Atlante

Francesco Marino

Giornalista e analista, si occupa di politica internazionale con un focus particolare sul continente europeo e l’area post-sovietica. Studi a Roma in Relazioni internazionali e poi a Londra in War Studies. Su Twitter è @FrenkMarino.

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Nagorno-Karabakh, guerra e tregua nel cuore del Caucaso

 

Nei giorni scorsi il Caucaso è tornato ad essere teatro di guerra, seppur brevemente, quando l’esercito dell’Azerbaigian ha lanciato una cosiddetta “operazione antiterrorismo” contro la regione separatista del Nagorno-Karabakh, la cui popolazione è in larga maggioranza armena. Iniziate il 19 settembre, le ostilità si sono concluse dopo poche ore, quando le autorità di Stepanakert, capitale della repubblica separatista denominata Artsakh, hanno segnalato la disponibilità a negoziare un cessate il fuoco con Baku. La tregua è stata poi effettivamente raggiunta il giorno successivo con la mediazione delle forze di pace della Federazione Russa, stanziate nell’area a seguito dell’accordo trilaterale con Armenia e Azerbaigian raggiunto a conclusione del conflitto del 2020. Il governo di Baku ha giustificato l’intervento con la necessità di mettere in sicurezza l’area dalla presenza di “terroristi”, dopo la morte di alcuni soldati azeri e due civili a causa di mine disseminate lungo la strada che collega Ahmadbayli a Shusha.

Pretestuosa o meno, l’iniziativa dell’Azerbaigian ha di fatto “risolto” in circa 24 ore una questione che andava avanti da oltre 30 anni, ottenendo il disarmo delle milizie separatiste del Nagorno-Karabakh e assicurandosi un controllo sempre maggiore sull’enclave armena, di cui in parte già era entrata in possesso dopo la vittoria nella guerra del 2020. Resta da vedere quanto l’armistizio durerà, ma indubbiamente è difficile immaginare un esito diverso dalla progressiva occupazione della regione da parte azera, considerando come il presidente Ilham Aliyev ha commentato soddisfatto che finalmente «è stata ripristinata la sovranità nazionale». 

 

Le autorità di Erevan non sono potute intervenire a sostegno dei separatisti, dal momento che l’Artsakh si trova all’interno dei confini riconosciuti dell’Azerbaigian. Il primo ministro dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha subito definito «inaccettabili» i tentativi di coinvolgere il Paese nell’escalation militare, osservando come l’esercito nazionale non abbia truppe schierate nel Nagorno-Karabakh. In una dichiarazione rilasciata il giorno stesso dell’attacco azero, Pashinyan ha altresì rilevato come l’operazione contro la regione separatista potesse avere l’obiettivo secondario di creare instabilità proprio in Armenia, uno scenario non da escludere viste le proteste di piazza registrate a Erevan già martedì pomeriggio e proseguite nei giorni successivi.

Pashinyan, salito al potere nel 2018 dopo aver capeggiato manifestazioni contro l’allora governo di Serzh Sargsyan, risulta da tempo piuttosto inviso alla Russia, tradizionale “protettore” e alleato più importante per l’Armenia. Il rapporto si è incrinato a tal punto che il premier armeno ha anche paventato l’uscita di Erevan dall’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare a guida russa di cui fanno parte anche gli Stati ex sovietici dell’Asia centrale, con l’eccezione del Turkmenistan.

L’avvicinamento dell’Armenia agli Stati Uniti, sancito proprio la scorsa settimana da esercitazioni congiunte, ha evidentemente dato molto fastidio al Cremlino, il cui peso specifico nella regione è venuto meno progressivamente negli ultimi anni, specialmente dopo l’invasione dell’Ucraina. Qualche analista ha quindi sottolineato il ruolo centrale di Mosca negli eventi di questa settimana, tenendo conto del fatto che il contingente di pace russo schierato nel Nagorno-Karabakh era presumibilmente stato informato in maniera preventiva delle intenzioni dell’Azerbaigian, nonostante le smentite di rito del ministero degli Esteri, tramite la portavoce Maria Zakharova. In qualche modo il Cremlino avrebbe dunque “chiuso un occhio” sull’offensiva di Baku, allo stesso modo in cui ha in precedenza evitato di prendere una posizione netta sulle ripetute azioni azere che hanno bloccato per molti mesi il corridoio di Lačin, unico collegamento tra l’Armenia e il Nagorno-Karabakh. La Russia, in base agli impegni assunti in seno alla CSTO, dovrebbe farsi garante della difesa del territorio di Erevan ma non dell’enclave armena, che di fatto nella visione di Mosca costituisce una “zona grigia”.

L’Azerbaigian, forte di una ormai evidente superiorità militare, ha quindi avuto gioco piuttosto facile nel colpire le basi dei separatisti e dichiarare dopo un solo giorno di combattimenti la «neutralizzazione» degli obiettivi nel Nagorno-Karabakh. Da qui la rapida capitolazione di Stepanakert, mentre migliaia di residenti della regione hanno cercato riparo nelle vicine basi controllate dai peacekeeper russi. Le vittime dei bombardamenti azeri, secondo le autorità armene, sarebbero 32, insieme a circa 200 feriti, mentre per l’Arstakh vi sarebbero stati almeno 200 morti. Il conto dei caduti includerebbe inoltre dei soldati russi, coinvolti nell’esplosione di un convoglio proprio nel Nagorno-Karabakh. 

 

Dopo la guerra del 2020, l’Azerbaigian ha tentato nuovamente la carta dell’offensiva militare, uscendone ulteriormente rafforzato. Baku si sente sicura della propria posizione e non teme evidentemente ripercussioni diplomatiche, tanto da aver sferrato l’attacco proprio il giorno in cui a New York hanno preso il via i lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’Armenia e il governo di Pashinyan, al contrario, confermano la propria difficoltà nel difendere i propri interessi nella regione, a causa anche del mancato sostegno russo. Il premier armeno si è dunque trovato costretto a rivolgersi ai propri partner occidentali, dalla Francia agli Stati Uniti, confrontandosi per via telefonica con il presidente Emmanuel Macron e con il segretario di Stato USA, Antony Blinken. In qualche modo esce sconfitta anche l’Unione Europea (UE), che tramite il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha speso tempo e risorse negli ultimi anni per favorire il dialogo e la stabilità nel Caucaso, coinvolgendo in negoziati a Bruxelles Pashinyan e il leader azero Ilham Aliyev. Proprio in una telefonata con quest’ultimo, Michel avrebbe espresso il proprio «forte disappunto» per l’uso della forza, chiedendo al contempo che l’Azerbaigian fornisca «garanzie credibili» per i diritti e la sicurezza della popolazione armena del Nagorno-Karabakh. Questo punto sarà dirimente nel prossimo futuro, a fronte del rischio, paventato dal ministero degli Esteri di Erevan, di una «pulizia etnica» nella repubblica separatista.

 

Immagine: Tre soldati dell’Esercito di difesa dell’Artsakh su una strada sterrata, Nagorno-Karabakh, Repubblica dell’Artsakh (3 agosto 2019). Crediti: renewable / Shutterstock.com

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Battuta d’arresto nel percorso della Georgia verso l’UE

 

A marzo 2022 la Georgia, insieme ad Ucraina e Moldavia, aveva presentato la domanda per la candidatura come Paese membro dell’Unione Europea (UE). A distanza di oltre un anno, il percorso di integrazione della nazione del Caucaso nell’UE sembra essersi arrestato. Il governo di Tbilisi, guidato dal partito Sogno georgiano, ha infatti assunto una serie di iniziative che ne hanno minato la credibilità agli occhi di Bruxelles. Si tratta di una dinamica che ha creato una nuova frattura con la presidente della Repubblica, Salome Zurabišvili, nei cui confronti l’esecutivo ha addirittura paventato il lancio di una procedura di impeachment. 

A rendere complessa la situazione è l’ambiguità di fondo messa in mostra dal governo del premier Irakli Garibašvili su diverse questioni, dai rapporti con la Russia alla volontà di esaudire le richieste dell’UE in materia di riforme. Per ottenere ufficialmente lo status di Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea, la Georgia deve infatti dimostrare progressi esaustivi su 12 punti negoziati con la Commissione europea, che hanno a che fare con l’assetto istituzionale, lo Stato di diritto e l’equilibrio politico interno. Allo stato attuale, come ha affermato l’alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell, in visita a Tbilisi lo scorso 8 settembre, la Georgia ha «passato l’esame» solo su tre dei dodici punti, un risultato evidentemente insufficiente in vista del Consiglio europeo del prossimo 14-15 dicembre, quando si deciderà sull’eventuale assegnazione dello status di candidato alla nazione caucasica. Borrell non ha nascosto il senso di irritazione di Bruxelles rispetto agli sviluppi nel Paese, non ultima la messa in stato di accusa della presidente Zurabišvili, accusata dall’esecutivo di aver condotto una politica estera autonoma, senza prima averla concordata con le autorità di Tbilisi. In questo modo, a detta degli esponenti di Sogno georgiano, Zurabišvili avrebbe violato il dettato costituzionale. Tra fine agosto e inizio settembre, la presidente ha effettivamente intrapreso una serie di viaggi nelle capitali europee, toccando in sequenza Berlino, Bruxelles e poi Parigi, perorando la causa della Georgia come futuro candidato per l’adesione all’UE. Sin dalla sua elezione a capo dello Stato, Zurabišvili ha sempre marcato il proprio forte europeismo e filo-atlantismo, ponendosi in contrapposizione alle scelte del governo in particolare dopo il 24 febbraio 2022.

 

A fronte dell’invasione dell’Ucraina, l’esecutivo georgiano ha infatti scelto di non schierarsi con i partner occidentali e attuare le sanzioni contro la Russia, mantenendo una posizione equidistante in nome del supposto «interesse nazionale». Preservare gli scambi commerciali con Mosca sarebbe stato cruciale per Tbilisi, a detta del premier Garibašvili, che nonostante questo aveva presentato pochi giorni dopo la già citata domanda di adesione all’UE. Non sorprende che a distanza di qualche mese, Bruxelles abbia lasciato in sospeso la richiesta georgiana, accogliendo invece quelle di Ucraina e Moldavia, a cui è stato accordato a giugno 2022 lo status di Paesi candidati. A questo si è aggiunta la più recente decisione da parte dell’esecutivo di Tbilisi di riprendere i collegamenti aerei con la Federazione Russa, consentiti dallo scorso maggio. Per le istituzioni europee si è trattato dell’ennesimo segnale di allarme in arrivo dalla Georgia, con Borrell che si è trovato costretto a paventare una «bocciatura» all’esame di dicembre, esibendosi in conferenza stampa a Tbilisi in un’analogia tra la nazione del Caucaso e uno studente “impreparato”.

 

Tra i 12 capitoli soggetti a riforme compare del resto la necessità di «de-oligarchizzare» la politica, un obiettivo piuttosto arduo considerando l’assoluta importanza a livello locale del fondatore del partito Sogno georgiano e uomo più ricco del Paese, Bidzina Ivanišvili, che può vantare cospicui interessi finanziari e legami proprio con la Russia. Tutti questi elementi, uniti alla minaccia di impeachment contro Zurabišvili (per il quale non sembrerebbero comunque esserci i numeri sufficienti in Parlamento), hanno portato l’UE a guardare con preoccupazione agli sviluppi nelle relazioni con Tbilisi. «C’è ancora tempo per invertire la rotta», ha osservato Borrell nel suo intervento davanti alla stampa, a fianco del premier georgiano Garibašvili, il quale ha risposto accusando l’UE di «politicizzare» la decisione sul processo di adesione del Paese. Resta il fatto che agli occhi di Bruxelles appaia piuttosto insolito l’approccio della Georgia, che da una parte chiede di entrare nell’Unione Europea e dall’altra sfrutta la mancata attuazione delle sanzioni occidentali per incrementare in maniera evidente le proprie esportazioni verso la Russia, nonostante l’assenza di relazioni diplomatiche con Mosca e la guerra tra i due Paesi del 2008. Ad oggi, la politica estera di Tbilisi sembra ancora troppo legata alle aspirazioni del Sogno georgiano e agli interessi personali di Ivanišvili per potersi allineare alla visione comune dell’UE.

 

 

Immagine: Irakli Garibašvili a Bruxelles, Belgio (17 maggio 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

 

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Danimarca e Svezia, preoccupazioni per i roghi del Corano

 

Il fenomeno dei roghi pubblici di testi sacri, il più delle volte il Corano, ha assunto negli ultimi mesi una prospettiva piuttosto grave in Danimarca e in Svezia. Nei due Paesi scandinavi si sono moltiplicate le azioni pubbliche di questo tipo, malgrado la condanna delle autorità e gli appelli dall’estero perché si ponesse fine a tali provocazioni. Nel dibattito politico e nell’approccio delle istituzioni danesi e svedesi si scontrano il tema della sicurezza nazionale con il principio di difesa della libertà di espressione e l’impegno dello Stato a tutelarla sempre e comunque. A questo si aggiungono le tensioni sociali e le pressioni diplomatiche, che nel caso svedese arrivano direttamente dalla Turchia e potrebbero mettere in discussione la tanto attesa ratifica del protocollo di adesione alla NATO.

 

Dopo i primi roghi, avvenuti a inizio anno per mano dello stesso attivista di estrema destra con doppia cittadinanza danese-svedese, Rasmus Paladan, la situazione si è ulteriormente complicata, in particolare in Svezia, dove le autorità hanno ricevuto diverse decine di richieste per manifestazioni pubbliche in cui si sarebbe bruciato un testo sacro. Ispirati dal principio di tolleranza e tutela massima della libertà di espressione, i governi di Copenaghen e Stoccolma si sono limitati a osservare con preoccupazione l’evoluzione dei fatti, condannando periodicamente i roghi e in alcuni casi aumentando il dispiegamento delle forze dell’ordine in vista di eventuali problemi di ordine pubblico. Meno gestibili sono però diventate le proteste contro le sedi diplomatiche di Danimarca e Svezia in diversi Paesi a maggioranza musulmana. In Iraq la folla inferocita ha preso d’assalto le ambasciate delle due nazioni scandinave, con le autorità di Baghdad che hanno espulso il capo della missione svedese, richiamando inoltre da Stoccolma il proprio incaricato d’affari. Nella città irachena di Bassora sono stati attaccati persino gli uffici dell’organizzazione umanitaria Danish Refugee Council. Non sorprende che le agenzie di intelligence di Copenaghen e Stoccolma abbiano lanciato l’allarme sull'aumentato livello di rischio per la sicurezza nazionale e per i propri cittadini all’estero, mettendo in qualche modo i governi di fronte alla necessità di prendere una decisione sui roghi.

A muoversi per primo è stato l’esecutivo danese, che a fine agosto ha presentato una serie di misure che andranno a inasprire le pene per chiunque dia fuoco pubblicamente a testi religiosi. Le norme in questione istituiranno un reato per il trattamento “inappropriato” di oggetti “di significato religioso” e quindi rivolti contro una comunità etnica o confessionale. Per le opposizioni si tratterebbe di una soluzione lesiva della libertà di espressione nel Paese, mentre per le autorità lo strumento legislativo in questione permetterà di prevenire in qualche modo le provocazioni viste negli ultimi mesi, mirate secondo il governo «a nient’altro se non creare discordia e odio». Il primo ministro svedese Ulf Kristersson non ha raccolto il “suggerimento” del Paese vicino, affermando che quanto deciso in Danimarca «non è il modo giusto di procedere» per la Svezia, poiché l’introduzione di misure analoghe nel Regno richiederebbe un emendamento alla Costituzione. Dalle parole del premier appare evidente la difficoltà dell’esecutivo di Stoccolma di trovare un equilibrio tra la preservazione della sicurezza nazionale e la tutela della libertà di espressione. C’è poi da considerare come in Svezia l’autorizzazione per qualsiasi manifestazione pubblica passi attraverso le forze dell’ordine, che in caso di rifiuto della richiesta sono obbligate a fornire delle motivazioni chiare alla base di tale scelta, con il rischio ulteriore che la magistratura si pronunci a sua volta annullando la loro decisione. Di questo schema hanno quindi “approfittato” militanti di estrema destra e altri provocatori, come il rifugiato di origine irachena Salwan Momika, che in più occasioni ha presentato domanda per organizzare roghi pubblici del Corano davanti alle ambasciate di Paesi musulmani. La scorsa settimana il Partito socialdemocratico (S, Socialdemokraterna), attualmente all’opposizione, ha proposto di far ricadere ogni tipo di profanazione dei testi religiosi nella casistica di «incitamento all’odio», rivolta contro specifici gruppi etnici, religiosi o di orientamento sessuale, consentendo così alle autorità di avere una base giuridica su cui fondare la negazione dell’autorizzazione ai roghi del Corano.

Ci sono poi altri due elementi da tenere in conto e che differenziano il caso svedese da quello danese. Il governo di centrodestra al potere a Stoccolma gode dell’appoggio esterno, fondamentale per la tenuta della maggioranza, del partito sovranista dei Democratici svedesi (SD, SverigeDemokraterna), portatore di istanze anti-immigrazione e anti-islamiste. Esponenti dei Democratici svedesi hanno lanciato in varie occasioni messaggi contro la comunità musulmana nazionale, anche negli ultimi mesi, pur senza sostenere direttamente i roghi del Corano. Nella sostanza, Kristersson e il suo esecutivo devono quindi confrontarsi con la posizione ambigua degli alleati di SD, che difficilmente potrebbero tollerare l’idea di una limitazione della libertà di espressione nel Paese per venire incontro alla sensibilità della comunità islamica svedese. L’altro elemento di interesse è il legame tra la questione dei roghi del Corano e il dossier relativo all’adesione alla NATO. La Turchia non ha esitato nei mesi scorsi a menzionare le varie profanazioni subite in Svezia dal testo sacro all’islam come una delle motivazioni alla base della mancata ratifica dell’ingresso di Stoccolma nell’Alleanza atlantica. Al summit di Vilnius dello scorso luglio sembra essere arrivato il fatidico “sì” del presidente Recep Tayyip Erdoğan per far entrare la Svezia nella NATO, sebbene manchi ancora la calendarizzazione del voto al Parlamento di Ankara. Eventuali nuovi roghi del Corano, associati ad esplosioni di violenza nei Paesi a maggioranza musulmana, potrebbero però continuare a incidere sul tormentato percorso che porterà la Svezia a diventare il 32° membro dell’Alleanza.

 

Immagine: Un incendio ha bruciato un insediamento, ma il Corano in una delle case miracolosamente non è bruciato, Samarinda, Kalimantan orientale, Indonesia (20 gennaio 2021). Crediti: Adisucipto3007 / Shutterstock.com

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I BRICS verso l’allargamento

 

La città sudafricana di Johannesburg ha ospitato nei giorni scorsi il vertice dei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).  Si è trattato del quindicesimo summit dell’organizzazione, che rappresenta attualmente oltre il 40% della popolazione globale e circa il 26% del PIL a livello mondiale. L’impatto sulla politica internazionale del “club politico” formato dalle cinque nazioni è però limitato, dal momento che sembra ancora mancare una visione comune tra le varie capitali coinvolte, a fronte anche di oggettivi limiti materiali (l’isolamento geografico del Sudafrica, ad esempio) e della limitata complementarità delle diverse economie, oltre che dei rapporti non sempre ottimali tra gli Stati coinvolti (si veda la rivalità strategica tra Cina e India nella regione dell’Indo-Pacifico). Ciononostante, i BRICS sembrano volersi proporre sempre più come un’alternativa al G7, ovvero a un’idea di ordine globale ideato e gestito dalle potenze occidentali. Questa dinamica assume caratteristiche concrete se si pensa all’obiettivo di “de-dollarizzare” il commercio mondiale, ma perde coerenza quando si passa a vaghi impegni come la promozione di un “multipolarismo inclusivo”. C’è poi chi prova in qualche modo a sfruttare la piattaforma Brics per trovare sponde in un momento di isolamento a livello internazionale, come nel caso della Russia. Nel contesto della guerra di aggressione lanciata contro l’Ucraina, Mosca tenta di far valere la propria versione dei fatti, più volte espressa dal Cremlino, secondo cui il conflitto sarebbe stato inevitabile a causa della minaccia di sicurezza portata dall’avvicinamento tra Kiev e l’Occidente. Pur senza presenziare fisicamente al vertice di Johannesburg (avrebbe infatti rischiato l’arresto visto il mandato di cattura pendente da parte della Corte penale internazionale), Vladimir Putin in videocollegamento ha ribadito la visione russa sulle motivazioni alla base della guerra in Ucraina; nessuno dei partner ha però ritenuto opportuno entrare nell’argomento, come facilmente comprensibile considerando i legami che Paesi come Brasile, India e Sudafrica hanno con le nazioni occidentali.  

 

Fatte queste premesse, va evidenziato che il summit BRICS del 22-24 agosto è stato considerato da diversi commentatori come il più significativo dopo l’edizione del 2009, ovvero la prima a riunire le quattro nazioni fondatrici (il Sudafrica si è unito solo nel 2010). Dalla dichiarazione conclusiva, i cui 94 punti sono stati incentrati sull’impegno nella promozione dello sviluppo e della pace globale, sull’accelerazione della crescita economica e l’approfondimento degli scambi, oltre che sul già menzionato multilateralismo inclusivo, spicca l’apertura ad allargare definitivamente la partecipazione al gruppo verso altri attori statali. La novità principale è infatti rappresentata dall’invito formale esteso a sei Paesi (Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) a diventare membri a pieno titolo del gruppo a partire dal primo gennaio 2024. Si tratterebbe di una notevole espansione della piattaforma BRICS (non è chiaro ancora se cambierà nome), in particolare verso nazioni dell’Africa e del Medio Oriente, riequilibrando l’asse attuale spostato verso l’Indo-Pacifico. Secondo alcuni esperti, l’espansione del blocco sarebbe da considerare una vittoria in particolare per la Cina, che mira più di tutti ad usare i BRICS come strumento per influenzare la politica globale. Tale dinamica potrebbe altresì creare tensioni non facilmente gestibili. Membri fondatori come il Brasile e l’India potrebbero vedere in qualche modo “diluito” il proprio peso, per non parlare del Sudafrica, che non sarebbe più l’unica nazione africana presente nel gruppo. Allo stesso tempo, tra i potenziali nuovi Paesi del blocco esistono rivalità di lunga data, come quella tra Arabia Saudita (ed Emirati Arabi Uniti) con l’Iran, che solo negli ultimi tempi sembrano aver minimamente aperto alla possibilità di un riavvicinamento diplomatico. Un foro di confronto come quello dei BRICS potrebbe spingere Teheran a lanciarsi in battaglie politiche “scomode” per gli altri Stati membri.

 

Il rapporto ambiguo che diverse nazioni intrattengono con l’Occidente (per questioni commerciali o militari) andrebbe inoltre a vanificare la possibilità che il blocco possa davvero contestare la forza politica del G7. Infine, non è detto che tutti e sei i Paesi invitati reputino conveniente accettare l’offerta, almeno in questa fase: il governo saudita ha già reso noto di voler prendere del tempo per valutare se aderire alla piattaforma, nonostante l’interesse mostrato in passato. Indubbiamente l’allargamento dei BRICS avrebbe ripercussioni di rilievo a livello economico e commerciale, ma anche su questo piano bisogna capire quale sia la direzione che vuole prendere un gigante come la Cina, il cui peso in questo contesto è decisamente squilibrato rispetto a quello di alcuni degli ultimi invitati. Sembra del resto da escludere un’evoluzione verso una moneta unica, come proposto in alcune occasioni dai leader dei BRICS, per ovvie questioni di coordinamento e di azione di una singola Banca centrale, chiamata a gestire le discrepanze finanziarie tra un gruppo così ampio di Stati.

 

Dal 2024, dunque, potrebbe venire superato l’acronimo BRICS, che nell’ultimo decennio ha guadagnato sempre maggiore rilevanza, ma non è ancora chiaro che forma prenderà la nuova piattaforma. 

 

Immagine: Le bandiere dei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Crediti: Oleg Elkov / Shutterstock.com

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Paesi Bassi, l’effetto domino del ritiro di Mark Rutte

 

Il 10 luglio 2023 potrebbe venire ricordato come un giorno cruciale nella recente politica dei Paesi Bassi. L’annuncio di Mark Rutte, primo ministro dimissionario e storico leader del Partito popolare per la libertà e la democrazia (VVD, Volkspartij voor Vrijheid en Democratie), di non ricandidarsi in vista delle elezioni anticipate fissate per il 22 novembre, ha creato un effetto domino tra le varie formazioni della maggioranza di governo olandese e tra le altre forze politiche. Nei giorni successivi alla scelta di Rutte, hanno deciso di lasciare la guida dei rispettivi partiti Wopke Hoekstra, dell’Appello democratico cristiano (CDA, Christen Democratisch Appèl) e Sigrid Kaag, dei Democratici 66 (D66). Si è poi aperta la corsa per la leadership elettorale dell’alleanza tra il Partito del lavoro (PvdA, Partij van de Arbeid) e la Sinistra verde (GroenLinks), che si presenteranno insieme per il voto anticipato.

In poche settimane è dunque cambiato radicalmente lo scenario politico olandese, con il solo Geert Wilders, storico leader del Partito per la libertà (PVV, Partij Voor de Vrijheid) e punto di riferimento della destra xenofoba europea, rimasto a guidare una delle principali formazioni nei Paesi Bassi. A ciò si aggiunge la formidabile crescita nei sondaggi del Movimento civico-contadino (BBB, BoerBurgerBeweging), fondato nel 2019 per dare voce alla protesta degli agricoltori olandesi contro le misure imposte dal governo sulle emissioni di azoto e altre tematiche. Da ormai quasi un anno, il BBB si attesta ai primi posti nelle rilevazioni demoscopiche condotte nei Paesi Bassi, per quanto le preferenze del partito abbiano registrato un progressivo calo negli ultimi tempi. Ad agosto inoltrato è infine arrivato l’annuncio di Pieter Omtzigt, ex deputato del CDA, che correrà in solitaria con il suo Nuovo contratto sociale (NSC, Nieuw Sociaal Contract). Omtzigt ha lasciato il CDA nel 2021 ed è noto nei Paesi Bassi per le sue campagne anticorruzione e le inchieste su alcune controverse politiche attuate dai governi dell’Aia. I sondaggi più recenti vedono il NSC come uno dei potenziali vincitori della prossima tornata elettorale.

A pochi mesi dalle elezioni del 22 novembre, dunque, almeno quattro delle più importanti forze politiche olandesi si trovano ad affrontare un avvicendamento negli incarichi apicali, mentre altri due partiti potrebbero potenzialmente contendersi la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento. Per capire la portata di tale dinamica bisogna tenere conto del peculiare sistema politico dei Paesi Bassi, in cui non esiste sostanzialmente un partito di maggioranza, ma è necessario costituire coalizioni a geometria estremamente variabile per assicurare la stabilità dei governi. I deputati della Camera dei rappresentanti (Tweede Kamer) vengono eletti con il sistema proporzionale, di fatto senza collegi ma con un unico distretto nazionale: in questo modo approdano in Parlamento decine di partiti. Nel 2021 furono ben 17 le forze politiche a ottenere almeno un seggio alla Tweede Kamer, mentre erano state 12 nella tornata precedente, quella del 2017. Tale frammentazione estrema ha portato progressivamente ad allargare il numero di partiti necessari per formare un esecutivo, con il risultato che gli ultimi due governi Rutte (il terzo e il quarto, per la precisione) sono stati retti da un accordo di coalizione che ha coinvolto VVD, CDA, D66 e i calvinisti dell’Unione cristiana (CU, ChristenUnie). Vien da sé che i negoziati per trovare il giusto equilibrio tra le istanze dei componenti degli esecutivi olandesi siano lunghi e complessi, oltre che forieri di fratture che non emergono nell’immediato ma nel medio periodo, portando alla conclusione anticipata di tali alleanze, come è stato nel caso dell’ultimo gabinetto guidato da Rutte. In questa prospettiva, il ricambio generale tra i leader di alcune delle più importanti forze politiche potrebbe complicare ulteriormente il quadro delle trattative successive alle elezioni di novembre.

Ambizione e necessità di tracciare una linea di demarcazione rispetto alle precedenti gestioni potrebbero infatti contraddistinguere i prossimi protagonisti della vita politica dei Paesi Bassi, con il risultato di restringere le possibili modalità di coabitazione dei vari partiti nelle eventuali coalizioni. La probabile futura leader del VVD, ad esempio, dovrebbe essere Dilan Yeşilgöz-Zegerius, attualmente ministra della Giustizia e considerata più vicina di Rutte all’elettorato conservatore. Il VVD, tradizionalmente una forza “centrista”, sotto la guida del premier uscente è stato in grado di aggregare attorno a sé diverse maggioranze, rivolgendosi ai sovranisti del PVV come ai laburisti. Difficilmente Yeşilgöz-Zegerius riuscirebbe nello stesso intento, mentre è più probabile che sposti verso destra l’agenda politica del partito.

A sostituire Kaag alla guida dei D66 potrebbe essere Rob Jetten, che nel governo Rutte IV ha ricoperto l’incarico di ministro dell’Energia, mentre non è ancora chiaro chi succederà a Hoekstra come leader del CDA.

Ancora più interessante la situazione relativa al blocco laburisti-verdi: a farsi avanti come capolista e candidato premier per l’alleanza progressista è stato nientemeno che il vicepresidente della Commissione europea e responsabile del Green deal europeo, vale a dire Frans Timmermans, che già in passato ha ricoperto incarichi di governo nei Paesi Bassi come ministro degli Esteri, dal 2012 al 2014. Per concludere, hanno destato sorpresa le parole della leader del BBB, Caroline van der Plas, che a fine luglio ha annunciato di non voler guidare un futuro esecutivo olandese anche in caso il suo partito dovesse vincere le elezioni. Citando la mancanza di interesse ed esperienza nelle dinamiche internazionali, oltre che le possibili ripercussioni sulla sua vita privata, van der Plas ha sostanzialmente chiuso a un possibile incarico da premier dei Paesi Bassi, nonostante il BBB possa effettivamente puntare a ricevere la maggioranza relativa dei voti il 22 novembre prossimo.

Chissà se Rutte, decidendo di far terminare anzitempo l’esperienza del suo governo e annunciando le dimissioni da leader del VVD, immaginava di scatenare un terremoto tale tra gli altri partiti olandesi. Indubbiamente la sua uscita di scena, dopo quasi quindici anni da protagonista assoluto sul palcoscenico nazionale, porterà i Paesi Bassi a voltare in qualche modo pagina ed entrare in una nuova stagione politica.

 

Immagine: Cartello in lingua olandese che indica la strada per il seggio elettorale. Crediti: Rene Notenbomer / Shutterstock.com

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Vertice Russia-Africa, Mosca in cerca di nuove geometrie internazionali

 

Si è tenuto il 27 e 28 luglio a San Pietroburgo il summit Russia-Africa, giunto alla sua seconda edizione, dopo quella inaugurale del 2019. Nonostante l’importanza che le autorità russe hanno provato a dare all’evento, si è trattato di un vertice con molti meno partecipanti rispetto al 2019, quando i leader africani presenti erano 43. La scorsa settimana a San Pietroburgo sono arrivati invece solo 17 capi di Stato, insieme a una decina di delegazioni a rappresentare altre nazioni, un segnale evidente di come l’isolamento della Russia non sia limitato al solo Occidente. Sembra aver avuto effetto la spinta esercitata dagli Stati Uniti e alcune cancellerie europee affinché molti leader africani non partecipassero al summit, come del resto hanno denunciato le autorità russe, ammettendo in qualche modo di non essere riuscite a riunire a San Pietroburgo tutte le personalità invitate. Il Cremlino ha in ogni caso cercato di presentare la riunione tra Vladimir Putin e i leader africani come uno dei tanti tasselli che possono contribuire alla costruzione di un mondo multipolare, con la Russia al centro di una rete globale di alleanze basate su rapporti paritari, cooperazione economica e commerciale, rifiuto dei modelli e dell’ordine internazionali imposti dai Paesi occidentali.

 

Il vertice della scorsa settimana va quindi letto nella prospettiva degli sforzi diplomatici condotti da Mosca per uscire dalle ristrettezze ordinate dalla rete sanzionatoria. La Russia è consapevole di dover trovare “strade alternative” per far valere il proprio peso sul piano internazionale, motivo per cui cerca di sfruttare a questo scopo i vari forum a cui partecipa, dai BRICS all’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), passando per il G20 e i collegamenti con altre sigle regionali. Nello specifico, rivolgendosi alle nazioni africane, le autorità russe possono fare ricorso ad argomenti convincenti come le forniture di idrocarburi e quelle di grano, che proprio Mosca ha sostanzialmente deciso di interrompere tramite il rifiuto di proseguire l’accordo sulle esportazioni dal Mar Nero.

Il presidente russo Putin, parlando in seduta plenaria a San Pietroburgo, ha toccato tutti questi punti, rivendicando il ruolo del suo Paese come garante della sicurezza alimentare e fornitore di prodotti agricoli su scala globale, nonostante «gli ostacoli imposti dall’Occidente». Per ribadire la volontà della Russia di sostenere i partner internazionali, Putin ha annunciato la disponibilità a fornire gratuitamente tra le 25 e le 50 mila tonnellate di grano ad alcuni Paesi, vale a dire Burkina Faso, Zimbabwe, Mali, Somalia, Repubblica Centrafricana ed Eritrea, entro tre o quattro mesi. Parlando dell’accordo sul grano del Mar Nero, scaduto e non rinnovato per decisione di Mosca, il presidente ha osservato come su 260 mila tonnellate di fertilizzanti russi bloccati in Europa, solo due lotti sono stati inviati in Malawi e Kenya. Putin ha sostanzialmente cercato di dimostrare «l’ipocrisia» dell’Occidente, che per punire la Russia finisce per «affamare» le popolazioni africane.

 

Il Cremlino non ha puntato solo sui prodotti agricoli per rinsaldare il legame con le nazioni partner, ma ha anche aperto a forme di cooperazione economica in altri settori, in particolare quello energetico. Putin ha rivendicato l’aumento delle esportazioni verso il continente africano di greggio, prodotti petroliferi e gas naturale liquefatto (GNL) negli ultimi due anni, a cui si aggiunge anche la disponibilità a fornire i servizi necessari per il lancio di infrastrutture per il nucleare civile, come nel caso di Etiopia, Zimbabwe e Burundi. Il “corteggiamento” della Russia verso l’Africa passa poi per le promesse di sostegno nella riduzione del debito dei vari Paesi e per l’invito a cooperare nel contrasto al terrorismo e alla risoluzione delle crisi. Certo, è difficile non notare l’incongruenza di tale messaggio, dal momento che il Cremlino da decenni incide sugli sviluppi politici interni di diverse nazioni africane e in alcuni casi, tramite il Gruppo Wagner, partecipando direttamente a colpi di Stato.

 

Nel corso del summit di San Pietroburgo si è parlato anche di Ucraina, non solo per quanto riguarda le questioni legate all’accordo sul grano. Alla riunione erano presenti anche i leader dei Paesi africani impegnati nel promuovere un accordo di pace tra Mosca e Kiev, tra cui il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa e quello senegalese Macky Sall, che lo scorso giugno hanno visitato le due capitali per provare a trovare una base negoziale tra Russia e Ucraina. Le autorità russe hanno ribadito l’interesse per l’opzione avanzata dalle cancellerie africane, un modo per sottolineare l’importanza dell’intero continente come attore geopolitico emergente a livello globale. Resta però da capire quanto effettivamente la Russia sia interessata a lasciarsi coinvolgere nei piani presentati dai Paesi africani, che a dire il vero non hanno suscitato grande entusiasmo nemmeno dal lato ucraino. In questo contesto, vale la pena menzionare anche la presenza a San Pietroburgo, seppur non propriamente nei luoghi in cui si è tenuto il summit, di Evgenij Prigožin, il fondatore della milizia privata Wagner, le cui vicende degli ultimi mesi sono ben note ma la cui attuale “residenza” si pensava fosse in Bielorussia. Una foto raffigurante Prigožin e un funzionario della Repubblica Centrafricana ha però fatto il giro del web e testimoniato ancora una volta il ruolo ormai consolidato del Gruppo Wagner come attore determinante nelle dinamiche di sicurezza in diverse nazioni dell’Africa.

