insegna che è una destra che può arrivare a minacciare le istituzioni democratiche e le cui azioni potrebbero avere un esito quando queste istituzioni siano particolarmente deboli e fragili. È questo, quindi, il fronte su cui lavorare di più nella regione latinoamericana, il consolidamento delle istituzioni democratiche. Ed è questione che riguarda, che lo si ammetta o meno, anche l’altra sponda dell’Atlantico.

 

Immagine: Jair Bolsonaro (4 marzo 2023). Crediti: lev radin / Shutterstock.com

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Brasile, vince Lula per un soffio

 

È stato detto da Winston Churchill che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”. Mai frase fu più calzante per il secondo turno delle elezioni in Brasile. Ha vinto il fronte democratico contro quello autocratico e populista, ha vinto la speranza contro la paura, hanno vinto il progresso, la giustizia sociale, la lotta al cambiamento climatico, l’inclusione sociale, il rispetto per le istituzioni democratiche, la libertà, la fraternità. Non è stato facile, è vero. Luiz Inácio Lula da Silva vince il ballottaggio con 60 milioni e 300 mila voti, il presidente più votato della storia del Brasile, ma Bolsonaro prende 58 milioni e 200 mila voti: solo 2 milioni di differenza. Considerando la percentuale dei voti validi, è stata la vittoria più stretta dal ritorno alla democrazia. Lula ottiene il 50,9%, Bolsonaro il 49,1. Una inezia.

Nel suo primo discorso da presidente eletto, Lula ha dichiarato che non esistono due Brasile e che lavorerà per la riconciliazione di un Paese diviso. «Sarò il Presidente di tutti i brasiliani», una presa di posizione che, visti i risultati, non è una frase fatta: c’è un Paese da ricostruire e ci vorranno tutta la sapienza, tutta l’esperienza, tutta la capacità di fare sintesi di Lula per centrare questo obiettivo. Senza fare riferimento all’attuale presidente, Lula ha difeso, nel suo discorso, il ritorno alla normalità democratica e quello alle politiche per combattere le disuguaglianze, ripetendo che la lotta alla fame sarà la sua priorità numero uno. Poi ha ringraziato tutti coloro che hanno partecipato alla campagna elettorale menzionando tra i primi Simone Tebet la candidata dell’MDB (Movimento Democrático Brasileiro) che ha ottenuto il 4% al primo turno e che tra i primi aveva dichiarato il suo voto e quello del suo partito per Lula.

Un Paese diviso, il Brasile, come mai prima, a livello geografico e sociale. Bolsonaro e il bolsonarismo sono più vivi che mai e il nuovo governo dovrà farci i conti. A tal proposito, sono illuminanti le parole espresse da Esther Solano, docente di scienze sociali all’Università federale di San Paolo, pubblicate in un bel commento su El País del 3 ottobre, quando la distanza in termini di voti tra i due candidati era di 6 milioni di preferenze non di 2 milioni! Solano dice che nel 2018 si pensava che Bolsonaro non potesse vincere le elezioni e le vinse. «Ci eravamo sbagliati», il suo laconico commento. Nel 2022 pensavamo che il bolsonarismo fosse debole e invece si è mostrato forte e resistente. «Ci siamo sbagliati di nuovo». Perché tutto questo? Perché il bolsonarismo ha messo radici nel Paese, rappresenta milioni di brasiliani, i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro paure. Bisogna cominciare a giudicare il fenomeno per quello che è, una radiografia di una parte della società brasiliana, certamente conservatrice e in molti casi reazionaria. La sinistra brasiliana continua a non capire – secondo Solano – la forza di questo fenomeno perché pensa che solo il lulismo abbia penetrazione nella società e l’appoggio della stessa. La riprova di questo malinteso è che il partito di Bolsonaro, il PL (Partido Liberal), ha ottenuto un risultato in assoluto travolgente nel Parlamento brasiliano, 99 deputati; il PT (Partido dos Trabalhadores) di Lula ne ha ottenuti 79. Dei 27 senatori che si rinnovavano il 2 ottobre, il PL ne ha ottenuti 8, il PT 4. La stessa cosa è successa per i governatori che si rieleggevano il 2 ottobre. Nei maggiori Stati del Paese, Minas Gerais e Rio de Janeiro (il terzo e il secondo collegio elettorale più importante del Brasile), la destra ha vinto al primo turno e al ballottaggio nello Stato di San Paolo (il primo collegio elettorale del Paese) ha vinto al secondo turno il candidato bolsonarista. Dei quattro Stati più importanti della federazione, il PT vince solo nello Stato di Bahia. Questi dati a riprova che il bolsonarismo va molto al di là dello stesso Bolsonaro, è più forte di lui. Solano definisce un «bolsonarismo moderato» quello dei governatori, meno radicale, per contrapporlo a un «bolsonarismo ultrà» che è quello di certi rappresentanti eletti nel Congresso, se possibile più estremi dello stesso presidente uscente.

Tutto questo per dire che il bolsonarismo ha preso il posto in Brasile della destra moderata, democratica e repubblicana, che è stata vittima dei propri errori, dei propri personalismi, delle guerre interne. Questa destra estrema e sovranista ha preso il posto della destra classica che eravamo abituati a considerare in Brasile. Questa destra è ormai quella prevalente in quasi tutti i sistemi di economia avanzata e non stupisce che alcune sue caratteristiche siano presenti uguali a latitudini tanto diverse. Con questa nuova “estrema destra 2.0” bisogna fare i conti e batterla sarà sempre più difficile perché è pervasa nella società delle contraddizioni che stiamo vivendo, dove è ormai chiaro che il neoliberismo ha fallito e non c’è ancora un nuovo modello di riferimento. È una destra pericolosa e violenta ma riflette ampiamente una buona parte della società che si riconosce nei suoi dogmi, semplici ma molto efficaci e di facile presa. In un mondo fratturato e senza regole, in un GZero dove non esiste più una o un gruppo di potenze in grado di mantenere ordine e generare progresso, con questa nuova destra bisognerà avere a che fare per lungo tempo. Non è un fenomeno temporaneo e passeggero.

Con questa destra dovrà misurarsi Lula e non sarà facile. Innanzitutto, si troverà di fronte un Congresso, come abbiamo detto, a maggioranza di destra e sarà difficile la governabilità. Difficile poi far passare tutte le riforme di cui il Brasile necessita. Perché il Brasile ha urgente bisogno di una ricostruzione, di una rifondazione e queste riforme datano a ben prima dell’arrivo di Bolsonaro. Sono una sorta di “eredità democratica” dei precedenti governi progressisti.

 

Andiamo con ordine. Durante gli otto anni della sua presidenza, Lula riuscì a far quadrare il cerchio di conciliare la crescita economica con l’aumento delle spese sociali e degli investimenti pubblici, mantenendo una politica monetaria austera, rimborsando i debiti con il Fondo monetario internazionale e accumulando enormi riserve internazionali in dollari. Il boom dei prezzi delle materie prime e delle esportazioni verso la Cina furono fondamentali per porre in essere queste politiche. Allo stesso tempo, furono scoperti dalla Petrobras (la società statale degli idrocarburi) enormi giacimenti di gas e petrolio in acque profonde, consolidando il Brasile come superpotenza energetica. Dal punto di vista degli investimenti sociali, il programma Bolsa Família fece uscire dalla povertà 40 milioni di brasiliani. L’aumento del salario minimo da parte del governo convertì decine di milioni di cittadini in consumatori di classe medio-bassa, dando un forte impulso al mercato interno e di conseguenza agli investimenti delle imprese. Di fronte a questa rivoluzione copernicana che fece dire a Barack Obama che Lula era il politico più popolare del mondo, ci furono tante promesse non mantenute, quella eredità democratica di cui ho parlato prima, che ora torna a essere rivendicata. Vediamole più in dettaglio. Sebbene avesse tutta la capacità politica per farlo, specie durante il suo secondo mandato, il governo Lula non promosse nessuna riforma reale della struttura di potere nel Paese. Se è vero che la vita dei più poveri migliorò considerevolmente, le disuguaglianze sociali continuarono a essere la cifra del Brasile. Il sistema fiscale ha continuato ad essere molto generoso con i multimilionari e con le imprese, mentre penalizza la classe media e quella più povera, che continuano a pagare elevate imposte dirette e indirette ricevendo in cambio servizi di bassa qualità. Urge pertanto una riforma fiscale.

Non solo. La riforma politica è un altro dei capitoli dolenti, cosa che ha permesso la proliferazione di una miriade di partiti politici con rappresentanza parlamentare e che negoziano instancabilmente il loro appoggio al governo di turno in cambio di posti di potere, di prebende e di modifiche alla legge di bilancio per far fronte a clientele locali. Durante i governi Lula, poi, non fu adottata nessuna misura per ridurre l’influenza dei grandi gruppi dei media privati – la rete Globo per esempio – che hanno in pratica il monopolio dell’audience e determinano spesso con i loro programmi le sorti di un governo o dell’altro. Urge una nuova legge sul sistema radiotelevisivo e dei nuovi media (abbiamo visto in questa campagna elettorale quanto peso hanno avuto le fake news per orientare i programmi dei due candidati).

Per toccare un tasto vicino al candidato Bolsonaro, durante i governi progressisti non si è fatto nulla per mandare a processo i militari per i crimini commessi durante la dittatura o per democratizzare le Forze armate. Urge un ripensamento collettivo sull’epoca della dittatura e sui suoi crimini, una grande riscrittura del capitolo più buio della storia del Paese (sul modello di quanto fatto in Colombia con la Commissione per la Verità per i decenni di guerra civile)  e una assunzione di responsabilità in questo senso da parte del governo entrante.

Ancora, per toccare una misura di cui si parla da decenni in Brasile, sebbene i  governi Lula abbiano garantito importanti finanziamenti alla piccola agricoltura familiare, hanno appoggiato oltremisura l’agrobusiness. La riforma agraria continua a essere una promessa e sappiamo tutti come in un Paese in cui domina il latifondo sia una urgenza non più rinunciabile.

Queste sono solo alcune delle riforme di cui il Paese ha bisogno per essere più moderno e più equo. La composizione del Congresso brasiliano farebbe oscillare il pendolo verso un rinvio, ancora una volta, dei dossier più spinosi. La congiuntura di questo Lula ter è profondamente diversa da quella degli anni dei primi due governi Lula: il modello economico capitalista e neoliberale ha mostrato tutte le sue fragilità, acuendo le disuguaglianze sociali e non risolvendo i problemi delle classi meno abbienti; c’è da riscrivere, poi, un nuovo ordine mondiale internazionale che regoli i rapporti tra Stati (la riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU era uno dei pilastri della proiezione internazionale del Brasile di Lula nei primi anni Duemila); la guerra in Europa è un fardello anche per le economie del continente latinoamericano. Con Lula al timone della nave Brasile ci sentiamo più sicuri su questi fronti. Ma bastera?

Lula sa bene che probabilmente dovrà trattare con i partiti del Centrão e dovrà pagare un prezzo molto alto in termini di governo e di prebende. Lula paga quella che Donato Di Santo chiama la «cooptazione personale», quella fondata cioè sull’adesione di singole personalità e non sulla condivisione del programma di governo da parte di forze politiche organizzate. Vedremo come riuscirà a destreggiarsi: la capacità di fare accordi, di fare sintesi, di mediare non gli manca certo, è un suo punto di forza da sempre, da quando era sindacalista ancor prima di diventare uno dei politici più amati del continente. Il lavoro da fare è molto, la transizione è molto lunga (il neopresidente assumerà il suo incarico il prossimo 1° gennaio) e vedremo se Bolsonaro invece di favorire il trapasso di poteri avvelenerà i pozzi. La posta in gioco è altissima: per il Brasile, per l’America Latina e per il resto del mondo progressista che può finalmente guardare al continente latinoamericano potendo contare su un membro in più, e di che portata, dell’onda rossa latinoamericana.

 

Immagine: Luiz Inácio Lula da Silva durante una manifestazione a Grajau, San Paolo, Brasile (24 settembre 2022). Crediti: Wagner Vilas / Shutterstock.com

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Lula in testa ma non basta. Brasile al ballottaggio

Non è bastata una campagna elettorale violenta e polarizzata, durata quasi due mesi, per eleggere il 39° presidente del Brasile. Nulla di fatto, si va al ballottaggio il 30 ottobre tra Lula e Bolsonaro. Lula vince al primo turno con il 48,4% dei voti, Bolsonaro ottiene il 43,02% dei consensi: 6 milioni di voti separano i due, poco più del 5%. Un primo turno che sa di ballottaggio, quello di domenica, visto che il 92% degli elettori ha scelto tra le due opzioni estreme. Molto staccata Simone Tebet con il 4,2% e quarto Ciro Gomes che si ferma al 3%. Immediate le reazioni: dalla sede della campagna elettorale in un hotel di San Paolo Lula ha affermato «La lotta continua fino alla vittoria finale, vinceremo le elezioni» e «Ieri dicevo di voler vincere tutte le elezioni al primo turno, ma non è sempre possibile. Mi motiva la convinzione che nulla accade per caso». Guardando alla possibilità di dibattere con Bolsonaro ha ancora commentato: «Sarà la prima occasione di avere un dibattito di persona con l’attuale presidente, per poter fare dei paragoni tra il Brasile che ha costruito lui e quello che costruiamo noi». Prima di andare a dormire ha ribadito nel suo account di Twitter che «a partire da domani si ricomincia la campagna elettorale. Non ci riposiamo. Parleremo con i nostri avversari, con i nostri amici. Siamo noi la migliore soluzione per risolvere la vita del popolo brasiliano. Buona notte e a domani!» . Più ragionata e di prospettiva la dichiarazione di Bolsonaro: «Ora è fiducia totale», ha affermato proclamando di aver smentito «le menzogne» dei sondaggi. «Registro una volontà di cambiamento da parte della popolazione, però certi cambiamenti possono peggiorare le cose», ha continuato il presidente in carica e si è quindi detto pronto a negoziare con i candidati che non hanno superato il primo turno: «Le porte sono aperte», ha detto, sottolineando che gli elettori di Simone Tebet e Ciro Gomes «sono molto più affini ai nostri ideali» che a quelli del partito di Lula.

 

Mettendo da parte le dichiarazioni post-voto, utili a motivare il proprio elettorato visto che la partita non è conclusa, va detto che la coalizione di Bolsonaro vince al primo turno in Stati chiave come Minas Gerais e Rio, il secondo e il terzo collegio elettorale del Brasile, e va al ballottaggio nel primo collegio elettorale del Paese, quello di San Paolo, dove l’ex ministro Tarcisio Gomes de Freitas supera il candidato del Partito dei lavoratori (PT) Fernando Haddad con una percentuale che non gli consente però la vittoria al primo turno. In totale la coalizione di Bolsonaro ottiene 12 Stati e il Distretto federale di Brasilia al primo turno. La coalizione di Lula elegge al primo turno 14 governatori soprattutto in quel Nord-Est che costituisce la base elettorale del lulismo, e vince all’estero. Già, perché ancora una volta il Paese presenta due profonde fratture sociali: il Nord-Est più povero ha votato in massa per Lula, il Sud e il Centro-Ovest, le zone più sviluppate, hanno dato il loro consenso a Bolsonaro. Come se non bastasse, il Partito liberale del presidente si conferma primo partito sia alla Camera che al Senato.

E adesso? Adesso comincia una nuova campagna elettorale indipendentemente dai voti acquisiti al primo turno (un po’ come accade ovunque al ballottaggio).

Lula ha sommato e ha tenuto salda la più ampia coalizione possibile ‒ PT, PSB (Partido Socialista Brasileiro), PCdB (Partido da Social Democracia Brasileira), Partito verde, PSOL (Partido Socialismo e Liberdade), Rede de solidariedade ‒ e non ha certo sbagliato la campagna elettorale. L’appello al voto utile è stato recepito dai brasiliani soprattutto sul versante PDT (Partido Democrático Trabalhista), partito di centrosinistra: il candidato Ciro Gomes non è andato oltre il 3% smentendo tutti i sondaggi che lo davano ampiamente terzo con il 7% dei consensi. Sicuramente una carta su cui puntare, ma non è la più facile, sono gli astenuti, circa il 20%: convincerli ad andare alle urne non sarà cosa facile anche perché con molta probabilità sono gli stessi che auspicavano una “terza via” rispetto al binomio Lula-Bolsonaro. Soffre il PT, è vero, ma è da qualche anno che il Partito dei lavoratori non ha più lo smalto dei tempi migliori, compensato ampiamente dai buoni risultati dei partiti alleati. La campagna elettorale, a nostro avviso, non avrà guizzi di novità: la giustizia sociale, la lotta al cambiamento climatico, la lotta alla povertà, il rilancio dell’economia, il ritorno del Brasile tra le grandi potenze del pianeta con il recupero della credibilità e dell’affidabilità internazionali saranno le chiavi elettorali del secondo turno per Lula.

