Atlante

Serenella Iovino

Saggista e studiosa di cultura ecologica, Serenella Iovino è professore ordinario alla University of North Carolina at Chapel Hill. I suoi libri Filosofie dell’ambiente (Carocci, 2004) ed Ecologia letteraria (Ed. Ambiente, 2006), più volte ristampati, hanno contribuito alla diffusione delle scienze umane ambientali in Italia. Con Ecocriticism and Italy: Ecology, Resistance, and Liberation (Bloomsbury, 2016), ha vinto il Book Prize della American Association for Italian Studies e lo MLA Aldo and Jeanne Scaglione Prize for Italian Studies. Il suo ultimo lavoro, Italo Calvino’s Animals: Anthropocene Stories è in uscita con Cambridge University Press. Con Marco Armiero è autrice della voce Environmental Humanities della XAppendice dell’Enciclopedia Treccani.

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Sole, terra, letteratura: leggere l’ambiente e le sue storie

 

Quando mi chiedono di parlare di ambiente e letteratura, spesso mi viene in mente la frase di uno dei primi che l’hanno fatto, lo studioso statunitense William Ruckert: “Abbiamo bisogno di capire i legami tra la letteratura e il sole, tra l’insegnamento della letteratura e la salute della biosfera”. Che legame c’è tra la letteratura e il sole? E che legame ci può essere tra l’insegnamento della letteratura e la salute del pianeta?

 

Con questa domanda all’apparenza bizzarra, pronunciata in polemica verso il disinteresse della critica letteraria per la sfera della vita, Rueckert stava in realtà segnando un punto di svolta degli studi umanistici. Era la fine degli anni ’70 e fino a quel momento i cicli del pianeta, gli esseri non umani, gli elementi, la terra e il sole, erano stati trascurati dagli studi letterari. Presenti come temi ed entità simboliche, tutte queste “cose” erano, quasi di regola, assenti come entità concrete, come agenti materiali delle dinamiche del mondo. La storia, le relazioni, il contesto presi in considerazione dai critici cadevano infatti solo ed esclusivamente nel perimetro dell’umano, attorno al quale si allargava un mondo silenzioso e vuoto di soggetti “altri”. Eppure, osservava Rueckert, il mondo in cui noi insegniamo e studiamo la letteratura, il mondo in cui si fa la letteratura, è lo stesso mondo che gli esseri umani condividono con innumerevoli altre specie. E ciò che fisicamente tocca questo mondo tocca anche tutte le attività che in esso hanno luogo, comprese le nostre produzioni culturali, che non saltano fuori dal vuoto, ma emergono nel corso della nostra evoluzione di esseri viventi. E così, al pari del più semplice organismo unicellulare, anche questa espressione della vita che chiamiamo “letteratura” dipende in ultima analisi dall’energia che ci viene dal sole. Come quell’organismo, anche la letteratura, nella biosfera, è a casa sua.

 

È su queste premesse che, nell’ultimo decennio del Novecento, nasce l’ecocritica. Un modo di leggere i testi volto a comprendere il ruolo della letteratura all’interno di “un sistema immensamente complesso in cui interagiscono energia, materia, e idee” (Glotfelty), l’ecocritica è un invito a non considerare la “cultura” come separata dalla “natura”, ma piuttosto a vedere natura e cultura, mondo e testo, come connessi e permeabili. Sin da subito questo invito ha assunto svariati metodi e forme, abbracciando insieme nature writing e approcci femministi, animal humanities e biosemiotica, giustizia ambientale e studi postcoloniali, analisi di paesaggi e problemi di ecologia politica. In tutte queste declinazioni, l’ecocritica ci sollecita a vedere come il mondo e il testo siano collegati, come si incontrino e come, eventualmente, coincidano. Ciò può significare molte cose. Per esempio, può significare esaminare come le creazioni letterarie riflettano le ecologie del “mondo esterno” o come esse rispondano alle crisi che colpiscono queste ecologie. Per fare questo tipo di analisi un approccio collaborativo con discipline scientifiche e sociali è indispensabile e può dare risultati estremamente interessati. Se ci muoviamo in questa cornice, possiamo leggere Il segreto del bosco vecchio di Dino Buzzati alla luce degli studi sull’intelligenza delle piante (e qui penso al lavoro di Stefano Mancuso e della sua équipe bolognese), oppure narrazioni sociali—dai romanzi di Charles Dickens a quelli di narratori russi contemporanei come Valentin Rasputin e Roman Šenčin —alla luce di questioni di storia industriale e giustizia ambientale. Possiamo intrecciare il Calvino “cosmicomico” con le teorie evoluzionistiche e la filosofia post-umanista, o esplorare la climate fiction—da autori internazionali come Barbara Kingsolver, Kim Stanley Robinson e Amitav Ghosh ai nostri Wu Ming e Bruno Arpaia—con l’aiuto dei dati scientifici dei climatologi, dei geografi, dei chimici dell’atmosfera e degli antropologi delle società complesse. Ancora, possiamo leggere storie di inquinamenti come Gomorra di Roberto Saviano o Solar Storms della scrittrice nativa-americana Linda Hogan attraverso le lenti dell’epidemiologia e dell’ecologia politica, strumenti che ci permettono di vedere le combinazioni tra la violenza immediata di strutture di sopruso e sistemi di sfruttamento e la “violenza lenta” con cui si manifestano gli effetti delle contaminazioni. E infine, ora che abbiamo visto che cos’è una pandemia, possiamo rileggere romanzi come La peste di Camus e perfino il Decameron di Boccaccio facendoli uscire dalla finzione letteraria, e ricostruendone le implicazioni ecologiche e sanitarie, politiche e sociali.