 

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Immagine: Vladimir Putin, Russia (5 luglio 2023). Crediti: MD. ALAMIN HOSSAN / Shutterstock.com

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Elezioni in Spagna, vincono i popolari ma senza i numeri per governare

 

Smentendo in buona parte i sondaggi, le elezioni anticipate del 23 luglio in Spagna hanno avuto un esito sorprendente. Nonostante la vittoria del Partito popolare (PP) di Alberto Núñez Feijóo, affermatosi come prima forza politica del Paese, dalle urne è uscita una conformazione del Parlamento senza una chiara maggioranza. Il leader socialista Pedro Sánchez sembra dunque aver vinto la sua scommessa: il presidente del governo spagnolo aveva deciso a fine maggio di andare al voto anticipato per provare a fermare l’ascesa elettorale della destra, e pare esserci riuscito. Il Partito socialista e operaio spagnolo (PSOE) ha infatti ottenuto quasi il 32% dei consensi, un risultato ben al di sopra delle aspettative, poco inferiore al 33% incassato dal PP.

A pagare è stata dunque l’intuizione di Sánchez di chiamare ai seggi i cittadini spagnoli, pur se in piena estate, con l’obiettivo di sventare un possibile scenario di alleanza tra i popolari e i sovranisti di Vox, come era avvenuto in diverse regioni del Paese a seguito delle elezioni regionali del 28 maggio scorso. L’affluenza alle urne di domenica è stata decisamente alta, considerando la tendenza generale in Europa e soprattutto l’infausta combinazione data dall’ondata di caldo record abbattutasi sull’area mediterranea e la comprensibile reticenza degli elettori a sacrificare una eventuale giornata di vacanza per recarsi ai seggi. Il dato finale dell’affluenza è stato del 70,4%, in aumento di 4 punti percentuali rispetto al 2019, a confermare la tesi secondo cui Sánchez avrebbe indovinato il messaggio da inviare ai cittadini spagnoli, appellandosi alla necessità di votare in massa per impedire la vittoria del PP e di Vox, ovvero il ritorno al “regresso” politico, un’ombra inquietante per una nazione che è uscita dall’esperienza franchista meno di 50 anni fa. 

Non è però corretto parlare di “sconfitta” per i popolari: se il PSOE ha guadagnato quasi quattro punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni generali, il PP ha addirittura migliorato del 12,3% la propria performance, ottenendo 47 seggi in più nel Congresso dei deputati di Madrid. La cosiddetta “onda blu” dei conservatori spagnoli, che aveva ridisegnato l’assetto politico regionale a fine maggio, ha tenuto anche il 23 luglio, come assicuravano i sondaggi. Chi ha deluso fortemente le aspettative è stato invece Vox, il partito di estrema destra che appariva in forte ascesa negli ultimi tempi. La formazione di Santiago Abascal non è andata oltre il 12,4%, a fronte del 15,1% ottenuto nel 2019, perdendo ben 19 dei propri rappresentanti in Parlamento, ridotti ora a 33.

Consapevole di aver di fronte uno scenario quasi irrealizzabile per dare vita a un governo monocolore del PP, per Feijóo era fondamentale contare su un potenziale partner di coalizione che permettesse alla maggioranza di superare i 176 scranni richiesti. Con lo spoglio ormai ultimato, appare evidente come la matematica condanni il leader popolare, i cui 136 seggi, sommati a quelli di Vox, arrivano solo a 169. Nella serata di domenica, peraltro, Abascal ha commentato il deludente esito del voto attaccando Feijóo, accusato di aver sostanzialmente sabotato in partenza il ticket con i sovranisti, non ultimo rifiutandosi di partecipare al dibattito televisivo conclusivo tenutosi mercoledì scorso. In base a questa lettura, il presidente del PP avrebbe quindi lanciato messaggi contraddittori ai propri sostenitori, apparendo poco convinto di una stabile alleanza con Vox e confermando gli attriti esistenti tra i due partiti, emersi in questi mesi di trattative per formare i governi delle Comunità autonome.

In tale prospettiva, le possibilità che Feijoo possa trovare altri alleati al Congresso sono minime, dal momento che solo poche forze regionaliste sarebbero disposte a partecipare a un esecutivo conservatore, per giunta con la presenza determinante di Vox. Sull’altro fronte, Sánchez può contare nel nuovo Parlamento su 122 rappresentanti (due in più rispetto alla precedente legislatura), oltre ai 31 di Sumar, il cartello di partiti progressisti guidato dalla ministra del Lavoro uscente, Yolanda Díaz, che alle urne ha ottenuto il 12,3% dei consensi. Detto questo, i 152 deputati totali non permettono certo di puntare al ritorno alla Moncloa, il palazzo del governo, a meno che non si persegua una complicata operazione di convincimento delle sigle localiste per ottenere almeno una maggioranza relativa.

 

Una campagna elettorale estremamente polarizzata, in cui allo spauracchio di un ritorno alle politiche dell’epoca di Franco si è contrapposta una narrazione “anti-sanchista” rivolta contro la figura del premier socialista, ha avuto come risultato finale un Congresso spaccato in due, senza una maggioranza politica chiara, in cui il ruolo di “king-maker” spetterà alle formazioni espressione delle istanze autonomiste e indipendentiste sul territorio spagnolo. La possibilità che si ripercorra la strada dell’esecutivo uscente di Sánchez, che ha avuto il sostegno esterno dei partiti nazionalisti di Catalogna e Paesi Baschi, poggia sulla disponibilità a collaborare di Junts, il partito che fa capo al leader separatista ed ex presidente catalano Carles Puigdemont, fuggito dopo il referendum del 2017 e attualmente in esilio autoimposto a Bruxelles. Sembra difficile ottenere anche solo l’astensione di Junts per la fiducia al Congresso dei deputati, dal momento che Míriam Nogueras, candidata degli indipendentisti, già domenica sera ha parlato di «avvantaggiarsi dell’opportunità emersa» e segnalato come il sostegno all’investitura di Sánchez come presidente «non arriverà in cambio di nulla». Se negli anni passati il premier spagnolo era riuscito a gestire i rapporti con i partiti regionalisti grazie alla promessa di vasti investimenti infrastrutturali sul territorio, pare complicato ripercorrere la stessa tattica ora che il pendolo della bilancia è in mano a una formazione controversa a livello nazionale come Junts, il cui obiettivo dichiarato è ottenere l’indipendenza piena da Madrid. 

Per tutte queste ragioni, molti commentatori hanno evidenziato come lo scenario più probabile emerso dal voto del 23 luglio sia quello di nuove elezioni, da tenersi in autunno inoltrato, quando saranno passati almeno due mesi dall’insediamento dell’Assemblea e dall’inizio delle trattative per la costituzione di un nuovo governo. Nel frattempo, la Spagna esercita il proprio ruolo di presidente di turno del Consiglio europeo per il semestre finale del 2023, un’occasione di indirizzare l’agenda dell’Unione Europea che probabilmente le autorità iberiche avrebbero dovuto sfruttare in maniera migliore, invece che impelagandosi in una lunga e ostile campagna elettorale permanente. 

 

Immagine: Da sinistra, Pedro Sánchez e Alberto Núñez Feijóo, prima di un dibattito televisivo pre-elettorale, Madrid, Spagna (10 luglio 2023). Crediti: OSCAR GONZALEZ FUENTES / Shutterstock.com

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La Spagna si prepara al voto

In Spagna si terranno domenica prossima le elezioni politiche anticipate, un voto che potrebbe avere un impatto oltre i confini nazionali, riverberandosi nella politica europea. Dopo la dura sconfitta subita alle regionali e amministrative del 28 maggio scorso, in cui il Partito socialista e operaio spagnolo (PSOE) ha perso il controllo di importanti municipalità e comunità autonome, il presidente del governo Pedro Sánchez ha deciso di tentare la carta del voto anticipato, spostando le politiche da dicembre a fine luglio, per evitare un’ulteriore emorragia di consensi tra estate e autunno. I sondaggi continuano però a favorire il Partito popolare (PP, Partido popular), guidato da Alberto Núñez Feijóo, che nella media delle rilevazioni si è attestato intorno al 32-33%, staccando il PSOE di almeno 4 punti percentuali. Alle amministrative “l’onda blu” dei popolari ha conquistato 9 delle 12 comunità autonome che andavano al voto, confermando in questo senso una svolta a destra dell’elettorato e la credibilità come leader nazionale di Feijóo, eletto segretario del PP nel 2022 dopo le dimissioni del rampante leader Pablo Casado Blanco. 

 

I socialisti nelle ultime settimane hanno mostrato segnali di recupero, ma la possibilità di un sorpasso ai danni della formazione di centrodestra sembra piuttosto improbabile. In ogni caso, il PP non dovrebbe riuscire a guadagnare abbastanza seggi per governare da solo, ritrovandosi ad aver bisogno di alleati in seno al Congresso dei deputati di Madrid. Il principale indiziato in questo senso è il partito sovranista Vox, che dai sondaggi sembrerebbe destinato a diventare il terzo del Parlamento spagnolo, con circa il 14% delle preferenze. La formazione di destra radicale coopera con i popolari in diverse regioni del Paese, un esperimento rafforzatosi dopo le ultime amministrative, come dimostrato dai casi di Estremadura, Comunità Valenzana, Murcia, Aragona e Baleari, dove i due partiti hanno creato delle coalizioni di governo. L’idea di ripercorrere lo stesso modello su scala nazionale è meno scontata, vista la necessità per i popolari di accodarsi a Vox su temi “identitari” che non necessariamente sono invece prioritari per gli elettori del PP. Proprio su questo punto sta cercando di spingere Sánchez, per attrarre gli indecisi di centrodestra, eventualmente “timorosi” di un’alleanza tra PP e Vox. Il governo uscente non sembra essere riuscito a far pesare più di tanto in campagna elettorale i buoni risultati economici conseguiti in questi anni, trovandosi invece costretto a evocare lo spettro della “regressione” sui temi sociali, alludendo anche alle simpatie franchiste di Vox.

 

Altro tema di sicuro interesse a pochi giorni dal voto del 23 luglio è l’impatto di Sumar, la piattaforma di sinistra lanciata dall’attuale ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, che ha assorbito Podemos insieme ad altre formazioni minori. La capacità federativa di Diaz potrebbe consentire di rinvigorire le istanze progressiste tra gli elettori spagnoli, come testimoniato dalla crescita registrata nei sondaggi delle ultime settimane. Sumar è ormai sostanzialmente appaiata a Vox, intorno al 13%; si tratta di una notizia indubbiamente positiva per il PSOE, che punta a bilanciare quanto possibile in Parlamento un’alleanza di centrodestra. Restano poi tutte le numerose forze regionali, siano esse catalane, basche, galiziane o della Navarra, delle Asturie, delle Canarie e di altre comunità, il cui appoggio potrebbe permettere l’eventuale costituzione di coalizioni allargate a geometria variabile. Si tratta di partiti che spesso portano nel Congresso solo pochi deputati, ma il cui sostegno esterno, anche solo su specifici disegni di legge, ha consentito al gabinetto di Sánchez l’approvazione di importanti misure economiche e sociali. 

 

Proprio questi partiti minori potrebbero finire per fare la differenza, qualora il risultato del voto di domenica non dovesse consegnare una maggioranza salda ai popolari e a Vox. Se già tra queste due formazioni esistono divergenze programmatiche non di poco conto, l’addizione delle varie istanze regionaliste andrebbe ad aumentare la potenziale instabilità della coalizione conservatrice. Non sfugge del resto come la politica di compromesso perseguita dal governo Sánchez, che ha finito con il prestare il fianco alle critiche per l’apparente “morbidezza” verso gli indipendentisti catalani e le forze del nazionalismo basco, sarebbe difficilmente replicabile da Feijóo e dal PP, pena una rottura totale con Vox. Una vittoria del centrodestra potrebbe altresì riaprire la frattura tra Madrid e le varie comunità autonome, con lo spauracchio di un ritorno alle tensioni del 2017, quando l’esecutivo nazionale, allora guidato dal popolare Mariano Rajoy, reagì con durezza al referendum per l’indipendenza indetto dalle autorità della Catalogna

 

L’esito del voto del 23 luglio determinerà infine il percorso del semestre di presidenza spagnola del Consiglio europeo. Un cambiamento di governo, rapido o meno che sia, andrebbe inevitabilmente a incidere sulla capacità di Madrid di gestire gli impegni in sede UE (Unione Europea), con il rischio di perdere di vista gli obiettivi prefissati nei mesi scorsi. L’agenda della Spagna per il semestre di presidenza ha del resto fatto proprie diverse delle priorità del governo Sánchez, ribadite in queste settimane di campagna elettorale, dai temi economico-sociali a quelli energetici e climatici. Una vittoria del PP potrebbe costringere i funzionari diplomatici impegnati a Bruxelles a cambiare approccio in corso d’opera, mettendo a rischio la credibilità del proprio lavoro agli occhi dei colleghi europei.

 

Immagine: Pedro Sánchez durante un comizio politico del PSOE. Madrid, Spagna (25 maggio 2023). Crediti: Fernando Astasio Avila / Shutterstock.com

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NATO, temi e sfide del vertice di Vilnius

 

Si apre domani il summit NATO di Vilnius, un appuntamento carico di aspettative, a fronte delle necessità dell’Alleanza atlantica di fissare i propri obiettivi futuri e rinnovare l’impegno a fianco dell’Ucraina, a ormai quasi un anno e mezzo dall’inizio dell’aggressione russa. In agenda non ci sarà una discussione semplicemente sul sostegno immediato a Kiev, ma anche sulla pianificazione degli interventi necessari per assicurare forniture costanti di armamenti all’esercito ucraino, sulle garanzie di sicurezza verso la nazione invasa e potenzialmente sulla concessione di status di Paese membro dell’Alleanza per l’Ucraina. Quest’ultima decisione costituirebbe una clamorosa accelerazione del processo di avvicinamento di Kiev alla NATO, iniziato in qualche modo nel 2008, quando al vertice di Bucarest venne “promessa” a Ucraina e Georgia una futura possibilità di entrare nel novero degli Alleati, in una prospettiva di medio-lungo termine.

 

Allo stato attuale non c’è una visione condivisa tra gli Stati membri della NATO sul consentire una piena e immediata adesione a Kiev, almeno fino a che continuerà la guerra. Una soluzione alternativa potrebbe essere garantire all’Ucraina l’entrata nell'Alleanza atlantica una volta che il conflitto con la Russia sarà concluso, complicando però probabilmente eventuali negoziati di pace con Mosca, la cui prospettiva pare al momento piuttosto lontana. Una novità rispetto ai precedenti summit è comunque prevista, ovvero lo svolgimento del primo consiglio NATO-Ucraina, a cui parteciperà anche il presidente Zelenskij e che si terrà nel secondo giorno della riunione.

 

Non sarà invece tra i temi del dibattito a Vilnius la scelta del nuovo segretario generale della NATO: in maniera non troppo sorprendente, i Paesi membri hanno infatti scelto di prorogare nuovamente il mandato di Jens Stoltenberg, in carica ormai dal 2014 e che quindi andrà a superare i dieci anni alla guida dell’Alleanza. La decisione di chiedere a Stoltenberg di restare fino all’ottobre 2024 è arrivata la scorsa settimana, dopo che erano circolate sempre maggiori indiscrezioni circa le difficoltà degli Alleati nel trovare una figura adatta al ruolo. Hanno pesato i tanti veti incrociati in relazione ai candidati alternativi e il troppo poco tempo a disposizione per superare lo stallo, dato che a Vilnius ci si aspettava l’annuncio sul successore dell’attuale segretario generale. Stoltenberg del resto viene visto come una soluzione di continuità in una fase altamente critica per la NATO e non sfugge come la sua nomina sia da interpretare anche come una soluzione “di comodo” in vista dell’estate-autunno 2024, quando auspicabilmente il conflitto in Ucraina potrebbe essersi concluso o quantomeno presentare una minore intensità. 

 

Un dossier che probabilmente resterà insoluto anche dopo Vilnius è quello relativo all’adesione della Svezia alla NATO, rimasta da sola successivamente all’ingresso della Finlandia, avvenuto la scorsa primavera. A giugno 2022, nel corso del summit di Madrid, vennero gettate le basi per il processo di adesione dei due Paesi scandinavi, ma solo Helsinki è riuscita finora a superare il veto posto dalla Turchia (a cui si è in qualche modo accodata l’Ungheria). Nonostante i tentativi dell’ultimo secondo di negoziare una soluzione tra Stoccolma e Ankara, portati avanti dallo stesso Stoltenberg, sembra difficile possa esserci un colpo di scena durante il vertice nella capitale lituana. Non sembra aver sortito effetto nemmeno la pressione degli ultimi mesi esercitata dalla Casa Bianca sulle autorità della Turchia, che continuano a motivare la loro intransigenza con la presunta incapacità della Svezia di perseguire i sostenitori del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan) e per le più recenti manifestazioni anti-Islam avvenute nel Paese scandinavo, non ultimo il rogo di una copia del Corano a Stoccolma. La decisione sull’adesione della Svezia alla NATO resta dunque ancora nelle mani del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che forte della rielezione continua a perseguire la propria strategia di politica estera senza curarsi troppo delle richieste degli alleati.

 

Ulteriore tema divisivo per la NATO è quello delle spese per la difesa dei singoli Stati membri. Fissato nel 2014, a distanza di quasi dieci anni l’obiettivo di destinare il 2% del PIL al rafforzamento militare è stato effettivamente rispettato da nemmeno un quarto degli Alleati (nello specifico Grecia, Stati Uniti, Lituania, Polonia, Regno Unito, Estonia e Lettonia: 7 su 30, senza considerare la Finlandia).  A fronte della guerra in Ucraina e dello sforzo richiesto ai Paesi NATO in termini di fornitura e produzione di mezzi e armamenti a Kiev, l’obiettivo del 2% del PIL potrebbe risultare in prospettiva persino troppo basso, almeno agli occhi delle nazioni schierate sul fronte orientale dell’Alleanza, Polonia e le tre repubbliche baltiche su tutti.

Di conseguenza, la necessità di rafforzare la difesa comune e sostenere lo sforzo bellico ucraino per un periodo di tempo non definito potrebbe costringere i leader della NATO a fissare parametri più stringenti in termini di spesa militare, in una dinamica che inevitabilmente sarà foriera di contrasti e disaccordi. Lo stesso Stoltenberg di recente ha immaginato come la soglia del 2% non sarà più un obiettivo per gli Stati più virtuosi, bensì il minimo chiesto a ogni Alleato. A ciò si deve aggiungere la richiesta presentata da Vilnius, Tallinn e Riga di schierare un numero maggiore di truppe NATO nel Baltico, una proposta già accolta in qualche modo da alcuni Paesi, come la Germania.

Proprio il rafforzamento del Fianco orientale dell’Alleanza è diventato un argomento pressante, a fronte della minaccia proveniente da Russia e Bielorussia e della conseguente necessità di aumentare la capacità di deterrenza della NATO. Lo spostamento verso est del baricentro “europeo” dell’Alleanza porterà gli Stati membri a dover studiare una nuova conformazione delle forze comuni nella regione. 

 

A Vilnius si ribadirà infine l’importanza dell’espansione delle relazioni tra gli alleati e i partner globali in aree cruciali per le future prospettive di sicurezza, prima tra tutte quella dell’Indo-Pacifico.  Ecco perché al summit vi sarà un confronto con i leader di Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, nazioni considerate “like-minded” e con cui la cooperazione in materia di difesa sarà fondamentale per affrontare le minacce emergenti in aree diverse dall’Atlantico, in primo luogo quelle associate all’ascesa della Cina.

 

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Grecia, larga vittoria elettorale del centrodestra di Nuova democrazia

 

Una larga vittoria elettorale doveva essere, e una larga vittoria è stata. Con il 40,5% delle preferenze, Kyriakos Mitsotakis e il suo partito Nuova democrazia (ND, Nea Dimokratia) potranno governare la Grecia per altri quattro anni formando un esecutivo monocolore, dopo il successo di domenica alle elezioni politiche, il secondo a distanza di un mese. Confermando pienamente i sondaggi, Nuova democrazia ha raggiunto l’obiettivo prefissato alla vigilia di questo nuovo turno di voto, grazie a un risultato che supera la soglia del 38% fissata per far scattare il premio di maggioranza. La forza di centrodestra aveva già registrato oltre il 40% delle preferenze nella prima tornata, il 22 maggio scorso, ma all’epoca era in vigore in Grecia la precedente legge elettorale, che non prevedeva seggi extra per il primo partito. Per questo motivo, onde evitare di dover scendere a patti con altre formazioni, Mitsotakis aveva scelto di rimettere il mandato ricevuto dalla presidente ellenica Aikaterini Sakellaropoulou e puntare ad avvalersi del vantaggio determinato dal premio di maggioranza.

Dalle urne è uscito dunque il risultato che Nuova democrazia attendeva, confermando la fiducia degli elettori greci nel partito di centrodestra e al contempo la battuta d’arresto della sinistra, con Syriza-Alleanza progressista, guidata dall’ex premier Alexis Tsipras, che si ferma al 17,8% e perde ulteriori seggi rispetto al turno precedente. In lieve crescita invece il Movimento socialista panellenico (PASOK, Panellinio Sosialistiko Kinima), che sfiora il 12%, un risultato che attesta la formazione di centrosinistra come terzo partito in Grecia. Anche il Partito comunista ellenico (KKE, Kommounistiko Komma Elladas) ha visto migliorata di poco la percentuale di voti ricevuti, superando abbondantemente il 7%. Entrerà per la prima volta in Parlamento, grazie al 4,7% dei consensi, il partito di estrema destra Spartani (Spartiates), sostenuto dall’ex esponente di Alba Dorata Ilias Kasidiaris, condannato a 13 anni di reclusione. Tra le otto formazioni in grado di superare la soglia di sbarramento del 3% figurano poi altre sigle nazionaliste e di estrema sinistra. 

 

Mitsotakis potrà contare su 158 deputati dei 300 complessivi dell’Assemblea nazionale greca, con un margine esiguo ma comunque sufficiente per portare avanti l’agenda riformista annunciata in campagna elettorale, in particolare per quanto riguarda l’aumento dei salari, la riorganizzazione dei settori dell’istruzione e della sanità pubblica. Proprio questi due temi potrebbero presto diventare terreno di scontro, con l’opposizione di sinistra pronta a dare battaglia contro la paventata ondata di privatizzazioni che l’esecutivo dovrebbe lanciare, almeno stando alle accuse di Syriza. Per Nuova democrazia la strada dovrebbe però essere in discesa, almeno nel breve e nel medio periodo, grazie al sostegno degli imprenditori e del mondo della finanza, rassicurati dalla direzione favorevole ai loro interessi che il governo di Atene ha già intrapreso negli ultimi anni. Paradossalmente, secondo alcuni osservatori della politica greca, la debolezza dell’opposizione, con una sinistra eccessivamente frammentata e incapace di fare fronte unico contro Mitsotakis, potrebbe condurre l’esecutivo a fare delle scelte avventate, motivate dall’eccessiva fiducia nella propria solidità politica. Il chiaro mandato ricevuto dagli elettori mette inoltre il primo ministro nella scomoda posizione di non poter accampare alibi rispetto all’attuazione dei programmi e alla realizzazione delle promesse elettorali, in un Paese che non ha ancora superato del tutto la devastante crisi economica e finanziaria subita oltre 10 anni fa.

Commentando a caldo i risultati del voto, Mitsotakis domenica sera ha sottolineato il senso di responsabilità derivante dal forte sostegno ricevuto da parte dei cittadini per procedere «con i grandi cambiamenti necessari», rappresentando tutta la popolazione greca, «perché i problemi non hanno colore politico». Un segnale di allarme dovrebbe però giungere al primo ministro già dal dato dell’affluenza, passata dal 61% di maggio al 53%: negli ultimi giorni di campagna elettorale, Mitsotakis aveva auspicato una grande partecipazione dei cittadini greci alle urne, per consolidare il mandato per Nuova democrazia. 

Il premier di centrodestra non sembra aver accusato il colpo rispetto alla tragedia avvenuta al largo del Peloponneso tra il 13 e il 14 giugno, quando a seguito di un naufragio sono morte almeno 82 persone, con i dispersi che ammontano a diverse centinaia. Le autorità elleniche sono state accusate di non essere intervenute, nonostante le condizioni del mare lo permettessero; alcune ricostruzioni, suffragate da video e testimonianze, hanno addirittura smentito la versione data dalla Guardia costiera greca in merito all’intervento di soccorso effettuato, gettando molti dubbi sul suo operato. Se dunque l’incidente ferroviario di Tempe non aveva minato l’apparente fiducia dell’elettorato greco nei confronti di Mitsotakis e del suo governo, come emerso nel voto di maggio, anche il naufragio di poche settimane fa, uno dei più drammatici degli ultimi anni, non sembra aver inciso sul risultato delle urne.

 

Immagine: Il primo ministro greco e leader di Nuova democrazia Kyriakos Mitsotakis saluta i sostenitori durante una campagna elettorale in un sobborgo di Salonicco, Grecia (10 giugno 2023). Crediti: Giannis Papanikos / Shutterstock.com

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Senso e obiettivi del viaggio di von der Leyen in Sud America

 

Il concetto di “autonomia strategica” è divenuto centrale negli ultimi anni nel dibattito europeo, a maggior ragione dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Si fa spesso riferimento alla dimensione militare di questa autonomia, nonostante le garanzie di sicurezza derivanti dalla NATO, ma per l’Unione Europea (UE) è probabilmente più urgente considerarne in prima battuta gli aspetti diplomatici. Non stupisce dunque che le autorità di Bruxelles siano impegnate in missioni estere per rafforzare i legami multilaterali con aree e nazioni chiave in prospettiva futura, a partire dalla Cina e dai Paesi dell’Asia orientale. In questo contesto va inserito il viaggio compiuto questa settimana dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha toccato il Brasile, l’Argentina, il Cile e il Messico.

Le relazioni tra UE e Sud America sono state “trascurate” negli ultimi anni, come hanno ammesso gli stessi funzionari di Bruxelles, ma la necessità di approfondire il dialogo con i partner globali in seguito all’invasione dell’Ucraina ha portato l’Unione Europea a cercare nuove forme di cooperazione rafforzata. L’UE ha il vantaggio di potersi presentare come una potenza commerciale e un mercato immenso per le esportazioni delle economie emergenti, restando al contempo un cliente interessato all’acquisto di risorse energetiche e minerali critici per la transizione verde, con l’obiettivo di smarcarsi dalle dipendenze e diversificare le fonti di approvvigionamento. In questa prospettiva, il tour in America Latina di von der Leyen giunge a poche settimane di distanza dal summit che si terrà a Bruxelles con la partecipazione di trenta capi di Stato e di governo provenienti dalle nazioni sudamericane e caraibiche (UE-CELAC, Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños), il 17 e 18 luglio, come base di una nuova stagione nei rapporti tra i due continenti. La presidente della Commissione UE è stata del resto preceduta in Sud America dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ha visitato Argentina, Cile e Brasile a fine gennaio, mentre il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si recherà in Francia a fine giugno, a testimonianza di un’intensificazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico.

Nel corso degli incontri nei vari Paesi sudamericani, von der Leyen ha affrontato il tema del partenariato che Bruxelles vuole lanciare sulle materie prime, con un occhio specifico al Cile e alle sue miniere di litio e rame, cruciali per le tecnologie impiegate nella transizione ecologica e in quella digitale. Nella capitale cilena è stato anche annunciato il lancio del Fondo per l’idrogeno rinnovabile sostenuto dal Team Europe, che avrà un budget iniziale di 225 milioni di euro. L’argomento di principale interesse resta però l’accordo tra UE e MERCOSUR, il mercato comune dell’America Meridionale. L’obiettivo della presidente della Commissione europea, come già annunciato, è quello di siglare entro fine 2023 l’intesa in questione, che sarebbe la più importante a livello commerciale per Bruxelles, visto anche l’ingente taglio dei dazi che ne conseguirebbe e il risparmio di miliardi negli scambi tra i due blocchi. Elemento dirimente per giungere a una conclusione positiva dovrebbe essere una clausola aggiuntiva legata alla sostenibilità, per assicurare che l’aumento degli scambi tra Europa e Sud America non acceleri la dinamica di deforestazione dell’Amazzonia, visto il peso dell’industria della carne, e non solo, sulla percentuale di terreni che vengono disboscati sul continente. A spingere per l’inserimento di questa clausola aggiuntiva, vincolante per il buon esito delle trattative, sono state in particolare Francia e Austria. Il Brasile, l’attore primario nel MERCOSUR, teme però eventuali sanzioni in caso di mancato rispetto dei parametri ambientali richiesti dall’UE. In questa discussione c’è poi da tenere conto della visione protezionistica di diversi Paesi europei in ambito agricolo, con l’Irlanda e i Paesi Bassi che si sono aggiunti alle cancellerie di Parigi e Vienna nel contestare alcuni punti dell’accordo UE-MERCOSUR ed evidenziarne le criticità per i propri settori nazionali. Di recente il governo francese ha espresso la propria contrarietà a un’accelerazione delle trattative per finalizzare l’intesa, auspicando altresì che se ne valutino i pro e i contro.

Non è un caso, come molti hanno già osservato, che la spinta al riavvicinamento tra Unione Europea e America Latina giunga a poche settimane dall’inizio della presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea da parte della Spagna. Il governo di Madrid (coadiuvato da quello del Portogallo) ha un evidente interesse nell’assumere un ruolo da protagonista in questa fase, forte dei vincoli linguistici e culturali con il continente sudamericano. Sorprende poco anche l’attivismo dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, lo  spagnolo Josep Borrell, nel coltivare i rapporti con le nazioni dell’America Meridionale e dei Caraibi, recuperando un potenziale legame geopolitico con un’area del mondo che nell’ultimo decennio si è avvicinata alla Cina e guarda con un occhio giudicato “troppo neutrale” al conflitto in corso in Ucraina. Ecco dunque spiegato il motivo del vertice UE-CELAC che si terrà a luglio: Bruxelles vuole recuperare il tempo e il terreno perduti, mettendo in campo le proprie risorse economiche e diplomatiche. Si punterà però anche sugli interessi condivisi tra Europa e America Latina, come «una visione progressista delle relazioni commerciali» a fronte del protezionismo lanciato da Washington e Pechino, stando a quanto spiegato dallo stesso Borrell. Servirà sicuramente diverso tempo per capire la reale dimensione del riavvicinamento cercato dall’Unione Europea e per quantificare l’effettivo successo degli sforzi messi in atto da Ursula von der Leyen e dalla sua Commissione.

 

Immagine: Ursula von der Leyen (16 febbraio 2023). Crediti: Alexandros Michailidis / Shuttewrstock.com

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Tanti candidati per la guida della NATO

 

A inizio febbraio 2022, Jens Stoltenberg era pronto a lasciare l’incarico da segretario generale della NATO e assumere il ruolo di governatore della Banca centrale della Norvegia. Dopo un mandato alla guida dell’Alleanza atlantica, Stoltenberg sarebbe tornato a svolgere un ruolo istituzionale nel suo Paese d’origine, dove in passato era già stato a capo del governo e poi ministro delle Finanze e dell’Industria. L’invasione russa dell’Ucraina ha però cambiato le carte in tavola, spingendo la NATO a prorogare di un anno l’incarico di Stoltenberg, mentre l’Alleanza si trovava a dover gestire l’emergenza più pressante e complessa da molti decenni a questa parte. Il prossimo luglio, a quasi un anno e mezzo dall’inizio del conflitto, i leader della NATO si riuniranno a Vilnius per concordare i nuovi passi da seguire nel sostegno all’Ucraina, ma presumibilmente anche per scegliere il futuro successore di Stoltenberg, il cui mandato dovrebbe definitivamente scadere a settembre 2023.

Dopo nove anni alla guida dell’Alleanza, con una guerra che alla fine dell’estate sarà probabilmente ancora in corso, il funzionario norvegese lascia indubbiamente un’eredità pesante. Colui (o colei) che prenderà il posto di Stoltenberg dovrebbe ricevere la nomina dopo una consultazione tra i 31 Stati membri della NATO ‒ o forse 32, qualora la Svezia riuscisse a piegare le resistenze della Turchia già entro il summit di Vilnius. Servirà il più ampio consenso possibile per identificare il nuovo segretario generale, in un contesto internazionale sicuramente molto complicato.

 

Non è un caso che finora siano stati fatti nomi “eccellenti” per assumere l’incarico, scomodando persino la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, forte non solo del prestigio della posizione che ricopre attualmente, ma anche del suo passato da ministra della Difesa della Germania. Von der Leyen potrebbe inoltre essere la prima donna a guidare la NATO, un traguardo importante per l’Alleanza e che spinge alcuni osservatori a citare un altro nome di pregio per la corsa alla poltrona di segretario generale, vale a dire quello della premier danese in carica Mette Frederiksen. Nuovamente una politica dell’area scandinava, dunque, in continuità non solo con il norvegese Stoltenberg, ma anche con il connazionale Anders Fogh Rasmussen, a sua volta primo ministro della Danimarca all’inizio degli anni Duemila. Se però per von der Leyen il passaggio dalla Commissione europea alla NATO sarebbe più semplice, visto che arriverebbe a pochi mesi dalle prossime elezioni europee, fissate per giugno 2024, nel caso di Frederiksen sarebbe invece una scelta più rischiosa a livello politico, dal momento che solo lo scorso novembre la leader dei Socialdemocratici danesi è uscita vincitrice dalle urne alle politiche anticipate, da lei stessa convocate. Il governo di coalizione formatosi successivamente alle elezioni rischierebbe inoltre di cadere, qualora si dimettesse. In visita alla Casa Bianca pochi giorni fa, Frederiksen ha tuttavia smentito la propria candidatura per la successione a Stoltenberg. 

 

Chi invece ha mostrato reale interesse per l’incarico di segretario generale NATO, anche nelle esternazioni in pubblico, è il ministro della Difesa del Regno Unito, Ben Wallace. A suo sfavore pesa il fatto di essere un uomo e di non avere la levatura politica di un ex presidente o capo del governo; al contempo, le autorità britanniche sembrano molto determinate a perorarne la candidatura, come affermato anche dal premier Rishi Sunak, che dovrebbe affrontare il tema durante l’incontro a Washington con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Wallace è un sostenitore convinto dell’aumento della spesa militare per i Paesi membri della NATO, superando anche la soglia del 2% del PIL precedentemente introdotta dagli Alleati. 

La rosa dei potenziali candidati non si esaurisce ai soli von der Leyen, Frederiksen e Wallace (senza considerare l’eventualità di un nuovo mandato per Stoltenberg). Negli ultimi tempi sono infatti stati menzionati diversi attuali ed ex primi ministri e presidenti: dallo spagnolo Pedro Sánchez, politicamente in difficoltà in patria, all’olandese Mark Rutte, passando per l’estone Kaja Kallas, divenuta uno dei volti più in vista tra i leader NATO nonostante il peso limitato di Tallinn negli equilibri dell’Alleanza. Tra gli elementi a sostegno di Kallas c’è il fatto di rappresentare l’Europa centrorientale, i cui Paesi ambiscono da tempo ad esprimere il segretario generale della NATO, così da poter ribadire lo spostamento dell’asse atlantico verso est. Non è un caso che altri nomi attenzionati in più occasioni per succedere a Stoltenberg siano quelli dell’ex presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović, dell’attuale capo di Stato della Slovacchia, Zuzana Čaputová, e di quello della Romania, Klaus Iohannis. Passando dall’altra parte dell’oceano, infine, un altro profilo da citare è quello di Chrystia Freeland, vicepremier e ministra delle Finanze canadese con un passato agli Esteri, sostenitrice dell’Ucraina, di cui è originaria in parte la sua famiglia.

Tra circa un mese, dunque, i leader della NATO saranno chiamati a decidere chi assumerà l’incarico ingombrante di cui per nove anni si è fatto carico Stoltenberg, in una fase in cui l’Alleanza dovrà anche rivedere la propria postura futura, considerando non solo la minaccia russa ma anche le sfide emergenti in altre aree del globo.

 

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Immagine: La bandiera della NATO presso la sede di Bruxelles, Belgio (26 giugno 2019). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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La guerra in Ucraina e le spaccature nel Gruppo di Visegrád

 

In più occasioni i leader dei Paesi NATO hanno evidenziato come il Cremlino puntasse a “spaccare l’Europa” quando ha lanciato l’invasione contro l’Ucraina. A distanza di ormai oltre 15 mesi dal 22 febbraio 2022, a fronte dell’unità ritrovata tra le nazioni europee, l’unica crepa che Vladimir Putin sembra aver creato nel resto del Continente è quella in seno al Gruppo di Visegrád (V4), l’alleanza che raggruppa Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Si tratta di quattro Paesi che fino a pochi anni fa si distinguevano per una posizione comune su vari dossier europei, dai migranti fino all’economia, passando per le istanze di autonomia rispetto alle decisioni “imposte” da Bruxelles.