Bolsonaro, d’altra parte, è andato contro ogni più rosea previsione dei sondaggi della vigilia di almeno 4-5 punti percentuali: erano settimane che la forbice con Lula si assottigliava (grazie anche ai programmi sociali implementati nell’ultimo periodo e al miglioramento della situazione economica degli ultimi mesi, come abbiamo messo in evidenza in un precedente articolo), ma arrivare a un distacco in termini percentuali di 5 punti (più o meno 6 milioni di voti) era una previsione che nessun sostenitore di Bolsonaro osava arrischiare. Il presidente ha condotto una campagna elettorale violenta e polarizzata, puntando tutto sul “noi contro loro” e agitando un antilulismo come spettro del comunismo e del bolivarismo (inteso come politica venezuelana) che ha spaventato molto l’elettorato moderato. Ha fatto leva sulle paure dei brasiliani e questa tattica ha pagato sia a livello presidenziale che a livello di Congresso. I brasiliani sembrano aver dimenticato la pessima gestione della pandemia da Covid-19 e l’insufficiente gestione economica, per non parlare del discredito dovuto alle posizioni prese dal presidente nei consessi internazionali. Queste cose sembrano essere state più presenti nel voto all’estero, che ha premiato Lula, dove una stampa internazionale indipendente e meno ostile a Lula, ha fatto leva su questi fattori per dimostrare l’inadeguatezza del presidente in carica.

Mancano 26 giorni al secondo turno. Dato l’esiguo margine di vantaggio di Lula, non escludiamo che, in caso di sconfitta, Bolsonaro possa chiamare in causa i brogli elettorali, dimenticando che è proprio grazie all’affidabilità del sistema elettorale se è arrivato così vicino al suo sfidante. Non ci aspettiamo, d’altra parte, che la polarizzazione che ha caratterizzato la prima fase scompaia improvvisamente né che la violenza nei comizi e fuori sia solo un ricordo. In ballo c’è la presidenza del Paese più importante dell’America Latina e il suo ruolo nel continente e nel mondo. Una posta in gioco troppo alta per non lasciar nulla di intentato, secondo alcuni. Una lotta per difendere la democrazia, secondo altri.

 

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La pace in Colombia per chiudere il Novecento

È una rotta lunga e tormentata quella che il governo colombiano di Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) hanno deciso di intraprendere. Ma la via di un negoziato politico per arrivare alla pace è la sola ormai percorribile.
Dopo quasi sessanta anni di conflitto armato è ormai evidente che nessuna delle parti in causa sarà mai in grado di sconfiggere militarmente l’altra. È tramontata l’ipotesi di un cambio di regime attraverso la lotta armata, essendo la guerriglia colombiana ormai decapitata nei suoi vertici militari e decimata nel numero di unità operative, per non parlare della totale mancanza di consenso nella società civile e nell’opinione pubblica e del mutamento genetico delle proprie motivazioni ideali, apparendo in questa fase molto più interessata al narcotraffico che al potere politico. Neppure il governo colombiano, tuttavia, è parso mai in grado di sconfiggere definitivamente il suo nemico storico sul terreno militare: non sono bastati gli immensi finanziamenti del Plan Colombia per piegare le diverse guerriglie e l’obiettivo pare allontanarsi ora che le risorse degli Stati Uniti sono poche e centellinate, a causa della crisi economica e finanziaria certamente, ma anche perché l’impegno nel contrasto alla criminalità organizzata, alle migrazioni e al narcotraffico si è spostato nell’area centro-americana e in Messico.
La decisione di procedere adesso nei negoziati non è stata semplice o scontata. Tutt’altro. La costruzione delle condizioni politiche e diplomatiche e del consenso sociale è stata gestita con impegno, tenacia e molta cautela durante gli ultimi due anni. Ci sono voluti il coraggio e la determinazione del neopresidente, Ministro della difesa dell’ex presidente Alvaro Uribe – quello della “guerra senza se e senza ma” e della famigerata “sicurezza democratica” – per convincere l’opinione pubblica, la politica e la comunità internazionale che fosse davvero arrivato il momento di mettere la parola fine alla stagione del terrore. A differenza del suo predecessore, infatti, Santos ha riconosciuto al conflitto armato lo status di guerra civile e ha dimostrato con i fatti come il negoziato politico non fosse da considerare un segnale di debolezza dello Stato ma, al contrario, fosse la prova di una consapevole maturità politica e di un consolidamento delle istituzioni democratiche che il Paese considera ormai irreversibile. Un ruolo importante - e i molti scettici dovranno ammetterlo senza riserve - ha avuto senza dubbio il Vicepresidente Angelino Garzón, un uomo che ha passato la vita a lottare per i diritti dei lavoratori prima nel sindacato e poi negli organismi internazionali, e che ha tenuto per sé alcune deleghe importanti tra le quali quella dei diritti umani, contribuendo a cambiare il profilo istituzionale della vicepresidenza trasformandola da istituzione di mera rappresentanza ad attore politico determinante per la trasformazione del Paese.
Un altro segnale importante, anch’esso in controtendenza rispetto al recente passato, è stato il cambio nella politica estera intrapreso dal nuovo governo, con un progressivo, consapevole e convinto spostamento dell’asse d’interesse verso sud. Senza trascurare la partnership strategica con gli Stati Uniti, la politica colombiana è sembrata privilegiare un dialogo politico più solido con la regione latina: si devono a questo mutamento di agenda una gestione più accorta e matura del “dossier Venezuela” così come il consolidamento delle relazioni con il Brasile di Dilma, fino a un rapporto più rispettoso e civile con gli altri Paesi confinanti. Si è trattato di atti e fatti forieri di conseguenze politiche e che hanno contribuito a ridefinire gli spazi geopolitici della Colombia confermandola come il Paese “ponte” tra l’America del Sud e l’istmo di Panama.
Non è un caso che il sostegno più concreto al processo di pace sia venuto proprio dai governi e dalle organizzazioni politiche della regione latinoamericana. La stabilità democratica e il pieno controllo di quella zona della selva amazzonica al confine tra Colombia, Venezuela, Ecuador e Brasile è una priorità in termini geostrategici, di sicurezza e di tutela della biodiversità di tutta l’America del Sud. Al contrario, va denunciata una sostanziale indifferenza dell’Unione Europea a questo processo. Incapace, in questa fase, di esprimere leadership e visione politica, il vecchio continente non ha saputo ritagliarsi neppure un ruolo di mediazione e di accompagnamento diplomatico. A parte la Norvegia, infatti, che ospiterà nella sua capitale la prossima tornata di colloqui prevista a ottobre – dopo gli incontri preparatori/esplorativi avvenuti all’Avana tra il 23 febbraio e il 26 agosto di quest’anno, con Norvegia e Cuba come garanti e Venezuela come paese facilitatore, colloqui che hanno condotto alla firma dell’Accordo quadro – il silenzio di Bruxelles ha sorpreso quanti non si rassegnano alla supremazia dell’economia sulla politica da parte di una regione che è parsa, infatti, più interessata a chiudere il Trattato di Libero Commercio con la Colombia che ad accompagnarne politicamente questa svolta epocale.
Seppur tra ovvie cautele e diffidando per principio delle soluzioni semplici a problemi complessi, non crediamo di peccare di facile ottimismo nel valutare che mai come in questa circostanza le condizioni oggettive parrebbero pendere a favore di una conclusione positiva.
Con una certezza in più: il trattato di pace in Colombia rappresenterebbe non soltanto la conclusione di una stagione di più di mezzo secolo di lutti e tragedie per l’ultima guerriglia del continente, ma la chiusura definitiva della storia politica del Novecento in America latina. Sarebbe, in altri termini, la definitiva consacrazione di una regione del mondo che con l’eccellente crescita economica di questi ultimi dieci anni è consapevole di non può più prescindere dal consolidamento delle istituzioni, dalla democrazia, dallo stato di diritto e dalla pace.

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Lula vs. Bolsonaro fino all’ultimo voto

Sono 156 milioni i brasiliani chiamati alle urne domenica 2 ottobre: in palio ci sono i 513 seggi della Camera dei deputati e 27 degli 81 scranni del Senato, l’elezione dei governatori e vicegovernatori dei 26 Stati e del Distretto federale di Brasilia e le rispettive assemblee legislative statali. Ma gli occhi del mondo sono puntati sul Brasile perché il 2 ottobre si voterà anche e soprattutto per la presidenza della Repubblica. A contendersi il Palazzo di Planalto due pesi massimi della politica brasiliana: Luiz Inácio Lula da Silva e Jair Bolsonaro. I due non potrebbero essere più distanti per estrazione sociale e per visione del Brasile del futuro e del mondo. Perché in ballo in questa elezione c’è il futuro del Paese: due visioni antitetiche, lo abbiamo detto.

Da una parte la democrazia, dall’altra l’autocrazia, il fronte repubblicano contro il fronte sovranista. Non c’è nessuna possibilità che gli altri contendenti alla presidenza possano oscurare questo duello: non certo il terzo nei sondaggi, Ciro Gomes, del Partito democratico laburista, i cui voti, come vedremo, potrebbero essere utili già al primo turno; non certo Simone Tebet, del Movimento per la democrazia brasiliana, distante anni luce nei sondaggi. Che la partita sia a due, Lula e Bolsonaro, lo sanno benissimo i due protagonisti che non hanno mancato in questi mesi di campagna elettorale di sottolineare la polarizzazione del Paese. «Sappiamo che dobbiamo combattere una lotta tra il bene ed il male. Un male che durò 14 anni (in riferimento al periodo di governo del partito di Lula, il Partito dei lavoratori, PT, Partido dos trabalhadores, ndr) che quasi distrusse il nostro paese e che ora vuole tornare sulla scena del delitto. Non torneranno! Il popolo sta con noi dalla parte del bene» ha proclamato Bolsonaro in un atto pubblico durante la celebrazione del duecentesimo anniversario dell’indipendenza del Brasile dalla madre patria portoghese. A stretto giro gli ha risposto Lula: «La disputa sarà tra democrazia e autoritarismo, tra lo sviluppo e il miglioramento della qualità di vita dei brasiliani e un governo autoritario».

 

D’altra parte, questi quattro anni di governo Bolsonaro sono stati molto difficili per la popolazione brasiliana: il Paese si è ripiegato su sé stesso dimenticando i fasti del Brasile potenza del G7 dell’epoca di Lula e Dilma Rousseff, rispettato dal mondo intero, piombando in una crisi senza precedenti, aggravata senza dubbio da variabili esogene quali la pandemia da Covid-19 e la crisi dovuta al conflitto in Europa che ha comportato un aumento dei prezzi delle materie prime e degli alimenti e un conseguente aumento dell’inflazione. Ma scendiamo nel dettaglio. Bolsonaro arriva alla presidenza del Brasile nel 2018 dopo aver battuto il candidato sostituto del PT, l’ex sindaco di San Paolo, Fernando Haddad con il 55% dei suffragi. Candidato sostituto perché al suo posto doveva esserci lo stesso Lula, impossibilitato a concorrere perché in carcere a seguito di un processo politico messo in scena dal giudice Moro per presunta corruzione: una manovra per renderlo inabile alla candidatura. Fatto sta che Bolsonaro diventa presidente del gigante sudamericano con 11 milioni di voti di distacco da Haddad (la cifra è importante perché corrisponde grossomodo al numero di voti degli evangelici che saranno di sostegno a Bolsonaro e che condizioneranno così tanto la sua Presidenza. Ora la situazione è cambiata, esiste perfino un gruppo parlamentare evangelico del PT a riprova di un riposizionamento, vedremo se solo tattico, di questa Chiesa). Gli albori di quella che sarebbe stata la cifra del quadriennio alla guida del Paese c’erano già tutti nella sua campagna elettorale e nei suoi primi atti di governo. Una volta al potere, infatti, l’ex capitano, espulso dall’esercito nel 1988 per indisciplina, è diventato famoso in tutto il mondo per i suoi attacchi all’onnipresente comunismo, alle femministe, agli omosessuali, ai neri, agli ecologisti, ai popoli indigeni, ai mezzi di comunicazione e perfino all’ONU.

Il governo Bolsonaro si è contraddistinto fin dai primi passi per una presenza e una influenza dei militari senza precedenti nella storia democratica del Paese (il suo vicepresidente è un militare ritiratosi e più di 6000 ufficiali occupano incarichi di governo a tutti i livelli della sua amministrazione). Il governo Bolsonaro ha utilizzato la diplomazia brasiliana per attaccare il sistema dei diritti umani dell’ONU e ha stretto legami con regimi oscurantisti (Arabia Saudita e Russia solo per citarne alcuni) per impedire accordi a favore della uguaglianza di genere. Ma è forse sulla politica sull’Amazzonia che Bolsonaro ha toccato il fondo, alienandosi l’appoggio delle potenze occidentali e dell’intero pianeta che fa della salvaguardia del polmone verde del mondo la sua battaglia: tra il 2020 e il 2021 13.000 km2 della selva sono stati distrutti, a tutto vantaggio dell’agroindustria e degli allevatori di bestiame, due dei gruppi elettorali di elezione del presidente. Non basta. La gestione della pandemia da Covid-19 è stata a dir poco disastrosa: dopo aver negato l’entità del virus, non ha messo il sistema sanitario brasiliano nelle condizioni di funzionare per una tale emergenza, con la conseguenza che il Brasile è il secondo Paese al mondo per numero di morti (più di 680 mila). L’impatto della pandemia ha certamente aggravato una situazione economica già di per sé drammatica, specialmente nelle favelas delle grandi città, dove quasi la metà della popolazione ha perso il lavoro. Sono 27 milioni i disoccupati, i lavoratori occasionali e quelli che per disperazione hanno smesso di cercare lavoro, vale a dire quasi un terzo della popolazione economicamente attiva. Sono 36 milioni i lavoratori informali, mal pagati e senza protezione sociale. La povertà è tornata nelle strade del Brasile e la fame è di nuovo un problema di massa: 33 milioni di persone sono in condizioni di insicurezza alimentare seria. Se a queste si sommano le persone che patiscono una insicurezza alimentare media e lieve si arriva ai 125 milioni di brasiliani che hanno problemi a mettere un pasto in tavola ogni giorno. Nel 2014 il Brasile era uscito dal gruppo di Paesi a livello mondiale che soffrivano la fame, secondo la FAO, grazie ai programmi di aiuto di Lula e Rousseff (soprattutto il programma specifico Fame zero), con Bolsonaro la piaga della fame è tornata. Non vanno meglio le cose a livello macroeconomico. Uno dei punti chiave del programma di governo era quello di una maggiore apertura economica e commerciale, in perfetto stile neoliberale, cercando di attrarre investitori stranieri con un programma fondato su lotta alla corruzione, riforme economiche e sociali e privatizzazioni.

I primi anni di presidenza, complice anche la pandemia, certo, sono stati di promesse mancate. Artefice dei piani di governo a livello economico è stato il ministro dell’Economia Paulo Guedes, che ha finito col tempo, lui che doveva domare Bolsonaro, per diventarne complice e succube. Delle tante privatizzazioni annunciate, l’unica ad andare in porto è stata quella del settore elettrico. Petrobras, l’azienda petrolifera nazionale, è rimasta statale e Lula ha più volte detto che tale rimarrà in caso di sua elezione. Il tasso di crescita del Paese è stato in questi quattro anni di Bolsonaro sempre inferiore all’1%, solo nel 2021 si è avuto un guizzo ma dopo un 2020 da dimenticare. L’inflazione del Paese è tornata ad essere una osservata speciale: 11% quest’anno. I primi segnali di una ripresa ci sono stati in questi ultimissimi mesi di estate. Dopo un aumento dei tassi di interesse da parte della Banca centrale (elevati al 13,75% ad inizio agosto), l’inflazione è all’8,73% dopo il 10,07% di luglio. Il ministro dell’Economia ha annunciato che la crescita economica per quest’anno sarà del 2,7% invece del 2% previsto in luglio. Insomma sembra che le ricette macroeconomiche di Guedes comincino a far effetto almeno a livello macro. A livello di emergenza alimentare, il sussidio Auxílio Brasil, praticamente una versione identica all’antico programma di Lula Bolsa Família, è aumentato in agosto del 50%. Non sfugge che queste manovre siano state fatte in periodo elettorale: con una modifica costituzionale, Bolsonaro ha ottenuto di aumentare la spesa pubblica al di fuori dei vincoli prestabiliti dalla legge di bilancio. In molti hanno visto in questo atto un uso di risorse pubbliche a fini elettorali. E infatti gli ultimi sondaggi vedono una ripresa delle quotazioni di Bolsonaro: miglioramento della situazione economica e flusso di denaro alle classi sociali generalmente elettorato di Lula sono le misure di Bolsonaro per arrivare almeno al secondo turno. Una partita senza esclusione di colpi.

 

In questa situazione economica, politica e sociale si svolgerà il primo turno delle presidenziali in Brasile. In questa situazione Lula si presenta di nuovo al popolo brasiliano, recuperati i suoi diritti politici dopo che il Supremo tribunale federale lo ha scagionato da ogni accusa, tenuto conto delle numerose irregolarità commesse dall’ex giudice Sergio Moro e dai tribunali di Curitiba. Nei 580 giorni di prigionia non ha perso il suo carisma e la sua “presa” sul popolo brasiliano, ma non ha neppure desiderio di vendetta contro chi ha imbastito un processo politico fondato sul nulla. Ha fatto una campagna elettorale senza risparmiarsi, vistando tutti gli Stati del Paese, facendo un giro per le principali capitali europee (Bruxelles, Parigi, Madrid e Berlino) accolto come un capo di Stato. Una campagna elettorale frutto della polarizzazione di cui abbiamo parlato, perfino violenta (due militanti del PT sono stati uccisi da simpatizzanti di Bolsonaro) tanto che Lula è stato costretto nelle ultime fasi ad indossare un giubbotto antiproiettile ai comizi. Come candidato a vicepresidente, Lula ha scelto un vecchio compagno di battaglie politiche su campi avversi, Geraldo Alckmin. Uomo dell’Opus Dei, cattolico fervente, ex governatore dello Stato di San Paolo e uno dei principali dirigenti del PSDB (Partido da Social Democracia Brasileira) di Fernando Henrique Cardoso, candidato e non eletto nelle elezioni presidenziali del 2006 e del 2018. Alckmin ha lasciato il PSDB a dicembre del 2021 per affiliarsi al PSB (Partido Socialista Brasileiro), un partito di ispirazione socialdemocratica. Non pochi hanno visto in questo tandem presidenziale la volontà politica di Lula di strizzare l’occhio alla base centrista, moderata, dell’elettorato brasiliano e di ottenere la presidenza già al primo turno. Non è un caso che questa sia la poco velata scommessa: guadagnare consensi già il 2 ottobre, magari appellandosi al voto utile, a quello dei tanti che non vogliono sentir neppure parlare di Bolsonaro (secondo i sondaggi, il 52% dei brasiliani non lo voterebbe mai), a quegli elettori di Ciro Gomes che ideologicamente gli sono più vicini e agli indecisi, una fetta di elettori che varia dall’11% al 28% secondo i sondaggi.