 

Ma congiungere mondo e testo, per l’ecocritica, significa anche un’altra cosa: ossia, che il mondo stesso può diventare un testo in cui, insieme con tutti gli intrecci di natura e cultura, sono inscritte tutte le crisi legate all’ambiente. Interpretare questo testo ci aiuta a comprendere meglio le storie che in esso si sono accumulate e a interagire con la sua realtà in maniera più consapevole. Secondo me, per esempio, è proprio il modo in cui interpretiamo la testualità del paesaggio a renderci responsabili della sua salute e delle sue condizioni di ecosistema complesso, popolato da umani e non umani. Penso al paesaggio vesuviano, da cui provengo. Pochi sanno che, al tempo della grande catastrofe del 79 a.C., nessuno sospettava che il Vesuvio fosse un vulcano. Persa la memoria remota delle precedenti eruzioni, nell’antichità il Vesuvio era “letto” come una montagna. All’improvviso però, un giorno di agosto, una nube piroclastica di ceneri e lapilli rivelò agli abitanti la vera natura di quella montagna. Se visitiamo l’Antiquarium di Pompei possiamo leggere ancora chiaramente lo stupore sul volto degli abitanti, la cui fine è rimasta intrappolata nella lava. “La morte li ha sorpresi nel bel mezzo della vita”, scrisse il filosofo tedesco Karl Löwith al pensiero dei calchi di gesso ricavati dagli archeologi a metà Ottocento. La parte interessante della storia però è ancora un’altra. Due secoli dopo l’eruzione che aveva coperto Pompei, la memoria dell’insediamento urbano si era come dissolta. Gli abitanti, ormai consapevoli del “testo” vulcanico del loro paesaggio, sapevano di un’antica città, ma non erano più in grado di dire dove o come fosse. Dimenticata come città, Pompei era tornata campagna. L’oblio del testo di questa terra, in realtà, dura ancora oggi, e lo vediamo nell’aggressione sconsiderata che, con il cemento, viene fatta ai danni del paesaggio. Accumulata nel tempo e divenuta ancora più intensa in periodi recenti, quest’aggressione è priva di qualsiasi logica, poiché nega consapevolmente quello che oggi sappiamo benissimo: ossia, che il Vesuvio è un vulcano attivo, forse il più pericoloso del mondo. Chi ricopre di costruzioni abusive il dorso di una “montagna” che in realtà è un vulcano sta, di fatto, dando un’interpretazione falsificata di questa realtà, cospirando alla sua distruzione.

 

Storie analoghe si possono raccontare per molti altri posti: penso soprattutto a Venezia, a cui nel 2014 Salvatore Settis ha dedicato un bellissimo libro, Se Venezia muore. Venezia è fatta di terra e mare, è il frutto della tenacia e del genio di popolazioni antichissime che, quasi un millennio e mezzo fa, hanno piantato una foresta sott’acqua e, collegando centinaia d’isolotti con ponti e canali, vi hanno costruito sopra un miracolo di natura e cultura. Nei secoli dello splendore della Serenissima, i Magistrati delle Acque si prendevano cura della città e della laguna insieme, mostrando di conoscere e leggere con sapienza il testo di questo luogo: un ecosistema delicato e anfibio, un unicum di ecologia urbana. Con la fine della Repubblica, conquistata da Napoleone e da lui ceduta all’Austria col Trattato di Campoformio (1797), quest’intelligenza interpretativa, però, si perde. È proprio con gli Austriaci, artefici di bonifiche che hanno sottratto respiro alla laguna, che comincia l’oblio del testo anfibio di Venezia. E sicuramente si è dimenticato (o non si è voluto vedere) quanto fosse delicato questo “testo” nel momento in cui, all’inizio del Novecento, si è scelto di collocare in laguna un Petrolchimico che ha completamente sconvolto gli equilibri di un ecosistema unico e delicatissimo. Oggi questa rimozione ha assunto dimensioni spaventose: pensiamo agli imbonimenti massicci, alle grandi navi, al turismo di massa, e al MOSE, su cui la discussione è tutt’altro che chiusa dopo i primi utilizzi parziali.