La guerra di aggressione lanciata dalla Russia contro l’Ucraina ha però fatto emergere la grande distanza esistente tra le capitali del V4, in particolare tra Polonia e Ungheria, i cui governi sembravano saldamente legati dall’appartenenza alla famiglia dei conservatori europei, tramite i partiti Diritto e giustizia (PiS, Prawo i Sprawiedliwość) e Fidesz, oltre che nella battaglia condivisa contro le autorità dell’Unione Europea (UE), preoccupate per gli attacchi allo Stato di diritto e all’indipendenza della magistratura nelle due nazioni. Il quadro è però cambiato radicalmente, dal momento che Varsavia e Budapest si trovano sui lati opposti del fronte europeo e atlantico in merito alla guerra in Ucraina. 

 

La Polonia è emersa come avanguardia del sostegno attivo a Kiev, propugnatrice di una fornitura sempre più completa e performante di armi, oltre che di una totale ostilità verso Mosca. L’Ungheria, di contro, ha in più casi ostacolato le iniziative diplomatiche UE per aiutare l’Ucraina e colpire la Russia, in particolare per quanto riguarda il dossier delle sanzioni. Budapest sembra aver ormai ampiamente abbandonato qualsiasi tentativo di “salvare la faccia”: nelle ultime settimane hanno fatto notizia le dichiarazioni del premier Viktor Orbán, che ritiene impossibile una vittoria sul campo «dei poveri ucraini», così come il viaggio a Mosca del ministro degli Esteri e del Commercio Péter Szijjártó, che nella capitale russa ha avuto incontri con il vicepremier per l’Energia Alexander Novak e con l’amministratore delegato della compagnia statale per il nucleare Rosatom, Aleksej Likhachev. Il capo della diplomazia di Budapest ha discusso della situazione relativa alle forniture di idrocarburi russi verso il proprio Paese e dei progetti di sviluppo delle centrali atomiche nazionali, argomenti che inevitabilmente collidono con l’approccio del blocco UE nei confronti di Mosca. Del resto, l’Ungheria non ha mai nascosto i fortissimi legami economici con la Russia, lavorando costantemente nel corso delle riunioni a Bruxelles per preservare i propri vantaggi competitivi sul piano degli accordi commerciali stabiliti con le aziende russe. 

Questa tendenza non poteva non entrare in contrasto con l’ascesa della Polonia, Paese che si candida a nuovo avamposto della difesa NATO sul fronte est. Da “compagni di banco” recalcitranti nell’UE, Budapest e Varsavia si trovano ora separati da un muro di incomprensioni che va via via crescendo, in una dinamica che ha messo in luce come il fattore della sicurezza sia percepito in maniera opposta dalle cancellerie dei due Stati. Il governo polacco, da sempre diffidente nei confronti della Russia, vede ormai il gigante orientale come la principale minaccia per la propria stabilità e quella delle nazioni vicine, dal Mar Baltico al Mar Nero. In Ungheria, invece, sembra trovare spazio il pensiero che la guerra sia solo una parentesi e che prima o poi sarà possibile riprendere la relazione amichevole e vicendevolmente vantaggiosa con Mosca.

 

Nella visione più ampia del Gruppo di Visegrád, l’isolamento ungherese è acuito dagli sviluppi politici in Repubblica Ceca e Slovacchia. A Praga è stato eletto presidente un ex generale della NATO, Petr Pavel, che inevitabilmente contribuirà a spostare l’asse del Paese verso posizioni maggiormente atlantiste rispetto al predecessore, Miloš Zeman. In Slovacchia una nuova crisi di governo ha accelerato il percorso che porterà alle elezioni anticipate, fissate per il 30 settembre, durante le quali il tema delle relazioni con la Russia e il sostegno alla vicina ucraina avranno necessariamente un peso non indifferente. Vale però la pena ricordare come fino a pochi anni fa  il governo guidato da Robert Fico e formato da SMER-SD e  Partito nazionale slovacco (SNS, Slovenská Národná Strana), intratteneva saldi rapporti con Mosca. 

 

Non stupisce che qualche commentatore sia pronto a parlare di «fine del gruppo di Visegrád», alla luce di questi mutamenti e nella prospettiva di un conflitto in Ucraina che duri ancora molto tempo, acuendo ulteriormente i dissidi tra Polonia e Ungheria. Già considerato alla stregua di un “paria” da alcuni governi europei, Orbán rischia di alienarsi definitivamente anche le simpatie all’interno del V4, nonostante permangano temi di comune interesse con le altre nazioni dell’Europa centrorientale. Nel frattempo, i rapporti tra Bruxelles e Varsavia sembrano migliorati, malgrado la disputa ancora in corso sullo Stato di diritto e l’indipendenza della magistratura, a fronte del comune impegno per il sostegno a Kiev. In questa prospettiva, le autorità polacche potrebbero “abbandonare” la controparte ungherese anche nei consessi in cui i due Paesi si sono in qualche modo spalleggiati, esponendo Budapest ad ulteriori problemi in ambito UE. Per la Polonia, il Gruppo di Visegrád potrebbe invece essere sostituito ‒ o affiancato ‒ da una nuova alleanza centrata sulle questioni di sicurezza, comprendente i Paesi del Baltico e l’Ucraina, in prospettiva di un futuro successo sul percorso di integrazione euroatlantica. Prove in questo senso sono già state effettuate, con il lavoro nel formato trilaterale di Lublino, che vede riunite Varsavia, Kiev e Vilnius in nome del comune passato nella confederazione polacco-lituana.

 

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Immagine: Le bandiere degli Stati del Gruppo di Visegrád (da sinistra: Polonia, Ungheria, Slovacchia. Repubblica Ceca) e dell’Unione europea. Crediti: Fotophoto / Shutterstock.com

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Elezioni in Grecia, netta vittoria dei conservatori di Nuova democrazia

 

Quella che in base ai sondaggi sembrava profilarsi come un’elezione combattuta si è rivelata invece un trionfo per il partito di governo greco Nuova democrazia (ND, Nea Dimokratia), che alle parlamentari tenute il 21 maggio ha sostanzialmente doppiato Syriza, il contendente più accreditato. Con quasi il 41% dei consensi, il premier uscente Kyriakos Mitsotakis potrebbe però essere distante una manciata di seggi dall’avere la maggioranza semplice nell’Assemblea nazionale ellenica, uno scenario che costringerebbe Nuova democrazia a cercare un alleato per la formazione del nuovo governo. Nella serata di domenica, Mitsotakis ha ribadito la volontà di costituire un esecutivo monocolore, già enunciata in campagna elettorale, e ha quindi espresso l’intenzione di cercare un’affermazione più piena nella seconda tornata di voto, che in base al nuovo sistema elettorale greco prevede un premio di maggioranza alle forze che riescono a raggiungere circa il 38% delle preferenze. Il secondo turno delle elezioni dovrebbe tenersi il 25 giugno, secondo la stampa ellenica, in anticipo di una settimana rispetto a quanto originariamente preventivato: tra poco più di un mese, Nuova democrazia andrà quindi alla ricerca di un successo che permetta all’attuale esecutivo monocolore di proseguire il proprio lavoro.

L’ex primo ministro Alexis Tsipras esce invece come il grande sconfitto. Accreditata dai sondaggi a pochi punti di distanza da Nuova democrazia, Syriza si è trovata invece a prendere la metà esatta dei voti rispetto alla formazione di centrodestra. Un esito molto negativo per Tsipras, che nelle settimane scorse paventava la costituzione di un governo progressista con il Movimento socialista panellenico (PASOK, Panellinio Sosialistiko Kinima) o addirittura di una grande coalizione. Nel Parlamento di Atene siederanno i rappresentanti di soli cinque partiti: oltre a Nuova democrazia e Syriza (20% circa), sugli scranni dell’Assemblea nazionale ci saranno i deputati di PASOK (11,4%), Partito comunista ellenico (KKE, Kommounistiko Komma Elladas; 7,2%) e Soluzione greca (4,4%). Non è invece riuscito a superare la soglia di sbarramento del 3% il Movimento per la democrazia in Europa 2025 (DiEM25, Democracy in Europe Movement 2025), formazione di sinistra fondata e guidata da Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze del governo Tsipras e noto commentatore della politica europea, con toni fortemente polemici verso le autorità di Bruxelles e la direzione socioeconomica scelta dall’Unione Europea.

 

Parlando nella serata di domenica, quando lo spoglio dei voti aveva già fotografato il trionfo di Nuova democrazia, il premier Mitsotakis ha osservato come il messaggio degli elettori sia stato chiaro e in favore di un governo monocolore, «con un orizzonte di quattro anni». Una maggioranza forte, dunque, che non debba cedere a compromessi con le altre forze politiche e che possa proseguire l’opera avviata dopo la vittoria del 2019. Mitsotakis ha poi parlato di una vittoria della «speranza» contro il «pessimismo», rimarcando ancora una volta la volontà di imprimere una svolta economica al Paese. L’esperienza di governo di Nuova democrazia si è del resto contraddistinta proprio per l’obiettivo di stabilizzare le finanze pubbliche e rilanciare la produttività, in un contesto di ostacoli e vincoli esterni determinati dalla devastante crisi avvenuta a cavallo del primo e secondo decennio del secolo. La piattaforma promossa da Mitsotakis e dal suo partito sembra essere stata premiata con convinzione dagli elettori, nonostante i buoni dati economici registrati negli ultimi anni siano stati in parte annullati dagli effetti dell’alta inflazione. Di contro, il risultato deludente delle forze di opposizione, in primis Syriza (-11% rispetto al 2019), sembra confermare il giudizio non particolarmente positivo dei cittadini riguardo l’esperienza del governo Tsipras, a distanza ormai di quattro anni dall’avvicendamento con Mitsotakis alla guida del Paese. Il PASOK ha invece ottenuto una percentuale di voti in linea con i sondaggi, migliorando la performance delle precedenti elezioni, ma non avrà modo di partecipare all’attività dell’esecutivo, come il suo leader Nikos Androulakis auspicava in caso di stallo politico.

Dalle urne è infine arrivata una risposta chiara alla domanda che molti commentatori politici si ponevano alla vigilia del voto, ovvero quanto l’incidente ferroviario di Tempe e lo scandalo di spionaggio politico orchestrato dall’intelligence nazionale avrebbero inciso sull’immagine di Mitsotakis e del suo governo: gli elettori non sembrano aver dato particolare peso ai due temi, almeno non tanto da decidere per un drastico cambiamento della leadership nazionale. La stabilità economica e le prospettive di crescita hanno dunque avuto la meglio su altri temi, almeno in questa tornata. Salvo sorprese, difficilmente il 25 giugno ci saranno cambiamenti in questa tendenza, consegnando con tutta probabilità a Nuova democrazia la possibilità di formare una nuova maggioranza monocolore.

 

Immagine: Kyriakos Mitsotakis tiene un discorso durante una campagna elettorale, Salonicco, Grecia (18 maggio 2023). Crediti: Giannis Papanikos / Shutterstock.com

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Le difficoltà del governo ungherese tra UE e guerra in Ucraina

 

La crisi energetica e l’aumento dei prezzi hanno colpito tutta l’Europa in maniera pressoché uniforme, ma c’è un Paese che sta pagando più del previsto questa combinazione di eventi avversi. Si tratta dell’Ungheria, la cui economia è entrata in sofferenza da diversi mesi e non sembra destinata a riprendersi, complice anche un’inflazione record. A questo si aggiunge l’isolamento politico di Budapest a livello europeo, dovuto principalmente alla posizione ambigua mantenuta dal primo ministro Viktor Orbán di fronte alla guerra in Ucraina. Il capo del governo si è infatti visto costretto ad accettare i pacchetti di sanzioni contro Mosca, dimostrandosi tuttavia restio a “rovinare” il rapporto privilegiato intessuto a livello economico ed energetico con la Russia. In una prima fase, l’esecutivo di Budapest non ha potuto opporsi alle misure decise in tempi molto rapidi dall’Unione Europea (UE) e dai partner NATO, subito dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Con il passare dei mesi ha però cominciato a fissare dei paletti per rallentare l’approvazione dei successivi pacchetti di sanzioni, strappando eccezioni favorevoli per mantenere alcuni dei vantaggi competitivi sul mercato energetico. Il Paese dell’Europa centrale acquista infatti dalla Russia il 65% del petrolio e l’85% dal gas naturale necessari al fabbisogno nazionale. 

 

La crisi economica, sviluppatasi attraverso il rincaro delle materie prime e l’aumento dell’inflazione, ha tuttavia messo in difficoltà il governo di Orbán: nelle scorse settimane Budapest ha dichiarato lo stato d’emergenza energetica, stilando un piano in sette punti per preparare il Paese ad affrontare le ulteriori complicazioni previste per l’inverno. Tra le varie misure introdotte, l’esecutivo mira ad aumentare le capacità di produzione interna, portando il volume di gas naturale estratto a livello nazionale a 2 miliardi di metri cubi annui, dagli attuali 1,5 miliardi. Nei programmi figurano anche un maggiore ricorso alle centrali a carbone e un prolungamento dell’operatività dell’impianto nucleare di Paks. Le autorità ungheresi non fanno mistero di incolpare l’Europa per la crisi energetica, riferendosi alla «guerra prolungata e alle sanzioni di Bruxelles» come elementi determinanti nell’aumento dei prezzi a livello continentale. Il piano di Budapest sembra quindi orientato a dare un segnale ai cittadini, nel timore che il governo Orbán possa perdere il consenso di cui gode nel Paese.

A testimoniare la delicata situazione economica dell’Ungheria è poi la recente decisione della Banca centrale di alzare ancora una volta i tassi di interesse per tentare di contenere l’inflazione, che ha superato il 10%. A questo si aggiunge il peso del mancato esborso dei fondi della Commissione europea per la ripresa post-pandemica: il braccio di ferro tra Bruxelles e Budapest blocca infatti dal 2020 gli oltre 7 miliardi di euro teoricamente stanziati per l’Ungheria, a causa dell’annosa disputa sullo Stato di diritto. La dinamica economica rende infine difficilmente sostenibili tutte le misure introdotte dal governo Orbán in termini di sussidi ai cittadini, compreso l’aumento delle pensioni, che hanno inevitabilmente inciso sul deficit nazionale. La necessità di rivedere la politica fiscale, compresa l’introduzione di una tassa sui lavoratori autonomi, i freelance e le piccole imprese, ha portato migliaia di persone a protestare a Budapest, un sintomo preoccupante per un esecutivo che ha sempre puntato sulla solidità dell’economia per garantirsi il consenso alle urne. 

 

Fattori interni ed esterni impongono dunque a Orbán di rivedere la propria posizione rispetto a dossier cruciali per l’Ungheria, primo tra tutti quello dei rapporti con l’Unione Europea. Secondo diverse fonti interne alla burocrazia di Bruxelles e alle istituzioni ungheresi, il primo ministro sarebbe disposto a cambiare approccio su temi quali la riforma della giustizia, gli appalti pubblici e la lotta alla corruzione, al fine di sbloccare almeno parzialmente i finanziamenti dall’UE. La Commissione potrebbe venire incontro al leader magiaro, nonostante i numerosi attriti avuti in passato e il difficile rapporto creatosi con sostanzialmente tutto il Consiglio europeo dopo l’invasione dell’Ucraina. Le concessioni di Orbán dovrebbero però essere sostanziali, segnando un effettivo cambio di passo sullo Stato di diritto e aprendo le prospettive a una serie di ulteriori modifiche negli equilibri istituzionali di Budapest. “Svanita” in aprile la possibilità che dalle urne arrivasse una sconfitta politica per Orbán e il partito Fidesz, l’UE deve gestire la relazione con il premier ungherese. Uno dei vantaggi di Bruxelles passa dal fatto che entro la fine del 2022 dovrà essere comunque approvato il Piano di ripresa e resilienza dell’Ungheria, pena la perdita del 70% dei fondi garantiti dal programma. Il governo di Budapest ha quindi pochi mesi per convincere le autorità UE a sbloccare i finanziamenti. Per usare la tattica del bastone e della carota, la Commissione nelle scorse settimane ha deciso di deferire l’Ungheria davanti alla Corte di giustizia dell’UE per la cosiddetta legge sulla tutela dei bambini, che violerebbe i diritti delle persone LGBTIQ e le norme del mercato interno, contenendo disposizioni “ingiustificate” rispetto agli obiettivi perseguiti. Budapest è stata deferita anche per la chiusura dell’emittente Klubrádió, considerata tra gli ultimi media indipendenti rimasti nel Paese. Difficilmente le autorità di Bruxelles potranno “piegare” Orbán su tutti i contenziosi apertisi in questi anni; allo stesso modo, il governo ungherese sa di non avere tempo da perdere e di dover accettare, almeno parzialmente, i tanto aborriti “Diktat” dell’UE sui temi ritenuti “insindacabili” nella retorica sovranista di Budapest. Servirà in ogni caso molto lavoro da entrambe le parti per giungere a un compromesso soddisfacente. 

 

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Immagine: Viktor Orbán (10 febbraio 2020). Crediti: photocosmos1 / Shutterstock.com

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Grecia, verso il voto

 

Il 21 maggio si terranno in Grecia le elezioni parlamentari, con l’attuale premier Kyriakos Mitsotakis che proverà a confermarsi alla guida del Paese. La domanda che molti cittadini si porranno, recandosi alle urne, è se davvero il governo di centrodestra di Nuova democrazia (ND, Nea Dimokratia) sia riuscito a imprimere una svolta alla Grecia, colpita ormai più di 10 anni fa da una devastante crisi economica. I sondaggi sembrano assegnare a Mitsotakis un lieve vantaggio sul partito Syriza, guidato dal suo predecessore alla guida dell’esecutivo, Alexis Tsipras, ma non abbastanza per una vittoria già al primo turno. Il sistema elettorale ellenico si compone infatti di una doppia tornata, la prima basata sul proporzionale e la seconda, in programma il 2 luglio, a quasi un mese e mezzo di distanza, che prevede uno sbarramento al 37-38% dei voti per la costituzione di una maggioranza. Interessante in questa prospettiva è il ruolo che potrebbe svolgere il Movimento socialista panellenico (PASOK, Panellinio Sosialistiko Kinima), forza di governo negli anni precedenti la crisi economica e potenziale componente di un’alleanza di sinistra con Syriza. La differenza tra Nuova democrazia e il partito di Tsipras è infatti data dalla posizione rispetto a un eventuale accordo di coalizione: rigettato ‒ almeno in questa fase ‒ da Mitsotakis e invece accolto, seppur con riserva, dal suo predecessore alla guida del Paese. Questo scenario potrebbe contribuire a uno stallo sostanziale anche dopo il secondo turno, qualora i voti di Nuova democrazia non risultassero sufficienti per dare vita a un governo di maggioranza ma anche se per Syriza e PASOK dovesse diventare impossibile costituire un esecutivo. Altre due forze di sinistra dovrebbero superare la soglia di sbarramento del 3% per entrare in Parlamento, vale a dire il Partito comunista ellenico (KKE, Kommounistiko Komma Elladas) e il Movimento per la democrazia in Europa 2025 (DiEM25, Democracy in Europe Movement 2025), fondato e guidato dall’ex ministro delle Finanze del governo Tsipras, Yanis Varoufakis. Sembra improbabile però che possa nascere un esecutivo che coinvolga tutto il fronte della sinistra, visti i veti incrociati già espressi dai vari leader. 

Anche l’opzione di un’eventuale grande coalizione non pare percorribile: il timore di diversi commentatori politici in Grecia e all’estero è perciò quello di assistere a un’ulteriore polarizzazione politica e nella società, in un Paese che deve ancora riprendersi dai drammatici effetti della crisi finanziaria avvenuta all’inizio dello scorso decennio. In campagna elettorale Mitsotakis e i suoi rivali hanno messo al centro l’economia e i servizi sociali. Il premier uscente ha evidenziato i buoni risultati del suo esecutivo, testimoniato dalla crescita del PIL e dalla creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma l’opposizione lo ha criticato per le difficoltà che tuttora affliggono i cittadini, in primis per l’elevato tasso di inflazione. Di contro, il programma elettorale di Syriza ha prestato il fianco per quelle che sono considerate promesse difficilmente realizzabili, come la riduzione dell’IVA e delle accise. Rafforzare lo Stato sociale e il sistema previdenziale, oltre a garantire un corso stabile dell’economia, sono invece gli obiettivi di PASOK.

 

Fino a qualche mese fa il percorso verso la riconferma di Nuova democrazia alla guida della Grecia sembrava privo di ostacoli sostanziali, a fronte anche delle divisioni nell’opposizione. Mitsotakis era uscito indenne anche dallo scandalo delle intercettazioni emerso la scorsa estate, quando si era scoperto che i servizi segreti ellenici avrebbero messo sotto controllo il telefono personale del leader di PASOK, Nikos Androulakis, per ragioni mai rese note in quanto legate alla sicurezza nazionale. Il fatto che l’intelligence greca dipenda dall’ufficio del primo ministro ha ovviamente creato grandi polemiche nel Paese, che però non sembravano aver inciso più di tanto sui sondaggi. Diverso è stato l’effetto della tragedia ferroviaria di Tempe, avvenuto il 28 febbraio di quest’anno. Nello schianto sono decedute 57 persone, in quello che è stato l’incidente con più vittime nella storia della Grecia.  Le ingenti proteste di piazza e gli scioperi indetti dai sindacati hanno aumentato la pressione sul governo affinché venisse istituita a stretto giro una commissione di inchiesta sull’accaduto. Sempre per queste ragioni, Mitsotakis si è inoltre trovato costretto a posticipare le elezioni da aprile a maggio. Ad incidere sulla campagna elettorale ci ha pensato anche la Corte suprema, che ha stabilito il divieto di partecipazione alle parlamentari al Partito nazionale, erede della formazione di ispirazione neonazista Alba dorata, a sua volta sciolta dalla magistratura nel 2020 in quanto ritenuta una “organizzazione criminale”. Fondato dall’ex membro di Alba dorata Ilias Kasidiaris, attualmente in carcere dove dovrà scontare 13 anni di reclusione, il Partito nazionale era accreditato nei sondaggi come una delle formazioni che avrebbero superato la soglia di sbarramento del 3%. Nella sentenza che ha escluso il Partito nazionale dalle elezioni, la Corte suprema ha fatto riferimento alla Costituzione greca e agli emendamenti di recente adozione che vietano la partecipazione al voto a tutte le forze guidate da politici condannati per reati gravi o che siano considerate contro “il libero funzionamento democratico” delle istituzioni.

 

Immagine: Kyriakos Mitsotakis arriva per un vertice dell’Unione Europea a Bruxelles, Belgio (23 marzo 2023). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Tra Paesi del Baltico e Cina, una lunga serie di tensioni

Si riaccendono le tensioni tra la Cina e i Paesi del Baltico, dopo la querelle diplomatica che ha fatto seguito alle dichiarazioni dell’ambasciatore cinese in Francia, Lu Shaye. Quest’ultimo, nel corso di un’intervista all’emittente francese LCI, ha sollevato dubbi sull’indipendenza e la sovranità delle nazioni ex sovietiche, con un riferimento diretto all’Ucraina e al controllo della Crimea. Lu Shaye ha affermato che mancherebbe un accordo internazionale che confermi lo status di Paesi sovrani di alcuni degli Stati sorti con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il discorso dell’ambasciatore cinese è sembrato indirizzato anche a Estonia, Lettonia e Lituania, le tre nazioni baltiche che negli ultimi anni hanno avuto dei dissidi con Pechino. Le parole di Lu Shaye hanno del resto echeggiato il tono usato dal presidente russo Vladimir Putin nei confronti di altri Paesi ex sovietici, cui spesso il titolare del Cremlino e altri elementi appartenenti alla sua cerchia hanno riservato commenti sprezzanti. Le cancellerie di Tallinn, Riga e Vilnius hanno risposto duramente alle dichiarazioni dell’ambasciatore cinese, chiedendo al governo di Pechino di smentire le esternazioni del suo rappresentante a Parigi. La sede diplomatica in Francia ha risposto prontamente, sconfessando Lu Shaye e definendo «espressione di una visione personale» il suo pensiero sulla Crimea e le nazioni ex sovietiche. Il caso è rientrato solo in parte:  Lu Shaye è infatti noto per uno stile retorico aggressivo e in conformità con la linea dei “lupi guerrieri”, ovvero i diplomatici cinesi che negli ultimi anni, sotto la presidenza di Xi Jinping, hanno messo in mostra una tendenza aggressiva e fortemente propagandistica negli scambi pubblici. L’ambasciatore cinese è quindi esponente di una visione ben radicata a Pechino, motivo per cui in diversi governi europei le parole di Lu Shaye sono state prese piuttosto sul serio. La Cina ha del resto assunto una posizione ambigua fin dalle prime fasi dell’invasione dell’Ucraina, mantenendo una neutralità di facciata che appare in evidente contraddizione con la difesa dei principi di sovranità e integrità territoriale di cui spesso Pechino si è fatta portavoce nel contesto internazionale. 

 

Le tre nazioni del Baltico hanno colto i segnali più allarmanti nella retorica cinese e nelle affermazioni di Lu Shaye, perché già da anni abituate a confrontarsi con azioni ostili a livello politico, economico e diplomatico da parte del gigante asiatico. È il caso in particolare della Lituania, che nel 2021 si è trovata coinvolta in una dura disputa commerciale con la Cina. La situazione si è incrinata quando l’esecutivo di Vilnius ha deciso di abbandonare il formato cosiddetto 16+1, che riuniva Pechino e i Paesi dell’Europa centrale e orientale dell’ex blocco comunista. La Lituania, come altre nazioni, aveva aderito all’iniziativa cinese con l’obiettivo di migliorare il saldo commerciale degli scambi con la potenza asiatica  e aumentare le proprie esportazioni. A fronte di risultati deludenti e con l’impressione di ritrovarsi all’interno di un meccanismo con obiettivi più geopolitici che economici, il governo di Vilnius ha fatto marcia indietro. Estonia e Lettonia hanno seguito il percorso della Lituania, costituendo un fronte baltico di opposizione alla Cina e alle sue ambizioni di penetrare i mercati della regione dell’Europa centro-orientale, in particolare nell’ambito infrastrutturale e delle industrie strategiche. L’uscita della Lituania dal formato 16+1, concisa con un’apertura diplomatica verso Taiwan, ha provocato una risposta coercitiva da parte cinese, che nel dicembre 2021  ha deciso di fermare completamente le esportazioni lituane. Vilnius ha inoltre accusato Pechino di avere lanciato attacchi cibernetici contro le proprie istituzioni, in una dinamica che ha visto l’intervento dell’Unione Europea a difesa del proprio Stato membro. Bruxelles ha accusato la Cina di «pratiche commerciali illegali», appellandosi all’Organizzazione mondiale del commercio. Nel frattempo le autorità lituane hanno permesso a Taiwan di aprire un ufficio di rappresentanza nel Paese, di fatto la prima ambasciata inaugurata sul suolo europeo dopo circa 18 anni dall’ultima, aperta in Slovacchia nel 2003. In questo contesto, è importante notare che la sede diplomatica di Vilnius va sotto il nome di Taiwan, e non Taipei, come d’uso in quasi tutte le altre città in cui la nazione asiatica ha stabilito una rappresentanza. La Lituania ha anche espresso critiche sulle violazioni dei diritti umani in Cina, con il Parlamento che ha votato all’unanimità a metà 2021 una risoluzione di condanna della persecuzione della popolazione uighura nello Xinjiang, definita un «genocidio», e chiesto la revoca della legge sulla sicurezza nazionale imposta a Hong Kong. Queste iniziative hanno chiaramente contribuito ad esacerbare le tensioni diplomatiche ed economiche con Pechino, che hanno però radici già nei primi anni dopo l’indipendenza della nazione baltica dall’Unione Sovietica, quando le autorità di Vilnius strinsero i legami con il Dalai Lama, che ha visitato in più occasioni il Paese.

Le affermazioni di Lu Shaye rientrano dunque in una dinamica di confronto spesso sopra le righe tra la Cina e i tre Stati del Baltico, che non sembra destinata a migliorare nel prossimo futuro, vista la distanza tra le parti riguardo la guerra in Ucraina e la condanna dell’aggressione russa. 

 

Immagine: Mappa degli Stati baltici con Lituania, Lettonia Estonia, Russia, Bielorussia e Polonia, Europa. Crediti: Michele Ursi / Shutterstosk.com

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Biden, l’Irlanda e i nuovi assetti post-Brexit

Il presidente statunitense Joe Biden si è recato in settimana in Irlanda e Irlanda del Nord, a 25 anni dalla sigla del Good Friday Agreement (Accordo del venerdì santo), che nel 1998 sancì l’inizio del processo di pace a Belfast, tra la componente cattolica e repubblicana e quella protestante e unionista della popolazione. Una visita altamente simbolica e al contempo di rilevante impatto politico: di origine irlandese, Biden ha da sempre prestato grande attenzione a quanto avveniva nella terra dei propri avi e con la sua elezione alla presidenza statunitense sono aumentate le indiscrezioni circa un rinnovato interesse di Washington nella risoluzione delle dispute che riguardano l’Irlanda del Nord e gli effetti della Brexit.

 

Il viaggio oltreoceano di Biden era stato anticipato da tempo e secondo diversi commentatori è stato una delle motivazioni che hanno portato il governo britannico di Rishi Sunak ad accelerare la conclusione dell’intesa post-Brexit con l’Unione Europea (UE), siglata lo scorso 27 febbraio a Windsor con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. La Casa Bianca aveva infatti fatto pressioni affinché le autorità di Londra trovassero finalmente un accordo con Bruxelles in merito al protocollo sull’Irlanda del Nord, il nodo più complesso da risolvere nel contesto creatosi dopo l’uscita del Regno Unito dall’UE. All’epoca, l’esecutivo guidato da Boris Johnson non era riuscito a elaborare una soluzione per consentire un costante transito delle merci tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna, creando un vulnus non indifferente all’economia della nazione devoluta. Questa dinamica era stata foriera di crescenti tensioni in Irlanda del Nord, destando preoccupazioni circa la stabilità del sistema nato dopo la firma dell’Accordo del venerdì santo. Da qui la volontà di Biden di vedere presto risolte le problematiche riguardanti il protocollo post-Brexit, possibilmente prima della sua visita.

 

L’intesa raggiunta tra Regno Unito e Commissione europea non è però bastata per calmare gli animi a Belfast, dove ormai dal maggio 2022 permane uno stallo tra i partiti dello Stormont, il Parlamento locale. Da quasi un anno il Partito unionista democratico (DUP, Democratic Unionist Party) ostacola infatti la formazione del governo di condivisione del potere con i repubblicani dello Sinn Féin, uscito vincitore dalle urne. Il DUP si oppone anche al contenuto dell’Accordo di Windsor tra Londra e Bruxelles, nonostante l’istituzione del cosiddetto “freno di Stormont”, un meccanismo che consentirebbe ad almeno 30 deputati dell’assemblea legislativa nordirlandese di esprimere eventuali preoccupazioni sull’imposizione di normative europee nella nazione devoluta, con conseguente potere delle autorità britanniche di bloccare l’introduzione di queste leggi. L’ostinazione degli unionisti del DUP costituisce dunque in questo momento una ulteriore complicazione nel delicato quadro istituzionale dell’Irlanda del Nord.

 

Ben consapevole dello stato delle relazioni a Belfast, Biden si è proposto di negoziare con i cinque principali partiti del Parlamento locale, al fine di raggiungere un compromesso funzionale all’interesse pubblico e a preservare la stabilità. Oltre a confrontarsi con i rappresentanti delle forze politiche dello Stormont, il presidente statunitense ha anche tenuto un discorso all’Università dell’Ulster, in cui ha ricordato come la pace in Irlanda del Nord non vada data per scontata, dopo il decennale conflitto che ha insanguinato la nazione.  Le istituzioni democratiche stabilite attraverso l’Accordo del venerdì santo rimangano fondamentali per il futuro dell’Irlanda del Nord, ha spiegato Biden, che ha accuratamente aggiunto di non voler imporre una decisione ai partiti locali in merito alla ripresa delle attività dello Stormont e all’accettazione dell’Accordo di Windsor. Nel corso della visita, proseguita a Dublino, Biden ha provato in diverse occasioni a far valere le proprie origini irlandesi più che il peso istituzionale derivante dal suo incarico di presidente degli Stati Uniti. Una scelta ponderata, vista la delicatezza del tema affrontato e l’importanza di arrivare a risultati concreti proprio in occasione dei 25 anni dalla firma degli Accordi del venerdì santo.

 

Difficile per il momento fare un bilancio della missione di Biden: il DUP, attraverso il leader Jeffrey Donaldson, ha mostrato apprezzamento per l’iniziativa del titolare della Casa Bianca, ma ha altresì ricordato come non spetti a figure esterne decidere quello che accade in Irlanda del Nord. Michelle O’Neill, esponente di prima linea del Sinn Féin, ha invece evidenziato come Biden abbia trasmesso «un messaggio di speranza e opportunità» lanciando al contempo «un segnale chiaro» al DUP. Anche il premier britannico Rishi Sunak ha evidentemente cercato la sponda del presidente USA per sbloccare una situazione piuttosto complicata. Sunak ha saputo lavorare in maniera costruttiva con la Commissione europea per mettere fine alla disputa sul protocollo nordirlandese, laddove erano falliti gli approcci “aggressivi” dei suoi predecessori a Downing Street, Boris Johnson e Liz Truss. L’opposizione del DUP rischia però di impedire una vera conclusione alla questione degli accordi post-Brexit, minacciando di prolungare le difficoltà politiche ed economiche dell’Irlanda del Nord.

 

Immagine: Da sinistra, Joe Biden e Rishi Sunak, San Diego, Stati Uniti (15 marzo 2023). Crediti: Niamh Blanchard / Shutterstock.com

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La Finlandia vira a destra

 

La Finlandia vira a destra. Dopo quasi quattro anni di governo di centrosinistra guidato dalla premier Sanna Marin, gli elettori hanno premiato due forze conservatrici, vale a dire il Partito di coalizione nazionale (KOK, Kansallinen Kokoomus) e il Partito dei finlandesi (SP, Perussuomalaiset), che in totale hanno ricevuto oltre il 40% delle preferenze. I Socialdemocratici (SDP, Suomen Sosialidemokraattinen Puolue) di Marin, arrivati terzi, sono riusciti a migliorare il risultato delle elezioni del 2019 (dal 17,7% al 19,9% di ieri) e sono emersi come l’unica formazione della coalizione di governo uscente a guadagnare seggi nell’Eduskunta, il Parlamento nazionale di Helsinki. Il sorpasso subito da parte di KOK e SP pone però fine all’esperienza da primo ministro di Marin, che dovrà probabilmente cedere tale incarico al leader del Partito di coalizione nazionale, Petteri Orpo.

Quest’ultimo si è fatto portavoce in campagna elettorale delle preoccupazioni di parte dell’elettorato rispetto al tema dell’economia, in particolare all’aumento del debito pubblico registrato in Finlandia negli ultimi quattro anni, passando dal 65% al 71% del prodotto interno lordo. Un dato allarmante in un Paese da sempre attento alle politiche di bilancio: KOK ha puntato su un ritorno all’austerità, criticando Marin e il suo esecutivo per una presunta gestione “spensierata” delle finanze statali. La premier uscente ha invece difeso la linea adottata a partire dal 2020, di fronte a due crisi di enorme portata come quella derivante dalla pandemia da Covid-19 e quella legata all’invasione dell’Ucraina. Marin ha rivendicato la necessità di sostenere cittadini e imprese a fronte delle difficoltà emerse negli ultimi anni, promettendo in caso di conferma al governo un futuro aumento della spesa per l’istruzione e la sanità. Orpo non ha potuto invece fare leva sulla questione della sicurezza, dal momento che l’adesione alla NATO, conseguita proprio a pochi giorni dalle elezioni, ha visto sostanzialmente compatti tutti i partiti dell’arco parlamentare finlandese. KOK è stata però una delle poche formazioni a propugnare l’ingresso nell’Alleanza atlantica in tempi non sospetti, vale a dire prima del 24 febbraio 2022, quando la percezione di aggressività della Russia non era ancora un argomento capace di mobilitare l’intera opinione pubblica e le autorità di Helsinki preferivano mantenere la politica di “buon vicinato” con Mosca. In campagna elettorale, il Partito di coalizione nazionale ha quindi scelto di virare sui temi economici, che hanno un effetto meno polarizzante nel largo fronte conservatore a cui si prefigge di parlare il KOK. 