La sfida è enorme così come è tutto da ricostruire il Paese. In varie interviste rilasciate ai media internazionali Lula lo ha ribadito «Chi governerà il Brasile avrà davanti la missione di ricostruire il Paese. E non è pensabile ricostruire il Paese con milioni di persone che hanno fame. Garantire tre pasti al giorno è la priorità numero uno. Poi, generare lavoro e reddito. Per questo il Paese ha bisogno di stabilità e credibilità». E ultimo ma non ultimo, metter mano alla questione climatica che in Brasile vuol dire Amazzonia.

L’ultimo sondaggio dell’Istituto IPEC, realizzato per il gruppo editoriale Globo, non certo amico di Lula, assegna al leader del PT il 48% delle intenzioni di voto contro il 31% di Bolsonaro. Sondaggi realizzati nella stessa settimana da altri istituti demoscopici danno Lula al 45% e Bolsonaro al 35%. Un buon segnale arriva dalla notizia che quest’anno si è contabilizzato il record di registrazioni al voto dei giovani sotto i 18 anni (il voto dai 16 anni ai 18 è facoltativo, ma bisogna registrarsi), 2 milioni. Il partito che raccoglie il voto dei giovani è tradizionalmente il PT, un buon segnale per Lula. Oggi si chiude la campagna elettorale: vedremo con i voti pesati se Lula ce la farà al primo turno. In caso contrario, il 30 ottobre si terrà il ballottaggio. Tutti i sondaggi in questo caso lo danno vincente con ampio margine. Il mondo guarda al Brasile e il fronte progressista internazionale si chiede se già domenica si potrà celebrare una nuova onda rossa in America Latina dopo le vittorie di Gabriel Boric in Cile e di Gustavo Petro in Colombia.

 

Immagine: Lula da Silva tiene un discorso durante una manifestazione nel centro di Rio de Janeiro, Brasile (7 luglio 2022). Crediti: Antonio Scorza / Shuttertstock.com

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La guerra delle chiese, tra religione e politica

“Forse si deve osservare anche che gli Stati Uniti promuovono ampiamente la protestantizzazione dell’America latina e quindi il dissolvimento della chiesa cattolica ad opera di forme di chiese libere, per la convinzione che la chiesa cattolica non potrebbe garantire un sistema politico e economico stabile…”. Così dichiarava nel 2004 l’allora Prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Razinger. La tesi, in realtà non era nuova: già negli anni della sua presidenza, Teodoro Roosevelt era convinto che la chiesa cattolica fosse il principale ostacolo all’emancipazione e alla penetrazione degli Usa in quel continente. Con Ronald Reagan, poi, il concetto raggiunge il suo acme: la lotta al comunismo, che avrebbe potuto diffondersi da Cuba al resto dell’America latina, esigeva un controllo maggiore sulle anime dei fedeli e la Chiesa di Roma non sembrava garantire il rispetto dell’ortodossia. L’America latina, con il diffondersi della teologia della liberazione e della chiesa sociale, poteva diventare il nuovo avamposto di resistenza. La repressione degli squadroni della morte s’incaricò di rimettere al loro posto i preti progressisti e di dare alla storia un altro seguito.
Tuttavia, va detto che se la visione dell’allora cardinale Razinger aveva, quindi, un suo fondamento, la situazione era ed è ben più complessa e articolata. Più che di un tentativo espansionistico del vicino del nord, motivato da esigenze di egemonia culturale ed economica, staremmo di fronte a un’emergenza e a una crisi del cattolicesimo così come si è venuto declinando nel subcontinente americano. Il successo delle chiese evangeliche o protestanti andrebbe ascritto, in altre parole, a un deficit di comprensione e di risposta del cattolicesimo verso il proprio gregge. In questo senso, le chiese o sette protestanti, più che a nuovi credenti, guarderebbero e guadagnerebbero consensi soprattutto tra i tanti delusi da Roma. La chiesa cattolica appare, infatti, a queste latitudini, come troppo burocratica e legata a rituali antichi mentre, al contrario, le nuove chiese riformate promuovono una relazione con il divino meno intermediata dal clero, l’uso di riti più confacenti al mood latinoamericano (i raduni sembrano concerti dove la gente canta e balla), con il supporto di nuove tecnologie e di canali radiotelevisivi dedicati che trasmettono 24 ore su 24. Soprattutto, si presentano con le porte dei propri sfarzosi templi sempre tenute aperte da zelanti volontari. “Non ci siamo adeguati all’evoluzione dei tempi: gerarchie e abitudini rigide, non troppo diverse dagli anni della colonia. Se un povero ha bisogno di parlare con un prete deve prendere l’appuntamento una settimana prima. La luce delle case di accoglienza di un pentecostale è sempre aperta“, Questa è l’analisi impietosa di Frei Betto teologo della liberazione, che continua: “ascoltano, consolano, insegnano a parlare direttamente con dio”. “Nelle metropoli il concetto organizzativo della parrocchia appartiene a un vecchio secolo. La gente è cambiata. Vuole parlare e subito. Essere ascoltata quando ha bisogno. Troppo spesso Roma non se ne accorge”.
La Santa Sede, bisogna riconoscerlo, ha provato a reagire a quest’offensiva ma i risultati finora non sono stati rilevanti. Non hanno provocato un’inversione di tendenza, infatti, neppure i due viaggi in Brasile di Giovanni Paolo II e le più recenti missioni di papa Razinger, ancora in Brasile (maggio 2007) e ultimamente in Messico (2012), il paese al confine con gli Usa che, come il centroamerica, subisce maggiormente l’influenza protestante. Vedremo come andrà la Giornata mondiale della gioventù prevista a Rio de Janeiro nel 2014. Per adesso, se nel 2001 il cattolicesimo di Santa Romana Chiesa raccoglieva intorno a sé poco meno del 50% della popolazione latinoamericana, il censimento del 2011 ha confermato che le sette protestanti si attestano molto vicino al 40% e, considerato il peso degli atei, degli agnostici e dei tanti che si sentono spinti verso forme di religiosità ancestrale, il dato è impressionante. In termini assoluti, si è passati dai 3 milioni del 1991 ai 21 milioni del 2010. Per raggiungere questi risultati, i culti protestanti non fanno concessioni sul profilo del messaggio evangelico: in un’epoca di relativismo culturale e religioso, dove soprattutto in Europa si invoca una chiesa al passo con i tempi, le sette auspicano un ritorno alla castità e all’astinenza (si dice che in Brasile, tra i pentecostali, l’AIDS sia una patologia quasi sconosciuta), il rifiuto di alcool e droga (e si capisce allora come in un continente dove la violenza domestica, provocata anche dall’uso di sostanze, è la principale causa di morte, insieme all’aborto clandestino, delle donne, essere pentecostali faccia la differenza anche nelle relazioni di genere). Per il resto, poi, l’esteriorità del rito è, al contrario, tutto un lasciarsi andare alla gioia, alla passione, persino all’estasi. Non sono rari i fenomeni di “trans” estatico provocati dal pastore di turno che sono ripresi e trasmessi dalle tv di queste chiese: si tratta per lo più d’immagini molto forti di fedeli invasati che trovano finalmente la pace interiore liberandosi pubblicamente dei propri peccati. Un grande show, certo, che tuttavia attira e fa proseliti e seguaci. Il dato economico che muovono queste chiese è un altro aspetto da tenere in considerazione: le cifre non sono pubbliche ma è noto che i seguaci versino contributi a tanti zero. Altro che trasferimenti dagli Stati Uniti: lo sfarzo dei templi e la vita non proprio monastica dei tanti pastori sono finanziati dai fedeli con i loro contributi in pesos e reais.
Dal punto di vista del messaggio evangelico, poi, quel che si cerca di recuperare, seppur in una coreografia rumorosa e colorata, di luci e di paillettes stile Hollywood, è un credo conservatore, fondato sui valori di dio, patria, comunità e famiglia. Che guarda a qualunque apertura progressista (dall’aborto alle unioni civili all’emancipazione femminile) come a una contaminazione insopportabile. Queste istanze si riflettono inevitabilmente nell’appoggio, militante e organizzato, a partiti di destra, conservatori e puritani: sia individuando il candidato che più e meglio di altri, perché magari membro della stessa chiesa, possa rappresentarne i valori e trasformarli in proposta politica sia nella creazione di veri e propri movimenti politici, i partiti evangelici. Alcuni casi sono emblematici: l’ultima elezione presidenziale in Guatemala o quella in Brasile (dove gli evangelici al primo turno hanno appoggiato la candidata Marina Silva del Partito Verde per la sua crociata contro l’aborto e le unioni civili) e l’elezione del Prefeito (Sindaco) di San Paolo un mese fa dove la comunità evangelica della metropoli paulista è quasi riuscita a portare al ballottaggio il candidato ultraconservatore Celso Russomanno.
La sensazione è che i tentativi di incidere sulla geografia politica e partitica in America latina non siano affatto scongiurati e che, al contrario, il loro peso possa aumentare mettendo peraltro a repentaglio le ancora peraltro rare conquiste sociali e civili e costringendo i partiti progressisti e di sinistra a modificare in senso conservatore la propria agenda politica su alcune materie sensibili. La crociata è per una religione militante che informi di sé la società civile e lo stato, questo è evidente. Mutatis mutandis, questi obiettivi non così poi così diversi dalla battaglia per l’egemonia dell’islam politico più retrivo e conservatore.

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La crisi degli altri. Il caso America latina

L’economia mondiale è debole, stenta a ripartire e occorre pensare a un nuovo modo di stare e competere sui mercati internazionali. È questo l’allarme che lancia la Cepal, la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina e i Caraibi, con due pubblicazioni, lo Studio economico 2012 e il Rapporto sull’export per il biennio 2011-2012 uscite a distanza di una settimana l’una dall’altra. La situazione è difficile e incerta: la ripresa nordamericana non si vede ancora e c’è incertezza sui prossimi passaggi politici; l’Europa vive una fase di recessione che rischia di aggravarsi con le politiche di rigore imposte dalla troika e la Cina sta rallentando produzione e ordini all’estero.
Negli ultimi 4 anni, la regione latinoamericana ha dovuto già far fronte a tre shock esogeni: nel 2008 l’aumento dei prezzi degli alimenti e dei combustibili che ha causato tensioni sociali (la crisi delle tortillas in Messico ne è stata la declinazione latina più nota) e che rappresenta un pericolo ancora incombente, come ci segnala l’indice dei prezzi della Fao (http://www.fao.org/worldfoodsituation/wfs-home/foodpricesindex/en/ ). A questa perturbazione è seguita la fase più acuta della crisi finanziaria ed economica tra il settembre del 2008 e la fine del 2009 e, ultimo dato in ordine di tempo, permane il clima d’incertezza sulle prospettive economiche globali in una fase in cui, almeno dalla fine del 2011, i Paesi più sviluppati non riescono a superare la contrazione della domanda aggregata. Le politiche messe in atto dai governi latinoamericani in ciascuna di queste tre fasi sono state caratterizzate dall’adozione di misure anticicliche: in particolare, per far fronte a possibili tensioni inflazionistiche dovute all’aumento dei prezzi delle materie prime, sono state adottate politiche monetarie restrittive e di rivalutazione del tasso di cambio. Si è superata, poi, la fase più acuta della crisi finanziaria con un aumento della liquidità, con la riduzione dei tassi d’interesse per aumentare la base monetaria e, a livello di politiche industriali e del lavoro, con sussidi, aumento del salario minimo, programmi di formazione e offerta di lavoro a tempo determinato. Infine, per reagire alla fase d’incertezza e di contrazione della crescita globale si è puntato a non deprimere il consumo interno e a proteggere il settore industriale dei singoli paesi con misure d’incentivo all’acquisto (è noto il caso del settore automotive in Brasile e che ha riguardato anche Fiat) o di sgravi fiscali alla produzione.
L’adozione di queste ricette anticicliche ha consentito alla regione latinoamericana di non deprimere eccessivamente la crescita, nonostante già dal secondo semestre del 2011 il ritmo degli anni precedenti abbia lasciato il passo a volumi più modesti. La situazione si è ripetuta nel primo semestre 2012 con la conseguenza che il prodotto interno lordo stimato per il continente nel 2012 sarà del 3,2% (è stato 4,3% nel 2011) e non del 3,7%, come annunciato qualche mese fa. La revisione delle previsioni di crescita ha destato attenzione anche perché a subire la contrazione maggiore sono e saranno i grandi Paesi, le “locomotive” del continente, in primis Brasile e Argentina. Per quanto riguarda le proiezioni per il 2013, se è ovvio il peso del contesto internazionale, è anche vero che, come sottolinea la Cepal, sarà altrettanto cruciale la capacità di risposta del continente a uno scenario globale negativo. A tale riguardo, diventa paradossalmente un punto di forza per l’intera regione l’esperienza accumulata nel corso delle tante crisi che l’hanno attraversata o che hanno avuto origine nei suoi singoli Paesi (come in Messico nel 1982 e in Argentina nel 2001, per ricordare i casi più noti). A differenza del passato, infatti, la maggior parte dei paesi latinoamericani ha finora potuto reagire con politiche che hanno consentito di mantenere stabile il tasso di disoccupazione, intorno al 6,8% nel primo semestre 2012 (la media regionale su base annua dovrebbe essere del 6,5%). Grazie a questo e al miglioramento del salario minimo, la domanda aggregata si sta mantenendo stabile e i consumi interni crescono, anche se i loro volumi compensano solo in parte la contrazione che sta avvenendo nei paesi sviluppati (non è un caso che la bilancia dei pagamenti regionale mostrerà probabilmente un deficit intorno all’1,9% del Pil per l’anno in corso).
Per arrivare alle singole sub-regioni, lo Studio della Cepal evidenzia come la maggior parte dei paesi sudamericani e centroamericani, oltre al Messico, manterranno un livello di crescita simile a quello avuto nel 2011 con Bolivia, Cile, Costa Rica, Nicaragua e Venezuela al 5%, Colombia ed Ecuador al 4,5% e Perù al 5,9%. Argentina e Brasile, invece, si attesteranno rispettivamente sul 2% e l’1,6%. Scomponendo i dati del PIL ponderato della regione, i Paesi dei caraibi sono quelli che hanno sofferto e continuano a soffrire una contrazione economica: la loro crescita si attesterà su un modesto 1,6%. Sotto la media anche i valori dell’area del sud, con un tasso aggregato previsto per il 2012 del 2,8%. In controtendenza, invece, il centroamerica che registra un dato aggregato del 4,4% con l’exploit di Panama (+9,5%). Questa tendenza generale a una lieve contrazione dovrebbe confermarsi anche per il 2013 e riguardare ancora i paesi sudamericani che più dipendono dall’export di prodotti primari verso la Cina. Grazie al turismo, previsto in crescita per il 2013, i paesi dei caraibi dovrebbero al contrario migliorare le loro performance. Per Brasile e Argentina si dovrebbe però assistere a un recupero nel 2013, cosa che fa prevedere, a livello aggregato, un dato latinoamericano vicino al 4%.
Di fronte a questo scenario complesso e articolato, lo Studio Cepal evidenzia come il buon accesso al mercato finanziario internazionale e le riserve monetarie in aumento per l’intera regione, uniti a un miglioramento dei risultati fiscali e alla bassa inflazione - che sta consentendo una riduzione seppur modesta dei tassi di interesse - creino un clima di relativa tranquillità nel caso in cui la situazione europea, cinese o statunitensi dovessero peggiorare. Va dato merito ai governi della regione se l’America latina, forse per la prima volta nella sua storia, ha affrontato la fase di crisi globale con i fondamentali macroeconomici sotto controllo. Ma non è sufficiente. Per consolidare i risultati ottenuti e poter giocare un ruolo di global player sarà necessario attivare più efficaci processi di integrazione fiscale e monetaria così come di coordinamento produttivo e industriale. In questo senso, i massici investimenti in tecnologia, innovazione, istruzione e formazione messi in atto da alcuni presidenti, come Dilma Rousseff in Brasile – e che ci auguriamo siano “copiati” da altri leader politici - vanno addirittura oltre e candidano il continente a un ruolo strategico per la fase post crisi. Le condizioni economiche, lo abbiamo visto, lo consentono. Resta da vedere se la politica saprà fare la sua parte.