 

Leggere luoghi e territori con intelligenza e onestà intellettuale è allora un primo passo verso la liberazione della loro verità testuale, e l’ecocritica ci aiuta a farlo anche mettendo in relazione le opere letterarie con i loro contesti materiali ed ecologici. Ho cercato di raccontare questi intrecci di storie e paesaggi italiani in un mio libro del 2016, Ecocriticism and Italy, il cui sottotitolo, Ecology, Resistance, and Liberation, allude al fatto che le espressioni di creatività artistiche e letterarie costituiscono, per i luoghi, una pratica di resistenza. Leggere insieme testi creativi e materiali può perciò essere un modo per liberare i significati, ecologici e storici, racchiusi nel paesaggio. 

 

Leggere i testi letterari insieme al testo della realtà: questa è l’ecocritica. E questo mi dà anche modo di spiegare perché la letteratura sia così importante per leggere il mondo, e perché la sua funzione sia fondamentale per la consapevolezza politica. Come scrive Calvino in Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, La letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che è senza voce, quando dà un nome a ciò che non ha ancora un nome, e specialmente a ciò che il linguaggio politico esclude o cerca d’escludere. […] La letteratura è come un orecchio che può ascoltare al di là di quel linguaggio che la politica intende; è come un occhio che può vedere al di là della scala cromatica che la politica percepisce. Allo scrittore […] può accadere d’esplorare zone che nessuno ha esplorato prima, dentro di sé o fuori; di fare scoperte che prima o poi risulteranno campi essenziali per la consapevolezza collettiva”. Di fronte alle crisi ecologiche globali, fatte di oggetti inafferrabili e così difficili da rappresentare—come si può immaginare un “iper-oggetto” come l’atmosfera globale, il clima o una pandemia? — abbiamo bisogno di nuove visioni e nuovi concetti. Abbiamo bisogno di un’immaginazione che ci aiuti a uscire dai nostri confini di specie, un’immaginazione che riconosca e dia voce a tutto il mondo che consideriamo “altro” ma che invece fa parte di noi (dal punto di vista genetico, il DNA “alieno” nel nostro corpo è circa il 90% del nostro microbiota: il non umano ci rende umani). E soprattutto, abbiamo bisogno di dare voce ai soggetti marginalizzati, tacitati, spossessati di parole, siano essi umani e non umani.  La letteratura ci aiuta a comprendere e a esprimere tutte queste cose perché ci suggerisce nuove parole, ci dà modelli di lettura della realtà.

 

L’ecocritica ci porta non solo un messaggio etico, ma anche e soprattutto un messaggio biologico: questo messaggio ci dice che la cultura è frutto della nostra evoluzione e che i romanzi, le opere d’arte, la musica, non sono un mero tratto “spirituale” sconnesso dalla nostra corporeità, ma un tratto della vita materiale della nostra specie. Noi umani siamo animali che raccontano storie: lo sapeva Charles Darwin, e lo sanno gli studiosi che si occupano di narratologia evolutiva. C’è quindi una continuità profonda tra le forme di vita, e noi siamo una natura che si è evoluta in espressioni che chiamiamo “culturali”, ma che non cessa mai, per questo, di essere natura. Anche libertà, come ogni imprevedibile emergenza, fa parte della nostra biologia.

 

Ricordarci la nostra radice ci fa capire che, se distruggiamo ciò che di naturale c’è intorno a noi, anche noi cessiamo di esistere. Come diceva Hans Jonas, uno dei primi filosofi a parlare della nostra responsabilità per la natura, distruggere l’ambiente è come tagliare il ramo su cui siamo seduti. Interpretare la letteratura in chiave ambientale è quindi anche un modo per contrastare la nostra frequente smemoratezza. È un modo per ricordarci della nostra incidenza su questa natura delicata su cui usiamo la mano pesante, appunto dimenticandone il testo. Il testo della natura ci parla di resilienza ma anche di fragilità: ci parla di noi. Come la natura, infatti, siamo vulnerabili, anche se ci crediamo onnipotenti. È difficile, però, che saremo altrettanto resilienti, altrettanto capaci di reinventare le condizioni del nostro fiorire biologico. Forse, allora, faremmo bene a leggere con onestà anche il testo stesso che noi siamo e a capire che essere umani significa essere fatti dello stesso humus di cui è fatta ogni creatura vivente; significa provenire dalla terra, questo piccolo corpo celeste che ruota intorno al sole. Eccolo, il legame tra la letteratura e il sole. Lasciare che la letteratura ci riporti alla terra è uno dei modi per far prendere sole alla nostra fragile umanità.

 

 

Una prima versione di questo saggio è uscita su Notiziario della Banca Popolare di Sondrio, n. 137 (agosto), 2018.

 
Immagine: Napoli. Vista del cratere del Vesuvio ripreso da un drone. Crediti: Andrii Kozak  / Shutterstock.com