 

Orpo avrà ora l’onere di avviare i negoziati per formare una nuova maggioranza, terreno non facile vista la frammentata composizione dell’arco parlamentare emersa dalle urne. Il tandem tra i liberalconservatori di KOK e i populisti di destra di SP pareva realizzabile già in campagna elettorale, ma allo stato attuale sembra percorribile solo tramite un governo di minoranza. In base alle proiezioni, infatti, i seggi assegnati a KOK e SP non sarebbero sufficienti a raggiungere i 101 necessari per ottenere la fiducia, costringendo le due formazioni ad includere un eventuale terzo partner nella coalizione. In questa prospettiva, il Partito di centro (KESK, Suomen Keskusta) risulta il principale indiziato, nonostante il forte calo di consensi riscontrato rispetto al 2019. Uno scenario alternativo potrebbe essere quello della “grande coalizione” tra KOK, SDP e altre forze, che permetterebbe di tenere fuori dal governo il Partito dei finlandesi e il loro approccio euroscettico. Le differenze emerse tra i conservatori e i socialdemocratici sulle questioni economiche restano tuttavia un ostacolo non da poco nella prospettiva di un esecutivo di compromesso tra le due formazioni.

 

Rispetto ad altre nazioni scandinave, la Finlandia si distingue però per una maggiore tendenza alla cooperazione tra i partiti, come recentemente testimoniato dai governi di coalizione “arcobaleno” di Jyrki Katainen e Alexander Stubb nella prima metà dello scorso decennio. Spetterà in ogni caso a Orpo e al suo partito stabilire la linea da seguire nei negoziati e valutare quale scenario di alleanze avrà la maggiore possibilità di successo, in un contesto in cui le previsioni di crescita economica per la Finlandia restano piuttosto basse rispetto alla media europea, almeno per il 2023, mentre il dato sull’inflazione sembra orientato verso un costante calo entro parametri più rassicuranti. Divenuta uno dei volti più noti nella politica europea, Marin esce invece sconfitta da questa tornata elettorale e pare destinata a un quadriennio tra i banchi dell’opposizione, nonostante il buon risultato ‒ in termini assoluti ‒ ottenuto dai Socialdemocratici.

 

Immagine: Petteri Orpo (5 novembre 2018). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock

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La Finlandia più vicina all’ingresso nella NATO

 

Dopo mesi di attesa, sembra essersi ormai sbloccato il processo di adesione della Finlandia alla NATO. Fondamentale è stata la decisione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di dare via libera alla ratifica da parte del Parlamento di Ankara della domanda presentata da Helsinki all’Alleanza atlantica. Il voto nella Grande Assemblea nazionale turca dovrebbe tenersi nelle prossime settimane o comunque prima delle elezioni presidenziali, previste per il 14 maggio. Una volta “caduto” l’ostacolo costituito negli ultimi mesi dalla posizione della Turchia, anche l’Ungheria ha annunciato di voler ratificare a stretto giro l’adesione della Finlandia, fissando il voto per il 27 di marzo. L’Assemblea di Budapest ha finalmente approvato la domanda presentata dalle autorità finlandesi con 182 voti favorevoli e solo 6 contrari. Con quello ungherese, sono ormai 29 su 30 i Parlamenti che hanno dato parere positivo all’ingresso di Helsinki nell’Alleanza, con l’unica eccezione costituita da quello turco.

 

Rimasto “arbitro” definitivo sulle sorti di Finlandia e Svezia, Erdoğan ha quindi confermato il ruolo assolutamente centrale che ha assunto nel processo di allargamento della NATO, approvando di fatto l’ingresso di Helsinki ma continuando a bloccare quello di Stoccolma. Il leader turco è riuscito a dividere le due nazioni scandinave nel loro percorso verso l’Alleanza atlantica, che era stato avviato congiuntamente nella scorsa primavera, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina. L’Ungheria ha seguito “a distanza” le scelte della Turchia, provando probabilmente a utilizzare il dossier sull’adesione a proprio favore in altri contesti. In questo modo, Budapest ha confermato la posizione ambigua tenuta sul tema della sicurezza euroatlantica, messa in evidenza anche nelle discussioni in seno all’Unione Europea sui pacchetti di sanzioni contro la Russia.

Il caso turco è però diverso, vista la posta in gioco con le due nazioni scandinave e l’accordo tripartito firmato a Madrid lo scorso giugno, in cui Stoccolma e Helsinki si sono impegnate a perseguire determinati obiettivi in materia di antiterrorismo. A distanza di 9 mesi, la Svezia si trova ancora a pagare i numerosi contrasti emersi con la Turchia sui dossier di sicurezza, in primis il presunto sostegno prestato ai militanti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan), considerato un gruppo terrorista da Ankara, ma anche i roghi del Corano organizzati da provocatori sovranisti a Stoccolma e in altre città svedesi. 

La dinamica con cui Erdoğan ha dato la propria approvazione all’adesione della Finlandia è stata piuttosto teatrale, con l’invito a Istanbul dell’omologo Sauli Niinisto per annunciargli di persona la scelta fatta: un modo per lanciare al contempo un segnale al governo svedese, “colpevole” di non aver ascoltato le numerose richieste della Turchia. Le autorità finlandesi si sono dunque trovate nella scomoda posizione di dover mostrare gratitudine per il “sultano” Erdoğan e al contempo dover ribadire l’asse nordico con la Svezia, auspicando una pronta conclusione dell’iter per i partner scandinavi. La reazione di Stoccolma è stata quella di chi ha preso ormai atto da tempo dell’impossibilità di accedere alla NATO a stretto giro: l’esecutivo svedese ha espresso già nei mesi scorsi la consapevolezza di non poter offrire molto più di quanto già presentato ad Ankara, nel difficile equilibrio tra il compiacimento di un potenziale ‒ seppur scomodo ‒ alleato e la volontà di non ledere la propria sovranità, varcando la simbolica soglia delineata dalla tradizione di accoglienza del Paese e di tutela dello Stato di diritto

 

La NATO ha a sua volta risposto alla mossa di Erdoğan mostrando pragmatismo e pazienza. Il segretario generale Jens Stoltenberg ha accolto con ovvio favore il prossimo ingresso della Finlandia nel novero degli alleati, pur sottolineando al contempo l’importanza di sbloccare quanto prima l’adesione della Svezia. Stoltenberg ha citato ragioni di sicurezza e unità a sostegno della causa svedese, continuando a evitare di puntare il dito sulla Turchia e le sue richieste. Dal punto di vista pratico, è difficile pensare a uno stallo del processo di ratifica dell’adesione svedese che possa protrarsi troppo a lungo, soprattutto se la Finlandia dovesse divenire a stretto giro un Paese membro della NATO a tutti gli effetti, ovvero prima del summit di Vilnius di luglio. Con il successivo ingresso della Svezia, l’Alleanza chiuderebbe l’arco nordico, che andrebbe dall’Islanda fino al Baltico, assicurando una completa linea di difesa contro qualsiasi minaccia provenga da quella direzione e rafforzando il controllo sulla porzione di Artico che si estende sopra l’Europa e il Nord America.

Nel frattempo Stoccolma può già oggi godere di garanzie di sicurezza da parte della NATO, oltre ad aver rafforzato i legami militari con i Paesi vicini. La scorsa settimana i comandanti delle forze aeree di Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca hanno infatti siglato una lettera di intenti per creare una difesa aerea nordica unificata, al fine di contrastare quella che viene percepita come una “crescente minaccia” da parte della Russia. La Scandinavia ragiona dunque come se tutte le sue nazioni facessero parte della NATO, anche se per completare formalmente l’adesione di Stoccolma bisognerà aspettare almeno fino a metà maggio, quando si deciderà il nuovo presidente della Turchia.

 

Immagine: Sauli Niinistö (17 maggio 2022). Crediti: Liv Oeian / Shutterstock

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Il confronto tecnologico USA-Cina passa anche attraverso l’olandese ASML

 

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina si combatte anche in Europa. L’ultimo sviluppo di questa competizione è infatti legato all’azienda olandese ASML (Advanced Semiconductor Materials Lithography), specializzata nella produzione di macchinari per la fabbricazione dei chip più avanzati sul mercato globale, a cui il governo dei Paesi Bassi ha imposto un parziale divieto di esportazione verso la Cina. ASML non potrà vendere al gigante asiatico le ultime versioni dei macchinari a litografia DUV (Deep UltraViolet) e gli ancora più innovativi EUV (Extreme UltraViolet), necessari per ottenere semiconduttori di dimensioni estremamente ridotte, ovvero quelli che si applicano a dispositivi di uso quotidiano, come gli smartphone, fino a strumenti più complessi, che potrebbero determinare i futuri sviluppi dell’innovazione in ambito digitale e dell’intelligenza artificiale, così come in campo militare. Gli Stati Uniti hanno quindi deciso di utilizzare il proprio peso politico per contrastare l’ascesa tecnologica del competitor cinese, facendo leva su un attore fondamentale per la supply chain (catena cliente-fornitore) globale come ASML. 

 

La compagnia olandese, con base a Veldhoven, è l’unica al mondo che produce i macchinari necessari per fabbricare i microchip inferiori a 7 nanometri, esercitando un sostanziale monopolio a livello internazionale in questa peculiare nicchia di mercato. Non sarebbe eccessivo definire ASML come “l’azienda più importante di cui non avete mai sentito parlare” considerando il suo ruolo cruciale nello sviluppo dell’era digitale e il relativo anonimato di cui il gruppo ha goduto fino a poco tempo fa. Le tensioni commerciali tra Washington e Pechino hanno però cambiato questa dinamica, elevando la tecnologia relativa ai microchip a terreno di scontro globale. La decisione imposta dal governo olandese ad ASML arriva del resto su indicazione “diretta” degli Stati Uniti: a gennaio 2023, il primo ministro Mark Rutte è stato ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden, occasione nella quale è stato discusso il tema della sospensione delle esportazioni di strumenti critici alla Cina. L’incontro non ha portato ufficialmente ad un impegno delle autorità olandesi sulla questione, ma a inizio marzo la ministra del Commercio dei Paesi Bassi, Liesje Schreinemacher, ha annunciato in una lettera al Parlamento che è in programma entro l’estate l’introduzione di nuove restrizioni all’esportazione di tecnologia sui semiconduttori, per proteggere la sicurezza nazionale. Non sono infatti mancati i sospetti su attività di spionaggio industriale portate avanti da Pechino attraverso attacchi informatici e la presenza di agenti tra gli ingegneri e gli studenti cinesi che lavorano nelle aziende e nei centri di ricerca olandesi.

L’amministrazione Biden non è stata la prima a preoccuparsi per gli affari di ASML con la Cina: già con la presidenza di Donald Trump si era avuto un primo approccio verso il governo dell’Aja e l’azienda di Veldhoven, nel 2018, all’inizio dello scontro commerciale tra Washington e Pechino. Ulteriori contatti erano seguiti nel 2019, quando i funzionari USA avevano sollevato dubbi sull’utilizzo da parte cinese dei macchinari per la produzione di chip a fini militari. A seguito di queste indicazioni, ASML aveva dovuto sospendere le esportazioni alla Cina per un periodo di tempo non definito, a causa del mancato prolungamento dell’autorizzazione in materia da parte dell’esecutivo olandese. 

 

In base ai dati comunicati da ASML, la quota di fatturato legato alla Cina ammonterebbe a circa il 9% del totale. L’imposizione di uno stop alla vendita verso il gigante asiatico potrebbe dunque venire compensata con una certa facilità dall’azienda olandese, che in un comunicato stampa ha già provveduto a ridimensionare l’impatto della decisione del governo Rutte.  Per rendere un’idea del volume di affari di ASML, gli ordini ancora inevasi della compagnia sono pari a 40 miliardi di euro, e i tempi di consegna per uno solo dei macchinari prodotti, per un valore unitario di 150 milioni di euro, sono di circa 18 mesi. Del resto, nel solo 2022 ASML ha registrato vendite nette superiori ai 21 miliardi di euro, con un’aspettativa di crescita per quest’anno di oltre il 25%. Gli scenari futuri inducono dunque a un certo ottimismo dalle parti di Veldhoven, nonostante il peso della battaglia politica condotta tra Washington, Pechino e L’Aja.

 

La Cina ha risposto a stretto giro alla scelta del governo dei Paesi Bassi, definendola come un’interferenza nei normali scambi commerciali e accusando gli Stati Uniti di forzare altre nazioni a prendere misure «contrarie alla concorrenza leale». Resta il fatto che la limitazione delle esportazioni dei più avanzati macchinari di ASML costituisce un vulnus non indifferente per l’industria dei microchip cinese, che rischia di perdere terreno rispetto ai competitor internazionali. In prospettiva futura, Pechino punta all’autosufficienza nel comparto dei chip avanzati, ma le capacità tecnologiche di partner stranieri come ASML sono fondamentali per raggiungere tale obiettivo. Non stupisce dunque la determinazione degli Stati Uniti nell’ostacolare con ogni mezzo la corsa della Cina, considerata un rivale sistemico. La Casa Bianca può fregiarsi di una vittoria, forse momentanea, che potrebbe però avere ripercussioni significative anche in futuro, qualora Pechino non riuscisse a sviluppare un’alternativa autonoma ai servizi offerti da ASML.

 

Resta infine da valutare l’impatto di questa vicenda sugli interessi europei: l’azienda di Veldhoven è uno dei pochi “campioni” industriali di cui il continente può fregiarsi, ma le scelte del governo olandese sembrano rispondere agli interessi di Washington piuttosto che a quelli di Bruxelles. Se l’Unione Europea vorrà sviluppare e mantenere la propria autonomia strategica, dovrà necessariamente imparare a impiegare le proprie risorse perseguendo una visione chiara e coerente, senza condizionamenti esterni che precludano tale obiettivo.

 

Immagine: La sede di ASML a Veldhoven, Paesi Bassi (26 dicembre 2018). Crediti: JPstock / Shutterstock.com

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La Georgia delle manifestazioni di piazza e della traiettoria europeista

 

Una controversa legge che minaccia di impedire in Georgia le attività di ONG e altre entità finanziate dall’estero ha scatenato forti proteste nel Paese del Caucaso, mettendone in discussione la traiettoria di integrazione europea. L’approvazione in prima lettura da parte del Parlamento di Tbilisi del disegno di legge in questione ha portato migliaia di persone a scendere per le strade della capitale, alcune con la bandiera europea, denunciando quella che ritengono una misura repressiva e antidemocratica, che avvicina la Georgia alla Russia invece che all’Unione Europea (UE). Nello specifico, la norma stabilisce che tutte le organizzazioni che ricevono oltre il 20% dei propri finanziamenti dall’estero siano registrate come “agenti stranieri”, per evitare pesanti multe. L’iniziativa è stata presentata lo scorso dicembre dal partito Potere al popolo, facente parte della coalizione di governo guidata da Sogno georgiano ed in prima lettura ha ricevuto il voto favorevole di 76 deputati, contro 13 contrari. Una larga maggioranza sostiene dunque la legge, che ha però suscitato le forti critiche dei principali partner internazionali di Tbilisi, vale a dire gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Sia il Dipartimento di Stato USA che il Servizio europeo per l’azione esterna UE hanno espresso preoccupazione per le decisioni delle autorità georgiane, con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel che ha definito la legge sull’influenza straniera come incompatibile «con il percorso dell’UE che vuole la maggioranza in Georgia». Sul fronte interno è giunta la ferma opposizione della presidente Salome Zurabišvili, che si è espressa con chiarezza contro il progetto di legge e ha a sua volta evidenziato come esso sia contrario ai valori democratici ed europei. Zurabišvili ha parlato di «un bivio molto importante» per il futuro della nazione georgiana, accusando l’esecutivo di agire senza tenere in conto il volere della popolazione e ribadendo l’intenzione di porre il veto sulla normativa. 

 

Di fronte alle pesanti critiche trasversali e alla mobilitazione popolare, il governo di Tbilisi si è trovato costretto a fare retromarcia e ad annunciare il ritiro del disegno di legge sugli agenti stranieri. In una nota congiunta, Sogno georgiano e Potere al popolo hanno riconosciuto le «divergenze di opinione nella società», spiegando però di continuare a sostenere la norma «senza riserve». I due partiti hanno parlato di una presunta «macchina della menzogna» che ha saputo presentare il documento «sotto una luce negativa» e «ingannare una certa parte dell’opinione pubblica». Le due forze di maggioranza hanno accusato l’opposizione di aver coinvolto i giovani «in attività illegali», ovvero le manifestazioni di piazza. Sogno georgiano e Potere al popolo hanno infine ribadito la necessità di un confronto pubblico sulla legge, «una volta passata la reazione emotiva» del pubblico.

 

Parole in linea con la posizione delle autorità di Tbilisi che tende a minimizzare l’impatto della normativa in questione e a smentire qualsiasi influenza di Mosca sulle scelte dell’esecutivo georgiano. Il primo ministro Irakli Garibašvili nei giorni scorsi aveva rilevato come «molte organizzazioni non governative sono direttamente in contrasto con gli interessi dello Stato», avendo ricevuto ingenti finanziamenti esteri per organizzare manifestazioni e altre «provocazioni».  Per questo motivo i critici della legge e le opposizioni politiche hanno denunciato la «sinistra» somiglianza tra le disposizioni decise dal governo di Tbilisi e simili normative attuate in Russia e altri Paesi autoritari. Non è del resto chiara la ragione che ha portato le autorità georgiane a proporre una legge così divisiva, con il rischio di alienarsi il sostegno dei propri principali partner internazionali. Dopo la guerra del 2008, le posizioni di quasi tutti i governi che si sono succeduti a Tbilisi sono state nettamente filoccidentali e antirusse, almeno sul piano retorico. La Georgia ha inoltre compiuto negli ultimi mesi dei passi avanti sul proprio percorso di integrazione europea, benché dopo la presentazione della domanda di adesione all’UE, lo scorso marzo, sia arrivata a giugno la “doccia fredda” con la mancata concessione da parte di Bruxelles dello status di Paese candidato, conferita invece a Ucraina e Moldavia. A Tbilisi sono state date raccomandazioni sulle riforme da adottare per mantenere la traiettoria verso l’UE, un elemento che può avere inciso sulle recenti scelte dell’esecutivo georgiano.

 

Alcuni commentatori sottolineano al contempo come Sogno georgiano e il resto della maggioranza possano aver sottovalutato la reazione dei cittadini, in un Paese in cui del resto non sono una novità le manifestazioni di piazza contro le autorità, anche piuttosto partecipate. Colpire le organizzazioni non governative consentirebbe inoltre di accattivarsi le simpatie delle frange più nazionaliste dell’elettorato, scontento per quella che viene percepita come una forte presenza di interessi stranieri, in particolare dei Paesi occidentali, nella politica locale. La traiettoria scelta dal governo di Tbilisi potrebbe dunque favorire una politica estera “opportunistica” nei rapporti con i partner UE e con gli USA, ma al contempo non in diretto contrasto con la Russia (da notare che Tbilisi non ha adottato le sanzioni legate alla guerra in Ucraina), mentre sul piano interno si cercherebbe di mantenere un controllo su «elementi di disturbo» nella società. La reazione popolare ha finora impedito una svolta in qualche modo autoritaria in Georgia, evidenziando ancora una volta le contraddizioni presenti nel Paese, ma anche il forte sentimento filoeuropeo e filoccidentale dei cittadini. Le proteste innescate dalla legge “contro gli agenti stranieri” sembrano del resto destinate a proseguire, nonostante l’obiettivo di far ritirare la normativa sia stato raggiunto.

 

Immagine: La gente si riunisce vicino all’edificio del Parlamento della Georgia e si mobilita contro l’adozione di un nuovo disegno di legge, Tbilisi, Georgia (8 marzo 2023). Crediti: sirArtur / Shutterstock.com

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Elezioni in Estonia, vince il Partito riformatore di Kaja Kallas

 

Le elezioni parlamentari in Estonia hanno confermato il ruolo centrale nella politica nazionale della prima ministra Kaja Kallas e del Partito riformatore estone (ER, Eesti Reformierakond) da lei guidato, che ha raccolto il 31,2% dei consensi. Il risultato uscito domenica dalle urne sembra aver premiato la posizione della premier uscente sul fronte estero, in particolare per il sostegno incondizionato all’Ucraina. Kallas si trova ora ad avere 37 deputati tra i 101 del Parlamento di Tallinn, il Riigikogu, facilitando il lavoro di consultazione per formare una nuova coalizione di governo. Nettamente staccati nello spoglio delle schede sono risultati i sovranisti del Partito popolare conservatore estone (EKRE, Eesti Konservatiivne Rahvaerakond) e il Partito di centro estone (EK, Eesti Keskerakond), attestatisi rispettivamente al 16,1 e 15,3%. Entrambe le formazioni hanno raccolto meno di quanto ci si attendeva in base ai sondaggi: EKRE ha perso più di due punti percentuali rispetto al 2019, mentre i centristi dell’ex premier Jüri Ratas sono crollati a fronte del 23,1% delle ultime parlamentari, quando erano stati il secondo partito in assoluto.

I riformatori saranno dunque al centro di qualsiasi combinazione per la costituzione di una maggioranza, che potrebbe coinvolgere in prima battuta l’altra forza liberale del Riigikogu, il partito Eesti 200, la vera sorpresa di queste elezioni con il 13,3% dei voti e ben 14 deputati entrati in Parlamento. Basterebbero perciò i rappresentanti di questi due partiti per superare i 51 seggi necessari ad avere una maggioranza semplice, ma è possibile che Kallas voglia rendere più stabile la coalizione ed estenderla ad altre formazioni. L’impronta del futuro governo estone dovrebbe in ogni caso restare quella saldamente europeista e atlantista che ha contraddistinto gli altri due esecutivi guidati dal 2021 a oggi dalla leader dei riformatori. In questo periodo di tempo, Kallas si è imposta all’attenzione continentale come una dei più convinti propugnatori della linea dura contro la Russia in seno al Consiglio europeo, portando l’Estonia ad ottenere una visibilità che va ben oltre le limitate dimensioni geografiche e politiche della nazione baltica. 

 

In campagna elettorale c’è stato un generale consenso sul tema della sicurezza. L’Estonia, come del resto Lettonia e Lituania, nutre da sempre una forte diffidenza verso l’ingombrante vicino orientale. Non sorprende dunque che queste elezioni, giunte a poco più di un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina, abbiano visto i partiti estoni esprimere una posizione sostanzialmente omogenea sul tema della solidarietà verso Kiev e sulla necessità di rafforzare la difesa nazionale, oltre a quella dei Paesi NATO. Differenze di vedute sono emerse però in merito al livello di supporto militare da fornire all’esercito ucraino e all’accoglienza verso coloro che fuggono dalle devastazioni provocate dai bombardamenti russi. Kallas ha perorato la causa del sostegno incondizionato alla causa ucraina, compresa la popolazione civile, insieme all’importanza di mantenere la linea dura sulle sanzioni contro Mosca, in cooperazione con gli alleati e ovviamente nel contesto dell’Unione Europea. Gli avversari della premier uscente l’hanno però attaccata sui dossier economici, in particolare per quella che è stata negli ultimi mesi la vera emergenza interna del Paese, vale a dire l’aumento del costo della vita e il tasso di inflazione, che ad agosto scorso ha addirittura superato il 25%, per poi scendere progressivamente. L’accusa rivolta all’esecutivo è di aver permesso che le conseguenze globali della guerra in Ucraina incidessero pesantemente sulla stabilità finanziaria dei cittadini e dell’economia nazionale, senza saper prendere misure adeguate in risposta a queste tendenze negative.

I risultati delle urne sembrano tuttavia aver premiato le scelte di Kallas, penalizzando al contempo le formazioni più ambigue nei rapporti con Mosca, in primis i centristi. Il partito guidato da Ratas, responsabile della crisi di governo della scorsa primavera, è stato nel tempo il principale punto di riferimento per la vasta comunità russofona dell’Estonia, pari a oltre il 20% della popolazione complessiva del Paese baltico. Fino a un anno fa i centristi vantavano addirittura un accordo di cooperazione con Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, a cui si sono trovati costretti a rinunciare dopo l’invasione dell’Ucraina. Anche il deludente risultato di EKRE e di altre forze di estrema destra evidenzia la volontà dei cittadini estoni di mantenere salda la rotta europea e atlantista del governo, senza sbandamenti che potrebbero risultare pericolosi nell’attuale congiuntura politica internazionale. 

A margine, è opportuno segnalare come il dato relativo all’affluenza, sebbene non particolarmente elevato in termini assoluti, si sia mantenuto in linea con quelli delle ultime elezioni, quasi al 64%. A sorprendere fino a un certo punto, in un Paese considerato tra i maggiormente digitalizzati al mondo, è il numero di cittadini che ha deciso di votare on-line, pari a circa il 51% secondo le stime preliminari. Per la prima volta, gli elettori telematici sono stati più di quelli che si sono recati fisicamente ai seggi.

 

Immagine: Kaja Kallas (24 maggio 2021). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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La Polonia come avamposto NATO sul fronte orientale

 

Nella settimana che segna un anno dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il presidente statunitense Joe Biden si è recato in visita a Kiev e Varsavia, in quello che simbolicamente può essere considerato il viaggio più importante del suo mandato alla Casa Bianca. Oltre a portare di persona il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e al presidente Zelenskij, la missione di Biden è servita a ribadire lo “spostamento tettonico” avvenuto nell’ambito della sicurezza in Europa, laddove le nazioni del fianco orientale dell’Alleanza hanno assunto un ruolo centrale per la difesa presente e futura della NATO. Di fronte alle reticenze e manovre diplomatiche di Germania e Francia, le cancellerie dell’Europa centrorientale continuano infatti a mantenere una posizione salda e convinta di supporto allo sforzo bellico ucraino, professandosi al contempo ostili a qualsiasi compromesso con Mosca.

La partecipazione di Biden alla riunione dei Nove di Bucarest (B9), il formato di sicurezza che raccoglie le nazioni dell’Europa centrorientale facenti parte della NATO (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria) ha messo in evidenza il rinnovato rapporto di sicurezza tra Washington e le capitali regionali. In questo contesto, la Polonia ha guadagnato lo status di primus inter pares rispetto alle nazioni vicine, in particolare quelle del Baltico. Il governo di Varsavia ha saputo approfittare con grande pragmatismo della crisi in Ucraina, rinvigorendo la narrazione di baluardo contro la Russia e rilanciando i progetti di rafforzamento dell’esercito, in cooperazione con gli USA.

 

Affinità politiche erano alla base del consolidamento dei rapporti tra l’amministrazione di Donald Trump e la leadership di Varsavia, che negli scorsi anni avevano addirittura negoziato l’istituzione di una base permanente statunitense in territorio polacco. Con Biden i rapporti non avrebbero dovuto necessariamente migliorare, anzi, ma la guerra in Ucraina ha rapidamente modificato gli equilibri, garantendo alla Polonia di esercitare il proprio peso come avanguardia della NATO sul fronte orientale. Intervenendo alla riunione del formato B9, che si è tenuta proprio a Varsavia, il presidente degli Stati Uniti ha evidenziato l’unità dell’Alleanza di fronte alla minaccia russa e messo in luce la «sacralità» dell’art. 5 del Patto atlantico, per cui i Paesi membri sono pronti a difendere «ogni centimetro della Nato». Biden ha poi ricordato come il passato dei Paesi dell’Europa centrorientale sia garanzia della loro opposizione a Mosca, in memoria dell’oppressione subita ai tempi dell’Unione Sovietica. «La posta in gioco è la libertà», ha detto il presidente USA ai presenti alla riunione, tra cui il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, sottolineando i cambiamenti nell’architettura di sicurezza globale intercorsi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina. Simili argomentazioni hanno caratterizzato anche il discorso che Biden ha tenuto al Castello reale della capitale polacca, in cui il capo dello Stato ha attaccato ancora una volta Vladimir Putin e sancito la contrapposizione tra tirannia e mondo libero. Un «mondo libero» che inizia proprio dal confine della cortina di ferro e dalle ex nazioni del Patto di Varsavia.

 

Per la verità, non tutti i Paesi del formato B9 condividono lo stesso entusiasmo nel sostenere l’Ucraina e contrastare il Cremlino: all’ambiguità piuttosto evidente dell’Ungheria fanno però da contraltare in particolare i tre Stati del Baltico, la Polonia e la Repubblica Ceca, il cui nuovo presidente, Petr Pavel, è un generale in congedo, ex presidente del Comitato militare della NATO. Gli aiuti che le cancellerie di questi Paesi hanno fornito e continuano ad assicurare a Kiev sono testimonianza di un approccio diretto e “realista” al conflitto, distante da quello che contraddistingue invece i governi dell’Europa occidentale, più propensi ad usare leve diplomatiche e meno convinti della necessità di inviare costantemente nuovi armamenti all’Ucraina. Testimonianza di questa “spaccatura” tra falchi e colombe può essere sicuramente la vicenda dei carri armati Leopard di produzione tedesca, sul cui sblocco da parte di Berlino è servito un doppio pressing tra le due sponde dell’Atlantico, oltre al “bluff” della Polonia, che nei giorni immediatamente precedenti al definitivo semaforo verde della Germania aveva annunciato l’intenzione di consegnare comunque in autonomia i tanto agognati mezzi al Paese invaso.

 

Proprio il governo polacco è stato del resto il primo a portare materialmente i Leopard in Ucraina, come rivendicato venerdì scorso dal premier Mateusz Morawiecki, parlando al fianco di Zelenskij a Kiev. In uno scenario postbellico, non è improbabile pensare ad un asse securitario tra Ucraina e Polonia, al di là della NATO, come avanguardia della difesa della regione orientale dell’Europa. Le due nazioni potrebbero costituire il perno intorno a cui si rafforzerà il fronte che va dal Baltico al Mar Nero, in quella che sicuramente diventerà una frontiera molto più militarizzata rispetto a qualche anno fa e che presumibilmente vedrà un sempre maggiore antagonismo nei confronti della Russia.

 

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Immagine: Il presidente polacco Andrzej Duda in occasione della visita di Joe Biden a Varsavia e Kiev, Varsavia, Polonia (21 febbraio 2023). Crediti: DarSzach / Shutterstock.com

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Le dimissioni di Sturgeon e il futuro dell’indipendentismo scozzese

 

Le dimissioni della prima ministra della Scozia, Nicola Sturgeon, potrebbero essere uno spartiacque nella politica della nazione costitutiva britannica e di tutto il Regno Unito. Figura che ha indiscutibilmente legato la propria immagine ed eredità politica all’indipendenza scozzese, Sturgeon ha annunciato la volontà di lasciare l’incarico in maniera inaspettata, aprendo una difficile fase per lo Scottish National Party (SNP), che dovrà nominare il suo successore e trovare un nuovo “condottiero” per la battaglia referendaria. La premier ha fatto un passo indietro spiegando come fosse «il momento giusto» per lei, il partito e la Scozia, ma diversi commentatori hanno associato la decisione di Sturgeon alle difficoltà riscontrate negli ultimi mesi sul tema del secondo referendum per l’indipendenza nazionale e sulla legge che facilitava il cambiamento di genere a livello legale, una normativa che ha attirato molte polemiche e creato una spaccatura nello stesso governo scozzese. La chiave di lettura per cui la premier avrebbe annunciato le dimissioni nel momento in cui la sua stella politica si stava “eclissando” ha trovato spazio sulla stampa britannica, lanciando al contempo un dibattito sulle future prospettive dell’indipendentismo scozzese.

 

Il primo referendum del 2014 si avvicinò al risultato auspicato dall’SNP, con poco meno del 45% dei cittadini che si espresse a favore della costituzione di una nuova nazione sovrana in Scozia. Raccogliendo l’eredità di guidare il Partito nazionale dopo le dimissioni di Alex Salmond, Sturgeon divenne il simbolo di un sentimento frenato alle urne ma vivo e vegeto tra gli oltre cinque milioni di cittadini, rafforzato dopo l’esito “infausto” della Brexit, almeno dalla prospettiva di Edimburgo. In quell’occasione, il 62% degli elettori scozzesi optò infatti per il “remain”, a simboleggiare una differenza di vedute con il resto del Regno Unito, e in particolare con gli inglesi, che ha reso possibile immaginare un secondo referendum per l’indipendenza. Le turbolente vicende politiche britanniche degli ultimi anni non hanno però facilitato il percorso verso un nuovo “indyref”: nonostante le vittorie dell’SNP nelle elezioni, il governo di Londra non si è piegato a consentire una ripetizione del voto popolare. A dare sostegno a Downing Street è arrivata anche la Corte suprema britannica, che ha negato all’Holyrood, l’assemblea di Edimburgo, l’autorità di indire ancora una volta il referendum per l’indipendenza.

 

Per Sturgeon restava la possibilità di imporre la volontà scozzese ai seggi, sfruttando le prossime elezioni generali nel Regno Unito, in programma tra meno di due anni. Una sonora vittoria dell’SNP sarebbe valsa, nei piani della premier, come l’ennesima conferma della spinta indipendentista prevalente tra i cittadini della nazione costitutiva. In realtà, la prospettiva di ottenere la tanto agognata sovranità per la Scozia si è resa più complicata a fronte della sentenza della Corte suprema, delle fratture emerse nel governo locale e non ultima la sensazione che i cittadini pronti a votare davvero per l’indipendenza siano ancora in minoranza, nonostante la Brexit. Le dimissioni di Sturgeon si inseriscono in questa prospettiva, determinando un brusco stop a qualsiasi velleità di Edimburgo di staccarsi da Londra. Il peso di decidere le prossime mosse spetterà all’erede di Sturgeon alla guida dell’SNP, a cui verrà chiesto di assumere con credibilità e inventiva quel ruolo di leader indipendentista che la premier dimissionaria ha saputo incarnare per otto lunghi anni.

 

I principali candidati a succedere a Sturgeon sono gli attuali membri del governo John Swinney, Angus Robertson, Kate Forbes e Humza Yousaf, oltre al capogruppo del partito a Westminster, Stephen Flynn. Tutti sono accomunati dalla volontà di proseguire il percorso verso l’indipendenza, sebbene con modalità e tempistiche in parte differenti. I sondaggi condotti tra la popolazione scozzese non permettono però di individuare un favorito in questa corsa, un elemento che potrebbe scatenare una battaglia politica interna all’SNP e pregiudicarne la tenuta in vista delle future elezioni. A questo si aggiunge l’appuntamento già fissato per il 19 marzo, quando ad Edimburgo si terrà un congresso speciale del partito per discutere la prospettiva indipendentista, potenzialmente senza aver ancora scelto una nuova guida per la formazione.

 

Le difficoltà dell’SNP sono indubbiamente una buona notizia per i conservatori e per i labouristi. Il partito di opposizione vede nella crisi di Edimburgo l’opportunità di riguadagnare seggi in Scozia, fondamentali per cementare il già notevole vantaggio di cui il Labour gode nelle indagini demoscopiche a livello nazionale. Si tratta di circa 20 scranni a Westminster che potrebbero potenzialmente venire sottratti all’SNP, un bottino fondamentale per assicurare una solida maggioranza nelle prossime elezioni generali al leader labourista Keir Starmer. Le dimissioni di Sturgeon sono una buona notizia anche per il primo ministro britannico Rishi Sunak, le cui attenzioni sono maggiormente concentrate al momento sull’Irlanda del Nord e nel  risolvere le complicazioni sorte con l’accordo post-Brexit. Chiunque si insedierà al numero 10 di Downing Street nei prossimi anni avrà in ogni caso interesse a vedere arrestarsi la spinta indipendentista in Scozia, considerando l’effetto a catena che una dichiarazione di sovranità di Edimburgo potrebbe innestare nelle altre nazioni costitutive.

 

Immagine: Nicola Sturgeon (28 aprile 2019). Crediti: Terry Murden / Shutterstock.com

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Come la guerra in Ucraina sta cambiando la tradizionale neutralità svizzera

 

La guerra in Ucraina ha avuto effetti politici e diplomatici di notevole portata in Europa, costringendo tutte le cancellerie del continente a prendere in qualche modo posizione rispetto all’invasione lanciata dal Cremlino. Dalla coesione dimostrata dagli Stati membri Unione Europea (UE) sul fronte delle sanzioni e degli aiuti militari a Kiev, fino alla scelta di Svezia e Finlandia di chiedere l’adesione alla NATO, sono stati molti i “colpi di scena” innescati dall’aggressione russa. Meno discussa, ma ugualmente rilevante, è stata la decisione delle autorità della Svizzera di accantonare la tradizionale postura di completa neutralità e adeguarsi agli altri Paesi dell’Europa occidentale e ai partner internazionali nel colpire la Russia e i suoi interessi economici. La “svolta” nella politica estera della Confederazione elvetica potrebbe però non essere finita: dopo aver attuato le sanzioni, la prossima decisione che eventualmente spetterà a Berna è quella sul via libera all’invio “indiretto” di armamenti all’Ucraina, ovvero attraverso la cessione di sistemi venduti all’estero da aziende svizzere. Si tratterebbe di un notevole passo avanti per le autorità elvetiche, il cui processo decisionale sembra sostanzialmente seguire quello dei Paesi dell’Unione Europea. Come le consultazioni a Bruxelles tra gli Stati membri hanno visto spaccature e crisi momentanee, sistematicamente superate e concluse con l’approvazione dei pacchetti di sanzioni, allo stesso modo le iniziali resistenze della politica svizzera sono venute meno, confermando il saldo posizionamento di Berna nel “fronte occidentale”, contro la Russia e a sostegno dell’Ucraina. 