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L’America latina piange il leader venezuelano

Che la fine fosse ormai questione di giorni o di ore lo aveva fatto capire il neo rieletto presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, quando recentemente si era lasciato andare a un endorsement a Nicolás Maduro, vice presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, il delfino designato dallo stesso presidente Chávez come candidato del partito di governo alle presidenziali che lo stesso Chávez sapeva si sarebbero tenute di lì a poco. Non ha quindi colto di sorpresa le cancellerie e gli appassionati di quel mondo la notizia battuta martedì notte dalle agenzie.
Il Venezuela e l’America latina piangono il presidente dei poveri, l’interprete sublime della latinoamericanità romantica e vecchio stile - fatta di realismo magico e di moltitudine che fa la storia - l’icona del riscatto di un continente e il simbolo dell’orgoglio latino. Primo meticcio a governare il Venezuela, lascia un’impronta indelebile e il cordoglio che si esprime da San Paolo a Quito e da La Paz a Buenos Aires è autentico e accorato. Una Presidenza, quella dell’ex comandante Hugo Chávez, durata 14 anni, fatta di luci e di tante ombre ma figlia in ogni caso della storia, per alcuni versi anomala, del paese. Mentre i vicini sperimentavano le atrocità delle dittature militari, in Venezuela un accordo sottoscritto dalle principali forze politiche (Acción Democrática e Copei) fissava alcune regole condivise a difesa dello stato democratico: libere elezioni e diritto a governare per il partito maggioritario, difesa della Carta costituzionale e programmi di governo largamente condivisi. Il sistema reggerà per 40 anni in una situazione di sostanziale stabilità istituzionale e in un clima di relativo consenso e di benessere. Covavano tuttavia i tanti effetti collaterali che il Venezuela pagherà e paga ancora a caro prezzo: con l’aumento del prezzo del petrolio negli anni ‘70, l’uso privato di risorse pubbliche, la corruzione, le collusioni tra politica e affari, la creazione d’imprese parastatali inefficienti e corrotte diventano terreno di scambio e di acquiescenza per le classi dirigenti. Le enormi masse di esclusi e diseredati, sempre più poveri in un paese che naviga sull’oro nero, identificano nei partiti corrotti, di governo e di opposizione, l’obiettivo del loro risentimento, della loro rabbia e della loro protesta. Si aprono inevitabilmente ampi spazi alla propaganda rivoluzionaria di Chávez che ha gioco forza e un terreno molto fertile a contrapporre alla ricchezza smodata della classe politica la povertà in cui versa al contrario la gente comune. La macchina partitocratica corrotta e collusa diventa l’obiettivo di una campagna fondata tutta sul discredito e sull’inadeguatezza. Nel 1992 un colpo di stato ordito dallo stesso Chávez per rovesciare con la forza il sistema fallisce ma le basi per l’ascesa politica del militare sono ormai gettate. E’ già un idolo delle folle e un punto di riferimento carismatico per quanti vedono in una palingenesi della classe dirigente la soluzione di tutti i mali. Si dovranno attendere solo sei anni perché il progetto trovi una sua espressione istituzionale e costituzionale attraverso la scelta della rappresentanza elettorale. Nel 1998 si arriva pertanto alla prima presidenza. I partiti tradizionali crollano miseramente di fronte a un leader che appare come l’outsider, colui che spazzerà via la partitocrazia venezuelana e rifonderà il paese. Una vittoria fin troppo annunciata, la sua, che ha il propellente in una crisi economica sfociata in una profonda crisi sociale e della stessa tenuta democratica. Un’uscita “popolare” e populista, si dirà, ai colpi inferti dalla crisi delle istituzioni e della rappresentanza come il paese li aveva sperimentati fino a allora. Ma non è tutto perché se Chávez fosse solo la risposta a questo desiderio di rottura con la vecchia classe dirigente e a questa speranza di cambiamento non si spiegherebbe il suo permanere al potere per 14 anni. A ben vedere, infatti, egli riesce dove gli altri leader politici non erano mai riusciti: dare una identità sociale ai tanti poveri e diseredati del Venezuela, un paese razzista, classista e profondamente disuguale; far sentire i poveri e gli esclusi parte di un progetto condiviso di trasformazione del Paese; inventare e trasmettere un’epica collettiva di riscatto sociale emisferico che ha le sue origini in un Simón Bolivar mitizzato e trasfigurato. C’è poco Mariategui o Gramsci – di cui il nostro si diceva, ahinoi, un cultore – nella narrativa del potere. C’è, in ogni caso, il leader che si identifica con il collettivo, con il suo popolo e solo a lui risponde in una unione mistica che non ha bisogno di intermediazioni. Con il governo bolivariano arrivano i programmi sociali “las misiones” che sostengono il reddito delle classi più povere con sussidi e strutture di appoggio. Arrivano i medici cubani lì dove mai si era visto un presidio ambulatoriale. Arrivano i servizi primari, le fogne e le scuole. Arriva un senso di cittadinanza attiva e di partecipazione sociale. Il “barrio”, il quartiere, prende vita con i tanti soldi che il governo trasferisce e che sono spesi, male, dalla neo borghesia bolivariana (la “boliborghesia”). Poco è cambiato, tuttavia, nella struttura produttiva del Paese in questi 14 anni. Il Venezuela resta dipendente dall’export di petrolio (che pesa per il 90% del Pil) e risente enormemente della volatilità del suo prezzo, con la conseguenza che il governo appare incapace di programmare uno sviluppo sostenibile e di medio termine. Si importano beni per l’80% del consumo interno, dal latte alla carne. Una situazione insostenibile.
Con la morte di Chávez si chiude forse un’epoca. Adesso maggioranza e opposizione devono seguire il percorso indicato dalla Costituzione, senza forzature. Si torni, quindi, al voto e sia ancora una volta il popolo venezuelano a decidere del proprio futuro. Le notizie che parlano dell’esercito schierato a difesa della democrazia non ci paiono il migliore avvio di un processo di transizione che sarà senza dubbio complesso e articolato. Speriamo di sbagliare.
Le sfide per il nuovo presidente sono immense e non riguardano soltanto la sfera economica. A livello di tessuto e tenuta sociale, infatti, il Paese appare frammentato e diviso, fortemente polarizzato tra fautori e detrattori del processo bolivariano. C’è quindi da ricostruire uno spirito di unità nazionale che faccia sentire tutti i venezuelani parte di una stessa comunità orientata verso il bene comune. La classe dirigente è attesa da un arduo compito e crediamo non vorrà farsi trovare impreparata di fronte alla sfida che la storia le pone. C’è, infine, un tema di democrazia e di assetto istituzionale del paese: gli organismi intermedi sono stati profondamente depotenziati e esautorati a tutto vantaggio di un rapporto organico e diretto tra presidente e elettori. Questa assenza di mediazione istituzionale che riguarda organi dello stato, partiti e ministeri pone un problema di confusione costante di ruoli tra chi governa e chi controlla. Un assetto democratico più maturo sarebbe necessario e auspicabile. Saranno questi i temi dell’agenda politica su cui dovrà cimentarsi il nuovo esecutivo. La costituzione prevede, infatti, che si torni al voto entro 30 giorni. Maduro a oggi è il candidato del partito di governo mentre l’opposizione ancora non ha annunciato se ci sarà la conferma di Henrique Capriles Radonsky che lo scorso 7 ottobre era uscito dalla competizione per le presidenziali contro lo stesso Chávez con un ragguardevole 45% di consensi (6 milioni e 200mila voti).

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La via latina di Fiat

“Nel futuro Fiat c’è più America Latina. Ed è in questo quadro che si colloca la scelta di fare del Mercosud una base fondamentale per il nostro sviluppo globale”. Così dichiarava nel lontano 1997 Cesare Romiti, allora potentissimo amministratore delegato di Fiat in occasione del Forum das Americas, un seminario sugli investimenti in Brasile. A distanza di 15 anni le politiche di internazionalizzazione della Fabbrica Italiana Automobili Torino non differiscono. Anzi, sembrerebbe di poter dire che il tempo abbia consolidato questa strategia di politica industriale. La cosa strana, piuttosto, è che il tema sia arrivato a lambire i periodici non specializzati e a far riflettere l’opinione pubblica solo da pochi mesi. Da quando cioè la crisi in Europa ha provocato una contrazione della domanda aggregata di beni e servizi e tra questi un vero e proprio terremoto nel settore dell’automotive. Ma i dati erano lì a dimostrare che qualcosa non procedeva già da parecchio tempo. Altro che i venti miliardi di investimenti di Fabbrica Italia annunciati da Marchionne e mai visti. Altro che referendum che spacca le sigle sindacali e trasforma gli operai del nostro Paese nella parodia dell’uomo di hobbesiana memoria. Il fatto è che le auto non si vendono e le Fiat si vendono ancora meno delle altre marche. Nel vecchio continente perdono quote di mercato tutti i grandi gruppi e Fiat non fa eccezione. Il bollettino mensile è da far tremare i polsi. Negli ultimi mesi è un continuo segno meno. A ottobre le vendite in Italia sono calate del 12%. La quota di mercato di Torino è del 29,1%. Il trend è negativo ormai da luglio 2012 (-21,4%). Stessa musica ad agosto (-20,2%) e a settembre (-25,7%). A ottobre nel nostro Paese sono state immatricolate poco meno di 117 mila vetture, il peggior dato dal 1977. Su base annua, il calo di vendite è del 19,7% rispetto al 2011. La situazione europea è analoga: -11% rispetto all’anno passato, con il gruppo Fiat non arriva al 6% della quota di mercato.
Per trovare dati più rassicuranti bisogna allora attraversare l’Atlantico, direzione sud America, quel Mercosud di cui parlava Romiti e che ha nel Brasile il paese chiave dell’espansione della Fiat-Crysler targata Marchionne. La storia della casa di Torino in America latina segue l’epopea dell’industrializzazione, peraltro ancora incompiuta, di un continente. Narrano le cronache che tutto cominciò nella terra del tango e della milonga, in quel di Cordoba e Rosario, città di emigrazione dei tanti italiani che allora attraversavano l’oceano sperando in una vita migliore e dove c’era profumo di Italia a ogni angolo, dalla cucina, ai tanti dialetti, agli antichi mestieri. Il mercato rispose bene e si gettarono le basi per la costruzione della prima fabbrica. Ma non bastava. La Fiat di allora, quella dei piani industriali e degli investimenti a suon di dollari, guardava già all’intero continente come a un enorme potenziale mercato da esplorare e da fare proprio. D’altra parte, già agli inizi degli anni Venti il Brasile assorbiva più domanda dell’Argentina. C’era tanta cautela sul da farsi: il continente non era ancora stabile politicamente e a livello finanziario la vulnerabilità agli shock esterni e a quelli interni era elevatissima. Il management Fiat seppe resistere anche quando tutto sembrava suggerire la via del ritorno. La strada era ormai segnata: Sudamerica, cono sud, Brasile su tutti. Nel 1976 nasce la fabbrica di Betim, Stato di Minas Gerais, sud del Brasile. E da allora la storia dell’espansione dell’automotive non si è mai arrestata. La Fiat ormai da trent’anni è leader in quel mercato e il Brasile occupa un posto importante nella strategia di internazionalizzazione del Gruppo. Una premessa è d’obbligo. In Brasile Fiat si chiama Fiat Automoveis (http://www.fiat.com.br/) ma per tutti è Fiat Brasil. Non è una precisazione da poco o un vezzo semantico. I brasiliani percepiscono la fabbrica di Betim come una risorsa nazionale, come un asset che è parte integrante della loro acquisita capacità di fare innovazione, sviluppo e politica industriale. Persino lo spot per il lancio dell’ultimo modello della famosa utilitaria trasuda cultura, tradizioni, colori e tendenze made in Brasil. Dal 2004, poi, il presidente di Fiat Brasil e America latina è un brasiliano (seppur con discendenze ovviamente italiane), Cledorvino Belini, e anche questo non è un dettaglio. Segna un modo diverso di fare impresa, creando appartenenza e senso d’identità. E i numeri sono lì a confermarlo. Per il decimo anno consecutivo, Fiat è leader nel mercato brasiliano con una crescita a ottobre del 41,4% rispetto allo stesso mese del 2011. La quota di mercato nel paese del samba è del 23,1%, con Volkswagen che avanza. Le due marche europee si dividono quasi il 50% dell’intero mercato. Questo è il presente ma sappiamo bene che è sulle prospettive future di vendita che si decidono oggi le strategie industriali di domani. Il Brasile è oggi un mercato da 3 milioni e mezzo di veicoli annui (+5.5% rispetto al 2011). La prospettiva è che entro il 2015 diventerà il terzo mercato mondiale superando il Giappone, ma ancora dietro a Cina e Stati Uniti. Nel 2020 la domanda sarà per 6 milioni di veicoli. Gli acquirenti saranno il “nuovo” ceto medio brasiliano e latinoamericano. Com’è possibile? Le analisi parlano chiaro: la Banca Mondiale ha pubblicato a ottobre un interessante rapporto proprio su “Mobilità sociale e crescita della classe media in America latina” http://siteresources.worldbank.org/LACINSPANISHEXT/Resources/Informe_ClaseMedia.pdf).
Il segmento di classe media latinoamericana è passato da 103 milioni di persone nel 2003 a 152 milioni nel 2009, con un aumento del 50%, crescendo in media tra l’1% e il 2% l’anno. Un ruolo determinante lo hanno avuto le politiche sociali dei governi progressisti della regione che hanno puntato a coniugare un decennio di ottimi risultati economici con una diminuzione delle disuguaglianze e un aumento delle opportunità per le classi più vulnerabili. Uno dei casi paradigmatici di questo sforzo è rappresentato proprio dal Brasile dove durante gli anni del governo Lula 30 milioni di persone sono passate dalle classi marginali ed emarginate alla classe media.
Un altro spunto di analisi che vale la pena di mettere in luce riguarda il tipo di tecnologia che va per la maggiore in America latina. Qui, infatti, innovazione e sviluppo si misurano non sull’auto elettrica ma sul fronte del biocombustibile, in particolare sull’etanolo ricavato dalla canna da zucchero. Fiat, manco a dirlo, è al passo anche con queste nuove tecnologie e con le esigenze di un nuovo modello di motorizzazione individuale e collettiva. Saranno proprio le auto Fiat con tecnologia usata nella fabbrica di Betim, equipaggiate con motori flex fuel della Magneti Marelli (http://www.magnetimarelli.com/business_areas/powertrain/multifuel-system/flexfuel), introdotti nel 2003, a essere prodotte in Messico per il mercato statunitense grazie all’accordo Fiat-Crysler. Di cosa si tratta? Parliamo di un rivoluzionario sistema che permette al veicolo di funzionare sia con benzina sia con etanolo in qualsiasi percentuale di miscela. In pratica, un avanzato algoritmo di calcolo legge le informazioni presenti in qualsiasi sistema d’iniezione, riconoscendo con assoluta precisione il tipo di miscela usata. Dal momento che il software identifica la miscela, l’utente deve solo recarsi al distributore e scegliere il carburante meno caro. Il sito della Magneti Marelli si premura di confermare che il “sistema può essere impiegato anche nei mercati americani (e abbiamo visto che verrà fatto a Toluca, Messico) ed europei dove è disponibile alla pompa il combustibileE85 o in altri mercati dove sono disponibili miscele con minori percentuali di alcool”. Perché non se ne parla anche in Italia? Sappiamo che innovazione, ricerca e sviluppo di nuove tecnologie sono la chiave per vincere la sfida della competizione globale. Perché anche in Italia non si pensa a un nuovo modello di motorizzazione meno inquinante? Il dubbio resta e pesa come un macigno sulle spalle del management di casa nostra.
Fiat, insomma, fa la sua parte in Brasile. La fa anche il governo, va detto. Ricordiamo tutti il battibecco tra il ministro Passera, di ritorno da un viaggio proprio in Brasile, e Marchionne (“I suoi innegabili successi in Brasile dimostrano che quando si è in sintonia con un Paese i risultati arrivano” e “A Passera non sarà sfuggito che il governo brasiliano è particolarmente attento alle problematiche dell’industria dell’auto”). Il Governo brasiliano fa politiche industriali sull’auto mirate e consistenti. L’obiettivo che il Piano “Brasil Maior innovare per competere – competere per crescere” (http://www.brasilmaior.mdic.gov.br/)  per il periodo 2011-2014, si propone è di aumentare la competitività dell’industria nazionale a partire proprio dagli incentivi a produzioni con valore aggiunto e che siano il risultato di piani di innovazione e ricerca. Il piano prevede anche investimenti in formazione e qualificazione di mano d’opera oltre che sostegno all’export, tutela e protezione del mercato interno. Nel caso dell’industria automobilistica, questo piano va integrato con il programma “Inovar auto” (http://www.planalto.gov.br/ccivil_03/_ato2011-2014/2012/Decreto/D7819.htm), lanciato nel 2012 e valido per il quadriennio 2013-2017. In questo caso, l’obiettivo è di creare e sostenere nel lungo termine lo sviluppo di un’industria “nazionale” dell’auto attraverso incentivi legati all’efficienza energetica e ai consueti investimenti in ricerca e sviluppo. Stiamo parlando di tanti, tanti soldi. E di altrettanti ritorni in termini di fatturato. In Minas Gerais già lavorano 30 mila dipendenti - incluso l’indotto - a tempo pieno, 24 ore su 24 su tre turni per produrre 19 modelli con 280 versioni. Ma non è sufficiente: la produzione è inferiore alla richiesta e per soddisfare il mercato brasiliano si dà già fondo alle scorte di Argentina e Messico.
Proprio per sfidare i colossi tedeschi (BMW aprirà una fabbrica a Santa Catarina in grado di produrre almeno 30.000 vetture annue) e asiatici su un mercato tanto strategico, Fiat raddoppia la sua presenza con una nuova “planta” in Pernambuco che vale un investimento da 4 miliardi di reais entro il 2014. Questo nuovo insediamento consentirà, sommato alla produzione di Betim, di raggiungere 1 milione di vetture l’anno (che vuol dire più del doppio di quelle che usciranno dalle fabbriche italiane). I piani industriali per il Pernambuco sono molto ambiziosi (http://programapernambuco.fiat.com.br/). L’investimento si farà con 1.9 miliardi di euro stanziati dalla Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale (Banco Nacional do desenvolvimiento, BNDES) e dalla soprintendenza per lo sviluppo del Nordest. L’85% del totale di 2.3 miliardi sarà quindi finanziato dallo Stato brasiliano. Non è solo il comparto auto ad avere beneficiato di questi incentivi. Iveco, partner privilegiato del Ministero della Difesa brasiliano, con il suo stabilimento vicino a San Paolo, è nata con il 60% di contributi statali brasiliani ed è oggi il più grande stabilimento Fiat per i veicoli commerciali e il trasporto pesante, Soldi a palate anche per New Holand (macchinari agricoli). Saranno investiti 600 milioni di euro nel quarto stabilimento e lo Stato di San Paolo vi parteciperà per il 50%. Finanziamenti, certo. Aiuti di stato, ovvio. Ma anche coperture fiscali: nel 2007 Fiat Brasil ha ottenuto una riduzione dell’imposta sui prodotti industriali che sarà prorogata - secondo quanto annunciato dalla presidente Dilma Rousseff al recente salone dell’auto di San Paolo - fino a dicembre del 2012. Quest’ultima è stata una battaglia dura di Fiat Brasil, lo riconoscono tutti, ma di essa hanno beneficiato tutti i marchi. Con la differenza che Fiat è sempre leader lì mentre in Italia, anche con gli incentivi, le quote di mercato scendono. Quel che non torna, quindi, è proprio l’equazione tra aiuti di stato e incremento delle vendite: perché se è vero che nelle scelte industriali di Fiat pesano gli incentivi del governo brasiliano, verrebbe da chiedersi perché in Italia gli incentivi alla rottamazione abbiano salvato dalla cassa integrazione le tute blu di altri marchi. Sarà perché hanno un parco auto tecnologicamente più avanzato e dal design più innovativo e accattivante? In altre parole, se Fiat non sapesse leggere il mercato brasiliano, non facesse politiche industriali, non puntasse su innovazione e tecnologia, l’esito sarebbe analogo a quello italo-europeo. Al contrario, Fiat Brasil produce veicoli tecnologici e dal prezzo competitivo. E non è tutto perché la scommessa sul Brasile va ben oltre. In una recente intervista lo stesso Belini ha ricordato l’impegno sul sociale del marchio, dalla scolarizzazione per i figli dei dipendenti ai centri di salute, agli scambi culturali, dalla Fundacão Torino alla Casa della cultura. È questo il mix del “sistema Fiat” che conquista il mercati di oltre oceano e che fa sentire manager e operai parte di un futuro comune. Non bastano le divise con il logo della casa esibite dai giovani di casa Agnelli e dagli operai alla catena di montaggio. La differenza è una sola e la si intuisce cliccando sul sito di Fiat Automoveis. Compare la scritta “Fiat – Movidos pela paixão”, Fiat – la passione ci guida. Forse, non serve altro.