 

Quello dell’invio di armi costituisce però uno scoglio più difficile da superare. Le istituzioni elvetiche dovrebbero infatti accantonare alcuni principi rimasti immutati per centinaia di anni. La neutralità della Svizzera venne iscritta nel Trattato di Parigi del 1815, ma alcuni storici fanno risalire questa tradizione addirittura al XVI secolo, dopo la sconfitta della vecchia Confederazione nella battaglia di Melegnano (anticamente Marignano) del 1515, esattamente tre secoli prima. Il Paese si è mantenuto neutrale nel corso delle due guerre mondiali e ha aderito alle Nazioni Unite solo nel 2002, quando un secondo referendum in materia trovò il favore della cittadinanza. Se dunque su sanzioni e su congelamento dei beni appartenenti a politici, alti funzionari e oligarchi russi si è scesi a un compromesso in nome della necessità comune in Europa di far fronte al Cremlino, sulla questione delle armi sembra al momento prevalere la fedeltà delle autorità elvetiche ai valori costitutivi. Testimonianza di tutto questo è infatti il veto posto nei giorni scorsi alla Spagna in relazione alla ri-esportazione di armi per la difesa aerea all’Ucraina. Madrid aveva presentato richiesta a gennaio per poter inviare a Kiev due cannoni antiaerei da 35 millimetri fabbricati in Svizzera, ma si è vista respingere l’autorizzazione, come già accaduto alla Danimarca e alla Germania, che volevano fornire alle truppe ucraine mezzi blindati e munizioni prodotti nella Confederazione.

Diverse voci nell’arco parlamentare elvetico hanno invocato una fine di questa politica, permettendo di superare la legge federale sul materiale bellico. I critici evidenziano i limiti del principio di neutralità nell’attuale congiuntura storica; a loro si associano i rappresentanti dell’industria della difesa svizzera, che lamentano come il bando alle esportazioni stia anche complicando la normale attività economica e la competitività delle aziende, a causa dell’impedimento per i potenziali clienti di cedere a loro volta le armi acquistate. Si tratta di una dinamica in qualche modo simile a quella vista con la Germania sul caso dei carri Leopard 2, il cui invio all’Ucraina da parte di terzi era stato per diverso tempo frenato dalla cancelleria e autorizzato solo dopo le pressioni degli alleati e un acceso dibattito interno. L’esecutivo di Berlino ha di fatto preso tempo per ponderare i rischi strategici derivanti da tale decisione, mentre quello di Berna si trova ad affrontare una questione “esistenziale”, che pone interrogativi anche per il futuro del Paese. Per il momento, in favore di un allentamento della Legge federale sul materiale bellico è già arrivato il parere delle commissioni per la politica di sicurezza del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati, i due rami dell’Assemblea federale svizzera. Nei piani dei deputati elvetici si tratterebbe di un’esenzione all’esportazione di materiale bellico di produzione locale applicabile solo ad alcuni Paesi, tra cui l’Italia, la Germania e la Francia, oltre a Stati Uniti e Giappone, pur con ulteriori caveat relativi alle condizioni di belligeranza delle nazioni a cui verranno eventualmente cedute le armi. Rimane tuttavia una divisione tra i partiti svizzeri sui passi da compiere sul tema, così come tra i cittadini, come rivelato da recenti indagini demoscopiche. Il quadro complessivo vede ragioni politiche, economiche e diplomatiche che si intrecciano, costringendo le autorità elvetiche a fare una scelta di campo che potrebbe definitivamente segnare la futura postura del Paese negli affari internazionali.

 

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Immagine: Da sinistra, il presidente svizzero Ignazio Cassis e quello ucraino Volodymyr Zelenskij, Kiev, Ucraina, 20 ottobre 2022. Crediti: photowalking / Shutterstock.com

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Pavel vince le elezioni presidenziali in Repubblica Ceca

 

Il generale in congedo Petr Pavel sarà il prossimo presidente della Repubblica Ceca, dopo aver sconfitto al secondo turno lo sfidante Andrej Babiš, ex premier e figura polarizzante del panorama politico nazionale. La vittoria di Pavel è stata netta, con un distacco di oltre 15 punti percentuali sull’avversario, nonostante Babiš negli ultimi giorni fosse dato in ripresa nei sondaggi. La Repubblica Ceca avrà dunque un nuovo capo dello Stato dopo i due mandati del divisivo Miloš Zeman, che in dieci anni ha spesso oltrepassato i limiti costituzionali del suo ruolo e provato a influenzare l’azione di governo e le dinamiche politiche locali. Pavel è una personalità estremamente distante da quella di Zeman: se il capo dello Stato uscente aveva più volte espresso la propria simpatia per la Russia di Vladimir Putin e per la Cina, senza risparmiare critiche all’Unione Europea (UE), il generale in congedo ha un saldo profilo euro-atlantista, del resto inevitabile per chi nel curriculum può vantare di aver presieduto il comitato militare della NATO dal 2015 al 2018. 

 

Babiš è arrivato alla corsa per le presidenziali forte di una recente assoluzione dall’accusa di frode sui fondi europei, una vicenda che ne aveva condizionato le esperienze politiche negli ultimi anni. Per recuperare lo svantaggio nei sondaggi, Babiš ha deciso di puntare sulle caratteristiche peculiari di Pavel e costruire una campagna elettorale di segno opposto, dimostrando ancora una volta una marcata tendenza a muoversi verso l’elettorato più populista. L’ex primo ministro e leader del partito ANO (Akce Nespokojených Občanů, Azione dei cittadini insoddisfatti) ha accusato lo sfidante di voler portare la Repubblica Ceca in guerra, inserendo nel dibattito il tema del sostegno all’Ucraina e paventando i rischi di un coinvolgimento di Praga nel conflitto. Babiš ha anche attaccato Pavel per il suo percorso da militare, iniziato sotto il regime comunista, e si è spinto addirittura a mettere in discussione gli impegni del Paese in materia di sicurezza e difesa con l’Alleanza atlantica. Non è un caso che il governo di centrodestra in carica, guidato da Petr Fiala, abbia appoggiato l’ex generale, proprio in contrasto con le istanze presentate da Babiš, di fatto leader dell’opposizione nel Parlamento di Praga. A dare sostegno a Pavel sono stati anche i tre principali “sconfitti” del primo turno, ovvero l’economista Danuše Nerudová, arrivata terza, e i senatori Pavel Fischer e Marek Hilšer. Il ballottaggio è stato dunque un momento di confronto tra due diverse visioni del Paese, per quanto quello di presidente sia un ruolo “cerimoniale”. La capacità di Zeman di influenzare in qualche modo i governi che si sono susseguiti nell’ultimo decennio ha però mostrato le potenzialità di tale incarico, rendendo più accesi del solito i toni della campagna elettorale. L’alto tasso di affluenza alle urne, superiore al 70%, dimostra come i cittadini si siano sentiti coinvolti in questo momento della vita politica nazionale.

 

Non è un caso che le prime parole di Pavel da presidente eletto siano state improntate a ricucire gli strappi nell’opinione pubblica e a riscoprire i valori «di decenza, rispetto e umiltà». Il generale in congedo ha parlato della necessità di un cambiamento in politica «che richiederà l’impegno di tutti» e del fatto che in questa tornata elettorale «non ci sono stati sconfitti», auspicando l’inizio di un dialogo tra le varie parti del Paese che ad oggi si sentono lontane tra loro.  Babiš ha accettato il risultato e ha annunciato di voler continuare la propria carriera in politica, mentre Zeman si è congratulato con il suo successore, preannunciando un passaggio di consegne che non dovrebbe essere condito da polemiche. A festeggiare per primo la vittoria di Pavel è stato il premier Fiala, che ha sottolineato con opportunismo la terza débâcle elettorale consecutiva per il rivale Babiš, dopo quelle alle politiche del 2021 e per il rinnovo del Senato nel 2022.

 

Da Bratislava è arrivata subito a congratularsi di persona con l’omologo eletto la presidente della Slovacchia, Zuzana Čaputová, che ha evidenziato il trionfo «dei valori europei» nel Paese vicino. La figura di Pavel potrebbe contribuire a spostare ulteriormente i rapporti di forza all’interno del Gruppo di Visegrád (formato da Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria), già incrinati negli ultimi anni dalle crescenti tensioni di Varsavia e Budapest con l’Unione Europea e successivamente dall’opposizione del governo magiaro, guidato da Viktor Orbán, alla linea di sanzioni contro Mosca decisa da Bruxelles e dalla maggioranza dei Paesi membri dell’UE. L’attuale esecutivo ceco ha appena ceduto la presidenza di turno del Consiglio europeo alla Svezia, ma ha saputo condurre con pazienza le discussioni sui vari pacchetti di sanzioni nei confronti della Russia dell’ultimo semestre, un risultato importante che ha rafforzato la credibilità di Praga in ambito UE, in una fase in cui gli Stati dell’Europa centro-orientale stanno assumendo un profilo sempre più rilevante. La convinta scelta di Pavel da parte degli elettori cechi sembra confermare questa dinamica.

 

Immagine: Petr Pavel (14 gennaio 2022). Crediti: Georgiphoto / Shutterstock.com

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Carri armati all’Ucraina, le esitazioni di Berlino

Quarta economia a livello globale e prima in Europa, la Germania fatica ad assumere una dimensione analoga in politica estera, frenata da motivazioni interne e tendenze storiche ormai di lunga data. L’ultima dimostrazione dei tentennamenti di Berlino arriva sul caso dei Leopard 2, i carri armati da battaglia richiesti dall’Ucraina per rafforzare le proprie capacità di difesa contro l’aggressione russa e sulla cui fornitura il governo tedesco non ha ancora preso una decisione. Questa dinamica ha di fatto “azzoppato” la riunione del Gruppo di contatto per l’Ucraina, formato da oltre 50 Paesi, i cui rappresentanti si sono riuniti venerdì scorso nella base aerea di Ramstein, nella Germania sud-occidentale. Il tema relativo all’invio dei carri Leopard 2 era uno dei punti cruciali del confronto tra i ministri della Difesa e altri funzionari delle nazioni che sostengono Kiev, viste le pressioni di numerosi Stati europei affinché Berlino sbloccasse la situazione di stallo creatasi negli ultimi mesi.

La Germania produce infatti i carri armati da combattimento in questione e ha l’ultima parola anche sui mezzi venduti all’estero, in caso le forze armate clienti intendano a loro volta cederli a terzi, come nel caso dell’Ucraina. Le autorità di Kiev e altre cancellerie europee ritengono fondamentali i Leopard 2 per l’esito dello scontro con Mosca, motivo per cui da diverso tempo si sono rivolte al governo di Berlino perché venga approvata la fornitura all’esercito ucraino. Nello specifico, vi sarebbero oltre 2000 Leopard 2 in giro per l’Europa, distribuiti tra la Germania (che ne ha circa 350, non tutti operativi) e altri 13 Paesi. Molti di questi, tra cui la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, vorrebbero mettere a disposizione dell’Ucraina parte del proprio parco mezzi, nell’ambito di una generale spinta per fornire strumenti e sistemi d’arma sempre più efficaci allo sforzo militare di Kiev. Da qui il problema sorto a Ramstein: a fine incontro, il ministro della Difesa tedesco, l’appena nominato Boris Pistorius ‒ che ha sostituito la dimissionaria Christine Lambrecht proprio nei giorni precedenti la riunione ‒ si è limitato a evidenziare come non sia stato raggiunto un accordo sulla fornitura dei Leopard 2. Al contempo, ha aggiunto Pistorius, il dicastero tedesco starebbe studiando il dossier, partendo dagli inventari nei depositi militari nazionali. Una chiusura momentanea e una potenziale apertura futura, che permetterebbero alla Germania di non perdere la faccia di fronte agli alleati e guadagnare tempo per valutare possibili pro e contro della decisione sui carri armati.

 

Resta però difficile capire quali siano davvero i fattori che mettono un freno alla “generosità” del governo tedesco guidato da Olaf Scholz. Sebbene già in precedenza il cancelliere avesse spiegato le ragioni di Berlino, preoccupata di mantenere il delicato equilibrio tra il dare supporto all’Ucraina e il ritrovarsi pienamente coinvolti nel conflitto con la Russia, è altresì vero che la Germania fa ormai parte a pieno titolo del fronte di nazioni che da mesi fornisce armi, munizioni e altro equipaggiamento a Kiev. A questo si aggiunge il fatto che l’estensione della guerra alla NATO, una delle linee rosse paventate da Scholz, non si è ancora verificata nonostante le affermazioni di Mosca in questo senso. Per tali motivi, l’indecisione tedesca sull’invio dei Leopard 2 ha assunto contorni poco chiari e sembra mettere in discussione la volontà del Paese di assumere un ruolo guida a livello europeo che le competerebbe per lo status di sostanziale “leader” che detiene da anni in seno all’Unione Europea, almeno sul piano economico. Berlino pare invece aver rinunciato in partenza a questo compito fin dai primi giorni dell’invasione russa, lasciando la luce dei riflettori in particolare alla Polonia e ai Paesi baltici, portatori di una retorica più sicura e aggressiva, ma sicuramente meno capaci in termini finanziari e di soft power. Questa “riluttanza” tedesca è divenuta sinonimo di attendismo, laddove le autorità hanno preferito aspettare l’iniziativa altrui per seguire in scia ed evitare di assumersi per primi una responsabilità, una dinamica vista in diverse occasioni da febbraio scorso: la Germania finisce per inviare armi e denaro a Kiev, ma quasi sempre a seguito dell’attivismo di altre nazioni, quasi cercando di mantenere un profilo basso. Per i Leopard 2 potrebbe accadere lo stesso, ovvero prendere una decisione ‒ positiva ‒ in merito solo dopo che gli Stati Uniti avranno inviato all’Ucraina i carri armati M1 Abrams, o al massimo in contemporanea.

Alcuni esperti hanno evidenziato come Berlino manifesti un deficit decisionale sugli aspetti militari e in particolare sulla fornitura di sistemi d’arma che può essere legato alla storia nazionale e allo status di “potenza pacifica” assunto a partire dalla Seconda guerra mondiale. Questioni culturali e politiche, dunque, impedirebbero ancora oggi alla Germania di muoversi sullo scacchiere internazionale, o quantomeno su quello europeo, con il peso che ci si aspetterebbe dal Paese più popoloso e forte economicamente del continente. Altri critici, meno benevoli verso Berlino, accusano il governo tedesco di non voler “provocare” ulteriormente il Cremlino, sperando in una ripresa dei rapporti politici e soprattutto energetici con la Russia alla fine del conflitto, ma tale tesi sarebbe in contrasto con quanto deciso finora dalla Germania in materia di sostegno all’Ucraina e non terrebbe in conto la relazione fondamentale, in termini di sicurezza e non solo, che intercorre tra Berlino e Washington.

 

Nel fine settimana sono in ogni caso arrivati nuovi sviluppi sulla vicenda dei Leopard 2. La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, ha affermato che la Germania «non si metterà di traverso» nel caso pervengano richieste da altri Paesi relativamente all’autorizzazione di invio dei carri armati all’Ucraina. Un passo avanti che in qualche modo ricuce lo strappo avvenuto a Ramstein, su cui il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki aveva “speculato” rilanciando sul progetto di costituire una “coalizione più piccola” di nazioni pronte a donare “carri armati moderni” per la causa di Kiev. L’apertura di Baerbock potrebbe essere una risposta a Varsavia e agli altri Paesi partner, o anche un segnale di rapido cambiamento di rotta sui Leopard 2, preludio di una prossima decisione del governo tedesco in merito alla fornitura diretta di tali mezzi all’Ucraina. Ancora una volta, dunque, la Germania avrebbe tentennato per poi lasciarsi convincere e “coinvolgere” dagli alleati, un copione già visto in varie occasioni da febbraio scorso.

 

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Immagine: Un carro armato tedesco Leopard 2 su un carro ferroviario, Schwandorf, Germania (14 novembre 2018). Crediti: Andreas Wolochow / Shutterstock.com

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Svezia e Finlandia, un lungo percorso verso la NATO

 

Svezia e Finlandia hanno presentato la domanda formale di adesione alla NATO nel maggio scorso, ricevendo l’invito a entrare nell’Alleanza atlantica già al summit di Madrid, tenutosi a fine giugno. A stretto giro sono stati firmati i protocolli di accesso per Stoccolma e Helsinki, il 5 luglio, e da quel momento 28 Paesi membri della NATO su 30 hanno prontamente dato l’approvazione tramite voto parlamentare all’ingresso dei due nuovi alleati. A distanza di circa sei mesi, la situazione non è cambiata, con il processo di ratifica ancora bloccato da Ungheria e Turchia. Sia il governo di Budapest che quello di Ankara sembrano aver sfruttato in qualche modo a proprio favore il potere di veto sull’ingresso di Stoccolma e Helsinki nell’Alleanza, pur senza esplicitare politicamente tale volontà. Nel caso ungherese, la discussione parlamentare sulla ratifica del protocollo di adesione è stata posticipata più volte e per ora resta fissata a febbraio, quando dovrebbe tenersi la prima sessione dell’Assemblea di Budapest per il 2023. Nel caso della Turchia, la situazione è decisamente più complessa.

 

A margine del summit NATO di Madrid, le autorità di Svezia e Finlandia avevano siglato un accordo con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per affrontare le «preoccupazioni di sicurezza» presentate da Ankara. Una serie di negoziati è stata avviata per risolvere questi problemi, principalmente legati al sostegno che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan) e il movimento Hizmet di Fethullah Gülen riceverebbero nelle due nazioni scandinave.  La Turchia ha presentato una serie di richieste, tra cui una lista di persone da estradare, ricevendo un’accoglienza tiepida da parte dei governi di Stoccolma e Helsinki. Rilevante in questo senso è il caso svedese, dove risiedono decine di migliaia di cittadini di origine turca e curda: i soggetti presenti sulla lista consegnata dalle autorità turche sono accusati in molti casi di terrorismo e altre attività che costituiscono «una minaccia alla sicurezza» di Ankara, ma che la Svezia non ritiene di poter estradare, tantomeno perseguire penalmente. 

 

Sebbene i percorsi di adesione di Svezia e Finlandia siano formalmente separati, è opinione comune che difficilmente uno dei due possa progredire mentre l’altro resta bloccato. Per questo le difficoltà nei rapporti tra le autorità svedesi e quelle turche potrebbero impedire almeno nei prossimi mesi una conclusione dell’iter di ratifica e del conseguente allargamento della NATO a 32 Stati membri, nonostante l’ottimismo di facciata delle cancellerie scandinave. Il dialogo tra Ankara e Stoccolma si è decisamente raffreddato negli ultimi tempi e i segnali per una rapida e costruttiva ripresa sono sempre più negativi. A metà dicembre la Corte suprema della Svezia ha bloccato l’estradizione del giornalista turco Bülent Keneş, dopo che Ankara lo aveva individuato come uno dei soggetti coinvolti nel tentativo di golpe del 2016 e per aver fatto parte del movimento di Gülen. Nelle motivazioni della sentenza, la Corte svedese ha spiegato che nei confronti di Keneş vi sarebbe il rischio di persecuzione a causa delle opinioni politiche personali. Questa decisione ha messo in evidenza le contraddizioni tra le garanzie insite nel sistema giuridico della Svezia e le accuse formulate dalla Turchia, basate su quelli che la Corte suprema ha definito «reati politici» non perseguibili in base alla normativa nazionale. Ankara ha reagito alla decisione svedese definendola «uno sviluppo molto negativo».

 

Il 2023 si è aperto invece con le dichiarazioni del primo ministro svedese Ulf Kristersson, che intervenendo in un dibattito pubblico ha sottolineato come la Turchia «chiede cose che non possiamo e non vogliamo darle». Una frase dettata probabilmente dall’esasperazione, a fronte delle concessioni già fatte da Stoccolma sul fronte della legislazione nazionale antiterrorismo, che fotografano però piuttosto chiaramente i limiti nel negoziato con Ankara. La diplomazia svedese e lo stesso Kristersson hanno provato successivamente a ridimensionare la portata di tali affermazioni, ma un nuovo incidente ha contribuito ad acuire la frattura tra i due governi. Nel corso di una manifestazione tenutasi a Stoccolma la scorsa settimana, è stato appeso un fantoccio con le sembianze di Erdoğan, un fatto che ha portato ad una reazione veemente da parte turca, con il ministero degli Esteri che ha addirittura convocato l’ambasciatore svedese ad Ankara per denunciare la questione. Il ministro degli Esteri della Svezia, Tobias Billström, ha commentato l’accaduto parlando di «sabotaggio» del processo di adesione alla NATO e della «fiducia reciproca» costruita con la Turchia. La controparte non è sembrata particolarmente impressionata dalle scuse di Stoccolma: le autorità turche hanno evidenziato la «mancanza di fretta» nel procedere con la ratifica del protocollo di adesione NATO, giustificando gli eventuali ritardi anche con la complessità dell’iter parlamentare. Lo stesso Erdoğan è intervenuto sul tema e ha ribadito di aspettarsi l’estradizione di 130 «terroristi» da Svezia e Finlandia prima che Ankara dia il via libera al loro ingresso nell’Alleanza.

In questo senso, appare sempre più probabile che i due Paesi scandinavi debbano aspettare fino a giugno o luglio per conoscere il proprio destino, legato anche e soprattutto all’esito delle elezioni che si terranno in Turchia per la scelta del nuovo presidente e il rinnovo della Grande assemblea nazionale. Stando alle ultime dichiarazioni delle autorità di Ankara, difficilmente la situazione si sbloccherà prima del prossimo summit NATO, in programma a Vilnius in luglio.

 

A fronte di questa evidente impasse, gli altri alleati sembrano per il momento aver optato per una tattica attendista. Vista l’importanza che l’adesione di Svezia e Finlandia può avere per gli equilibri strategici nel Nord Europa e in generale per il rafforzamento delle capacità militari della NATO, con il passare dei mesi i più importanti Stati membri, a partire da USA, Francia e Regno Unito, potrebbero fare pressione sulla Turchia per sbloccare la situazione. Nel frattempo Washington e Stoccolma si sono portate avanti, avviando i negoziati su un accordo di cooperazione sulla difesa che offrirà maggiori garanzie di sicurezza alla nazione scandinava. Anche il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha recentemente rimarcato la volontà dell’Alleanza di accogliere Svezia e Finlandia e al contempo ribadito la determinazione a difendere i due Paesi a fronte di eventuali future minacce.

 

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Immagine: Le bandiere di Turchia, Finlandia e Svezia accanto a quella della NATO (15 maggio 2022). Crediti: Andrzej Rostek / Shutterstock.com

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2023, gli appuntamenti elettorali in Europa

Sono cinque i Paesi europei in cui sono già state fissate le elezioni parlamentari nel corso del 2023. Si tratta di Estonia, Finlandia, Grecia, Polonia e Spagna, nazioni in cui eventuali mutamenti degli equilibri politici interni potrebbero avere un peso importante nel contesto dell’Unione Europea e di altri dossier cruciali, primo tra tutti quello relativo alla guerra in Ucraina.

 

 

In Estonia si andrà al voto il 5 marzo, con la prima ministra Kaja Kallas che cercherà di confermarsi alla guida del Paese dopo aver guadagnato popolarità all’estero grazie alla propria salda posizione di sostegno all’Ucraina. Già nella scorsa primavera Kallas aveva dovuto affrontare una crisi di governo, decidendo di estromettere dall’esecutivo i ministri appartenenti al Partito di centro estone (EK, Eesti Keskerakond). Ne era uscita una nuova coalizione, con i cristianodemocratici di Isamaa, i Socialdemocratici (SDE, Sotsiaaldemokraatlik Erakond) e il Partito riformatore (ER, Eesti Reformierakond) della stessa Kallas. A meno di due mesi dalle elezioni, i sondaggi danno favoriti proprio i riformatori, grazie a una dinamica di costante crescita. ER viaggia abbondantemente sopra il 30% dei consensi e il partito sembra destinato a distanziare tutte le altre formazioni. In seconda posizione c’è il Partito popolare conservatore estone (EKRE, Eesti Konservatiivne Rahvaerakond), forza sovranista vicina al 25% e data in forte ascesa.

 

 

Attraversando il Mar Baltico si arriva in Finlandia, dove i seggi apriranno il 2 aprile per rinnovare i 200 seggi dell’Eduskunta, il Parlamento nazionale. Il voto in Finlandia potrebbe rappresentare la conclusione dell’esperienza di governo della coalizione di centrosinistra guidata dalla socialdemocratica Sanna Marin e che si compone di altri quattro partiti. Già negli ultimi mesi sono aumentate le spaccature tra le forze che compongono la maggioranza e difficilmente tale esperienza potrà ripetersi in una nuova legislatura. Il Partito di coalizione nazionale (KOK, Kansallinen Kokoomus), formazione liberal-conservatrice attualmente all’opposizione, è il favorito nei sondaggi, l’unico a superare il 20%. Seguono il Partito socialdemocratico finlandese (SDP, Suomen Sosialidemokraattinen Puolue) di Marin e i Veri finlandesi (PS, Perussuomalaiset), partito populista di destra, che si attestano entrambi intorno al 19%. Un accordo di grande coalizione tra KOK e SDP, con altri partiti centristi a garantire stabilità, potrebbe essere il risultato più probabile dopo il voto in Finlandia. Sicuramente il nuovo governo dovrà mantenere la rotta tracciata dal precedente, in particolare sui temi relativi alla sicurezza, in attesa dello sblocco del processo di ratifica dell’adesione alla NATO.

 

 

Le elezioni in Grecia si dovrebbero tenere a luglio, benché nelle ultime settimane sia emersa la possibilità di un voto anticipato già ad aprile. Il primo ministro uscente Kyriakos Mitsotakis, leader del partito di centrodestra Nuova democrazia (ND, Nea Dimokratia), cerca la riconferma ma deve vedersela con le insidie presentate dalle modifiche alla legge elettorale, in cui è stato depotenziato il premio di maggioranza, che in precedenza era pari a 50 seggi sui 300 totali del Parlamento ellenico. Nuova democrazia potrebbe essere costretta a scegliere un partner di coalizione per restare al potere, mentre il tradizionalmente frammentato fronte della sinistra potrebbe cercare un’alleanza per tornare al governo. Nei sondaggi ND viaggia attualmente intorno al 36%, ma il suo vantaggio su Syriza dell’ex premier Alexis Tsipras si è notevolmente assottigliato, con la formazione di sinistra che è arrivata a circa il 29%. Il blocco di centrosinistra Pasok-Kinal resta stabile intorno al 12%, mentre il Partito comunista greco (KKE, Kommounistiko Komma Elladas) non va oltre il 6%. A contribuire al calo di consensi di Mitsotakis e di Nuova democrazia potrebbe essere stata anche la risposta poco convincente data ai cittadini sullo scandalo relativo allo spyware Predator, che i servizi di sicurezza greci avrebbero usato per sorvegliare gli smartphone di alcuni giornalisti e politici di opposizione, tra cui il leader del Pasok, Nikos Androulakis. Le principali cariche dell’intelligence ellenica si sono dimesse, ma non è chiaro quale sia stato davvero il ruolo dell’esecutivo di Mitsotakis nella vicenda.

 

 

La Polonia ha assunto un ruolo centrale a partire dal febbraio scorso per il sostegno europeo all’Ucraina. Tale posizione non dovrebbe venire messa in discussione dalle elezioni del prossimo autunno, che potrebbero piuttosto essere centrate ‒ ancora una volta ‒ sul rapporto con Bruxelles. Il partito di governo Diritto e giustizia (PiS, Prawo i Sprawiedliwość) del leader Jarosław Kaczyński e del premier Mateusz Morawiecki continua a mantenere un cospicuo vantaggio sui rivali, viaggiando abbondantemente sopra la soglia del 35% da diversi mesi. La principale forza dell’opposizione, i liberali di Piattaforma civica (KO, Platforma Obywatelska), saranno guidati per queste elezioni dall’ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, tornato alla politica nazionale proprio per lanciare la sfida al duo Kaczyński-Morawiecki. Per ora KO si attesta intorno al 29%, un risultato che non renderebbe possibile prendere il controllo dei due rami del Parlamento polacco senza un’alleanza con altre formazioni. Il partito centrista Polonia 2050 (Polska 2050), di Szymon Hołownia, si presenta per la prima volta alle elezioni e i sondaggi lo danno attualmente al terzo posto, con circa il 10% delle preferenze, staccando di poco l’alleanza di sinistra Lewica, al 9%. Ci sono dubbi sulla validità di costituire un fronte unico dell’opposizione, visto il fallimento dell’analogo esperimento sorto in Ungheria per impedire una vittoria di Orbán e del suo partito Fidesz alle elezioni dello scorso anno. PiS da parte sua deve puntare a risolvere definitivamente prima del voto alcune delle questioni aperte con l’Unione Europea e ottenere il pieno sblocco e finanziamento dei miliardi del Recovery Fund.

 

Infine, la Spagna. Le elezioni dovrebbero tenersi a fine anno, motivo per cui i sondaggi che vedono un netto vantaggio del Partito popolare (PP, Partido Popular) sui socialisti (PSOE, Partido Socialista Obrero Español) di Pedro Sánchez vanno presi con cautela. Il sorpasso del PP sul PSOE si è ampliato negli ultimi mesi, grazie a quello che alcuni analisti hanno definito “effetto Feijóo”, dal nome del nuovo leader dei popolari, Alberto Núñez Feijóo, eletto lo scorso aprile come terzo incomodo nella disputa tra il presidente uscente Pablo Casado e l’ambiziosa governatrice della Comunidad de Madrid, Isabel Díaz Ayuso. I socialisti pagano in parte anche la difficile convivenza al governo con Unidas Podemos, un’alleanza che non necessariamente si ripeterà anche in vista del voto di dicembre. Il terzo partito spagnolo al momento è Vox, formazione sovranista che ha visto i propri consensi crescere notevolmente negli ultimi anni e che punta ad essere decisiva alle elezioni del 2023 per poter entrare in coalizione con i popolari. A maggio i cittadini spagnoli saranno chiamati anche al voto locale, che riguarderà non solo le municipalità, ma anche alcune comunità autonome, come quella di Madrid. Il risultato delle amministrative potrebbe incidere non poco sull’esito delle elezioni generali di dicembre.

 

Immagine: Campagna elettorale di Sininen Tulevaisuus per le elezioni generali finlandesi, Helsinki, Finlandia (6 aprile 2019). Crediti: douglasmack / SHutterstock.com

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È ancora braccio di ferro tra Ungheria e UE

L’annoso braccio di ferro tra Ungheria e Unione Europea (UE) in merito allo Stato di diritto si è arricchito di un nuovo capitolo, legato allo stanziamento dei fondi per la coesione e all’approvazione del PNRR di Budapest. La disputa, che vede contrapposti il governo di Viktor Orbán e la Commissione europea, potrebbe determinare il destino di finanziamenti per un ammontare pari a 7,5 miliardi di euro per il Paese dell’Europa centrale, in bilico tra congelamento e sblocco da quando Bruxelles ha deciso di andare “allo scontro” con il premier magiaro. La partita si gioca però anche al Consiglio europeo, dove gli Stati membri UE devono decidere se e come lasciare margine di manovra all’Ungheria su un tema delicato come quello delle riforme interne, permettendo al contempo alla Commissione di continuare a usare i fondi del Piano di ripresa e resilienza come strumento per piegare Budapest sui dossier più divisivi.

Secondo l’esecutivo europeo, l’Ungheria non ha raggiunto gli obiettivi fissati nella scadenza del 19 novembre scorso in materia di Stato di diritto. Budapest avrebbe mancato ben 17 punti concordati con le autorità di Bruxelles, in particolare alcuni “aspetti centrali” legati all’autorità in materia di anticorruzione recentemente istituita e alla revisione giudiziaria delle decisioni delle procure. Su questa base, l’esecutivo comunitario avrebbe deciso di non dare il via libera allo stanziamento dei fondi per la coesione da 7,5 miliardi di euro, scegliendo una linea dura che metterebbe ulteriore pressione al governo Orbán, già in difficoltà in patria per le conseguenze economiche derivanti dalla crisi globale. Non si può tuttavia ancora parlare di resa dei conti, perché nel frattempo la Commissione UE ha approvato i programmi del PNRR ungherese, per un totale di 5,8 miliardi di euro, ma il definitivo via libera deve ancora arrivare, con scadenza massima il 19 dicembre. Anche tra gli Stati membri non si è formata un’opinione condivisa su quale sia la migliore tattica da impiegare nei confronti di Budapest, nella speranza di poter forzare il governo locale a “cedere” su altri temi.

 

Orbán sta infatti provando a rispondere a Bruxelles facendo leva sul diritto di veto su questioni cruciali per l’UE, a partire dal sostegno all’Ucraina. Noto per la sua posizione “filorussa” all’interno del Consiglio UE, il primo ministro ungherese ha più volte provato a rallentare o sabotare l’approvazione dei vari pacchetti di sanzioni contro Mosca, una tattica che ha finito però per isolare sempre più l’Ungheria all’interno dell’Unione, anche dai tradizionali partner di Visegrád, in particolare la Polonia. L’ultimo fronte di tensioni in merito è il programma di assistenza finanziaria UE all’Ucraina, per un valore di 18 miliardi, su cui Budapest ha mostrato una determinata opposizione e che negli ultimi giorni è stato bloccato proprio per il veto posto dai rappresentanti ungheresi all’Ecofin, la riunione dei ministri delle Finanze europei. La misura a favore di Kiev andrebbe approvata all’unanimità dagli Stati membri per consentire lo sblocco degli ingenti fondi UE a partire dal prossimo gennaio. Altro tema su cui Orbán sta provando a far valere la propria contrarietà è quello della tassazione minima sulle multinazionali, concordata nel 2021 in sede OCSE e su cui è attesa l’implementazione europea. La posizione negativa dell’Ungheria è motivata in questo caso da ragioni di politica ed economia interne, laddove il Paese da decenni attira compagnie estere sul mercato locale grazie a politiche fiscali estremamente vantaggiose. 

 

L’incrocio tra fondi del PNRR, il pacchetto di aiuti all’Ucraina e la discussione sulla tassazione minima globale si gioca in un contesto diplomatico complesso, tra riunioni del Consiglio UE, incontri tra i vari ministri responsabili e il lavoro della Commissione, senza considerare l’incessante operato dei funzionari e degli ambasciatori a Bruxelles dei singoli Stati membri. La posizione di crescente isolamento dell’Ungheria potrebbe acuirsi ancora di più a causa del veto posto sul pacchetto di assistenza finanziaria all’Ucraina, scavando un solco sempre più ampio con la Polonia, fino a pochi mesi fa il Paese più solidale con Orbán in nome della affinità ideologica tra i due governi e degli interessi convergenti a livello politico ed economico. Varsavia ha però assunto un ruolo primario tra i “falchi” dell’UE contro la Russia, perorando un sempre maggiore sostegno a Kiev e misure durissime contro Mosca, motivo per cui le relazioni con Budapest sono cambiate e rischiano di peggiorare ulteriormente dopo la scelta delle autorità ungheresi all’Ecofin. L’esecutivo polacco potrebbe decidere di abbandonare alla sua sorte l’Ungheria, lasciando a Orbán l’onere di trovare nuovi sostenitori, magari bussando alla porta “amica” di Giorgia Meloni al prossimo Consiglio europeo del 19 dicembre.

 

Immagine: Viktor Orbán in occasione della sua partecipazione a una riunione informale dei capi di Stato o di governo a Praga, Repubblica Ceca (7 ottobre 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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L’UE che guarda all’Asia centrale

L’Unione Europea (UE) sembra voler approfittare del raffreddamento nelle relazioni tra la Russia e i Paesi dell’Asia centrale con una serie di iniziative diplomatiche volte a proporre forme di cooperazione aggiornate in ambito regionale. Questa l’interpretazione che si può dare agli sforzi compiuti dalle autorità di Bruxelles nelle ultime settimane, con i recenti viaggi intrapresi dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e successivamente dall’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, Josep Borrell. A fine ottobre Michel si è recato ad Astana, in Kazakistan, per il primo summit con i leader dell’Asia centrale, a cui ha fatto seguito una visita in Uzbekistan. Borrell ha invece incontrato gli omologhi della regione a Samarcanda, il 17-18 novembre, mettendo in chiaro i vantaggi derivanti da una collaborazione approfondita con l’Unione Europea, in particolare in termini di «diversificazione delle opzioni politiche» dopo le tensioni che hanno attraversato lo spazio post-sovietico a seguito dell’invasione ucraina. I Paesi dell’Asia centrale, in particolare il Kazakistan, sembrano aver compreso i rischi di un rapporto troppo stretto con Mosca, oltre alla possibile minaccia proveniente dalla politica aggressiva del Cremlino.

 

In questa fase, l’Unione Europea può offrire un consolidamento degli accordi già esistenti relativi alle forniture di idrocarburi e terre rare, e al contempo instaurare un dialogo per riaffermare e tutelare la sovranità dei Paesi della regione. Strette tra i tradizionali rapporti di sudditanza con la Russia e le sirene di sviluppo che arrivano dalla Cina e dai progetti della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI), le cancellerie centroasiatiche si vedono offrire da Bruxelles una “terza via”, che passa per il potenziamento delle infrastrutture, sia fisiche che digitali, e per il sostegno allo sviluppo sostenibile, oltre all’avanzamento degli scambi commerciali ed energetici. Le ambizioni europee sono sostenute dal programma Global Gateway, con cui l’UE intende stanziare 300 miliardi di euro entro il 2027 per promuovere investimenti infrastrutturali e di altro tipo in Asia, Africa e America Latina, in contrapposizione alla BRI di Pechino. Stringere legami più solidi con i Paesi occidentali rappresenta dunque un’assicurazione rispetto ai rischi di dipendenza dalla Russia e dalla Cina, sia a livello economico che politico. Effettuare uno “sganciamento” energetico e commerciale da Mosca è del resto un’esigenza comune per gli Stati membri dell’Unione Europea e quelli centroasiatici, seppur con tempistiche e capacità differenti. Nel corso della sua visita a Samarcanda, Borrell ha voluto ricordare come l’UE sia già il principale investitore nella regione dell’Asia centrale e il primo partner commerciale, rivendicando un ruolo fondamentale per il futuro delle economie locali.  Il capo della diplomazia comunitaria ha poi messo in evidenza come Bruxelles non pretenda alcuna «esclusività» nelle relazioni con i Paesi della regione, motivo per cui qualsiasi partenariato con l’UE non impedirà di perseguire progetti con altre nazioni. L’Unione Europea intende però presentarsi come un’alternativa anche in termini valoriali, “esportando” l’attenzione allo Stato di diritto presso regimi ancora molto indietro nel percorso verso il modello di una piena democrazia.

 

L’attivismo europeo fa da contraltare alla frattura sempre più evidente tra la Russia e le repubbliche dell’Asia centrale, a corollario di una dinamica di progressivo isolamento di Mosca sul piano internazionale. L’esempio più lampante in questo senso è dato dalla mancata partecipazione di Vladimir Putin al summit del G20 di Bali, in Indonesia, ma in ambito regionale non vanno sottovalutate le difficoltà riscontrate dal presidente russo in occasione del vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), tenutosi a Samarcanda a metà settembre, e al summit Russia-Asia centrale di Astana, il mese successivo. Nei due eventi in questione, i leader centroasiatici hanno manifestato in diversi modi il loro disagio per l’invasione dell’Ucraina e per la postura aggressiva della Russia, coerentemente con il rifiuto di riconoscere l’annessione dei territori ucraini occupati da parte di Mosca. Questo cambiamento di approccio verte su un maggiore potere contrattuale che le nazioni dell’Asia centrale possono vantare nei confronti della Russia: le sanzioni occidentali obbligano infatti le autorità di Mosca a spostare il proprio asse commerciale verso sud e verso oriente, rivolgendosi tra gli altri ai mercati degli “-stan”. A ciò si aggiunge il progetto del Middle Corridor, lanciato di recente da Kazakistan, Azerbaigian e Turchia come collegamento infrastrutturale verso l’Europa, che potrebbe consentire di evitare il transito sul territorio russo di merci e idrocarburi, facendo inoltre da ponte con la Cina. Sebbene si tratti di progetti di ampio respiro, in cui spesso non coincidono ambizioni e risultati, è evidente come le autorità UE abbiano provato a sfruttare la frattura tra Russia e Asia centrale, muovendosi con tempismo e decisione, un segnale interessante anche alla luce delle future evoluzioni geopolitiche tra Europa e Asia.

 

Immagine: Josep Borrell arriva a una riunione informale dei capi di Stato e di governo a Praga, Repubblica Ceca (7 ottobre 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstyock.com

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Le tante implicazioni del viaggio di Scholz in Cina

Il cancelliere Olaf Scholz ha effettuato venerdì il suo primo viaggio ufficiale in Cina come capo del governo tedesco. Si è trattato di una visita lampo, durata solo un giorno, ma che ha offerto molti spunti di riflessione e ha assunto un valore importante sul piano della politica estera e commerciale, per la Germania come per l’Unione Europea (UE). Scholz è stato infatti il primo leader occidentale a incontrare il presidente Xi Jinping da quando quest’ultimo è stato eletto per il terzo mandato alla guida del Partito comunista cinese, poche settimane fa. La missione del cancelliere a Pechino era stata oggetto di critiche alla vigilia, sia in patria che all’estero, da parte dei cosiddetti “falchi”, che perorano la causa di un raffreddamento delle relazioni con la Cina in nome di una maggiore autonomia commerciale e industriale, oltre che in difesa dei diritti umani. La scelta di Scholz di recarsi in Estremo Oriente in solitaria aveva suscitato preoccupazioni e perplessità anche presso le altre capitali europee, dando l’impressione che la Germania volesse muoversi in autonomia e creare un rapporto speciale con le autorità cinesi. In particolare, il presidente francese Emmanuel Macron non aveva visto di buon occhio la decisione del cancelliere tedesco, a testimonianza di un rapporto sull’asse Parigi-Berlino non più solido come ai tempi di Angela Merkel

 

Scholz è giunto a Pechino accompagnato da una folta delegazione di rappresentanti del mondo industriale tedesco, sebbene anche qui con qualche defezione di rilievo, a causa di un’ulteriore frattura verificatasi tra le principali aziende del Paese circa l’opportunità della missione in Cina. Prima di partire, il cancelliere aveva spiegato il senso della sua visita ufficiale in un contributo pubblicato per l’occasione sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ). Nelle parole di Scholz, la Cina resta un partner economico e commerciale fondamentale per la Germania e l’Europa, nonostante le «circostanze mutate» nel Paese asiatico e a livello internazionale. Nella visione del capo del governo tedesco, bisogna mantenere un approccio basato sul pragmatismo e il senso delle proporzioni, sapendo sfruttare le occasioni di cooperazione con Pechino e al contempo ribadendo i principi fondamentali su cui si devono basare i rapporti economici e politici tra Germania e Cina, oltre che tra l’Europa e il gigante orientale. Scholz ha dunque provato a rassicurare i falchi, che temono di ripetere gli stessi errori fatti con la Russia, ovvero creare un rapporto di dipendenza da cui un domani sarà difficile tornare indietro. Se con Mosca tale relazione nociva era basata sulle forniture energetiche, con Pechino i legami da evitare potrebbero essere ancora più complessi, basandosi su materie prime, terre rare e tecnologie avanzate. Il discorso vale anche per gli investimenti cinesi nel mercato tedesco, di cui l’esempio più evidente è la partecipazione della compagnia statale di logistica Cosco in uno dei terminali del porto di Amburgo, il principale della Germania e il terzo a livello europeo dopo Rotterdam e Anversa. Scholz si è adoperato affinché il controllo di Cosco sul terminal si fermasse sotto il 25%, in nome di una politica basata su «differenziazione e resilienza» invece del protezionismo. 

 

Le perplessità diffuse sul viaggio del cancelliere in Cina si inseriscono però in un dibattito di maggiore respiro, che vede l’Europa stretta tra un’esigenza di parlare con una voce autonoma, cercando il proprio interesse strategico, e l’impegno transatlantico nel coordinarsi con gli Stati Uniti per il mantenimento dell’ordine globale. Non è però un dettaglio da poco il fatto che Washington veda Pechino come il proprio principale avversario a livello internazionale, e faccia pressioni sui governi oltreoceano per seguire una linea di diffidenza e contenimento dell’espansionismo commerciale e tecnologico cinese, come visto nel caso delle reti 5G e del boicottaggio a Huawei. Non tutti nel Vecchio Continente sono convinti della bontà di tale posizione, a partire proprio da Francia e Germania. Scholz ha spiegato di recarsi a Pechino non solo come rappresentante del proprio Paese, ma anche come «europeo», rivendicando di essersi coordinato con le altre cancellerie dell’Unione nella fase di organizzazione della missione in Cina. 

 

Nella discussione di venerdì, Scholz e Xi non si sono del resto limitati ai rapporti bilaterali, ma hanno spaziato su questioni di rilevanza internazionale, prima tra tutte la guerra in Ucraina, su cui si è trovata un’unità di vedute nel rifiuto e nella condanna di una eventuale escalation nucleare, oltre che nella volontà di perseguire la pace. La Cina «sostiene la Germania e l’Europa» nell’agevolare i colloqui di pace e «nella costruzione di un’architettura di sicurezza europea equilibrata, efficace e sostenibile», come ha dichiarato Xi. Pechino auspica una maggiore autonomia dell’UE sul piano diplomatico, a fare da contraltare all’influenza politica americana. Ai governi del continente spetta trovare un equilibrio tra interessi strategici, esigenze strutturali e opportunità economiche, una missione che Scholz sembra aver già provato a intraprendere con la visita in Cina.

 

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Immagine: Olaf Scholz (24 marzo 2022). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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Elezioni in Danimarca, vittoria dei Socialdemocratici

 

Le elezioni anticipate in Danimarca hanno visto la vittoria del Partito socialdemocratico della prima ministra uscente Mette Frederiksen, che potrà ora decidere se puntare sulla formazione di un governo centrista o affidarsi alla tradizionale alleanza delle forze progressiste, il cosiddetto “blocco rosso”. Sia annunciando il voto anticipato sia durante le tre settimane di campagna elettorale, Frederiksen aveva aperto alla prospettiva di costituire un esecutivo di larghe intese, motivando tale scenario con la necessità di dare stabilità e sicurezza alle istituzioni nel contesto delle innumerevoli crisi che il Paese deve affrontare. Anche mercoledì, commentando l’esito delle elezioni, la leader dei Socialdemocratici ha parlato dell’esigenza di «compromessi» e di lavorare con spirito di cooperazione su questioni come l’aumento dell’inflazione e il cambiamento climatico. Forte del 27% delle preferenze e quindi dei 50 seggi conquistati dal suo partito al Folketing, l’assemblea monocamerale di Copenaghen, Frederiksen si ritroverà al centro di tutte le potenziali coalizioni di governo.

 

Il voto del 1° novembre ha portato in Parlamento ben 12 partiti, senza considerare i deputati eletti in Groenlandia e nelle Isole Fær Øer, rappresentanti delle due nazioni costitutive danesi. Sono dunque numerose le combinazioni che potrebbero venire esplorate per formare il prossimo governo della Danimarca, un vantaggio non da poco per i Socialdemocratici in fase negoziale. All’interno dello schieramento di centrodestra, il “blocco blu”, si è assistito invece a una spaccatura, dovuta alla nascita di un nuovo partito, i Moderati (Moderatern) dell’ex premier Lars Løkke Rasmussen. Questi ultimi, sorti da una costola dei conservatori di Venstre, hanno ottenuto il 9% delle preferenze, andando inevitabilmente a sottrarre consensi alle altre forze di opposizione. In questo modo, il centrodestra dovrebbe restare escluso dai negoziati per la formazione di un nuovo esecutivo, almeno finché continueranno a rifiutare l’idea di avere ancora Frederiksen come prima ministra. Løkke Rasmussen potrebbe invece essere l’indiziato numero uno per cercare di dare vita a una maggioranza centrista, insieme ai Socialdemocratici (Socialdemokraterne) e con il sostegno esterno di altri partiti di centrosinistra. Gli equilibri di coalizione potrebbero però essere delicati, a causa dei vari argomenti divisivi che già in passato hanno creato attriti tra i due blocchi tradizionali e all’interno degli stessi. Una delle questioni potenzialmente più delicate è quella relativa all’immigrazione, su cui già nel 2019 si era concentrato parte del dibattito politico. Anche da premier, Frederiksen ha assunto una posizione “inusuale” per la leader di un partito progressista europeo, restringendo le misure di accoglienza dei rifugiati e lanciando piani di redistribuzione sul modello britannico, coinvolgendo il governo del Ruanda. Diversi partiti del blocco rosso hanno criticato le scelte della prima ministra sul tema dei migranti, e anche Løkke Rasmussen nelle settimane di campagna elettorale ha giudicato le iniziative del governo in materia come «simboliche» ma senza un reale fondamento.  

 

Frederiksen ha deciso di portare alle urne il Paese a seguito della crisi politica emersa nei mesi scorsi, legata alla decisione della stessa premier di ordinare l’abbattimento di decine di milioni di visoni durante la prima fase della pandemia di Covid-19. All’epoca, Frederiksen aveva giustificato tale scelta con la necessità di contrastare la diffusione di una potenziale variante del virus mutata dai roditori e in grado di diffondersi anche agli esseri umani. L’abbattimento forzato aveva però messo in ginocchio l’industria delle pellicce nazionale ed era stato successivamente oggetto di un’inchiesta parlamentare. Frederiksen era stata giudicata colpevole di aver agito abusando dei propri poteri di capo del governo, cavandosela però ufficialmente con una reprimenda. I radicali (Radikale Venstre), che sostenevano l’esecutivo socialdemocratico, avevano attaccato la premier e minacciato una mozione di sfiducia. Di fronte a tale scenario, Frederiksen ha preferito interpellare nuovamente i cittadini, uscendo dalle urne in qualche modo rafforzata. Sebbene formare una nuova maggioranza non sia semplice, la premier uscente potrà contare sulla fiducia ricevuta dagli elettori e porre nuovamente i Socialdemocratici al centro dello schieramento politico danese.

 

Immagine: Mette Frederiksen (1 ottobre 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Rishi Sunak, il nuovo premier britannico

Il Partito conservatore britannico ha scelto un nuovo leader, Rishi Sunak, chiamato a ricoprire l’incarico di primo ministro e a risolvere la crisi politica ed economica nel Regno Unito. Dopo le dimissioni di Boris Johnson lo scorso luglio e quelle più recenti di Liz Truss, i Tories sperano di aver chiuso una fase a dir poco turbolenta per il partito, tra spaccature interne sempre più evidenti e lo spauracchio delle elezioni anticipate, con i laburisti in nettissimo vantaggio nei sondaggi. L’ex cancelliere dello Scacchiere, che sarà il primo capo del governo di origine asiatica nella storia del Paese, si è ritrovato come unico candidato nella corsa alla leadership dei Tories, dopo il ritiro dell’avversaria più accreditata, Penny Mordaunt. Sunak si è aggiudicato infatti il sostegno preliminare di circa 200 deputati conservatori, sufficienti a far pendere l’ago della bilancia in suo favore e far decretare all’organo decisivo del partito, il Comitato 1922, una vittoria in sostanziale assenza di altri concorrenti.

 

Nel fine settimana sembrava potesse gettarsi nella mischia anche l’ex premier Johnson, in vacanza ai Caraibi e tornato di fretta nel Regno Unito per sondare la situazione, in vista di quello che sarebbe stato un clamoroso colpo di scena per la politica britannica. Già domenica Johnson aveva però smentito l’intenzione di candidarsi alla guida dei conservatori, lasciando la corsa all’ex cancelliere del suo governo e a Mordaunt. Sunak ha convinto un numero abbastanza ampio di colleghi circa la sua affidabilità in una congiuntura particolarmente difficile per i Tories e in generale per l’economia britannica. L’eredità lasciata dalla brevissima e a tratti surreale esperienza da premier di Liz Truss non è delle migliori, considerata la necessità di continuare a rassicurare i mercati e al contempo gestire dossier delicati, che spaziano dalla politica fiscale agli aiuti ai cittadini per il caro bollette, passando per la revisione della spesa pubblica. Sunak ha un curriculum molto più solido in materia economica rispetto all’inquilina uscente del numero 10 di Downing Street, travolta dalle scelte sbagliate del suo cancelliere dello Scacchiere e fedele alleato Kwasi Kwarteng. Rispetto a Truss, il nuovo premier è solito fare ricorso a dei toni e a una retorica meno aggressivi su temi chiave per l’elettorato conservatore, in particolare sull’immigrazione e il dossier Brexit, pur avendo preso in passato posizioni similari a quelle dei predecessori.

 

Un altro compito delicato per Sunak sarà quello di tenere unito il partito, che ha cambiato tre leader e tre governi in poco più di un mese, mettendo in evidenza lotte intestine e profonde differenze di vedute. Per evitare un nuovo “autosabotaggio”, il premier dovrà trovare spazio per compromessi con le varie correnti dei Tories, cominciando dalla lista dei ministri, in cui inserire i propri alleati senza lasciare del tutto fuori alcuni componenti del gabinetto Truss. Da cancelliere, Sunak era stato criticato dall’ala destra del partito per la politica di sostegno economico a cittadini e imprese lanciata durante la prima fase della pandemia da Coronavirus, oltre che per la tassazione straordinaria imposta alle compagnie energetiche sui profitti extra conseguiti a fronte dell’aumento dei costi delle bollette. Negli ultimi mesi, il neopremier ha continuato a professare una visione pragmatica sui temi economici, segnando le distanze dai programmi fiscalmente “azzardati” del duo Truss-Kwarteng, ma sollevando anche qualche dubbio sulla possibilità di aumentare al 3% le spese militari del Regno Unito, un punto giudicato fondamentale dall’attuale ministro della Difesa Ben Wallace, a fronte della guerra in Ucraina.

 

Il profilo personale di Sunak lo rende una figura sostanzialmente unica nel panorama dei conservatori. Figlio di immigrati di origine indiana, a loro volta arrivati nel Regno Unito negli anni Sessanta dalle ex colonie britanniche in Africa orientale, il nuovo leader dei Tories ha studiato in università prestigiose prima di approdare nella City per lavorare nella finanza. A 42 anni, Sunak sarà il più giovane di sempre a risiedere al numero 10 di Downing Street, dopo essere stato eletto per la prima volta a Westminster solo nel 2015. Altro elemento distintivo della sua biografia è il matrimonio con Akshata Murthy, ricchissima figlia del magnate dell’informatica indiana Narayana Murthy, tra i fondatori del colosso Infosys. Sunak e la consorte hanno un patrimonio stimato in quasi 800 milioni di sterline, entrando nella classifica delle 250 persone più ricche del Regno Unito. La moglie Akshata è stata al centro di uno scandalo la scorsa primavera, quando si è scoperto che risultava “non domiciliata” in territorio britannico e poteva quindi evitare di pagare al fisco di Londra le tasse sui propri ingenti guadagni esteri, derivanti dalla gestione di un fondo di investimento e di un’azienda nel settore della moda. Lo stesso Sunak era in possesso di una “green card”, un permesso di soggiorno permanente negli Stati Uniti, un fatto che ha portato i suoi critici ad accusarlo di “scarso attaccamento” alla patria. L’esito del voto tra le fila dei deputati conservatori sembra in ogni caso assicurare al nuovo leader del partito una base di consensi solida da cui iniziare il proprio operato da primo ministro.

 

Immagine: Rishi Sunak (3 agosto 2022). Crediti: ComposedPix / Shutterstock.com

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Come la guerra ha reso indispensabili gli idrocarburi della Norvegia

 

Già da decenni principale produttore di idrocarburi dell’Europa occidentale, la Norvegia ha assunto un ruolo cruciale per la sicurezza energetica del continente a seguito della crisi in Ucraina. La nazione scandinava ha infatti contribuito notevolmente alla diversificazione delle forniture di gas naturale per l’Unione Europea (UE) una volta venute a mancare quelle dalla Russia tra sanzioni, chiusura dei gasdotti e tagli agli approvvigionamenti. Pur non potendo eguagliare l’ammontare annuo complessivo di idrocarburi provenienti dalla Federazione Russa, la Norvegia ha visto crescere a quasi 90 miliardi di metri cubi le stime per il 2022 relative alle esportazioni di gas verso l’Unione Europea, coprendo il 25% circa del fabbisogno totale degli Stati membri. L’aumento dei costi del gas ha inoltre permesso a Oslo di registrare proventi senza precedenti, destinati al già ricchissimo fondo sovrano nazionale, il più ampio al mondo con oltre 1.140 miliardi di euro.

Nel solo mese di agosto, le esportazioni di gas naturale hanno fruttato circa 17 miliardi di euro, un valore superiore del 37% rispetto al mese precedente e addirittura del 360% su base annua. Il valore del gas naturale venduto all’Europa è quindi sostanzialmente “esploso” nel 2022, permettendo alla Norvegia di trarre un vantaggio inaspettato dalla crisi energetica scatenata dall’invasione russa. Si tratta di una posizione controversa, in cui il governo di Oslo si è di fatto ritrovato senza avere modo di invertire la tendenza: una congiuntura indubbiamente favorevole a livello finanziario, ma anche fonte di imbarazzo nei rapporti con i partner europei.

 

Membro della NATO, profondamente legata per ragioni geografiche agli altri Paesi della Scandinavia e integrata perfettamente nel Mercato unico europeo, la Norvegia si trova nei fatti ad essere l’unica nazione del continente a trarre vantaggio dalla crisi energetica, mentre le altre ne soffrono le conseguenze in maniera drammatica. Nelle ultime settimane sono arrivati segnali di nervosismo da parte delle cancellerie europee, a cominciare dai vicini nordici, preoccupati già a fine agosto dai piani di Oslo di tagliare le forniture di energia elettrica a Danimarca, Svezia e Finlandia per soddisfare le esigenze della propria rete. La Norvegia vuole essere considerata un partner affidabile per la sicurezza energetica dell’Unione Europea, ma in tale prospettiva le viene richiesta una maggiore flessibilità e disponibilità nel venire incontro alle esigenze degli Stati membri, alle prese con una delle peggiori crisi dal dopoguerra ad oggi. Il primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre ha di recente avuto diversi confronti diretti con le autorità di Bruxelles, in particolare con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Tema principale della discussione è stato il tetto massimo al prezzo del gas, su cui l’UE fatica a trovare una quadratura e che riguarda non solo la Russia, ma anche altri produttori, in particolare la Norvegia. Støre ha aperto a un confronto su nuovi accordi di lungo periodo per sostenere i Paesi europei in questa congiuntura, pur cercando di non esporre Oslo a situazioni che potrebbero risultare svantaggiose o che vadano contro gli interessi nazionali.

 

A seguito degli incidenti avvenuti a fine settembre ai due gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico, è tornata però alla ribalta anche la questione della sicurezza delle infrastrutture energetiche, che mai come in questa fase coinvolge la Norvegia e i suoi impianti offshore, così come le condotte che dal Mare del Nord portano gli idrocarburi verso il resto d’Europa. La protezione degli impianti strategici risulta cruciale per tutti i clienti interessati dalle forniture norvegesi, motivo per cui il governo di Oslo, dopo aver dispiegato l’esercito in numerosi siti sul territorio nazionale, ha accettato la collaborazione con Regno Unito, Germania e Francia per il monitoraggio delle infrastrutture critiche, con pattugliamenti via mare e via aerea. Di recente si è inoltre aggiunto il gasdotto Baltic Pipe, che dalla Norvegia porta il metano alla Danimarca e alla Polonia, come elemento di diversificazione degli approvvigionamenti europei e di conseguenza ulteriore “arteria” del sistema energetico continentale da tutelare contro potenziali minacce esterne.

 

L’esecutivo di centrosinistra guidato da Støre, costituito dopo le elezioni politiche del settembre 2021, è investito dunque del delicato compito di sostenere la richiesta di produzione di energia destinata all’Unione Europea e combinare al contempo tale missione con i programmi di transizione ecologica già avviati a livello nazionale. La campagna elettorale del 2021 aveva visto i temi ambientali in primo piano, con i potenziali membri della coalizione di sinistra, i Verdi e il Partito rosso, che chiedevano di sospendere l’estrazione di petrolio, avviare una generale dismissione dell’industria degli idrocarburi e vietare nuove esplorazioni. Il governo di minoranza, che vede insieme il Partito labourista e il Partito di centro, si è formato proprio in risposta a queste istanze “radicali”: da vincitore delle elezioni, Støre ha preferito avviare il dialogo con i centristi, pur proseguendo con una ambiziosa piattaforma programmatica in materia di rinnovabili. Il governo ha così avuto mano libera sul piano delle politiche energetiche in ambito fossile, una decisione che a distanza di circa un anno ha portato alla situazione attuale, con la Norvegia primo fornitore di gas dell’Unione Europea. A conferma dell’impegno preso nei confronti di Bruxelles e degli Stati membri, nel corso dell’estate l’esecutivo di Oslo ha ribadito ai partner europei la volontà di mantenere fino al 2030 la produzione di gas al livello attuale, un’apertura importante e che mette in chiaro le priorità delle autorità norvegesi nel medio periodo.

 

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Immagine: Una piattaforma di trivellazione petrolifera nel Mare di Norvegia. Crediti: trattieritratti / Shutterstock.com

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Sabotaggio dei gasdotti Nord Stream. Quali implicazioni?

 

La relazione sempre più complicata tra Russia e Paesi occidentali si arricchisce di un nuovo capitolo, dalle tinte ancora piuttosto oscure. Un’azione di sabotaggio ha provocato nei giorni scorsi alcune esplosioni lungo le condutture dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2, transitanti nel Mar Baltico. Nella notte tra domenica e lunedì è apparsa sulla superficie vicino l’isola danese di Bornholm una turbolenza dovuta a una perdita di gas, seguita successivamente da altre due a poche decine di chilometri di distanza. Le fuoriuscite di gas sono state identificate lungo il corso delle due infrastrutture gemelle, sviluppate dalla Russia in cooperazione con la Germania e assurte a simbolo della relazione bilaterale a livello energetico. Il Nord Stream 2, ultimato nel 2021, non è mai entrato in funzione a causa delle sanzioni imposte contro Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina; il Nord Stream 1 è stato invece progressivamente bloccato su decisione russa questa estate, citando problemi tecnici alle turbine, e da quel momento ha smesso di inviare gas verso l’Europa.

 

Quello che all’inizio poteva sembrare un incidente ha assunto progressivamente dei contorni diversi, in particolare dopo che l’istituto sismologico svedese ​​SNSN (Svenska Nationella Seismiska Nätet, Swedish National Seismic Network) ha registrato delle esplosioni, di cui una con magnitudo 2.3, avvertite anche da stazioni di monitoraggio in Danimarca e Svezia. L’ipotesi che i danni ai due gasdotti Nord Stream siano stati causati deliberatamente con un’azione di sabotaggio è divenuta via via più concreta, lanciando al contempo un allarme in tutta Europa circa i rischi per la sicurezza delle infrastrutture strategiche, in particolare quelle adibite alle forniture energetiche. In una fase di grande difficoltà per molti governi europei, alle prese con la necessità di sostituire gli approvvigionamenti di risorse fossili dalla Russia e impegnati a calmierare l’impennata del costo delle bollette, l’incidente avvenuto nel Mar Baltico non fa che aumentare la pressione sulle cancellerie del continente. Da non sottovalutare in questo contesto anche i danni ambientali legati alla fuoriuscita di gas nelle acque marittime, con l’Agenzia per l’energia danese che ritiene improbabile uno svuotamento delle due condotte danneggiate prima di una settimana.

 

Le stime sono lunghe anche per quanto riguarda le indagini sull’accaduto: sempre le autorità di Copenaghen hanno spiegato come a causa delle turbolenze sia ancora impossibile inviare squadre di ricognizione dove si sono verificate le esplosioni, per comprendere meglio la dinamica del presunto sabotaggio e provare a identificare i responsabili. Le speculazioni in merito portano principalmente alla Russia, accusata da molti esperti di aver colpito due gasdotti ormai “inutili”, visto il quasi totale abbandono dei rapporti commerciali ed energetici con l’Europa, e al contempo motivata dalla volontà di lanciare un segnale in quella che rischia di divenire una fase ancora più accesa del confronto con l’Occidente. I referendum di annessione delle regioni ucraine occupate alla Federazione Russa, la mobilitazione parziale ordinata dal Cremlino e la minaccia di ricorrere ad armi nucleari da parte del presidente Vladimir Putin rientrano nel quadro di un’escalation cercata da Mosca nelle ultime settimane, dopo i successi della controffensiva di Kiev. L’attacco ai due Nord Stream potrebbe quindi venire letto come un’ulteriore mossa ostile verso le nazioni europee, tagliando ulteriormente i canali di approvvigionamento di gas in vista dell’inverno. Le attività della Marina russa nelle acque del Baltico non costituiscono del resto una novità e non sarebbe difficile immaginare l’impiego di incursori o di droni sottomarini per colpire obiettivi come i due gasdotti, posti a circa 100 metri di profondità.

 

Qualcuno si spinge invece a ipotizzare una responsabilità degli Stati Uniti o della Polonia dietro il sabotaggio: entrambi i Paesi hanno sempre manifestato la propria contrarietà alla costruzione dei Nord Stream 1 e 2; in particolare, da Washington è stato spesso lanciato l’allarme sui rapporti energetici troppo stretti tra la Germania e la Russia. Allo stato attuale è in ogni caso molto difficile avanzare ipotesi basate su elementi concreti, e la situazione potrebbe rimanere tale per diverso tempo.

 

Un elemento è già certo: tutti i governi europei dovranno ora lavorare per mettere in sicurezza le infrastrutture giudicate cruciali per l’interesse nazionale, incrementando le attività di monitoraggio e ricorrendo laddove possibile a sinergie in ambito NATO. Forse non a caso le esplosioni sono avvenute il giorno prima dell’inaugurazione del gasdotto Baltic pipe, che collegherà la Norvegia al Mar Baltico, rifornendo la Danimarca e la Polonia, tre nazioni alleate in una regione in cui presto potrebbero esserci altri due membri del Patto atlantico, vale a dire Svezia e Finlandia. Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha ribadito l’impegno dell’Alleanza nel garantire la protezione delle infrastrutture strategiche, seguito a stretto giro dall’annuncio del governo norvegese, che ha aumentato il livello di allerta lungo i gasdotti e oleodotti nazionali, oltre alle piattaforme offshore. La Norvegia è divenuta il principale fornitore di idrocarburi per l’Unione Europea dopo il lancio delle sanzioni contro la Russia, un ruolo che impone alle autorità di Oslo un controllo sempre maggiore sulle condutture per l’approvvigionamento. Nell’interesse dei clienti europei è coadiuvare la Norvegia in questa fase, per evitare che i sabotaggi alle infrastrutture possano divenire un nuovo elemento di tensione.

 

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Immagine: Posatubi cingolato, pronto per la posa in acque poco profonde di tubi del gasdotto Nord stream 2, su un molo nella baia di Narva, Mar Baltico. Crediti: Maximillian cabinet / Shutterstock.com

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La Svezia vira a destra

La Svezia vira a destra dopo la vittoria di misura del blocco “conservatore” alle elezioni per il rinnovo del Riksdag, il Parlamento di Stoccolma. L’esito emerso dalle urne ha confermato le previsioni dei sondaggi, che vedevano le fazioni di centrosinistra e di centrodestra separate da pochi punti percentuali. Dopo un lungo spoglio, conclusosi mercoledì con i voti giunti per posta e quelli delle circoscrizioni estere, si è consolidato il vantaggio del fronte formato dai partiti conservatori, che avranno però una maggioranza di soli tre seggi sull’opposizione, 176 contro 173. Esce dunque sconfitta la premier socialdemocratica Magdalena Andersson, che ha già rassegnato le dimissioni nonostante il suo partito abbia ottenuto più preferenze in assoluto, superando il 30%, e sia anche riuscito a migliorare il risultato delle elezioni precedenti, tenutesi nel 2018. 


Il nuovo governo sarà con tutta probabilità guidato da Ulf Kristersson, leader dei Moderati, sebbene la formazione abbia perso il primato tra le fila del centrodestra, passato ai Democratici svedesi. Questi ultimi sono i veri trionfatori del voto di domenica: partito sovranista con radici nei gruppi di destra radicale, con il 20,5% delle politiche del 2022 i Democratici svedesi hanno incassato, infatti, la migliore percentuale di consensi nella loro storia, segnando la nona elezione consecutiva in cui registrano una crescita alle urne. La scelta del leader Jimmie Åkesson di centrare la campagna elettorale sulla sicurezza e sul contrasto all’immigrazione sembra aver pagato, dettando l’agenda anche per le altre formazioni e ponendo in secondo piano temi pur rilevanti per i cittadini svedesi come la crisi economica, il caro energia e la tutela dell’ambiente. Da anni il problema delle periferie urbane, dove gruppi criminali si contendono il controllo del territorio, si somma nella percezione dell’opinione pubblica agli scontri che nei mesi scorsi hanno coinvolto le forze dell’ordine e la comunità musulmana del Paese. Åkesson ha inoltre avuto il merito di rendere maggiormente “presentabili” le istanze dei Democratici svedesi, contribuendo a eliminare alcuni elementi radicali dalle fila del partito e smorzando la retorica estremista del passato. La costante crescita della formazione, elezione dopo elezione, ha di certo consolidato la credibilità politica di Åkesson, aprendogli ora le porte a incarichi istituzionali.

 

La costituzione della nuova maggioranza sembra in ogni caso complessa: al di là del risultato sorprendente, i Democratici svedesi non godono di grande fiducia presso buona parte dell’elettorato conservatore, a causa del passato “inquietante” della formazione, nata nel 1988 dalla fusione di vari gruppi di estrema destra. Il fatto che il mandato di primo ministro andrà a Kristersson e non ad Åkesson è legato proprio a questa dinamica. A ciò si aggiunge la reticenza espressa già in campagna elettorale dal Partito liberale, che rientra nel blocco di centrodestra, nel partecipare a un governo che comprenda esponenti della forza sovranista in ruoli apicali. Più probabile dunque che i negoziati per formare l’esecutivo partano dall’intesa tra Moderati e Cristiani democratici, per poi coinvolgere gli altri partiti, che potrebbero fornire semplice sostegno esterno a un governo di minoranza, una pratica già vista in diverse occasioni nel Paese scandinavo.

 

Per la Svezia non si tratta del resto della prima maggioranza di centrodestra in seno al Riksdag. Dopo decenni di dominio dei socialdemocratici, dagli anni Novanta in poi sono stati costituiti gabinetti a guida moderata, quelli di Carl Bildt (tra il 1991 e il 1994) e di Fredrik Reinfeldt (per due mandati, dal 2006 al 2014). Tali governi contavano sull’appoggio di liberali, centristi e cristianodemocratici. Con l’ingresso dei Democratici svedesi nell’esecutivo di Kristofferson si vedrebbero però per la prima volta dei ministri provenienti da ambienti legati all’estrema destra partecipare alle riunioni al palazzo Rosenbad, dove ha sede il governo. Si tratta di un passo avanti per molti versi inaspettato in un Paese considerato storicamente una roccaforte “progressista” a livello internazionale. I timori di molti elettori di fronte a uno spostamento a destra dell’azione dell’esecutivo è testimoniato dalle parole della premier dimissionaria Andersson, che nel lasciare l’incarico ha detto di comprendere «la preoccupazione dei cittadini» per l’esito del voto nazionale.