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Il soft power di Brasilia in Africa

Basta guardare un planisfero per rendersi conto di quanto il Brasile sia parte dell’Africa e di quanto questa sia l’ultima frontiera del gigante latinoamericano, quasi un suo estremo oriente staccatosi in tempi remoti per integrare un differente spazio geografico. Andando oltre la geografia, sono evidenti anche i vincoli storici e antropologici: quasi la metà dei brasiliani sono neri o meticci e discendono proprio dagli schiavi strappati alle terre africane. La tecnologia, in anni più recenti, si è incaricata di ricongiungere le due sponde attraverso un cavo a fibra ottica che attraversa le profondità sottomarine dell’atlantico unendo il nord-est del Brasile all’Africa occidentale. Non sfugge, quindi, che in un momento in cui il gigante sudamericano non si accontenta più di un ruolo da regional player ma aspira a un riconoscimento politico, diplomatico e commerciale di più ampio respiro e in aree tradizionalmente appannaggio di altre potenze, questa vicinanza geografica e questa origine comune potrebbero avere un peso molto più che simbolico.

 

Da Lula a Dilma: la partnership politica

È per questo che dietro il consolidamento delle relazioni afro-brasiliane giocano un ruolo importante la consapevolezza di una partnership politica di natura strategica, da consolidare e valorizzare, così come un vincolo storico fondato sul rispetto e sulla valorizzazione delle affinità. Caratteristiche che Cina, India, Russia o Turchia, i grandi competitor nell’area, non possono evidentemente vantare.
Per marcare questa unicità, la strategia di Brasilia si muove da anni su più fronti: economico e commerciale, certamente, ma anche strategico e militare e nell’area della cooperazione internazionale. A tutt’oggi, il 55% dei fondi dell’Agenzia di cooperazione brasiliana è destinato all’Africa come aiuti allo sviluppo. Altrettanto importanti per dimensioni e specificità sono i programmi nei settori della formazione agraria, dei biocombustibili, del petrolio e del gas, delle politiche ambientali. Non mancano, infine, programmi sul fronte culturale e universitario attraverso la riattivazione di protocolli di interscambio per i giovani dei paesi di lingua e cultura lusofona (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, São Tomé). Si tratta di una missione di lungo periodo, di un posizionamento strategico - come ha opportunamente ribadito la presidente Dilma Rousseff - e di una linea di politica estera che data almeno dalla prima presidenza di Lula. Fu, infatti, il presidente operaio a ricordare il debito storico del Brasile verso l’Africa, con tutte le conseguenze e le responsabilità politiche, economiche e sociali che ne discendono. Tra il 2003 e il 2007 Lula visitò 20 paesi africani, inaugurò 19 rappresentanze diplomatiche (arrivando a un totale di 37 tra ambasciate propriamente dette e uffici di rappresentanza nei 54 paesi – più di qualsiasi nazione europea) attivando progetti di cooperazione tecnica in ben 40 paesi del continente.

 

I risultati economici
A questa presenza diplomatica intensa e articolata seguirono presto i risultati economici: i flussi di scambio tra il Brasile e l’intero continente passarono dai miseri 5 miliardi di dollari nel 2000 ai 26 e mezzo dell’anno passato. Il Brasile, va detto, ha saputo fare sistema meglio di altre potenze: alla diplomazia e alla politica è stata affiancata la presenza di imprese medie e grandi, ansiose di conquistare nuovi mercati relativamente vicini e in fase di grande espansione. L’aumento esponenziale dei flussi economici è stato sicuramente facilitato da una evidente complementarietà tra le economie delle due sponde dell’Atlantico. Il Brasile è ormai la patria di alcune delle imprese di costruzione più grandi e importanti del pianeta (Oderbrecht, OAS Construtora o Andrade Gutierrez, solo per citarne alcune) e la maggior parte dei paesi africani ha bisogno come il pane di infrastrutture di ogni genere. L’Africa ha disponibilità di petrolio, gas e minerali ma non dispone di imprese locali per l’estrazione e la raffinazione. Vale e Petrobras sono giganti pronti a estrarli. In Africa, è ancora improduttivo il 60% dei terreni coltivabili e il Brasile dispone della tecnologia (le biotecnologie legate alla produzione di alimenti e il settore agroindustria, con Embrapa) e dei capitali per provare a liberare un continente dalla morsa della fame. Non è solo economia o politiche industriali. C’è anche tanta politica. Se torniamo all’ultimo rapporto della Banca Mondiale (articolo del 29 aprile), il limite vero del miracolo africano è nel permanere di sacche di povertà estrema e di diseguaglianze radicali in un contesto economico che vede la crescita con percentuali a due cifre per molti Paesi. La prossima fase dello sviluppo africano dovrà necessariamente prevedere un riallineamento delle differenze e una redistribuzione del reddito prodotto attraverso politiche sociali ad hoc. In una realtà come questa, possono avere un senso ed essere efficaci programmi come “Bolsa familia” o “Fome Zero” che hanno consentito a più di trenta milioni di brasiliani di ascendere alla classe media. Nell’Africa subsahariana potrebbe essere la Food and Agricoltural Organization, FAO, guidata guarda caso proprio da colui che “disegnò” quei progetti, il brasiliano José Graziano da Silva, a giocare un ruolo decisivo verso un modello di crescita con equità che può diventare il leit motiv di un intero continente o perlomeno dei suoi governi più illuminati.

 

La ristrutturazione del debito africano
In questo quadro, last but not least, va inserita l’ultima tappa di questo riavvicinamento tra popoli fratelli, la visita di Dilma Rousseff a Addis Abeba la scorsa settimana in occasione del 50esimo anniversario dell’Unione africana (http://www.au.int/). È il terzo viaggio che la presidente compie quest’anno in un paese africano dopo quello in Guinea Equatoriale per il terzo vertice America del sud-Africa e quello a marzo in Sud Africa per il Vertice dei paesi BRICS (Brasile, Russia, india, Cina, Sud Africa). Dilma Rousseff ha ricordato sì le profonde affinità che legano il suo paese e il suo popolo ai paesi e ai popoli africani, ha sottolineato l’interesse genuino che la società civile brasiliana nutre verso l’Africa così come l’impegno per una cooperazione sempre più fruttuosa del settore privato. Come segno concreto e tangibile di questa partnership strategica, come segnale al resto del mondo che il Brasile è già in Africa e vuole restarci, è stata annunciata l’intenzione di condonare e di ristrutturare 840 milioni di dollari di debito di 12 Paesi africani. Una strategia, quella adottata da “Planalto” in Africa, che la dice lunga del peso che il Brasile vuole giocare nei prossimi anni nelle relazioni sud-sud e nella cooperazione nel sud atlantico. Senza complessi di inferiorità, con capitali pubblici e privati da investire e con tante carte da giocare.

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Il ritorno a casa di Michelle

È tornata alla grande l’ex Presidente Michelle Bachelet. È tornata a occuparsi del suo Cile, alla politica nazionale e latinoamericana, a dimostrare che 4 anni di governo di centro destra dopo 20 anni consecutivi di governi targati “Concertación por la Democratia”  sono stati una parentesi poco felice e che il Cile democratico, che ricorda proprio quest’anno il 40° anniversario del golpe di stato di Pinochet, può continuare a cambiare in meglio.

A chi le ha chiesto se lei sia una minaccia per lo sviluppo economico del suo paese in una fase in cui la crisi economica e finanziaria che ha colpito i paesi a capitalismo maturo potrebbe trascinare con sé anche l’America latina – sottintendendo che la sua agenda è troppo a sinistra per un paese che ha fatto delle politiche di controllo dei conti pubblici e di crescita economica tra le più sostenute del continente il suo imprescindibile dogma – la leader ha risposto che il vero pericolo per il Cile è di non rendersi conto che non può esserci sostenibilità politica o economica se non si combattono le disuguaglianze sociali.

Il popolo della sinistra progressista e riformista, chiamato alle primarie di coalizione, le ha dato ragione sancendo il suo trionfo ieri, 30 giugno. Su un totale di 2 milioni e 137 mila votanti, ha ottenuto più di un milione e mezzo di preferenze, candidandosi a sfidare il vincitore delle primarie della destra. Il 74, 92% di coloro che si riconoscono nell’agenda della sinistra tout court, comunisti inclusi, l’ha scelta e voluta perché tornasse al suo posto, la Presidenza della Repubblica. La coalizione che la sosterrà sarà più amplia della classica “Concertazione” (Partito Socialista, Partito per la Democrazia, Partito Radicale e Democrazia Cristiana). “Nueva Mayoria” comprenderà, infatti, Concertación e Comunisti, in una formula che si sta sperimentando già in diversi governi locali, Santiago del Cile incluso (dove governa l’ex Ministro della Bachelet, Carolina Toha).

Comincia da oggi la campagna elettorale vera e propria in vista delle presidenziali di novembre (primo turno il 17, eventuale ballottaggio a dicembre). “Dobbiamo lavorare senza risparmiarci per il trionfo di novembre” ha dichiarato la candidata Presidenta perché - ha aggiunto – “non si tratta di un progetto personale ma di un obiettivo collettivo”. I sondaggi la danno già per favorita contro la destra e il ritornello che risuona nella sede del comitato elettorale è “primo turno, primo turno” a significare che i partiti della coalizione vogliono chiudere a novembre la partita per dedicarsi con tutto il tempo necessario (l’insediamento è, come di consueto, a marzo) alla formazione del nuovo governo.

Chiarezza fin da subito sull’agenda politica della prossima campagna: riforma dell’istruzione affinché sia un diritto sociale e quindi gratuita e di qualità (la rivendicazione dei giovani latinoamericani di questi ultimi anni); le riforme sociali già implementate durante il suo primo mandato (2006/2010); la riforma tributaria e i diritti civili. Non sarà facile: è cambiato il mondo dopo la crisi del 2007 e sebbene il Cile continui a crescere a ritmi molto interessanti non sfugge il rallentamento delle economie asiatiche, Cina in primo luogo. L’Alianza del Pacifico nasce con il proposito di consolidare le relazioni economiche tra Perù, Cile, Messico e Colombia e il MILA (Mercato Integrato Latinoamericano) di cui fanno parte le borse valori dei quattro soci, rappresenta il sistema di borse valori più grande dell’America latina in termini di società quotate. Ma le potenzialità dei due strumenti sono ancora tutte da dispiegare. D’altra parte, in passato, proprio la Presidenza Bachelet ha segnato il ritorno del Cile nell’area politica (più che economica o tariffaria, va precisato) del Mercosud, con un occhio molto attento a tenere buone relazioni con il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela, la Bolivia (nonostante l’annosa questione dell’accesso al mare).

Che alla Bachelet piaccia essere controtendenza non è una novità. Sembra scritto nel suo DNA stupire e anticipare i tempi. Una vita piena con un passato importante e prestigioso, la sua. Un padre torturato e ucciso durante la dittatura di Augusto Pinochet, arrestata e torturata anch’essa a Villa Grimaldi, il più famoso centro di detenzione cileno, la Bachelet è rientrata in patria soltanto nel 1980 dopo l’esilio nell’allora Repubblica democratica tedesca. Separata, in un paese dove la legge sul divorzio è relativamente recente, e agnostica, in controtendenza con la tradizione cattolica sudamericana, è un medico pediatra e madre di tre figli. Tra le curiosità della sua biografia si trovano una carriera da giovane nuotatrice e la partecipazione ad un corso specialistico di strategia militare all'Accademia nazionale di studi politici e strategici. Nel '99 seguì direttamente la campagna elettorale del Presidente Ricardo Lagos, divenendo tra il 2000 e il 2004 prima Ministro della Salute e poi della Difesa. Votata al secondo turno da 3.712.587 cileni (il 53,49%) contro le 3.229.395 preferenze date allo sfidante, Sebastian Piñera (il 46,5%), fu eletta il 15 gennaio 2007. Al ricevimento per il suo insediamento alla Moneda del marzo dello stesso anno erano presenti tutti i governi dell’America Latina (con i loro Presidenti o Ministri degli esteri, al più alto livello quindi) e molti governi europei (Italia inclusa). La delegazione della CGIL era guidata dall’attuale segretario nazionale del PD, Guglielmo Epifani.

Negli ultimi anni ha deciso di lasciare il Cile, di non rilasciare interviste sulla politica del suo Paese, di non partecipare a attività politiche o di partito per dedicarsi interamente all’agenzia delle Nazioni Unite, UN WOMEN. Anche a New York ha svolto un lavoro pregevole su temi di drammatica attualità (salute riproduttiva, gender balance, payment gap, violenza sulle donne, tratta), dimostrando che lo star lontano dalla politica del giorno dopo giorno non nuoce affatto se si mantiene un profilo credibile, integro e coerente. Adesso si apre una nuova sfida. Bentornata a casa, bentornata alla politica Presidenta Bachelet.

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Referendum in Cile: siamo davvero punto e a capo?

È andata come tutti i sondaggi in Cile presagivano: davano, infatti vincente il Rechazo con punte di 15 punti di distacco. È andata così: Ha vinto il NO, vale a dire il rifiuto al nuovo progetto di Costituzione. E ha vinto con un risultato chiaro e senza equivoci. Il 61,87% dei votanti ha rifiutato il progetto della nuova Costituzione. Il NO ha vinto in tutte e 16 le regioni del Paese, persino nella cosmopolita Santiago e a Valparaíso, seppure in misura meno evidente. Per la cronaca, in Italia, invece, ha vinto l’approvazione, con 381 voti contro 251. Molto chiare le parole del presidente Gabriel Boric al riguardo: «Oggi ha parlato il popolo cileno e ci ha trasmesso due messaggi. Il primo è che vuole e dà valore alla sua democrazia, che confida in essa per superare le differenze e avanzare. Il secondo messaggio è che non è rimasto soddisfatto della proposta di nuova costituzione e pertanto ha deciso di rifiutarla nelle urne in maniera chiara. Questa decisione dei cileni e delle cilene impone alle nostre istituzioni e agli attori politici di lavorare con maggior impegno, con maggior dialogo, con più rispetto per arrivare a una proposta che ci interpreti tutti, che dia fiducia e che ci unisca come Paese. Far fronte a queste importanti sfide richiederà fin da subito cambiamenti nel nostro gruppo di governo per far fronte a questo nuovo periodo con rinnovata risolutezza». Il presidente Boric ha convocato per lunedì 5 tutte le forze di governo per analizzare la continuità del processo costituente. Perché una cosa è certa: il referendum non ha messo in dubbio la necessità di una nuova Costituzione in Cile, bensì quella uscita dalla Convenzione costituente. Non è un caso che nei giorni precedenti il voto sia i partiti di governo – favorevoli al progetto – che quelli di opposizione – contrari – si erano impegnati a continuare il processo costituente indipendentemente dal risultato del referendum. Quindi anche se il progetto di Costituzione fosse stato approvato si sarebbe lo stesso messo mano al testo finale per i dovuti aggiustamenti. Va detto però che persino molte personalità importanti della sinistra si erano espresse contro il progetto della nuova Costituzione; mi riferisco all’ex presidente Ricardo Lagos e a Ernesto Ottone, auspicando che si rimettesse mano all’intero impianto del progetto e dichiarando che sarebbe stato più facile farlo con un voto negativo.