 

Veti incrociati e paletti “irremovibili” potrebbero del resto rendere più ostica del previsto un’intesa tra i quattro partiti del blocco di centrodestra e costringere il futuro premier Kristersson a trovare delle soluzioni alternative per garantire l’integrità della maggioranza, già di per sé legata a soli tre seggi di vantaggio sull’opposizione. Oltre alla crisi energetica e all’aumento dell’inflazione, il nuovo governo di Stoccolma sarà chiamato nell’immediato ad affrontare altri dossier di complicata gestione, primo tra tutti il completamento del processo di ratifica da parte degli Stati membri della NATO del protocollo di adesione della Svezia nell’Alleanza atlantica, su cui pesa il parere decisivo della Turchia e del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

 

Immagine: Jimmie Åkesson (24 agosto 2018). Crediti: Michael715 / Shutterstock.com

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L’autonomia energetica dell’UE passa anche dall’eolico offshore

 

Una delle conseguenze più evidenti della guerra in Ucraina è la crisi energetica che ha colpito l’Europa negli ultimi mesi, tra il taglio delle forniture russe e l’abbandono di progetti infrastrutturali come il gasdotto Nord Stream 2. L’invasione decisa dal Cremlino ha costretto le cancellerie europee a rivedere repentinamente i propri programmi in materia di sicurezza energetica, costringendo in molti casi i governi a dover “frenare” sugli ambiziosi piani relativi alla transizione verde, attuati nel contesto dell’Unione Europea (UE). In questa dinamica rientra l’accordo concluso a fine agosto da otto nazioni che si affacciano sul Baltico per aumentare di sette volte entro il 2030 la capacità di produzione di energia dall’eolico offshore, con l’obiettivo di ridurre drasticamente la dipendenza dalle forniture russe. Si tratta di un legame regionale che coinvolge Danimarca, Germania, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia e Svezia, i cui capi di governo si sono riuniti sull’isola di Bornholm e poi a Marienborg, vicino Copenaghen, per confrontarsi sul tema delle rinnovabili.

Attualmente la capacità degli impianti eolici siti nelle acque del Mar Baltico è pari a 2,8 gigawatt (GW), generati principalmente da infrastrutture appartenenti a Danimarca e Germania. Il potenziale che gli otto Paesi sperano di poter sviluppare è di almeno 20 GW entro il 2030, sufficiente secondo le stime della Confederazione delle industrie danesi (DI, Dansk Industri) a fornire energia fino a un massimo di 30 milioni di persone. Tale cifra non coprirebbe l’intera popolazione delle nazioni firmatarie della dichiarazione di Marienborg, ma rappresenta un primo passo per una forte cooperazione su progetti di rinnovabili a livello UE, coinvolgendo un numero piuttosto ampio di Paesi. La padrona di casa, la premier danese Mette Frederiksen, ha sottolineato come i 20 GW potenzialmente prodotti nel Baltico supererebbero già l’attuale capacità complessiva di tutta l’UE. Frederiksen ha definito l’accordo di Marienborg come «la prima linea della sicurezza energetica europea» alla presenza della presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, che ha messo il timbro di Bruxelles su un’intesa dal valore anche e soprattutto politico.

L’unica nazione del Baltico a restare esclusa è del resto la Russia, che con il gasdotto Nord Stream 1 e il suo raddoppiamento, mai entrato in funzione, gioca un ruolo dominante nella geografia energetica regionale. Importante in questa prospettiva è quindi vedere nazioni avverse al progetto del Nord Stream 2, come Polonia, Lituania, Lettonia e Estonia, che cooperano con la Germania, sponsor dell’infrastruttura insieme alla Russia: l’invasione dell’Ucraina ha riscritto le priorità e gli equilibri interni non solo alla regione del Baltico, ma a tutta l’Europa. Assicurare la stabilità delle forniture e quindi la sicurezza e l’autonomia energetica dell’intero continente europeo è divenuta una questione dirimente, motivo per cui il potenziale dall’eolico nel Mar Baltico è tornato al centro dei programmi UE e dei Paesi dell’area.

Uno studio della Commissione europea ha stimato addirittura a 93 GW la produzione massima di energia grazie allo sfruttamento dei venti negli impianti offshore. Si tratta di uno scenario ambizioso, che fa il paio con quello emerso al Summit del Mare del Nord tenuto a maggio a Esbjerg. Ancora una volta la Danimarca ha ospitato una riunione a cui hanno partecipato Germania, Belgio e Paesi Bassi, in cui è stato fissato a 65 GW l’obiettivo di produzione dall’eolico nelle acque condivise al largo dell’Europa centro-settentrionale, per poi puntare a 150 GW nel 2050. Si tratta di programmi di lungo termine con numerose variabili ed elementi da definire, ma che evidenziano una volontà condivisa tra Stati membri dell’UE di mettere insieme capacità, esperienze e risorse per rilanciare la politica energetica dell’Unione. Non a caso, von der Leyen ha presenziato anche alla riunione di Esbjerg, esprimendo l’interesse delle autorità di Bruxelles nella realizzazione delle isole artificiali e degli altri impianti che dovrebbero potenziare la produzione dall’eolico offshore nel Mare del Nord.

Gli accordi emersi dai vertici di Bornholm-Marienborg ed Esbjerg delineano una risposta forte e orientata alla transizione ecologica da parte dei Paesi europei, pur nella consapevolezza delle difficoltà che emergeranno nel coordinamento e nella realizzazione di progetti infrastrutturali per loro natura complessi. Lanciando a pieno regime gli impianti nel Mar Baltico e nel Mare del Nord al massimo delle potenzialità delineate si arriverebbe a una produzione totale di quasi 250 GW entro il 2050, una quota non lontana dall’obiettivo delineato in precedenza dalla Commissione europea, che punta a quota 300 GW da tutto l’eolico offshore nell’UE. Le intese siglate tra i Paesi dell’Europa settentrionale costituiscono dunque un pilastro per la futura autonomia energetica del continente.

 

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Immagine: Turbine eoliche offshore vicino al ponte di Øresund tra la Danimarca e la Svezia. Crediti: balipadma / Shutterstock.com

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La Svezia si prepara al voto

La Svezia si avvicina alle elezioni parlamentari dell’11 settembre con un panorama politico molto cambiato rispetto a pochi mesi fa. Il Paese scandinavo si è infatti confrontato con uno “shock” di dimensioni epocali, vale a dire l’invasione dell’Ucraina da parte russa e la conseguente revisione della dottrina di sicurezza nazionale che questo evento ha ispirato.  La scelta di aderire alla NATO, seguendo un percorso estremamente rapido, ha messo in evidenza l’appoggio maggioritario dei partiti svedesi all’ingresso nell’Alleanza. Il Parlamento di Stoccolma, il Riksdag, ha discusso e approvato in poche settimane quello che si può a tutti gli effetti definire un passaggio storico per la Svezia, nazione storicamente legata ad una posizione di neutralità negli equilibri internazionali, già da prima della guerra fredda.

L’esperienza da prima ministra di Magdalena Andersson, che aveva raccolto l’eredità difficile di Stefan Löfven, era iniziata a novembre scorso nella maniera peggiore: la leader socialdemocratica si era dovuta dimettere a poche ore dalla nomina a prima ministra, a causa del ritiro del sostegno all’esecutivo dei partiti alleati. Successivamente Andersson era riuscita a formare un governo di minoranza monocolore. Le prospettive erano perciò piuttosto limitate per la premier e il Partito socialdemocratico, consapevoli di avvicinarsi alle elezioni dell’autunno 2022 in svantaggio nei sondaggi rispetto a una possibile coalizione di centrodestra. Ancora a gennaio scorso era questo lo scenario più probabile: sebbene i socialdemocratici mantenessero un relativo vantaggio, la somma dei partiti della destra sembrava spianare la strada a un governo guidato dal leader dei Moderati, Ulf Kristersson, con i Democratici svedesi, formazione di estrema destra, che per la prima volta avrebbe fatto parte di un esecutivo. La guerra in Ucraina ha però avuto un impatto totalmente imprevisto sulla politica del Paese scandinavo. La minaccia russa ha assunto una nuova dimensione in Svezia come nella vicina Finlandia, innescando una reazione tanto rapida quanto decisa che ha portato anche i Socialdemocratici, tradizionalmente cauti circa il tema dell’adesione alla NATO, a cambiare radicalmente prospettiva. La stessa Andersson in pochi mesi è passata da una posizione scettica sull’ingresso nell’Alleanza a parlare con fierezza alla Casa Bianca, ospite del presidente Joe Biden, del nuovo futuro della Svezia nella famiglia della NATO. 

La campagna elettorale ha così “perso” un importante tema di discussione, che avrebbe potuto risultare divisivo e rendere complessa la costituzione di una maggioranza in Parlamento. Guidare il processo che ha portato alla presentazione della domanda di adesione alla NATO ha portato consensi per Andersson e il Partito socialdemocratico, nonostante altre forze avessero mostrato maggiore convinzione in passato sull’argomento. La politica estera resterà in ogni caso al centro del dibattito, vista la mutevole situazione internazionale, ma di sicuro la premier ha tolto argomenti ad alcune delle formazioni di opposizione, come i Moderati e i Democratici svedesi, costringendoli a indirizzare il dibattito pubblico su altre tematiche, come ad esempio la sicurezza e il contrasto alla criminalità. Da anni la Svezia si confronta con un aumento delle tensioni nelle periferie delle principali città, dove guadagnano spesso spazio gang formate da cittadini stranieri, una “emergenza” che si associa alla questione dell’integrazione. In proposito, lo scorso aprile diverse municipalità svedesi hanno assistito a proteste da parte della comunità musulmana dopo che alcuni gruppi di estremisti di destra avevano annunciato dei roghi pubblici di copie del Corano. Le forze di polizia sono intervenute per fermare i disordini, ma l’immagine che molti cittadini hanno avuto è stata quella di un Paese in cui le autorità fanno sempre più fatica nel gestire i flussi di immigrazione nelle periferie, il che si traduce in un punto di favore per i partiti conservatori e uno svantaggio per le formazioni che sostengono una maggiore integrazione. 

 

Altri temi rilevanti sono ovviamente la sanità e l’economia, a seguito delle crisi derivanti dalla pandemia da Covid-19 e dall’aumento dei prezzi delle materie prime. I Moderati, cui i sondaggi attribuiscono una percentuale vicina al 20% dei consensi, si rivolgono all’elettorato promettendo di non alzare le tasse e di semplificare il mercato del lavoro, inducendo sempre più persone a non “approfittare” del welfare, mentre i Cristiano-democratici hanno lamentato le difficoltà del sistema sanitario nazionale. Sui temi socioeconomici si è espresso anche il Partito della sinistra, che chiede maggiore attenzione per i servizi ai cittadini e all’edilizia sociale, oltre che all’istruzione. 

Non a sorpresa, la campagna dei Democratici svedesi verte sulla sicurezza e le difficoltà dei cittadini per la gestione del potere portata avanti negli ultimi anni dai Socialdemocratici. La formazione di estrema destra è in forte ascesa e ha guadagnato da tempo il terzo posto nei sondaggi, attestandosi qualche punto percentuale sotto i Moderati. Il Partito di centro ha sottolineato l’importanza dell’autonomia energetica della Svezia, concentrandosi sulla produzione di elettricità, ma il capitolo della transizione ecologica sta a cuore in generale a molti politici locali, così come quello dell’ambiente, in un Paese da sempre più sensibile della media all’emergenza climatica. Nonostante questo, i Verdi sono uno dei partiti dati in maggiore difficoltà nei sondaggi, con una percentuale di preferenze che non arriva al 5%. Andersson e i Socialdemocratici, che invece viaggiano su una media del 31% dei consensi nelle rilevazioni demoscopiche, possono permettersi di giocare la carta dei valori di unità nazionali, indicando nel proseguimento delle politiche avviate negli ultimi anni di governo la chiave per il progresso del Paese, con un maggiore controllo sugli equilibri tra pubblico e privato e una imposizione fiscale “giusta”. La necessità quasi certa di costruire una coalizione impone dunque all’attuale premier e al suo partito di mantenere una linea di apertura su varie questioni. La dimostrazione di cooperazione data dalle forze politiche svedesi nella decisione storica di adesione alla NATO indica però un possibile terreno di incontro in vista dei prossimi negoziati post-elettorali.

 

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Immagine: Magdalena Andersson (1 maggio 2022). Crediti: Liv Oeian / Shutterstock.com

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L’Uzbekistan tra proteste e richieste di autonomia

L’Asia centrale è nuovamente attraversata da venti di protesta, dopo che a inizio luglio migliaia di persone sono scese in strada nella regione occidentale del Karakalpakstan, in Uzbekistan. Le manifestazioni hanno portato finora a diverse decine di vittime e oltre 500 arresti, un bilancio considerevole e che lancia segnali evidenti di instabilità nell’ex repubblica sovietica, governata con il pugno di ferro da Islam Karimov fino al 2016 e successivamente guidata dal nuovo presidente Shavkat Mirziyoyev. Quest’ultimo ha lanciato una serie di riforme a livello economico e migliorato le relazioni diplomatiche con i vicini, pur mantenendo l’Uzbekistan sotto un rigido controllo politico. Il territorio del Karakalpakstan occupa circa un terzo del totale nazionale ed è abitato dalla minoranza dei Karakalpaki. La regione ha una lunga storia di semiautonomia, istituzionalizzata già nel 1936, quando in epoca sovietica venne creata la Repubblica socialista omonima, pur subordinata a quella uzbeka. Con la dissoluzione dell’URSS e l’indipendenza dell’Uzbekistan, la regione del Karakalpakstan raggiunse nel 1993 un accordo con il governo centrale, sancendo l’impegno di rimanere parte del Paese per almeno un ventennio e maturando il diritto di tenere un referendum per la secessione nel periodo successivo.

 

A fine giugno 2022 le autorità di Tashkent hanno presentato un progetto di riforma costituzionale che definisce il Karakalpakstan come «parte della Repubblica dell’Uzbekistan», dotato di una Costituzione propria che «non può comunque contraddire la Carta e le leggi» della nazione. Da lì a pochi giorni sono iniziate le proteste nella regione occidentale del Paese, concentrate soprattutto nel capoluogo Nukus. Elemento centrale per comprendere la reazione della popolazione locale è la rimozione dalla bozza di riforma costituzionale della possibilità attribuita al Karakalpakstan di portare a termine la secessione dall’Uzbekistan, pur se vincolata allo svolgimento di un referendum.  Già il 1° luglio, migliaia di dimostranti si sono radunati a Nukus, provando ad entrare all’interno del palazzo del Consiglio locale, dove si sono poi scontrati con le forze dell’ordine. Il governo uzbeko ha fatto ricorso alla censura per evitare la diffusione di informazioni e video relativi alle proteste, una pratica ben nota nelle repubbliche dell’Asia centrale. L’accesso a Internet è stato fortemente limitato, così come i media sono stati diffidati dal seguire gli eventi in corso. Portali indipendenti attivi in Uzbekistan hanno però provato a dare copertura dei fatti e denunciato l’arresto di alcuni giornalisti locali. 

Di fronte alle manifestazioni, l’esecutivo nazionale ha istituito lo stato di emergenza nella regione, che rimarrà in vigore fino al 2 agosto, con un coprifuoco dalle 21 alle 7 di mattina e la limitazione alla libertà di circolazione e di riunione, che si accompagna a maggiori poteri per la polizia. Per giustificare la repressione e la detenzione di centinaia di persone, le autorità hanno accusato i manifestanti di aver tentato di spodestare il governo karakalpako. Al contempo, il presidente Mirziyoyev ha deciso di visitare Nukus nel tentativo di placare le proteste, promettendo la revisione degli emendamenti costituzionali proposti. Il capo dello Stato si è di fatto impegnato a mantenere in qualche maniera la forma di autogoverno che caratterizza il Karakalpakstan: Mirziyoyev ha spiegato come siano sorti dei «malintesi nell’interpretare l’essenza della questione» e ribadito la scelta delle autorità di mantenere la «via del dialogo» sulle riforme istituzionali. Il presidente ha però avuto parole dure verso «chi incita a tendenze separatiste e rivolte di massa», evidenziando la pericolosità di tali azioni e le «punizioni inevitabili» che seguiranno per i responsabili. Secondo alcuni commentatori, la crisi nel Karakalpakstan dimostrerebbe un’evoluzione nella gestione del potere da parte di Mirziyoyev, con una tendenza all’accentramento e alla personalizzazione politica: la riforma costituzionale sarebbe del resto stata presentata con l’obiettivo primario di permettere all’attuale presidente di concorrere per un eventuale terzo mandato e superare la soglia del 2026 come limite massimo, in base all’attuale dettato costituzionale. La decisione di Mirziyoyev di spostarsi rapidamente a Nukus per blandire la popolazione locale evidenzierebbe inoltre la volontà di gestire in prima persona la situazione, indicando un superamento dei processi istituzionali nel Paese.

 

Le tensioni nel Karakalpakstan sembrano per il momento rientrate, grazie anche alla rapida repressione dei moti di protesta. L’atteggiamento ambivalente tenuto in questa crisi dal presidente uzbeko sembra avere un legame diretto con quanto avvenuto a gennaio in Kazakhstan, dove le proteste di piazza si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese e hanno richiesto l’intervento delle forze dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO, Collective Security Treaty Organization), nello specifico delle truppe inviate dalla Federazione Russa, per sedare la situazione. Il modello autoritario diffuso in tutta l’Asia centrale, con limitate differenze a livello istituzionale e politico, fa sì che le istanze e le proteste emergenti in un singolo Paese possano ispirare i cittadini delle altre nazioni, così come le risposte di un governo possano fare da modello per i vicini. Non è un caso che nei giorni immediatamente successivi ai disordini nel Karakalpkstan, Mirziyoev abbia avuto conversazioni telefoniche con gli omologhi regionali, dal kazakho Kassym Jomart-Tokayev al tagiko Emomali Rahmon e al kirghiso Sadır Japarov, per ribadire il pieno controllo di Tashkent sulla situazione interna. Mirziyoyev ha potuto confrontarsi anche con le controparti di Turchia e Russia, vale a dire Recep Tayyip Erdoğan e Vladimir Putin, inevitabilmente interessati alla stabilità della Repubblica centroasiatica, la più popolosa dell’area.

 

Immagine: Il cimitero storico di Mizdakhan presso la città di Nukus, Uzbekistan (5 maggio 2019). Crediti: monticello / Shutterstock.com

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Tra Lituania e Russia crescono le tensioni per Kaliningrad

 

La Lituania ha di recente guadagnato l’attenzione internazionale con la decisione di bloccare il transito di alcune merci che dalla Russia erano dirette all’exclave di Kaliningrad. Una scelta motivata dal governo di Vilnius con la mera applicazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea (UE) alla Federazione Russa dopo l’invasione dell’Ucraina, ma che Mosca ha inevitabilmente percepito come un atto di sfida. Le autorità di Bruxelles sono rimaste sullo sfondo, senza entrare pienamente nel merito della disputa ma al contempo attente al possibile montare delle tensioni. La Russia ha minacciato ritorsioni contro la Lituania e convocato l’incaricato d’affari del Paese baltico al ministero degli Esteri moscovita per chiedere «l’annullamento immediato» delle restrizioni, considerate come ostili.

 

La Lituania ha il controllo dell’unica linea ferroviaria terrestre che collega la Russia continentale con Kaliningrad, detenendo dunque una leva non indifferente nei confronti di Mosca. Al contempo, l’exclave russa è considerata come uno dei territori maggiormente militarizzati e “nuclearizzati” in Europa, motivo per cui le cancellerie occidentali guardano sempre con attenzione quanto accade nell’area. Vilnius ha iniziato nello specifico a limitare l’esportazione verso Kaliningrad di merci oggetto delle sanzioni UE, vale a dire cemento, acciaio, ferro e carbone. Come confermato pubblicamente dall’alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza dell’Unione, Josep Borrell, la Lituania «non ha adottato alcuna restrizione unilaterale nazionale e applica unicamente le sanzioni» decise dall’Unione Europea nei mesi scorsi. In questo modo Borrell ha dunque difeso la decisione del Paese baltico, rispondendo a quella che ha definito «la propaganda» del Cremlino in merito al presunto blocco. Alcuni funzionari e diplomatici a Bruxelles hanno però evidenziato come la situazione creatasi a Kaliningrad fosse un «effetto non voluto» del quarto pacchetto di sanzioni contro la Russia, che mira proprio a impedire l’importazione nell’UE di acciaio e materiali ferrosi dal Paese. I doganieri lituani avrebbero essenzialmente bloccato il transito sul proprio territorio delle forniture destinate all’exclave sul Baltico, interpretando evidentemente alla lettera il dettato delle sanzioni in questione.

 

Questa vicenda può venire letta da una prospettiva diversa: la Lituania rientra infatti nel fronte di nazioni europee, insieme alle “sorelle” Estonia e Lettonia e alla vicina Polonia, che intendono mantenere la linea dura contro la Russia. L’antagonismo degli ultimi decenni, nato in contrapposizione al dominio e all’influenza sovietica in questi Paesi, ha assunto una maggiore intransigenza dopo l’invasione dell’Ucraina. Bloccare il transito di merci a Kaliningrad, per quanto teoricamente in linea con le sanzioni decise dall’Unione Europea, potrebbe inevitabilmente portare a una misura di ritorsione da parte russa, uno scenario a cui le autorità di Vilnius sono pronte a rispondere, fosse anche la disconnessione della rete nazionale da quella di Mosca, come spiegato dal presidente lituano, Gitanas Nausėda. Un progetto del valore complessivo di 1,6 miliardi di euro è stato già lanciato negli scorsi anni proprio per consentire ai tre Paesi del Baltico di lasciare la rete elettrica condivisa con Russia e Bielorussia entro il 2025, legandosi invece a quella dell’Europa centrale.

 

Sono fondati i timori di una escalation militare legata alla sospensione del traffico di merci verso Kaliningrad? Il presidente Nausėda ha escluso espressamente un attacco russo contro la Lituania, dal momento che la nazione baltica fa parte della NATO; secondo il capo dello Stato serviranno comunque maggiori garanzie da parte dell’Alleanza atlantica per scongiurare eventuali minacce di Mosca. La situazione attuale nel Donbass, con le truppe russe impegnate in una logorante guerra d’attrito, rende effettivamente difficile immaginare il dispiegamento di altre forze a Kaliningrad e l’apertura, così, di un nuovo fronte. Nel contesto del conflitto in Ucraina, la Russia e la NATO sono del resto state estremamente attente finora ad evitare provocazioni reciproche, pur considerando il ruolo dell’Alleanza nel sostegno alla resistenza di Kiev.

Un capitolo a parte merita il cosiddetto corridoio di Suwałki (o Suwałki Gap), vale a dire il tratto di confine di circa 65 km tra la Polonia e la Lituania, stretto tra la Bielorussia e l’exclave di Kaliningrad. Molto è stato scritto sulla possibilità che Mosca, in caso di scontro con la NATO, decida di chiudere il corridoio di Suwalki – in coordinamento con Minsk – isolando di fatto le tre nazioni baltiche dal resto dei Paesi alleati. Si tratta indubbiamente di uno scenario di rischio nei calcoli strategici della Nato, ma proprio per questo motivo esso è stato al centro di simulazioni ed esercitazioni condotte dall’Alleanza. Solo nelle ultime settimane è stato organizzato un trasporto aereo di oltre 100 paracadutisti francesi in Estonia, per dimostrare la prontezza delle forze speciali NATO in caso di emergenza. La futura adesione di Svezia e Finlandia all’organizzazione di difesa transatlantica renderà inoltre più complicato per la Russia muoversi nell’area del Baltico e isolare le tre piccole nazioni della regione. Se dunque la situazione difficilmente potrà “scaldarsi” oltre misura sul piano militare, a Mosca non mancano però gli strumenti per colpire i nemici. Un esempio è arrivato proprio nei giorni scorsi, con un attacco informatico che ha colpito i siti web di istituzioni pubbliche e private in Lituania, rivendicato dal gruppo hacker russo Killnet e motivato come “vendetta” per il blocco delle merci in direzione di Kaliningrad.

 

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Immagine: Da sinistra, la bandiera della Lituania e quella della NATO, Vilnius, Lituania (29 marzo 2022). Crediti: Michele Ursi / Shutterstock.com

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Il profilo intransigente dell’Estonia

La prima ministra dell’Estonia, Kaja Kallas, ha guadagnato negli ultimi mesi una vasta popolarità a livello internazionale, come rappresentante di una “nuova Europa” pronta a respingere in maniera netta l’aggressione russa in Ucraina. La premier estone si trova però in difficoltà sul fronte interno, complice una crisi politica che potrebbe portare alla fine della sua esperienza da capo del governo. Leader del Partito riformatore (ER, Eesti Reformierakond), Kallas ha deciso a inizio mese di estromettere dall’esecutivo i sette ministri appartenenti al Partito di centro (EK, Eesti Keskerakond), l’altra componente della coalizione creatasi nel gennaio 2021. Causa di tale sviluppo è stata la scelta dei centristi di votare, insieme all’opposizione, a favore di un disegno di legge che raddoppiava gli aiuti alle famiglie, in contrasto con le linee programmatiche dell’accordo di governo. Questa mossa ha rappresentato il culmine di una relazione sempre più tesa tra i due partner di coalizione, motivata anche da ragioni che travalicano le questioni prettamente politiche. Secondo diversi commentatori estoni, la visibilità guadagnata da Kallas ha in qualche modo creato uno squilibrio nel rapporto tra le due formazioni di governo. L’ex premier Jüri Ratas, leader del Partito di centro, resta infatti una figura ambiziosa nel panorama politico nazionale. Dopo aver ceduto l’incarico di primo ministro a inizio 2021 a causa di un caso di corruzione che ha coinvolto l’EK, Ratas ha accettato di formare un nuovo esecutivo con i Riformatori, pur rimanendo escluso personalmente dalla squadra di governo. Le tensioni tra i due partiti degli ultimi mesi hanno esacerbato le potenziali instabilità nella coalizione, a fronte di una situazione internazionale in cui Kallas ha potuto guadagnare prestigio come portavoce della linea dura contro la Russia e il presidente Vladimir Putin.

 

Pur guidando una nazione piccola e considerata “marginale” in ambito europeo, la premier dell’Estonia ha assunto un ruolo da protagonista nella campagna di sostegno all’Ucraina, sia in termini militari sia politici, auspicando inoltre una pronta adesione di Kiev all’Unione Europea (UE). Negli ultimi mesi Kallas ha rilasciato interviste ai principali media continentali e a quelli oltreoceano, divenendo un volto noto in tutto il mondo. La prima ministra è stata soprannominata “la nuova Iron Lady europea” proprio per la sua retorica combattiva, determinata a non lasciare alcun margine al Cremlino nello scontro con l’Occidente, a seguito dell’invasione dell’Ucraina. In un intervento di pochi giorni fa per il Washington Post, Kallas ha messo in evidenza i propri timori «per le richieste da parte dei leader europei in merito a negoziati di pace», che a suo giudizio rischiano di dare un vantaggio sostanziale alla Russia. La premier ha respinto in maniera netta le prospettive di un accordo per concludere la guerra, spiegando come tale scenario «condurrebbe a una preoccupante situazione di insicurezza in Europa». Si tratta di una linea in aperto contrasto con i tentativi diplomatici – seppur blandi ‒ condotti finora da alcune cancellerie europee e che delinea una frattura sostanziale anche all’interno dell’UE in merito ai futuri sviluppi del conflitto in Ucraina. L’Estonia si posiziona apertamente tra i “falchi” insieme alle altre nazioni baltiche, alla Polonia e al Regno Unito, con i quali si è da mesi sviluppato un rapporto di cooperazione in materia di sicurezza. Lo spazio che i media britannici hanno dato a Kallas da inizio 2022 è esemplare di questa dinamica: la leader estone è in qualche modo assurta a paradigma e portavoce della resistenza dei Paesi dell’Europa orientale di fronte alla minaccia russa.

 

Sembrerebbe dunque che Ratas e il Partito di centro temano la popolarità di Kallas per un mero calcolo elettorale. In realtà alcuni commentatori evidenziano anche il peculiare rapporto tra l’EK e la minoranza russa del Paese baltico, che costituisce circa un quarto del totale della popolazione estone e rappresenta un importante bacino di voti per la formazione centrista. Il partito di Ratas avrebbe quindi una motivazione chiara nel “sabotare” il governo di Tallinn, a fronte delle istanze sostenute dall’attuale premier. La stessa Kallas ha accusato il Partito di centro di lavorare contro gli interessi e i valori nazionali, minando l’indipendenza dell’Estonia. A fine maggio le tensioni costanti tra i due partiti, culminate con la scelta dell’EK di sostenere la mozione dell’estrema destra di EKRE per raddoppiare i sussidi alle famiglie, hanno inevitabilmente condotto a una rottura definitiva. Kallas dovrà ora trovare una nuova coalizione pronta a sostenerla come premier, cercando un’intesa con i conservatori di Isamaa e i Socialdemocratici. I negoziati in corso con questi due partiti sembrano poter offrire a Kallas una seconda opportunità di guidare il Paese baltico, per quanto al momento in cui scriviamo non sia ancora stato raggiunto un accordo: tra gli elementi di maggiore criticità figura la spinta di Isamaa per l’inserimento nell’agenda del futuro esecutivo di un pacchetto di aiuti alle famiglie, quello che era stato il “pomo della discordia” tra ER e EK.  In ogni caso, le tre forze politiche, secondo la premier estone, hanno diversi elementi in comune per dare forma a un nuovo governo, in un contesto di forti tensioni geopolitiche che richiedono inevitabilmente uno impegno condiviso da parte dei partiti nazionali. A preoccupare davvero è però l’andamento dell’economia, considerando che a fine maggio le stime flash Eurostat hanno segnato un tasso di inflazione al 20% in Estonia, il dato più alto dell’eurozona e un segnale allarmante per il futuro prossimo. Del resto, gli avversari di Kallas la accusano di aver prestato più attenzione negli ultimi mesi alla politica estera piuttosto che al benessere dei cittadini. In caso di successo nelle trattative con Isamaa e i Socialdemocratici, la premier estone dovrà quindi ricalibrare gli sforzi del governo verso la stabilità e la ripresa economica interna, senza mettere tuttavia in secondo piano le proprie ambizioni a livello internazionale.

 

Immagine: Kaja Kallas (15 dicembre 2021). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Il ruolo della Polonia nella guerra in Ucraina

Il conflitto in Ucraina ha modificato la percezione internazionale della Polonia. L’enorme afflusso di profughi dal Paese vicino, ormai oltre 3,5 milioni, ha reso Varsavia la protagonista dell’accoglienza di fronte alla crisi umanitaria. Su oltre 6,6 milioni di ucraini che hanno lasciato il loro Paese a causa della guerra, più della metà hanno al momento trovato ospitalità in Polonia. Questa dinamica ha contribuito a rovesciare la precedente immagine di Varsavia, considerata come “egoista” e indifferente all’emergenza migratoria che coinvolge da anni gli Stati meridionali dell’Unione Europea (UE). Per quanto una buona parte delle iniziative di solidarietà verso i profughi ucraini siano da attribuire direttamente ai cittadini polacchi, sia per azione dei singoli che a livello di organizzazioni non governative, le autorità polacche hanno saputo coordinare gli sforzi di accoglienza. In questo modo, la Polonia è riuscita a guadagnare visibilità e “credito” nei confronti di Bruxelles, mettendo temporaneamente da parte i contrasti derivanti dalle riforme giudiziarie intraprese negli ultimi anni dall’esecutivo guidato dal partito Diritto e giustizia (PiS, Prawo i Sprawiedliwość). Il cambiamento in corso riguarda anche la posizione della Polonia nell’UE: il Paese è passato da “elemento problematico” a voce autorevole nell’elaborazione della risposta comunitaria alla crisi in Ucraina. Varsavia è in prima linea nel chiedere la maggiore severità possibile sulle sanzioni alla Russia, portando al contempo avanti una battaglia per la sospensione di tutti gli acquisti di idrocarburi che vadano ad arricchire Mosca e ad alimentarne la macchina bellica. In questa prospettiva, la Polonia può vantare insieme agli Stati del Baltico una coerenza cristallina: l’opposizione al Cremlino e agli accordi di qualsiasi tipo con le aziende russe è sempre stata al centro della politica estera di Varsavia, rifuggendo il pragmatismo messo in atto da altri Paesi, prima tra tutti la Germania. Emblematico il caso del gasdotto Nord Stream 2. L’infrastruttura, fortemente voluta sia da Berlino che da Mosca, era stata contestata fin dal principio dalla Polonia e dalle cancellerie di Lituania, Lettonia e Estonia, oltre che dall’Ucraina. Se il governo e le imprese tedesche sottolineavano la necessità e i vantaggi derivanti dall’incremento delle forniture di gas verso l’Europa, il fronte contrario denunciava la natura “politica” del gasdotto, come strumento di pressione che la Russia avrebbe potuto sfruttare nei rapporti con i Paesi UE.

 

L’invasione dell’Ucraina ha reso la Polonia la “Cassandra” della sicurezza europea. Il governo di Varsavia in questi mesi ha ricordato ai partner dell’Unione e agli alleati tutte le volte in cui ha lanciato l’allarme sul pericolo proveniente da est, sull’importanza di rafforzare il fianco orientale della NATO e di ridurre la dipendenza energetica da Mosca. L’allarmismo polacco aveva delle evidenti ragioni d’essere, considerando quanto avvenuto il 24 febbraio e le evoluzioni diplomatiche successive. Seguendo questa linea, la Polonia ha sostenuto con vigore l’invio di armi all’Ucraina, facendosi portavoce della necessità di fornire a Kiev sistemi moderni ed efficaci, garantendo inoltre la possibilità di far passare le spedizioni di strumenti militari tramite il proprio territorio. A questo si aggiunge il ruolo che il governo di Varsavia ha avuto come promotore, insieme alla Svezia, della Conferenza internazionale dei donatori per l’Ucraina, con un evento tenutosi proprio nella capitale polacca a inizio maggio che ha raccolto fondi per 6 miliardi di euro. Ancora più recente è stata la visita a Kiev del presidente della Polonia, Andrzej Duda, il primo leader internazionale a tenere un discorso al Parlamento ucraino, la Verkhovna Rada, dall’inizio della guerra. Nel suo intervento, Duda ha sottolineato come spetti all’Ucraina «decidere il proprio futuro»: una frase che evidenzia in maniera chiara la posizione di Varsavia sulla guerra ancora in corso e le modalità in cui dovrebbe concludersi.

 

La Polonia, ancora una volta insieme ai Paesi baltici e al Regno Unito, è considerata fautrice della “linea dura”, intendendo proseguire il sostegno all’Ucraina fino a quando essa non si troverà in una posizione tale da permetterle di respingere definitivamente l’offensiva russa e liberare i territori occupati finora da Mosca. In questo quadro, la Russia dovrebbe venire esclusa dalla comunità internazionale fino a quando al Cremlino siederà Vladimir Putin. Tale visione si scontra con quella a supporto di una qualche forma di dialogo, portata avanti, pur se in maniera diversa e non concertata, da Francia, Germania e Italia: l’obiettivo primario in questa fase è il raggiungimento di un cessate il fuoco, mentre per il futuro sarà importante “non umiliare” la Russia. Si tratta di due prospettive non necessariamente agli antipodi ma comunque ben distanti, da cui emerge la differente considerazione del ruolo dell’Ucraina nel conflitto. La Polonia sta provando a rinsaldare sempre più il legame con il vicino meridionale, lavorando a un partenariato che, una volta messa alle spalle la guerra, possa consentire a Kiev di avere uno sponsor esclusivo nel dialogo con le autorità europee. Se l’adesione dell’Ucraina all’UE sembra ancora molto distante nel tempo, una qualche forma di legame “ibrido” con Bruxelles e i Paesi dell’Europa occidentale potrebbe essere più facilmente perseguibile. In questo contesto, Varsavia potrà far valere la propria rinnovata centralità in seno all’Unione per perorare la causa ucraina. Fondamentale però sarà anche l’evoluzione dei rapporti tra la Polonia e la Commissione europea. La disputa sullo Stato di diritto è tutt’altro che conclusa, nonostante dall’esecutivo comunitario sia arrivata di recente un’apertura in tal senso, ossia lo sblocco dei fondi del Next Generation EU, pari a circa 36 miliardi di euro, a fronte dell’impegno del governo polacco nel rivedere la contestata riforma della magistratura.

 

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Immagine: Volontari aiutano i rifugiati dall’Ucraina alla stazione ferroviaria di Varsavia, Polonia (9 marzo 2022). Crediti: Olha Solodenko / Shutterstock.com

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Il rafforzamento della NATO nel “grande Nord”

Finlandia e Svezia hanno deciso di chiedere l’adesione alla NATO, una scelta che arriva in seguito all’invasione dell’Ucraina e in risposta alla minaccia russa. L’ingresso dei due Paesi scandinavi nell’Alleanza atlantica modificherà inevitabilmente gli equilibri di sicurezza in Europa, creando una linea continua sul fronte NATO che va dal Mediterraneo fino a Capo Nord, seguendo in buona parte i confini della Federazione Russa. A cambiare sarà però anche la dinamica geostrategica nella regione artica, dove già da decenni l’Unione sovietica e poi la Russia hanno dovuto confrontarsi con nazioni dell’Alleanza quali Norvegia, Danimarca, Canada e Stati Uniti, spartendosi la terraferma e le acque territoriali dell’Artide. Gli stessi Paesi sono i membri del Consiglio artico, il principale forum di cooperazione e confronto nella regione, le cui sedute sono state sospese dopo l’invasione dell’Ucraina, al fine di punire la Russia. 