Va detto che gli articoli più controversi per l’opinione pubblica e che facevano pendere la bilancia per il NO erano soprattutto quelli sul riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene. Ad esempio, nella Costituzione rifiutata lo Stato cileno era definito come “plurinazionale”. Coloro che erano paladini per il No associavano la plurinazionalità con la divisione del Paese e con la creazione dei popoli originari come un gruppo privilegiato. Questo discorso ha fatto molta breccia nel dibattito nazionale. Nel testo, poi, si prevedeva la creazione di autonomie territoriali indigene, assicurando allo stesso tempo che il territorio del Paese era indivisibile, e si postulava il rispetto del sistema di giustizia indigena che parte della popolazione cilena ha identificato come contrario al principio di uguaglianza di fronte alla legge. Altro tema oggetto di critica è stato quello della trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni, quindi in un organismo di livello minore. Sicuramente, nel prevalere del No hanno avuto effetto alcune dichiarazioni e gesti radicali dei membri della Convenzione che hanno avuto un impatto rilevante sull’opinione pubblica cilena. Non è un caso che in un sondaggio CEP pubblicato alla fine dei lavori della Costituente, più della metà delle ragioni per votare NO erano associate a una visione critica della stessa Costituente. Un peso sicuramente lo ha avuto la stampa schierata per il NO, che ha riempito il mese di campagna elettorale di fake news (tra le tante, la minaccia di espropriare la casa) e le multinazionali preoccupate dall’affermazione della tutela dei beni comuni ribadita in Costituzione (l’acqua pubblica, ad esempio) e della sanità pubblica.

 

Detto questo è forse opportuno fare un passo indietro e vedere come si è arrivati alla Costituente e quali erano gli articoli più significativi del progetto.

A ottobre del 2019 il Paese ha vissuto un estallido social, un momento di proteste sociali in cui la cittadinanza ha manifestato contro l’élite politica ed economica esprimendo la propria rabbia sociale di fronte alla disuguaglianza crescente in uno dei Paesi più ricchi dell’America Latina. Per mesi, il Paese andino è stato paralizzato e una delle rivendicazioni centrali articolate durante la protesta è stata la necessità di una nuova costituzione che sostituisse quella neoliberale di epoca pinochettista. Il 25 ottobre del 2020 il 78% dei votanti ha deciso in un plebiscito che si iniziasse il processo per la redazione di una nuova Costituzione. In questo stesso referendum è stato deciso altresì di istituire una convenzione costituzionale eletta democraticamente. A maggio del 2021 si sono celebrate le elezioni per questa Costituente e i risultati sono andati a vantaggio dei partiti e dei movimenti politici del centrosinistra. Sconfitti i partiti politici tradizionali, soprattutto quelli di destra. Le candidature ideologicamente prossime alla sinistra, soprattutto indipendenti, hanno ottenuto il 60% degli scranni. La Convenzione ha avuto altresì una inedita composizione paritaria tra uomini e donne e 17 dei 155 seggi sono stati riservati a rappresentanti dei popoli indigeni. Lo scorso 4 luglio i membri della Convenzione hanno consegnato al presidente Boric il progetto della nuova costituzione, facendo venir meno il lavoro della Costituente, che infatti si è sciolta. Il 4 agosto è cominciata la campagna elettorale per il referendum di domenica scorsa, con voto obbligatorio (da poco più di 8 milioni di votanti alle presidenziali si è passati a più di 12,5 milioni di domenica). A un primo sguardo sugli articoli del progetto bisogna dire che il testo non confermava i timori della destra cilena (la bolivarizzazione del Cile, per dirne una, cioè il fatto che con questa Costituzione il Cile si stesse avvicinando pericolosamente al Venezuela di Maduro) e che non era un testo rivoluzionario in linea generale, ma va detto anche che conteneva alcune caratteristiche uniche che avrebbero permesso al Paese di avanzare verso una maggiore giustizia sociale e sostenibilità ambientale. In definitiva, la nuova Costituzione rispondeva a ciò che una gran parte della cittadinanza era andata chiedendo nelle manifestazioni sociali dei diversi settori, che si sono succedute negli ultimi decenni. Un testo avanzato senza dubbio, che rifletteva le istanze dei membri della Costituente (come abbiamo detto, per lo più indipendenti e legati ai movimenti sociali), sicuramente differente dalla composizione del Congresso nazionale.

Vediamo in breve alcuni dei principali articoli che identificavano questo progetto costituzionale, che constava di 177 pagine, 388 articoli e 57 norme transitorie. In primo luogo, la grande innovazione politica del processo costituente cileno era l’inclusione della parità che era declinata nella partecipazione di forze indipendenti in condizioni di uguaglianza con i membri dei partiti politici, nella composizione paritaria tra uomini e donne e in un tot di seggi riservati ai movimenti indigeni (17 su 155 totali). Il risultato più evidente era l’instaurazione di quella che si è denominata democrazia paritaria, che stabiliva le condizioni per conseguire una vera parità di genere negli incarichi di rappresentanza popolare a livello nazionale, regionale e municipale e si sarebbe applicata anche agli organismi autonomi e alle imprese pubbliche. Un’altra importante innovazione è il concetto di plurinazionalità, di cui abbiamo già parlato. È importante sottolineare che la presidente della Convenzione è stata una donna mapuche, Elisa Loncon. Un altro aspetto importante messo in evidenza da questo progetto costituzionale era la tematica ambientale. Veniva riconosciuto che la crisi climatica ed ecologica era un dato da tenere in conto per qualsiasi scelta di politica pubblica. Il progetto di Costituzione conteneva un catalogo di diritti ambientali, consacrava il diritto della natura e il dovere speciale dello Stato sui beni comuni naturali, garantiva a tutti i cileni il diritto all’acqua considerato un bene non appropriabile. Un altro aspetto fondamentale era ribadito nel primo articolo del progetto quando si affermava che il Cile è uno Stato sociale e democratico di diritto e si sviluppavano poi un nutrito catalogo di diritti sociali (tra cui quelli classici alla salute, all’istruzione, alla sicurezza sociale e alla casa insieme ad altri di nuova generazione come quello all’acqua). Un altro tema che trovava spazio nella Costituzione era quello del centralismo e della concentrazione del potere. Il tema veniva risolto dichiarando il Cile uno Stato regionale, vale a dire uno Stato con autonomie regionali e comunali. La nuova Costituzione prevedeva poi meccanismi di partecipazione diretta come l’iniziativa popolare di norma per revocare una legge o per riformare la Costituzione e meccanismi di plebiscito, referendum e consultazioni a livello regionale e municipale. Dal punto di vista del sistema politico, il Congresso bicamerale esistente era sostituito con uno asimmetrico vale a dire che si potenziavano i poteri del Congresso delle deputate e dei deputati e si sostituiva l’attuale Senato con una Camera delle Regioni con poteri più limitati.

 

In conclusione, pur tra mille dubbi e perplessità sul testo del nuovo progetto costituente, una cosa va detta: era la prima volta in Cile che una crisi sociale e politica conduceva a un cambiamento costituzionale con una uscita democratica e non con l’uso della forza, mettendo in evidenza che per i problemi di ordine democratico la soluzione è approfondire la democrazia.

 

Immagine: Scrutinio del voto espresso dai vincitori al Plebiscito in Cile. Testo: Plebiscito Nazionale 2020. Vuoi una nuova costituzione? + Approvo – Rifiuto, Santiago, Cile (25 ottobre 2020). Crediti: Klopping / Shutterstock.com

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Allarme democrazia in Nicaragua

Esiste un Paese in America Latina di cui si parla troppo poco. Esiste un Paese in America Latina che si sta convertendo nella Corea del Nord del subcontinente: opposizione al bando e isolamento continentale. Vediamo nel dettaglio il perché di affermazioni tanto drastiche e preoccupanti. La repressione è cominciata nel 2018, nel momento in cui i difensori dei diritti umani, gli intellettuali, gli studenti, i lavoratori, i politici sono stati messi nelle condizioni di soccombere o di lasciare il Paese. La situazione interna è di grande preoccupazione in materia di Stato di diritto, democrazia e protezione dei diritti umani. È recente la notizia che con una riforma approvata dall’Assemblea nazionale, controllata dal suo partito, il Frente sandinista per la Liberazione nazionale, Daniel Ortega, padre padrone del Nicaragua, ha cancellato la libertà di cattedra eliminando il contributo statale – in altre parole il budget – alle università considerate ribelli. È questo solo un esempio di una serie di misure dell’esecutivo che evidenziano una stretta alle libertà e ai diritti nel Paese centroamericano, che avviene dopo che i leader politici dell’opposizione sono stati incarcerati o costretti all’esilio; e forse le parole più belle sull’esilio forzoso le ha espresse Gioconda Belli, una scrittrice molto famosa in patria e all’estero, costretta all’esilio in Spagna: «A volte mi sento vuota di qualsiasi altra cosa che non sia questo impeto feroce di fare qualcosa che possa salvarla (la patria, nda), fare la differenza. So che c’è poco che io possa portare al mio Paese a livello pratico. Ci sono giorni in cui vorrei dimenticarlo».

Un impeto feroce, come quello che la sinistra democratica prova contro il regime dopo la condanna per cospirazione contro gli interessi nazionali di Dora María Téllez, leggenda della sinistra latinoamericana, la Comandante Dos, che è in carcere ormai da più di un anno, ridotta ad una larva umana e costretta a passare le sue giornate al buio di una cella spoglia; ciò accade dopo la morte in carcere del prigioniero politico Hugo Torres, sottoposto a torture fisiche e psicologiche. Questa serie di misure avviene dopo l’espulsione del nunzio apostolico e la persecuzione di molti sacerdoti che si oppongono alla deriva autoritaria del regime con la sola arma a loro disposizione, il magistero. Lo scorso 12 marzo, il papa aveva considerato grave e ingiustificata l’espulsione del nunzio, una decisione unilaterale che non rifletteva, a suo avviso, i sentimenti della popolazione nicaraguense, profondamente cattolica. Ma tant’è: non si è ritornati su questa decisione. Persino il capo missione della Croce Rossa Internazionale è stato espulso dal Paese.

Misure eccezionali, poi, sono state prese contro le ONG: per loro è stata emanata una legge di controllo, e il risultato è che più di 1.200 organizzazioni della società civile sono state chiuse, con grave pregiudizio per la popolazione più fragile visto che le organizzazioni della società civile avevano ed hanno un enorme peso in molti settori come la sanità (molto attive con la pandemia da Covid-19) e la formazione, e si dedicano per lo più a programmi sociali e di sviluppo umano. Nessuna pietà è stata mostrata neppure contro gli artisti che nei loro testi denunciavano le nefandezze del regime: per lo più sono stati allontanati e costretti all’esilio o costretti a tacere. Persino l’Accademia nicaraguense della lingua è stata dichiarata fuori legge, cosa che ha fatto gridare a Sergio Ramírez, intellettuale nicaraguense ed ex presidente della Repubblica, che in Nicaragua si è messa fuori legge la “parola”.

Il Paese, poi, è uscito dalla Organizzazione degli Stati Americani, organizzazione accusata di essere un braccio dell’imperialismo statunitense oltre che uno strumento politico di intervento e dominazione del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Tra le ultime misure varate vi è anche la decisione di dichiarare decaduti cinque sindaci dell’opposizione, sostituiti con altrettanti sindaci sandinisti, misura che ha fatto gridare alla adozione di un sistema a partito unico in Nicaragua, ad un attacco nei confronti della volontà popolare e della autonomia municipale. Il regime Ortega-Murillo, la moglie di Ortega e sua vicepresidente, è sempre più isolato internazionalmente. Anche in America Latina i segnali sono inequivocabili. Quest’anno aveva dato un primo segnale il Cile di Gabriel Boric. Il neopresidente aveva invitato alla cerimonia di insediamento presidenziale dello scorso 11 marzo i due intellettuali che abbiamo menzionati, Gioconda Belli e Sergio Ramírez, che se fossero in patria sarebbero in prigione per le loro posizioni apertamente contrarie al regime. Ultimo episodio è stato la cerimonia per il quarantatreesimo anniversario della caduta del dittatore Somoza celebrato a Managua. Il solo invitato internazionale di rango è stato il primo ministro di Saint Vincent e Grenadine, Ralph Gonsalves.

 

Ma forse non tutto è perduto. Il presidente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Federico Villegas, ha nominato i tre membri indipendenti del Gruppo di esperti in diritti umani sul Nicaragua. Questa è una notizia che molti attendevano: si tratta della creazione di un gruppo di esperti indipendenti del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite che investigheranno sulle violazioni dei diritti umani compiute in Nicaragua e, se possibile, ne identificheranno anche gli autori. Tale meccanismo dovrebbe indagare sui fatti avvenuti negli ultimi 4 anni, a partire dal 2018. Secondo questo progetto, la ricerca di un canale di comunicazione con il governo ha come obiettivo quello di risolvere aspetti cruciali nell’ambito dei diritti umani, come per esempio la possibilità di aprire un canale umanitario per le persone esiliate, la liberazione di più di 170 prigionieri politici, e il risarcimento ai familiari delle vittime della repressione del 2018. È molto probabile che il regime si rifiuti di collaborare con questo organismo, come del resto ha già fatto con altri simili, ma il lavoro degli esperti sarà comunque prezioso per avere una mappa dell’attuale situazione politica e dei diritti umani in Nicaragua.

È intervenuta su questo tema anche Michelle Bachelet, alto commissario ONU per i Diritti umani ed ex presidente del Cile, che ha chiesto che Ortega liberi i prigionieri politici incarcerati durante le votazioni dello scorso anno, in cui – ricordiamo – Ortega è stato eletto per un quinto mandato.

Sono spinte che andrebbero rafforzate per colpire più da vicino il regime di Ortega-Murillo: la situazione, come abbiamo cercato di mettere in evidenza, è disperata. La rivoluzione sandinista, a cui tanti avevano guardato nel mondo come a un movimento di liberazione nazionale, è ormai un pallido ricordo.

 

Immagine: Repressione della polizia contro i giornalisti che hanno cercato di coprire la notizia della cattura della candidata presidenziale Cristiana Chamorro, Managua, Nicaragua (2 giugno 2021). Crediti: Jeiner Huete_P / Shutterstock.com

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Esame di maturità per il Venezuela

Con il fiato sospeso fino al 10 gennaio e con le comunicazioni roventi tra Caracas e L’Avana. E’ in questa situazione che sta maturando la vigilia della “toma de posesión”, la cerimonia d’investitura presidenziale in Venezuela. La situazione del Presidente Chávez è stabile ma “delicata”, Hugo Chavez è "assolutamente cosciente" su quanto siano "complesse e delicate" le sue condizioni dopo l'operazione dello scorso 11 dicembre, "leggeri miglioramenti con situazioni stazionarie": è sugli aggettivi e sulle dichiarazioni dei ministri accorsi al capezzale di Chávez che maggioranza e opposizione prendono le misure per capire cosa fare e cosa sperare dai prossimi giorni. Niente “segreto di stato” - come fu ed è ancora per Fidel Castro - anche se i dubbi e i sospetti sulle reali condizioni di salute del presidente venezuelano si rincorrono ormai da mesi pesando come un macigno sul futuro del Paese e sugli equilibri di un intero continente. La costituzione bolivariana è sottoposta in questi giorni ad analisi e interpretazioni estensive. In linea generale, i margini di manovra dovrebbero essere ristretti: si tornerebbe a elezioni entro 30 giorni nel caso in cui l’impedimento avvenga nei primi quattro anni del mandato. Qualora si verifichi negli ultimi due anni, è previsto che l’incarico si trasmetta automaticamente al vice Presidente (nel caso di specie, a Nicolas Maduro). Al momento, tuttavia, i costituzionalisti sono impegnati, Carta Magna alla mano, a provare o a confutare l’ipotesi che la cerimonia d’insediamento presidenziale possa essere posticipata. Sembra facile. La situazione, in realtà, è molto confusa, si naviga a vista e altrettanto incerte paiono essere oggi le conseguenze politiche di ciascun passaggio istituzionale.
Il 2012 si era chiuso in Venezuela con l’improvvisa partenza per L’Avana del Presidente malato. Due mesi prima, il 7 ottobre, era stato rieletto alla guida del Paese fino al 2019 con il 54% dei consensi, quasi sette milioni e mezzo di voti, contro il candidato dell’opposizione unita nella Mesa de Unidad Democratica, MUD, Henrique Capriles, che aveva ottenuto un ragguardevole 45% di suffragi (6 milioni e 200mila voti). Mai un candidato dell’opposizione era arrivato così vicino al successo: in passato, infatti, Chávez aveva surclassato l’avversario del 16% nel 1998, del 22% nel 2000 e addirittura del 26% nel 2006. Da quando è salito al potere, l’ex colonnello dei paracadutisti ha vinto tutte le 4 elezioni presidenziali e 4 referendum (tranne quello del 2007 di revisione costituzionale) e il suo partito il Partido Socialista Unificado de Venezuela, PSUV, ha vinto tutte le elezioni parlamentari. Il successo del 7 ottobre ha trovato conferma lo scorso 16 dicembre. Con Chávez a L’Avana, convalescente della quarta operazione, i suoi candidati avevano conquistato i governi di 20 delle 23 regioni del paese, “un regalo di amore a Chávez” così lo aveva definito Nicolas Maduro. L’opposizione aveva perso 4 dei 7 stati in cui governava, confermandosi tuttavia vittoriosa nello stato di Miranda, dove il candidato sconfitto alle presidenziali Henrique Capriles superava l’ex vicepresidente della Repubblica Elias Jaua, in Amazonas e a Lara e perdendo, tuttavia, nello strategico stato petrolifero di Zulia. A livello parlamentare, invece, la composizione dell’Assemblea nazionale aveva subito un radicale rinnovamento due anni prima, nel settembre del 2010: il ritorno alla competizione elettorale dell’opposizione riunita nella MUD aveva segnato un arresto della marcia trionfale del partito di governo che si era fermato a poco meno di cinque milioni e mezzo di consensi (solo 100 mila voti in più dell’opposizione riunita) e per la prima volta il PSUV non era risultato maggioranza assoluta. In questa situazione di grande fluidità e pluralismo a livello partitico e di contendibilità della leadership a livello governativo si gioca il futuro del Venezuela dopo il 10 gennaio. Chiunque governerà dovrà fare i conti con un’opposizione forte all’Assemblea nazionale e con governi regionali a predominanza chavista. A livello economico, la situazione è difficile ma in recupero. Dopo anni di finanza allegra e d’inflazione fuori controllo, nel 2012 c’è stato un recupero sostanzioso del Pil: la crescita dovrebbe attestarsi a un + 5,3%, sostenuta soprattutto dal settore immobiliare e da quello petrolifero. Grazie ai massici investimenti nei programmi sociali (che nei dieci anni precedenti a Chávez erano di circa il 37% del Pil e che con il Presidente sono arrivati al 62%) si è dimezzato il livello della disuguaglianza, endemica in tutto il continente. Poco è cambiato, tuttavia, nella struttura produttiva del Paese in questi 14 anni di governo Chávez: il Venezuela resta un “petro-stato” dipendente per il 90% del Pil dall’export di petrolio e dove la politica economica e gli investimenti risentono enormemente della volatilità del prezzo dell’oro nero. A causa proprio dei prezzi record degli ultimi dieci anni e del tasso d’inflazione reale più alto dell’America latina, il Paese ha cessato di produrre: s’importa tutto, anche i prodotti agricoli, per l’80% dei consumi interni. La situazione non è sostenibile nel medio-lungo periodo e lo stesso Presidente aveva lanciato un grido di allarme, questa estate, invocando un ripensamento nella politica economica e nelle strategie di crescita. Il risorgere della malattia ha bloccato tutto.
Con la data del 10 gennaio ormai alle porte, quel che la comunità internazionale si augura e augura ai venezuelani è che il paese trovi finalmente quello spirito di unità nazionale che è sembrato mancare negli ultimi anni. Le polarizzazioni, le divisioni e le frammentazioni sociali mal si conciliano con una fase di potenziale incertezza e instabilità istituzionale. Il richiamo all’unità nazionale e il senso di responsabilità nelle scelte politiche da parte della classe dirigente venezuelana, maggioranza e opposizione, ci paiono oggi il migliore auspicio da rivolgere a un Paese e a un popolo amico.

 

Gli articoli chiave della Costituzione:

 

Artículo 231 – El candidato elegido o candidata elegida tomará posesión del cargo de Presidente o Presidenta de la República el diez de enero del primer año de su período constitucional, mediante juramento ante la Asamblea Nacional. Si por cualquier motivo sobrevenido el Presidente o Presidenta de la República no pudiese tomar posesión ante la Asamblea Nacional, lo hará ante el Tribunal Supremo de Justicia.

 

Artículo 233 – Serán faltas absolutas del Presidente o Presidenta de la República: su muerte, su renuncia, o su destitución decretada por sentencia del Tribunal Supremo de Justicia, su incapacidad física o mental permanente certificada por una junta médica designada por el Tribunal Supremo de Justicia y con aprobación de la Asamblea Nacional, el abandono del cargo, declarado como tal por la Asamblea Nacional, así como la revocación popular de su mandato. Cuando se produzca la falta absoluta del Presidente electo o Presidenta electa antes de tomar posesión, se procederá a una nueva elección universal, directa y secreta dentro de los treinta días consecutivos siguientes. Mientras se elige y toma posesión el nuevo Presidente o la nueva Presidenta, se encargará de la Presidencia de la República el Presidente o Presidenta de la Asamblea Nacional. Si la falta absoluta del Presidente o Presidenta de la República se produce durante los primeros cuatro años del período constitucional, se procederá a una nueva elección universal, directa y secreta dentro de los treinta días consecutivos siguientes. Mientras se elige y toma posesión el nuevo Presidente o la nueva Presidenta, se encargará de la Presidencia de la República el Vicepresidente Ejecutivo o la Vicepresidenta Ejecutiva. En los casos anteriores, el nuevo Presidente o Presidenta completará el período constitucional correspondiente. Si la falta absoluta se produce durante los últimos dos años del período constitucional, el Vicepresidente Ejecutivo o Vicepresidenta Ejecutiva asumirá la Presidencia de la República hasta completar dicho período.

 

Artículo 234 – Las faltas temporales del Presidente o Presidenta de la República serán suplidas por el Vicepresidente Ejecutivo o Vicepresidenta Ejecutiva hasta por noventa días, prorrogables por decisión de la Asamblea Nacional por noventa días más.
Si una falta temporal se prolonga por más de noventa días consecutivos, la Asamblea Nacional decidirá por mayoría de sus integrantes si debe considerarse que hay falta absoluta

 

Artículo 235 – La ausencia del territorio nacional por parte del Presidente o Presidenta de la República requiere autorización de la Asamblea Nacional o de la Comisión Delegada, cuando se prolongue por un lapso superior a cinco días consecutivos.

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Elezioni presidenziali in Brasile

“Che lo spirito di sapienza orienti le difficili decisioni che la presidente Dilma Rousseff dovrà prendere.” È in questa frase del teologo Leonardo Boff la chiave di lettura delle recenti elezioni in Brasile. Perché Dilma ha vinto ma lo ha fatto solo con il 51, 64% (54,4 milioni di voti), la percentuale più bassa da quando il Partido dos Tabalhadores è al governo del gigante latinoamericano.

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Che confusione nei cieli d’Europa!

Che confusione nei cieli d’Europa! Se poi a farne le spese è l’aereo di un Presidente della Repubblica la cosa non solo si complica e si tinge di mistero ma assume una rilevanza di natura politica oltremodo speciale. Ci riferiamo al caso che ha visto coinvolto il Presidente dello Stato plurinazionale di Bolivia, Evo Morales, di ritorno da Mosca e diretto a La Paz. All’aereo presidenziale sarebbe stato negato lo spazio aereo di alcuni paesi europei. Perché? Perché i servizi segreti di questi paesi erano stati informati che a bordo del veicolo presidenziale c’era Edward Snowden, ricercato numero uno dagli Stati Uniti per avere svelato lo spionaggio dell’NSA (National Security Agency) nei confronti, tra gli altri, di varie ambasciate europee a Bruxelles e della stessa rappresentanza UE a NewYork e Washington. Due domande sorgono da questa ricostruzione: se è vero, come ormai si dice, che nessuno abbia visto Snowden all’aeroporto di Mosca Sheremétyevo – ipotizzando quindi che costui sia “custodito” dai servizi russi in attesa di poterlo finalmente imbarcare su un volo di linea (verso Cuba?) per poi arrivare in Nicaragua o Venezuela - chi potrebbe aver avuto vantaggi dalla diffusione di questa notizia rivelatasi falsa? In atri termini, quale potrebbe essere l’interesse dei servizi russi di dare un’informazione sbagliata, tale da creare una escalation di panico nei ministeri europei al punto da far commettere un evidente abuso alle prerogative di un capo di Stato come il divieto al sorvolo dello spazio aereo? Nel tempo avremo risposte a queste domande, ma intanto ci si chiede se l’inizio dei negoziati sul Transatlantic Free Trade Agreement non abbia giocato un ruolo in questo spinoso affaire che attiene al diritto internazionale e, in particolare, alla Convenzione di Vienna sull’immunità diplomatica.

 

L’informativa del Governo

Per quanto riguarda il nostro paese, la vicenda Morales ci ha riguardato da vicino. L’Italia, infatti, con Francia, Spagna e Portogallo sarebbe uno di quei Paesi che avrebbero deciso di impedire il sorvolo al Falcon di Evo Morales. L’uso del condizionale è d’obbligo perché la versione del nostro esecutivo non coincide con quella diffusa dalle autorità boliviane. La fonte a cui far riferimento per dipanare la matassa è la informativa che il governo, tramite il nostro Ministro degli Esteri, Emma Bonino, ha svolto giovedì 4 luglio davanti alle commissioni Affari costituzionali, Presidenza del consiglio e interni, affari esteri e comunitari e difesa di Camera e Senato. È opportuno far riferimento a questa comunicazione governativa perché la stampa, anche nel nostro Paese, continua ad alimentare la confusione sulla vicenda e se è pacifico che nessuno sia tenuto a ascoltare le informative, magari un’occhiata alle agenzie che ne riportano il contenuto è doverosa al fine di fornire una giusta informazione all’opinione pubblica. Ebbene, il Ministro è stato chiaro. Interrogata a proposito del caso Morales, ha risposto di poter fornire un cronogramma preciso degli eventi. Eccolo. Il 28 giugno la Bolivia chiedeva il permesso di volo nel nostro spazio aereo al Ministero degli Affari Esteri che lo trasferiva al Ministero della Difesa e, in particolare, allo Stato maggiore dell’Aeronautica. Il 29 giugno lo Stato maggiore rilasciava il permesso. Il 2 luglio alle ore 21.00 la sala operativa del comando operazioni aeree era informata dal Servizio informativo e di controllo che al velivolo del Presidente della Bolivia proveniente da Mosca era stato negato il permesso di sorvolo dello spazio francese, spagnolo, portoghese. Alle 21.17 il nostro Comando operativo verificava che l’aereo aveva già cambiato rotta dirigendosi verso Vienna – quindi senza dover passare per l’Italia – dove è atterrato mezz’ora dopo. Il nostro Paese, secondo la fonte governativa, non è stato coinvolto nella vicenda. Di più, Bonino ha spiegato che, in base al regolamento, quando si cambia rotta la richiesta di autorizzazione precedente decade. Quando, alle 01.20 del 3 i francesi hanno informato il nostro nucleo che, dopo le loro verifiche con gli omologhi austriaci, riconcedevano l’attraversamento del proprio spazio aereo, anche al nostro nucleo è arrivata la nuova richiesta con il nuovo piano di volo, richiesta a cui è stata data l’autorizzazione. Questo è quanto.

 

La rilevanza politica dell’affaire

Acclarata la dimensione “tecnica” della vicenda, resta però da valutare la sua rilevanza politica. La controparte boliviana, infatti, non ha mancato di mostrare tutto il suo disappunto e la sua riprovazione per una palese violazione del diritto, unendo alla sua la voce di tutto il continente latinoamericano. Da Caracas a Buenos Aires, da Brasilia a Quito e a Managua, è stato tutto un susseguirsi di dichiarazioni di fuoco e comunque, nel migliore dei casi, di ferma condanna per un gesto considerato oltraggioso e lesivo della dignità dei governi e dei popoli latinoamericani. Ad alzare la voce è stata anche l’ONU - attraverso la dichiarazione del segretario generale Ban Ki-moon - al pari delle varie organizzazioni politiche e partitiche della regione. Da più parti si sono invocate pubbliche scuse dei governi rei. Quel che conta è che è l’immagine stessa dell’Europa e, badate bene, dell’Europa mediterranea e latina, a uscirne pesantemente offuscata. Come si intende far fronte a questo discredito? Per quanto ci riguarda, quale azione il nostro governo intende porre in essere? Il nostro Paese celebrerà a dicembre la VI Conferenza Italia-America latina, un appuntamento che vuol essere non soltanto la vetrina delle relazioni tra l’Italia e i Paesi del continente ma anche uno strumento per consolidare il dialogo politico tra le due sponde dell’Atlantico. Come arriviamo a questo appuntamento, tenuto conto che molti - grazie al coordinamento del Comitato per le conferenze presieduto dall’ex sottosegretario Donato Di Santo stanno lavorando da mesi alla buona riuscita della conferenza? Le conferenze sono uno strumento, rispondono a una “politica di Stato” indipendente dalla maggioranza che governa quando l’appuntamento ha luogo e per ciò stesso sono un volano di politica estera potenzialmente straordinario. Dopo anni di opacità, di “ordinaria amministrazione”, ci si aspettava un rilancio politico proprio nella conferenza del 2013. Cosa si vuol fare per riannodare i fili di un dialogo compromesso? Non basta. Nel 2015 si terrà l’EXPO di Milano. Domenica 7 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il primo ministro Enrico Letta hanno ricordato il significato dello strumento dell’esposizione. Non solo vetrina ma “cuore della ripresa economica dell’Italia”. Quali riflessi potremmo avere circa la partecipazione dei paesi latinoamericani (risulta che il Brasile non abbia ancora confermato la sua partecipazione, pur avendo votato per Milano 2015)?

In altri termini, i prossimi saranno anni in cui l’Italia giocherà da pivot per il rilancio della partnership strategica con l’America latina. Siamo davvero pronti? Siamo convinti di volere davvero quest’alleanza fondata sul dialogo politico tra uguali? In America latina, fino all’altro giorno, tutti reclamavano un maggior ruolo del nostro Paese nel continente, riconoscendo talento, genialità, professionalità e tanta cultura in comune. Dopo il caso Morales, dobbiamo essere noi a fare un gesto di riavvicinamento.

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Lula-Alckmin: un programma per il Brasile

Trentatré pagine, centoventuno punti, quattro assi tematici: sono le “Direttrici per il programma di ricostruzione e trasformazione del Brasile: 2023-2026” di Lula e di Alckmin elaborate dai partiti membri della coalizione progressista Vamos Juntos pelo Brasil (PT, PSB, PCdoB, Partido Verde, PSOL, Rede, Solidariedade), coordinati dalla Fondazione Perseu Abramo (la Fondazione del PT) sotto la supervisione di Aloizio Mercadante, il suo Presidente, figura storica del PT ed ex ministro. Sono un punto di partenza per un ampio dibattito nazionale per la costruzione collettiva del programma definitivo di governo: saranno infatti sottoposti a emendamenti da parte della collettività prima di trovare la loro versione definitiva, con l’obiettivo di una ampia mobilitazione e partecipazione sociale. Negli undici punti del primo asse tematico (Andiamo uniti per il Brasile. Impegni per la ricostruzione del Paese) troviamo un po’ la sintesi dell’intero programma di trasformazione del Paese.

Chiari gli obiettivi: ora più che mai il Brasile ha bisogno di riscattare la speranza nella ricostruzione e nella trasformazione di un Paese devastato da un processo di distruzione che lo ha condotto di nuovo alla fame, alla disoccupazione, all’inflazione, all’indebitamento; un processo di distruzione che ha messo in scacco la democrazia e la sovranità nazionale, che ha distrutto l’investimento pubblico e delle imprese, e che ha dilapidato il patrimonio naturale, approfondendo le disuguaglianze e condannando il Paese all’isolamento internazionale. La società brasiliana ha bisogno di tornare a credere nella sua capacità di mutare il corso della Storia per superare una profonda crisi sociale, umanitaria, politica ed economica aggravata da un governo negazionista. Il settore pubblico deve essere il grande stimolatore degli accordi e delle partnerships multisettoriali necessari per la ricostruzione del Brasile. La politica economica vigente è, secondo gli autori del programma, la principale responsabile della decomposizione delle condizioni di vita della popolazione, della instabilità e del balzo indietro nella produzione e nel consumo. La disoccupazione e il sottoutilizzo della forza di lavoro sono estremamente elevati dal momento che la precarizzazione avanza a marce forzate. Settori strategici del patrimonio pubblico sono privatizzati e denazionalizzati, banche pubbliche e imprese di investimento per lo sviluppo sono distrutte, in un momento in cui il quadro delle infrastrutture è desolante. Le politiche sociali, conquiste civilizzatrici di più di una generazione, vengono mutilate.

Di fronte a questa situazione, il primo e più urgente impegno che si deve assumere è con la restaurazione delle condizioni di vita della grande maggioranza dei brasiliani - di quelli che più soffrono a causa della crisi, della fame, dell’alto costo della vita, di quelli che hanno perso il lavoro. Sono questi i brasiliani che si devono soccorrere, tanto per mezzo di azioni emergenziali quanto per mezzo di politiche strutturali. E come primo impegno, una volta al governo, c’è la difesa dell’uguaglianza, della democrazia, della sovranità e della pace con rispetto dei risultati delle urne, con la qualificazione della rappresentanza politica, con l’ampliamento della rappresentanza e della partecipazione popolare e del reinserimento del Brasile come protagonista globale per la democrazia, per la pace, per lo sviluppo e per l’autodeterminazione dei popoli.

Nel programma i partiti della coalizione assumono l’impegno della giustizia sociale e della inclusione dei diritti, lavoro, impiego, reddito e sicurezza alimentare per combattere la fame, la povertà, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la disuguaglianza e la concentrazione della ricchezza. Ancora, assumono l’impegno di proteggere i diritti umani, la cultura, il riconoscimento delle diversità affinché le persone siano protette da ogni forma di violenza, oppressione, disuguaglianza, discriminazione e affinché sia garantito il diritto alla vita, alla libertà, alla memoria e alla verità. Altri impegni fondamentali sono quelli della sostenibilità sociale, ambientale, economica e del contrasto al cambiamento climatico. Questo comporta l’aver cura della ricchezza naturale del Brasile, produrre e consumare in forma sostenibile e mutare il sistema di produzione e di consumo di energia, partecipando dello sforzo mondiale per combattere la crisi climatica.

Il Brasile della speranza, così come viene chiamato questo grande progetto, esige impegno con il popolo brasiliano, che è la maggior ricchezza, secondo i partiti della coalizione, per la creazione di uno stato sociale. Viene riconosciuto che il Brasile è composto da milioni di cittadini creativi, che costituiscono una società plurale. Viene riconosciuta l’esistenza di un contesto accademico ricco, di un parco produttivo ampio e di ricchezza di biodiversità in un paese di dimensioni continentali. Viene riconosciuto che il Brasile ha una posizione e un peso strategico nella geopolitica e nella geoeconomia mondiali. Viene riconosciuto che, nonostante le disastrose politiche ambientale ed estera dell’attuale governo Bolsonaro, non sarà difficile recuperare le credenziali internazionali, che sono frutto storico di cooperazione multilaterale in difesa dell’autodeterminazione dei popoli e del non intervento in nazioni sovrane. Insieme, conclude questa importante parte, si può fare un grande Paese, socialmente giusto, sovrano, democratico e sviluppato in forma sostenibile per questa generazione e per quelle che verranno. Seguono gli altri tre assi programmatici: Sviluppo sociale e garanzia di diritti; Sviluppo economico e sostenibilità socio ambientale e climatica; e, infine, Difesa della democrazia e ricostruzione dello Stato e della sovranità.

Pur in estrema sintesi, abbiamo evidenziato i principali punti programmatici del tandem Lula-Alckmin: come detto, saranno sottoposti al vaglio della cittadinanza e delle forze sociali per arrivare a un programma di governo condiviso e dettagliato. È evidente però già da adesso la volontà politica della coalizione di marcare la differenza con il Governo Bolsonaro che tanti passi indietro ha fatto compiere al Brasile. Non sarà facile: ci sarà bisogno di tutta la sapienza e di tutta l’esperienza di Lula per recuperare i programmi sociali smantellati da Bolsonaro e per innovare con nuovi strumenti sociali e politici. Ai brasiliani il compito di scegliere tra la continuità e l’innovazione con giudizio. Il Brasile ha bisogno di tornare a essere un punto di riferimento per l’America latina e per il mondo: con questo programma, pur con le variazioni che ci saranno inevitabilmente, Lula e Alckmin si candidano a questo ruolo. Dopo il Cile, la Colombia e più di tre quarti dei Paesi dell’America latina governati da forze progressiste, chissà che il gigante latinoamericano non vada a ingrossare le file di questa nuova onda. I sondaggi sembrerebbero dare spazio a questa ipotesi. Vedremo: ottobre non è poi così lontano e Lula sembra ringiovanire a ogni impegno elettorale in agenda. Da mesi gira il Brasile in lungo e in largo. La sfida è epocale: da una parte il populismo peggiore della destra brasiliana, dall’altra i valori di democrazia, diritti umani, sviluppo sostenibile e progresso per tutti. Ora più che mai è il momento di trasformare il Paese e di dare una speranza al Brasile.

 

Immagine: Lula da Silva (29 gennaio 2022). Crediti: BW Press / Shutterstock.com

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Brasil mundial: punti di vista controcorrente

È facile in queste ore gettare la croce addosso al Brasile e alla sua attuale classe dirigente. Scrivere e dichiarare – come fanno molti quotidiani nostrani - che niente funziona, tutto è corrotto e che nulla è cambiato. È persino banale ricordare a questi detrattori dell’ultima ora come, pur governando il 6° paese del pianeta per Prodotto interno lordo, nessun presidente verdeoro abbia mai ostentato che l’entrata nel “club dei grandi” significasse che il lavoro di trasformazione del Paese fosse terminato. Mai lo ha fatto il Presidente Lula e mai la neo presidente Dilma: al contrario, hanno sempre dimostrato umiltà e senso del limite per il proprio sviluppo interno, beccandosi, per converso, le accuse di autocommiserazione, eccesso di pessimismo e, in ogni caso, di pietire per ottenere i dollari dei paesi ricchi. Incorreggibili questi latinoamericani.

A ben vedere, qualche motivo per essere orgogliosi lo avrebbero pure avuto: negli ultimi 2 mandati presidenziali e mezzo – quelli maggiormente impegnati sul fronte delle politiche sociali – 35 milioni di brasiliani hanno lasciato la povertà e sono ormai classe media. Più del 50% della popolazione è definito sotto questa dizione dalle statistiche, con un 27% ancora di poveri e poco più del 20% di ricchi. 28 milioni di posti di lavoro sono stati creati in dieci anni, con un paese in sostanziale pieno impiego. Importanti investimenti in tecnologia, ricerca e innovazione stanno migliorando l’industria e l’agricoltura. Si è creata una rete di piccole e medie imprese rivolte per lo più al mercato locale e che, a breve, dovranno confrontarsi su scenari più ampi per misurare (e eventualmente migliorare) la propria competitività. Debiti in ordine e conti pubblici sotto controllo, coefficiente di Gini in costante e progressiva diminuzione completano il quadro di un “paese sull’orlo del baratro” che certa stampa vuole trasmettere.

 

Va tutto bene, allora?

Certo che no. Vanno migliorate la qualità della scuola pubblica e della sanità. Va messo un argine a un sistema pensionistico che, come gli economisti più accorti non hanno mancato di mettere in luce, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione rischia di andare in tilt. Va assolutamente rivisto il comparto della sicurezza e della lotta alla criminalità perché violazioni accertate dei diritti umani ci sono state e ci sono ancora. Il real è troppo apprezzato sul dollaro e questo mette a rischio la capacità di export del paese e la sua tenuta economica. Le infrastrutture sono inadeguate per il programma di accelerazione della crescita che il Brasile si è dato nell’era Lula/Dilma e per il posto che vuole avere in America latina. L’alto livello del tasso di sconto - che tiene a freno un’inflazione in aumento - penalizza per converso la crescita del Pil. Last but not least, la dipendenza dall’export di materie prime potrebbe subire un rallentamento per la minore domanda cinese e asiatica. È chiaro, quindi, che le riforme da mettere in campo saranno dure e avranno costi elevati. “Non toccheranno le politiche sociali” – ha tuttavia dichiarato la Presidente.

 

Che sta succedendo in Brasile?

È per tutto questo che il buon senso vorrebbe che le analisi di questi giorni avessero maggiore equilibrio. Che la buona fede guidasse le penne degli analisti. Che i testi fossero più prudenti. Perché se le parole volano via, gli scritti pesano.

E allora, che sta succedendo in Brasile? Come è possibile che l’aumento di pochi centesimi del biglietto del bus provochi tante e tali proteste? Andiamo con ordine.

Le manifestazioni pacifiche e colorate degli studenti e dei giovani – che sono la maggioranza rispetto ai soliti “idioti” che hanno commesso violenze e devastato le vetrine di banche e di negozi – sono il segnale di una conquistata stabilità politica, della tenuta democratica del sistema, del fatto che il Brasile sia ormai una democrazia compiuta dove il diritto a manifestare pacificamente è riconosciuto e tutelato. Persino condiviso dall’esecutivo, su alcuni temi.

Sono i giovani del nuovo Brasile che non si rassegnano, che vogliono un paese all’altezza delle proprie aspettative, che hanno paura che l’inflazione crescente – l’incubo del paese negli anni precedenti il risanamento economico di Fernando Henrique Cardoso – possa bruciare la speranza di accedere a una università migliore. Sono quelli che credono che i 15 miliardi di dollari che il Paese spenderà per i mondiali 2014 potessero essere meglio utilizzati per l’istruzione, la sanità, la formazione professionale, il sistema del trasporto pubblico, il risanamento e la tutela ambientale. Che hanno paura che il costo dell’evento sarà a loro carico e che a pagare il prezzo finale saranno i loro sogni e le loro ambizioni.

Le manifestazioni sono un richiamo “etico” al governo, non sono contro il governo: dicono che il paese non può ancora permettersi di giocare tra i grandi perché tanti e tali sono ancora i problemi sul tappeto. Sono un altolà alle possibili corruttele, un invito all’esecutivo a vigilare di più e meglio perché nemmeno un real entri nelle tasche del potente di turno.

L’identikit di chi fischia la Presidente Dilma, invece, è antropologicamente differente: bianco, classe medio-alta - visto che pagato almeno l’equivalente di 100 euro per vedere la selecçao,- non è un elettore di Dilma, non gli importa forse nulla della lotta alla corruzione, non prende mai i mezzi pubblici e quando può spara a zero sul governo socialista che affamerà il Paese.

No, in Brasile non è tutto perfetto.

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Un Patto Storico per la Colombia

Nel romanzo di Gabriel García Márquez Il generale nel suo labirinto l’autore fa dire al suo protagonista, Simón Bolívar, che ogni colombiano è un paese nemico; più oltre rincara la dose dicendo che tutte le idee che passano per la testa ai colombiani sono fatte per dividere. Una diagnosi mai così vera se si considera il risultato delle elezioni presidenziali in Colombia di domenica 19 giugno. Gustavo Petro, leader della coalizione di centrosinistra Pacto Histórico vince infatti il ballottaggio con il 50,5% dei voti con più di 11 milioni di preferenze, mentre Rodolfo Hernández, outsider populista di destra, si ferma al 47,2% dei suffragi. Meno di 700 mila voti di differenza, un Paese spaccato a metà, come abilmente sottolineato da García Márquez nel lontano 1989. Sono passati più di trent’anni, eppure la Colombia è sempre lì a testimoniare la sua condanna, la sua malattia endemica di Stato polarizzato, una polarizzazione che non riesce a trovare un punto di incontro e di superamento e che riproduce continuamente un Paese diviso in due barricate in cui al centro non c’è nessuno che medi e che aiuti il dialogo. Sarà questo il primo compito di Petro, superare questo dualismo, questa tensione perenne e riconciliare finalmente la nazione. Un presidente di tutti, non solo dei tanti che lo hanno votato, ma capace di pacificare l’animo e il cervello dei tanti colombiani che hanno avuto paura del suo passato, del suo messaggio di cambiamento e che hanno preferito un outsider, senza programma e senza storia politica pur di non affidare la Colombia a un uomo di sinistra.

 

Una vittoria epocale, quella di Gustavo Petro, va detto: per la prima volta nella storia della Colombia una coalizione di sinistra, progressista, ecologista, femminista arriva al potere con le elezioni nel Paese. Ma è una vittoria anche per il resto dell’America Latina: sembra profilarsi all’orizzonte una nuova “ola” di sinistra, una nuova onda progressista nel continente, specie se i sondaggi attuali del Brasile confermeranno la vittoria di Lula ad ottobre. Interrogato in proposito da El País, su un nuovo asse progressista, Petro ha risposto che sì, potrebbe esserci una nuova corrente progressista nell’emisfero sud, che abbia tra i suoi punti qualificanti la conoscenza, la cultura e l’agricoltura. Ma è una sinistra diversa da quella tradizionale del primo decennio del secolo.

 

C’erano un po’ tutti i presupposti della vittoria già domenica 29 maggio quando chiuse le urne, al primo turno, Gustavo Petro aveva ottenuto il 40,34% dei voti, più di 8 milioni e mezzo di preferenze. Un risultato robusto, oltre 4 milioni in più rispetto al primo turno delle presidenziali del 2018, perse poi da Petro al ballottaggio, e mezzo milione in più del secondo turno. Rodolfo Hernández de la Liga de Gobernantes Anticorrupción aveva ottenuto a sorpresa il 28,15%, con quasi 6 milioni di preferenze. Usciva di scena, domenica 29 maggio, la ultra destra urubista: il suo candidato Federico Gutiérrez arrivava terzo con poco meno del 24% dei suffragi. Ma a sparigliare le carte di Petro arrivava l’endorsement di Gutiérrez a Hernández, scontato se si considera la petrofobia della destra colombiana: al ballottaggio invitava i suoi tanti elettori a votare per l’incognita Hernández. Sembrava fatta per la destra, 11 milioni di voti la somma dei due e partita finita. Petro sapeva bene di aver bisogno di almeno un altro milione e mezzo di voti per vincere. E allora la decisone di dare una svolta alla campagna elettorale, cambiando segno e approccio: piccole riunioni, porta a porta, e non più manifestazioni oceaniche dove chi partecipa è già convinto della scelta da fare. Tutto questo con l’obiettivo di rassicurare chi non lo aveva scelto al primo turno e convincere magari gli elettori moderati che cambiare si può, ma con saggezza e responsabilità, rispettando la costituzione del Paese. Guardava, Petro, a una parte dell’elettorato del candidato di centro, quello di Sergio Fajardo, che aveva preso il 4% dei suffragi al primo turno e in generale al ceto medio che vuole un cambiamento che garantisca anche la resurrezione economica e sociale della Colombia. Guardava Petro all’elettorato che non era andato a votare al primo turno (rispetto al quale la percentuale di votanti a questo ballottaggio è aumentata del 3%!). Non è un caso che pochi giorni prima della chiusura della campagna, Petro, proprio con l’intento di sommare voti “centristi”, dei giovani e degli astenuti, in un discorso già con allure presidenziale aveva dato cinque garanzie «fondamentali e non negoziabili»: la non rielezione; un impegno sulla giustizia; lavorare senza sosta per superare l’attuale crisi economica e sociale; rispettare le leggi e la Costituzione e, infine, lottare contro la corruzione e il narcotraffico. Il suo accenno al rispetto della Costituzione, che sembrerebbe scontato, aveva il significato anche di rispettare il diritto alla proprietà privata (durante la campagna elettorale la destra aveva balenato l’ipotesi di confische nel caso di vittoria di Petro con l’intenzione di alienare il voto moderato).

 

Immani le sfide che ha di fronte l’ex guerrigliero dell’M-19 (Movimiento 19 de abril): in primo luogo l’imprescindibile implementazione degli accordi di pace, siglati a L’Avana nel 2016. Petro è consapevole che senza pace non c’è sviluppo né progresso sociale. Durante il mandato di Iván Duque, l’attuale presidente, sono stati fatti pochissimi passi avanti (“Faremo carta straccia degli accordi di pace” era il mantra del periodo), con migliaia di persone rimaste nel guado e che sono andate a ingrossare le fila della guerriglia delle nuove FARC, e questa situazione ha creato un processo di disillusione profonda anche nell’altra guerriglia, l’ELN (Ejército de Liberación Nacional). Anche l’episcopato cattolico ha preso decisamente posizione in tal senso dopo questo ballottaggio, lasciando da parte le timidezze del passato e dicendosi impegnato nel processo di pace. Come se non bastasse, è aumentata a dismisura la violenza in Colombia: dall’inizio dell’anno sono stati assassinati 71 leader sociali, 18 ex combattenti, ci sono stati 39 massacri e 70 mila sono gli sfollati; c’è stato, in piena campagna elettorale presidenziale, il blocco armato delle AGC (Autodefensas Gaitanistas de Colombia), o Clan del Golfo, un gruppo paramilitare che ha tenuto in ostaggio intere porzioni del territorio colombiano. Dalla firma degli accordi di pace sono quasi un migliaio le persone uccise, tutte impegnate nella riconciliazione e nella pacificazione, difensori dei diritti umani, leader sociali, campesinos.

 

Un’altra sfida di Petro e Francia Márquez – sua vicepresidente, paladina dei diritti umani e ecologista riconosciuta – è quella della riforma agraria, croce e delizia dell’America Latina, che finalmente colpisca la disuguaglianza nella proprietà e nell’uso della terra, garantendo il diritto a quest’ultima delle famiglie rurali (con le donne come priorità) e la formalizzazione della proprietà.

Un’altra riforma urgente è quella fiscale: secondo Petro, l’attuale sistema avvantaggia chiaramente le persone più ricche. L’idea è quella di aumentare le imposte alle 4.000 maggiori fortune del Paese (peraltro già censite) per diminuire il presente deficit di bilancio. Tra le altre riforme, quella pensionistica e l’estensione della scuola pubblica gratuita fino all’università. Insomma, un deciso cambio di passo. Il neopresidente vuole cambiare il modello produttivo del Paese e iniziare una transizione energetica per ridurre la dipendenza dal petrolio. Come hanno già scritto, Petro non vuole soltanto un buon governo per la Colombia, vuole trasformarla profondamente: il 7 agosto si insedierà alla Casa de Nariño e finalmente una nuova era comincerà per un Paese tanto affascinante quanto complesso qual è la Colombia.

 

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