 

Il rafforzamento della NATO nel “grande Nord” è quindi un elemento destinato a modificare sia nel breve che nel lungo termine le dinamiche geopolitiche nell’area, che come poche altre al mondo mette insieme elementi forzati di collaborazione transnazionale su questioni ambientali, economiche e di sicurezza. Le condizioni atmosferiche estreme rendono infatti necessario lavorare di concerto per condurre operazioni di salvataggio, così come esiste una condivisione di informazioni e conoscenze per monitorare il livello di scioglimento dei ghiacci e in generale tutti i fenomeni che sono attribuibili all’aumento delle temperature e al cambiamento climatico. Il controllo delle risorse energetiche nell’Artico è un altro tema centrale in questo peculiare schema di competizione/cooperazione che caratterizza la regione: alla disponibilità di ingenti giacimenti di idrocarburi e minerali fa da contraltare la particolare difficoltà nei processi di esplorazione ed eventuale estrazione, rendendo necessarie forme di collaborazione e scambio di competenze tra gli attori locali, sia pubbliche che private. 

 

L’Alleanza atlantica ha tenuto a marzo alcune esercitazioni militari nella Norvegia settentrionale, che hanno coinvolto anche Svezia e Finlandia: le manovre erano pianificate da tempo, ma la Russia ha denunciato come «preoccupante» il dispiegamento di soldati nella regione artica e menzionato «incidenti non voluti» come possibile conseguenza di tale dinamica. L’ingresso a tutti gli effetti di Svezia e Finlandia nell’Alleanza, che potrebbe avvenire entro pochi mesi dopo la presentazione ufficiale della richiesta di adesione, metterà indubbiamente alla prova gli equilibri vigenti nell’Artico, rimasti intatti per lungo tempo nonostante tensioni mai veramente sopite tra la Russia e i Paesi occidentali. Gli effetti della guerra in Ucraina sembrano però di una portata senza precedenti, come del resto dimostrato dalla decisione di Stoccolma e Helsinki di mettere in discussione rapidamente la postura di neutralità mantenuta dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi (e che nel caso svedese era frutto di un percorso iniziato addirittura nel 1814). L’ingresso delle due nazioni scandinave nella NATO andrebbe ad accelerare inevitabilmente la dinamica di potenziamento militare già in corso da tempo nella regione, legata allo scioglimento progressivo dei ghiacci e ai vantaggi che questa situazione ha portato nello sfruttamento delle rotte marittime artiche. La Russia in particolare ha rafforzato negli ultimi anni le infrastrutture strategiche nelle sue regioni dell’estremo Nord, partendo dal Mar Bianco e lungo gran parte della costa siberiana. Questa “corsa agli armamenti” non ha trovato una vera e propria risposta da parte delle nazioni scandinave, timorose tuttavia degli effetti di una militarizzazione nell’Artico e nelle proprie immediate vicinanze, come nella penisola di Kola, dove la Russia dispone di importanti basi aeree e del quartier generale della Flotta del Nord, a Severomorsk. In queste acque incrociano i sottomarini strategici e altre componenti della forza navale di Mosca. La modernizzazione e lo sviluppo delle infrastrutture marittime russe nell’Artico non ha necessariamente motivazioni aggressive, bensì di protezione degli interessi nazionali in una regione considerata fondamentale per il futuro del Paese, per il potenziale delle risorse energetiche e minerarie, oltre che come hub di trasporto. 

 

L’allargamento della NATO sul fronte settentrionale non può che essere visto come un segnale inquietante dal Cremlino, per quanto Vladimir Putin abbia contribuito in maniera evidente alla decisione di Svezia e Finlandia di aderire all’Alleanza atlantica. Paradossalmente, le intenzioni della leadership russa lungo i propri confini settentrionali sembrerebbero quelle di mantenere la massima stabilità possibile, senza innalzare i toni verso una escalation quanto mai impossibile da gestire per Mosca in questo momento. Di fronte all’annuncio dei governi di Stoccolma e Helsinki di voler entrare nella NATO, le autorità russe sono sembrate minimizzare l’accaduto, evidenziando come i due Paesi siano ormai già da tempo nell’orbita dell’Alleanza in termini di cooperazione militare.

 

Le prospettive della futura competizione tra Russia e NATO nell’Artico sono dunque da valutare sotto diversi aspetti, intersecandosi con le esigenze di cooperazione specifiche della regione e con i grandi interrogativi relativi più in generale all’evoluzione del rapporto tra Mosca e l’Occidente, una volta che sarà conclusa la guerra in Ucraina. Certo è che l’Alleanza guadagnerà due Stati membri, Svezia e Finlandia, in grado di aumentare nettamente il potenziale militare dell’organizzazione in tutta l’Europa settentrionale, dal Baltico al Circolo polare artico, influenzando i rapporti di forza in tutta questa macroarea.

 

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Immagine: Mare di Barents, Mare Artico. Crediti: diy13 / Shutterstock.com

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I risvolti dell’allargamento del conflitto alla Transnistria

 

La Transnistria ha guadagnato nelle ultime settimane l’attenzione internazionale, pur nell’ambito più generale del conflitto in Ucraina: la regione separatista della Moldavia potrebbe costituire un nuovo fronte nelle operazioni militari portate avanti dalla Russia. Tra i potenziali obiettivi di Mosca ci sarebbe infatti la realizzazione di un ponte terrestre lungo la costa del Mar Nero, comprendente il Donbass, la Crimea e il territorio di Odessa fino al fiume Nistro (Dnestr). Questa prospettiva era già emersa in fasi precedenti del conflitto e successivamente smentita per via delle difficoltà incontrate dalle forze russe nel corso dell’invasione dell’Ucraina. Una serie di esplosioni avvenute in Transnistria presso alcune strutture di rilevanza strategica ha riportato però a discutere della potenziale instabilità della regione, oltre che della possibilità di operazioni “false flag” condotte da agenti di Mosca come pretesto per allargare l’area delle operazioni militari.

La Transnistria è un’area prevalentemente di lingua russa schiacciata tra la Moldavia e l’Ucraina, posta sulla riva sinistra del Nistro. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’entità separatista dichiarò l’indipendenza da Chişinău e conquistò l’autonomia de facto (sostenuta dalla Russia) grazie alla vittoria nella breve guerra del 1992, pur senza ottenere un riconoscimento internazionale.

Ancora oggi la leadership di Tiraspol′, la capitale della Transnistria, ha fortissimi legami di natura politica ed economica con il Cremlino e ospita circa 1.500 soldati russi schierati in maniera permanente nella regione, a guardia di importanti depositi di armi, tra cui il grande arsenale di munizioni di Cobasna. Secondo alcune stime, gli effettivi stanziati da Mosca sarebbero circa un centinaio, mentre il grosso del contingente sopracitato sarebbe costituito da contractor con passaporto russo. Questo elemento renderebbe meno “concreta” la minaccia di un coinvolgimento della Transnistria nella guerra in corso in Ucraina, in quanto metterebbe in evidenza l’effettiva inconsistenza del dispiegamento di truppe di cui la Russia può contare in loco. A ciò va aggiunta l’impossibilità per le autorità di Mosca di creare un ponte aereo per rifornire di armi e munizioni i propri soldati e quelli dei separatisti in un eventuale scontro con le forze di Kiev (o persino quelle della Moldova), vista la pericolosità di far volare aerei da trasporto sul territorio ucraino. Qualora l’offensiva russa si rivolgesse con successo verso la regione di Odessa, si potrebbe invece considerare un’estensione dell’escalation militare alla Transnistria, ma questo scenario sembra per il momento accantonato dai decisori militari di Mosca, nonostante alcune dichiarazioni minacciose circa sortite ulteriori nell’Ucraina occidentale, accompagnate da lanci di missili nell’area.

 

Diverso è il punto di vista della Moldavia, un Paese già messo sotto forte pressione dall’ondata di centinaia di migliaia di profughi ucraini e timoroso che il proseguire della guerra possa in qualche modo destabilizzare il fragile sistema istituzionale ed economico nazionale. La presidenza di Maia Sandu ha impresso una svolta europeista al percorso politico di Chişinău, mettendo da parte la sudditanza rispetto a Mosca imposta dal predecessore, il filorusso Igor Dodon. La “spina” costituita dalla Transnistria resta però presente, e Sandu ha chiesto che le truppe schierate dalla Russia lascino la regione, venendo sostituite da una missione di monitoraggio dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Il Cremlino si oppone ovviamente a tale sviluppo, preferendo perpetuare lo stallo nei rapporti tra Chişinău e Tiraspol′, mantenendo così la propria leva di controllo sulla Moldavia. Non è un caso che le misteriose esplosioni registrate in Transnistria siano state prontamente denunciate dalle autorità moldave come un tentativo pretestuoso di alzare la tensione, quando già gli effetti del conflitto nella vicina Ucraina sono ben evidenti nel Paese. Qualsiasi estensione dell’area di guerra verso i propri confini vedrebbe la Moldavia come “zona cuscinetto” tra l’avanzata russa e la Romania, divenuta il bastione della NATO nell’Europa centro-meridionale. In termini di sicurezza, d’altronde, è solo alla “nazione sorella” che Chişinău potrebbe guardare: anche nell’attuale crisi, Bucarest sta fornendo assistenza umanitaria nell’accoglienza delle centinaia di migliaia di profughi in arrivo dall’Ucraina. La Romania lavora inoltre da anni per garantire una maggiore indipendenza della rete energetica moldava dalle forniture russe, attraverso nuove infrastrutture di trasporto di energia elettrica e gas naturale. I legami tra i due Paesi vanno oltre la dimensione politica ed economica, basandosi soprattutto su una comunanza storica, linguistica e culturale, tanto che alcuni in Moldavia perorano la causa di un’unione definitiva con la Romania; tale visione geopolitica si fermerebbe però proprio al fiume Nistro, escludendo la russofona Transnistria da questo disegno di ricongiunzione dei popoli di lingua romena.

 

L’evoluzione del conflitto in Ucraina avrà un impatto rilevante nei rapporti tra Chişinău e la repubblica separatista. Un ridimensionamento dell’area di influenza russa, a seguito delle difficoltà riscontrate nell’offensiva ucraina, potrebbe avere effetti a catena su tutte le entità autonomiste sostenute da Mosca nello spazio post-sovietico, che da un giorno all’altro perderebbero il principale sponsor economico e di sicurezza. La Transnistria, isolata geograficamente dalla Russia, potrebbe essere la prima a fronteggiare questo scenario. Nel frattempo, gli osservatori in loco riferiscono di un notevole flusso migratorio dalla repubblica separatista verso la Moldavia, in particolare da parte di coloro che potrebbero essere soggetti a coscrizione obbligatoria in caso di allargamento del conflitto alla Transnistria.

 

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Immagine: Sullo sfondo, il Teatro di Stato della Transnistria, Tiraspol′, Transnistria (1 settembre 2018). Crediti: Martyn Jandula / Shutterstock.com

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Armenia e Azerbaigian, le altre tensioni nello spazio ex sovietico

 

Prima dell’invasione dell’Ucraina, l’ultimo conflitto nello spazio post-sovietico era stato quello tra Armenia e Azerbaigian nell’autunno del 2020, combattuto per il controllo della regione contesa del Nagorno-Karabakh. Nonostante la tregua raggiunta successivamente tra i due Paesi, il Caucaso meridionale resta tuttora una delle aree di maggiore instabilità nel vicinato orientale europeo, una regione caratterizzata da tensioni di lunga data e dalla presenza di importanti attori esterni.

 

A inizio aprile ha avuto luogo a Bruxelles, su iniziativa del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, un incontro di grande rilevanza sul piano diplomatico tra il capo dello Stato azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. I due leader hanno concordato sulla volontà di raggiungere rapidamente un accordo di pace, una svolta positiva nell’ambito di un processo negoziale da tempo bloccato. Aliyev e Pashinyan hanno trovato un’intesa anche sull’istituzione di una commissione congiunta per i confini, che vada a delimitare le frontiere nazionali nelle aree contese nel Nagorno-Karabakh. Ai ministri degli Esteri di Baku e Erevan verrà dato mandato di lavorare per la stesura di un vero e proprio trattato di pace, al fine di risolvere questioni aperte da decenni. L’Unione Europea emerge dall’incontro del 6 aprile scorso come il facilitatore del dialogo, un ruolo inedito per Bruxelles nel contesto delle tensioni tra Armenia e Azerbaigian. Prima della guerra del 2020, tale ruolo era ricoperto essenzialmente dal gruppo di Minsk l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), mentre il cessate il fuoco nell’ultimo conflitto era stato mediato dalla Russia, che si era occupata poi di dispiegare i propri peace-keeper nella regione contesa. 

 

Complice l’invasione dell’Ucraina, Mosca sembra aver perso la forza per concentrarsi su altri teatri nel contesto post-sovietico, così da lasciare più spazio al protagonismo dell’Unione Europea. Lo sforzo diplomatico di Bruxelles è stato reso possibile dalla volontà delle autorità dell’Azerbaigian di sigillare un accordo che metta nero su bianco la conquista dei territori ottenuti nel corso dell’ultimo conflitto. Diversa la posizione del governo armeno, in difficoltà nel certificare una sconfitta con pesanti conseguenze di politica interna. L’intesa mediata da Michel parte proprio dal piano in cinque punti che Baku aveva presentato in tempi recenti per la normalizzazione delle relazioni con Erevan: nel testo veniva incluso il reciproco riconoscimento dell’integrità territoriale dei due Paesi, l’astenersi dalle minacce, la demarcazione dei confini e l’apertura dei collegamenti di trasporto. Questa prospettiva aveva creato dei dubbi in Armenia e pressioni sull’esecutivo di Pashinyan, accusato dall’opposizione di essere pronto a dolorose concessioni verso l’Azerbaigian. 

 

Gli sviluppi dell’incontro di Bruxelles sembrano dunque positivi, dopo diverse “false partenze” registrate negli ultimi mesi, non ultima quella di fine 2021, quando Erevan e Baku non sono riuscite a istituire la commissione bilaterale per la demarcazione dei confini. Rivolgendosi al proprio esecutivo immediatamente dopo l’incontro di Bruxelles, il premier armeno Pashinyan ha spiegato che la commissione non si occuperà solo dei lavori per la delimitazione, ma anche di «assicurare sicurezza e stabilità lungo la frontiera», in una dinamica che potrebbe portare a uno scambio di territori tra i due Paesi. Al bilaterale tra i leader di Armenia e Azerbaigian ha fatto seguito un colloquio telefonico tra i ministri degli Esteri, che hanno avuto un confronto senza intermediari come non accadeva da diversi anni a questa parte. Si tratta di progressi innegabili da un punto di vista diplomatico, benché ancora lontani dal segnare un reale cambio di rotta rispetto al passato, considerando anche le ultime schermaglie ai confini, registrate lo scorso marzo.

Nonostante gli sforzi dell’Unione Europea, non si può però escludere la Russia dall’equazione: la missione di pace dispiegata nel Nagorno-Karabakh concede a Mosca una leva decisiva nel determinare qualsiasi sviluppo negoziale tra Erevan e Baku. La mediazione russa sembra dunque essenziale, pur considerando la complicata situazione internazionale in cui si trova attualmente il Paese e il deficit di credibilità che inevitabilmente deriverà da qualsiasi sforzo diplomatico condotto dal Cremlino. Mosca potrebbe financo “sabotare” i tentativi dell’Unione Europea di giungere a un accordo tra Armenia e Azerbaigian, sfruttando le fazioni all’interno dei due Paesi che risulterebbero insoddisfatte da una conclusione positiva dei negoziati sponsorizzati da Bruxelles. Tra i principali indiziati figurano i deputati dell’opposizione nel Parlamento armeno e i separatisti dell’autoproclamata repubblica dell’Artsakh, timorosi che le autorità di Erevan possano riconoscere la sovranità di Baku sui territori passati sotto il controllo delle truppe azere nel corso dell’ultimo conflitto nel Nagorno-Karabakh. I toni e le minacce usati dalla leadership dell’entità separatista sono di aperto scontro verso qualsiasi concessione da parte dall’Armenia: il governo di Stepanakert ha persino avanzato l’ipotesi estrema di un referendum per chiedere l’annessione alla Federazione Russa, al fine di prevenire qualsiasi scenario “avverso”. Mosca è divenuta di fatto la garante della sicurezza dell’Artsakh, dopo la sconfitta dell’esercito armeno, e l’unica che potrebbe in qualche modo assicurare all’entità separatista il mantenimento dello status quo anteriore al 2020: una prospettiva che sarebbe però inconciliabile con qualsiasi trattato di pace tra Erevan e Baku. In un contesto regionale già estremamente complesso, la tensione ormai altissima tra Occidente e Russia potrebbe dunque avere come effetto indesiderato il rallentamento o persino la sospensione del processo negoziale tra Armenia e Azerbaigian, almeno qualora il Cremlino decidesse di spendere tutte le carte a propria disposizione per ostacolarne il corso.

 

Immagine: Un’auto distrutta da un razzo lanciato dall’esercito armeno, Barda, Azerbaigian (10 ottobre 2020). Crediti: Nurlan Mammadzada / Shutterstock.com

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Johnson, tra guerra in Ucraina e difficoltà interne

Protagonista sulla scena internazionale grazie all’attivismo dimostrato nella crisi ucraina, ma in forte difficoltà sul fronte politico interno a causa degli scandali in cui è coinvolto personalmente. Questo è il quadro in cui si muove nelle ultime settimane il primo ministro britannico Boris Johnson, tra una visita a Kiev per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij e la necessità di offrire ulteriori scuse ai cittadini per i comportamenti impropri tenuti nel cosiddetto “partygate”. Situazioni estremamente divergenti, ma diretta conseguenza dei problemi che ormai da mesi Johnson deve affrontare nel Regno Unito: dopo la complicata gestione delle varie ondate della pandemia e le tensioni post-Brexit con la Francia, il primo ministro si è trovato coinvolto nello scandalo delle feste private organizzate a Downing Street, a cui avrebbe partecipato in prima persona insieme a vari esponenti del suo gabinetto. Johnson ha più volte espresso rammarico per quanto accaduto, ma ciò non è bastato a convincere del tutto i colleghi del Partito conservatore, che hanno imputato al primo ministro anche la sconfitta subita per il seggio di North Shropshire, vicino Birmingham, lo scorso dicembre, un collegio tradizionalmente controllato dai Tories. L’invasione russa dell’Ucraina ha in qualche modo giocato a favore del premier britannico, che ha potuto mettere da parte le questioni interne e rilanciare l’immagine di un Regno Unito attore determinante sul piano internazionale.

Già nelle settimane precedenti all’invasione, Johnson aveva cercato un “posto al sole” nella situazione di alta tensione tra Mosca e Kiev. Il capo del governo britannico era volato a inizio febbraio nella capitale ucraina per assicurare pieno sostegno alle autorità locali ed esprimere una dura condanna verso il dispiegamento di forze russe ai confini del Paese. Gli sviluppi successivi hanno visto il Regno Unito tra i principali sostenitori della resistenza ucraina, inviando sistemi d’armamento considerati determinanti per contrastare l’aggressione russa. Londra è stata in prima fila anche nella campagna sanzionatoria contro Mosca, muovendosi in linea con gli Stati Uniti e i partner dell’Unione Europea.

La guerra in Ucraina rappresenta del resto la prima grande crisi internazionale affrontata dal Regno Unito dopo la Brexit, potendo contare pienamente sulla propria indipendenza in ambito decisionale. Non è un caso che Johnson sia stato finora il principale leader globale a recarsi di persona a Kiev, a poche ore di distanza dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, quasi a sottolineare il percorso diplomatico ormai autonomo condotto da Londra e la volontà del Regno Unito di distinguersi come alleato di riferimento per l’Ucraina. Zelenskij ha ricevuto il premier britannico con parole di stima, riferendosi a Johnson come «uno che non ha esitato per un momento a sostenere l’Ucraina», mentre l’assistenza militare fornita da Londra «resterà per sempre nella storia». Il Regno Unito, nelle parole del presidente ucraino, «è il leader della coalizione antiguerra» contro la Russia.

La visita di Johnson, secondo molti commentatori, ha dunque avuto un significato simbolico, più che pratico: non sono stati conclusi accordi bilaterali, ma è stato ribadito il supporto britannico a Kiev e rinsaldato ulteriormente il rapporto tra i due leader. Il Regno Unito emerge inoltre come il capofila in Europa nella difesa dell’Ucraina, approfittando delle difficoltà delle due nazioni garanti degli accordi di Minsk, Francia e Germania. La prima è “frenata” nelle ultime settimane dallo svolgimento delle elezioni presidenziali, mentre la seconda è giudicata ancora troppo ambigua dagli ucraini, come dimostra la querelle relativa al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier. Nessuna accusa di condiscendenza verso la Russia può invece venire mossa contro Londra, ormai da anni in aperto scontro diplomatico con Mosca, a partire dal caso Skripal. La visita a Kiev di Johnson mette anche in secondo piano i tentennamenti del governo britannico nei confronti degli oligarchi russi residenti nella capitale e le loro immense proprietà: sebbene Downing Street abbia adottato delle misure in materia, molti commentatori hanno giudicato troppo timido l’approccio del Regno Unito, evidenziando come Londra sia da tempo terreno di conquista immobiliare (e non solo) per i magnati provenienti dalla Russia e da altre nazioni ex sovietiche. 

Le questioni di politica interna sono però tornate a bussare alla porta di Johnson, non appena fatto ritorno in patria: il 12 aprile, infatti è circolata l’indiscrezione che il primo ministro sarebbe stato multato per aver partecipato alle feste private a Downing Street nel corso del 2020, in un periodo in cui nel Regno Unito vigevano severe restrizioni anticontagio. Le sanzioni sono state notificate a Johnson e al cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak dalla polizia metropolitana di Londra (MET), che ha svolto l’indagine sugli eventi del “partygate”. L’opinione pubblica era già ben consapevole del comportamento tenuto dal premier britannico e dai membri del suo gabinetto, con numerose violazioni delle disposizioni introdotte dallo stesso governo, ma ancora una volta Johnson ha schivato le richieste di dimissioni. Nelle scuse pubbliche rilasciate a stretto giro, il primo ministro ha minimizzato le proprie responsabilità, pur riconoscendo di aver sbagliato, soffermandosi poi sull’importanza di proseguire il lavoro svolto finora, in particolare «assicurare il fallimento di Putin in Ucraina». L’esito della guerra, per Johnson, rientra negli interessi del Regno Unito e dei suoi cittadini, per tutte le conseguenze economiche e sociali che l’invasione russa ha già provocato a livello globale. Il primo ministro ha deciso dunque di giocarsi nuovamente la carta dell’Ucraina per difendere la propria immagine e il proprio incarico dalle pressioni dell’opposizione laburista e di alcuni deputati conservatori, la cui insofferenza verso il capo di partito monta ormai da tempo. Nelle prossime settimane si capirà se la capacità di Johnson di reinventarsi come leader internazionale avrà dato ancora una volta i suoi frutti.

 

Immagine: Boris Johnson durante la conferenza stampa dopo il vertice straordinario della NATO. Bruxelles, Belgio (24 marzo 2022). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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La guerra in Ucraina vista dai Paesi baltici

La guerra in Ucraina ha avuto un forte impatto sulla percezione di sicurezza degli Stati membri della NATO. La reazione di Estonia, Lettonia e Lituania all’invasione russa è stata contraddistinta da un forte attivismo a sostegno di Kiev e da un marcato impegno nell’isolare Mosca sul piano diplomatico ed economico. A questo si aggiunge il consueto lavoro di squadra tra le cancellerie, che permette alle tre repubbliche di parlare con una sola voce nei consessi internazionali, un effetto moltiplicatore necessario quanto efficace nel dare alle loro proposte un peso maggiore.

 

L’offensiva lanciata dal Cremlino ha reso concreti i peggiori timori delle nazioni del Baltico, che fin dall’indipendenza degli anni Novanta vedono nella Russia la maggiore minaccia alla loro sovranità, una prospettiva solo parzialmente mutata dopo l’adesione alla NATO, avvenuta nel 2004. La richiesta principale perorata dai governi di Tallinn, Riga e Vilnius è quella di incrementare la presenza di soldati dell’Alleanza atlantica nella regione del Baltico, così da costituire un serio deterrente a ogni eventuale iniziativa aggressiva da parte di Mosca.

 

Con una popolazione complessiva di soli sei milioni di abitanti, le tre nazioni devono infatti fronteggiare il gigante russo su due fronti, considerata anche l’exclave di Kaliningrad, che confina con Lituania e Lettonia e dove il Cremlino schiera un ingente quantitativo di truppe. La regione ospita l’11° corpo d’armata russo ed è la base della Flotta del Baltico. A ciò si aggiunge il difficile rapporto delle tre repubbliche con la Bielorussia, deterioratosi notevolmente dopo il mancato riconoscimento delle elezioni presidenziali di agosto 2020 e il forte sostegno dato all’opposizione, specialmente da parte dell’esecutivo di Vilnius. 

 

Quanto accaduto il 24 febbraio rappresenta per i tre Paesi baltici un chiaro segnale di allarme: dopo l’Ucraina potrebbero essere loro a subire un’aggressione, come spesso minacciato anche dalle stesse autorità di Mosca. Sebbene tale scenario sembri piuttosto improbabile allo stato attuale, viste le difficoltà incontrate finora dall’esercito russo nell’invasione, questo spiegherebbe la richiesta di Estonia, Lettonia e Lituania di vedere un rafforzamento della presenza militare sul fianco orientale della NATO. Attualmente sono settemila le truppe straniere, provenienti dai Paesi partner dell’Alleanza, schierate nelle tre repubbliche baltiche, un numero sostanzialmente raddoppiato rispetto a un anno fa. Tale dispiegamento di forze resta lontano da quanto auspicato, come evidente da un’intervista rilasciata di recente dalla prima ministra estone Kaja Kallas, che ha parlato di almeno 25 mila soldati NATO a presidiare il Baltico. Il desiderio di Tallinn, Riga e Vilnius sarebbe inoltre quello di ospitare basi permanenti sia dell’Alleanza atlantica sia degli Stati Uniti sul proprio territorio. Si tratta di una richiesta portata avanti già da diverso tempo e che denota la decisione messa in mostra dalle tre nazioni nel fronteggiare la Russia, già dopo l’annessione della Crimea del 2014. Le cancellerie dei Paesi baltici hanno accompagnato questo attivismo di natura principalmente politica a una reale dedizione nell’aumentare le spese di bilancio destinate alla difesa, superando costantemente negli ultimi anni la fatidica soglia del 2% del PIL fissata come obiettivo dalla NATO per ogni Stato membro. Forti di questa posizione di contributori attivi in seno all’Alleanza, i governi di Estonia, Lettonia e Lituania hanno quindi potuto ribadire la necessità di definire una volta per tutte l’assetto di sicurezza dell’Alleanza lungo il fianco orientale, una postura che potrebbe venire sancita, almeno nei piani dei tre governi, durante il summit NATO di giugno a Madrid. Per quella data potrebbe tra l’altro essersi concretizzata anche la richiesta di adesione all’organizzazione da parte della Finlandia (e della Svezia), una prospettiva che renderebbe ancora più salda la posizione delle repubbliche baltiche, ma che aumenterebbe inevitabilmente anche le tensioni nell’area. 

 

La risposta di Estonia, Lettonia e Lituania all’aggressione russa in Ucraina passa anche per altre iniziative, che esulano dal contesto militare e di deterrenza. Le tre nazioni sono state in prima fila nel manifestare solidarietà a Kiev, anche tramite l’accoglienza dei rifugiati, attivandosi al contempo nel perorare la causa ucraina nell’apertura della procedura di adesione all’Unione Europea. I governi baltici hanno inoltre deciso di sospendere completamente le importazioni di gas dalla Russia, a partire dal 1° aprile, affidandosi per il momento alle riserve sotterranee stoccate in Lettonia per il fabbisogno complessivo delle rispettive economie. Il presidente lituano Gitanas Nausėda ha invitato gli altri Stati dell’Unione Europea a seguire l’esempio, pur consapevole delle difficoltà di molti Paesi nell’abbandonare totalmente la dipendenza dalle importazioni di energia russa. Le nazioni del Baltico sembrano però intenzionate ad andare oltre, proponendo un embargo economico pressoché totale nei confronti di Mosca: sempre Nausėda ha infatti affermato che, una volta finita la guerra in Ucraina, ​​i rapporti tra Russia e Occidente non potranno tornare come prima. Estonia, Lettonia e Lituania invocano dunque una revisione completa della postura della NATO e dell’Unione Europea di fronte alla Federazione Russa, anche a costo di tagliare definitivamente le relazioni diplomatiche con il Paese: una scelta che potrebbe diventare quasi obbligata, qualora il conflitto in Ucraina dovesse protrarsi ancora a lungo, con un altissimo costo in termini di vite umane.

 

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Immagine: Al confine tra Lettonia e Bielorussia la guardia di frontiera e l’esercito lettoni installano una recinzione di filo spinato, Indra, Lettonia (28 settembre 2021). Crediti: Radowitz / Shutterstock.com

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Ragioni e implicazioni della vittoria di Orbán in Ungheria

 

Il partito Fidesz esce trionfatore dalle elezioni parlamentari in Ungheria, permettendo al suo leader Viktor Orbán di confermarsi alla guida del Paese per i prossimi quattro anni. Un successo duplice per Orbán, che non solo ricoprirà l’incarico di capo del governo per il quarto mandato consecutivo (il quinto in assoluto considerando anche il periodo tra 1998 e 2002), ma può anche fregiarsi di una vittoria di dimensioni quasi internazionali, visto il contesto in cui è giunta questa tornata elettorale. Il risultato finale del voto del 3 aprile ha visto Fidesz staccare di quasi 20 punti percentuali la coalizione formata da 6 partiti di opposizione e altri alleati minori, uniti nel tentativo di sconfiggere Orbán e porre fine a quella che viene considerata una deriva antidemocratica nel Paese dell’Europa centrale. La scommessa della lista Uniti per l’Ungheria non ha però pagato: sebbene i sondaggi nei mesi scorsi dessero il fronte dell’opposizione addirittura in vantaggio sul partito di governo, nelle ultime settimane sembrava prendere forma il divario nei confronti di Fidesz, divenuto ancora più evidente dall’esito delle urne. L’entusiasmo iniziale nella possibilità di ottenere una vittoria era associato all’ampia partecipazione popolare alle primarie tenute lo scorso autunno, con la vittoria di Péter Márki-Zay, esponente conservatore e sindaco della cittadina di Hódmezővásárhely. Già dopo poche settimane era però emersa la possibile instabilità del fronte unitario dell’opposizione: considerato il volto giusto per contendere elettori a Fidesz, Márki-Zay sembrava invece in difficoltà nel rappresentare l’anima più liberale e di sinistra della coalizione. I risultati delle elezioni hanno in parte confermato questa impressione: Uniti per l’Ungheria non ha raggiunto nemmeno il 40% dei consensi, vincendo praticamente solo nei collegi della capitale Budapest e delle città di Pécs e Szeged.

Dal canto loro Fidesz e gli alleati del Partito popolare cristiano democratico (KDNP, Kereszténydemokrata Néppárt) hanno superato il risultato del 2018, passando dal 49,27 a oltre il 53% dei consensi. In base al meccanismo elettorale vigente in Ungheria, la maggioranza di cui potrà godere Orbán nel Parlamento di Budapest sarà di 135 seggi, sufficienti a garantirgli ancora una volta una maggioranza di due terzi dell’assemblea nazionale e di poter quindi modificare la Costituzione. Oltre a Fidesz e alla coalizione di opposizione, occuperanno per la prima volta gli scranni dell’aula anche i nazionalisti del movimento Mi Hazánk, una costola di fuoriusciti dalla formazione di estrema destra Jobbik, che a sua volta era confluita nell’alleanza Uniti per l’Ungheria dopo aver moderato le proprie istanze. 

 

In termini di politica interna, Orbán potrà proseguire i programmi già lanciati nei precedenti mandati, con una forte impronta assistenzialista, in particolare verso le famiglie e gli anziani. Tra le promesse fatte dal premier ungherese in campagna elettorale e le misure già entrate in vigore figurano rimborsi fiscali per i figli a carico, il taglio parziale dei contributi previdenziali e l’abolizione dell’imposta sul reddito per i cittadini al di sotto dei 25 anni, oltre a un aumento delle pensioni. Si tratta di un incremento della spesa pubblica che arriva però in un periodo non felicissimo per l’economia nazionale: l’inflazione potrebbe attestarsi ai livelli più alti degli ultimi 15 anni, mentre gli effetti della guerra nella vicina Ucraina e la disputa con l’Unione Europea (UE), che blocca allo stato attuale i finanziamenti per l’Ungheria previsti dal Piano di ripresa e resilienza, rischiano di rendere meno rosee che in passato le previsioni di crescita del PIL nel Paese. La stabilità economica potrebbe essere messa in discussione già nei prossimi mesi, rendendo difficile per il governo di Orbán mantenere le promesse elettorali senza aumentare contemporaneamente il debito pubblico, già in salita dopo la crisi pandemica. I timori dell’opposizione e di molti osservatori internazionali sono poi quelli relativi alla tenuta democratica dell’Ungheria, alla luce dei cambiamenti costituzionali imposti dalla maggioranza nel corso degli anni, che hanno limitato l’indipendenza del sistema giudiziario e la libertà di stampa, accentrando gran parte dei media sotto il controllo statale. A questo si aggiunge il tema della corruzione, avanzato dall’opposizione e da Márki-Zay nel corso della campagna elettorale: Orbán è accusato di aver favorito imprenditori e funzionari con cui ha legami di amicizia e parentela, creando una rete di potere che ha ormai ramificazioni in diversi settori dell’economia ungherese. 

 

La disputa tra Budapest e l’Unione Europea nasce anche in merito allo Stato di diritto, a causa delle normative approvate dal Parlamento che promuovono una sostanziale discriminazione verso minoranze etniche e religiose, oltre che nei confronti della comunità LGBTI e la più generale intolleranza verso i migranti, ribadita dallo stesso Orbán in tutti i contesti. Il leitmotiv di Fidesz in questa campagna elettorale, così come nelle precedenti, è stato quello della difesa dell’Ungheria, patria dei valori cristiani, contro i tanti nemici esterni che provano ad «assediarla». Le parole di Orbán nel commentare la vittoria domenica sera sono state emblematiche: un colpo ad avversari «storici», come la sinistra internazionale, il filantropo di origini magiare George Soros e i burocrati di Bruxelles, ma anche ​​«il presidente ucraino», ovvero quel Volodymyr Zelenskij che intervenendo all’ultimo Consiglio europeo ha accusato l’Ungheria e il suo leader di non prendere una posizione netta contro Vladimir Putin e la guerra d’invasione portata avanti dalla Russia. Del resto, il tema del conflitto in Ucraina è stato impiegato da Fidesz durante la campagna elettorale, accusando l’opposizione di voler trascinare il Paese verso l’intervento e di conseguenza alla rovina, facendone «pagare il prezzo» alle famiglie ungheresi.

Il ruolo ambiguo che Orbán e il suo governo stanno mantenendo in queste settimane ha però creato degli attriti evidenti con gli altri membri del Gruppo di Visegrád (V4), vale a dire Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’ultima riunione dei ministri della Difesa del V4, che si sarebbe dovuta tenere a Budapest la scorsa settimana, è stata infatti annullata per il boicottaggio deciso dai rappresentanti degli altri tre Paesi, proprio per il rifiuto del governo ungherese di consentire il transito sul proprio territorio delle armi inviate all’Ucraina. La frattura in seno al Gruppo di Visegrád è indicativa dell’isolamento che l’esecutivo di Orbán sta vivendo dall’inizio della guerra: la mancata volontà di “mollare” la Russia e i legami commerciali, energetici e politici instaurati con il Cremlino, rischia di far perdere all’Ungheria il principale alleato nella disputa contro l’UE, vale a dire la Polonia, con il governo conservatore di Diritto e giustizia. I prossimi mesi potrebbero dunque essere decisivi nel tracciare il percorso di Orbán e di Budapest in ambito europeo qualora si dovesse ulteriormente intensificare la pressione sanzionatoria di Bruxelles verso Mosca, costringendo definitivamente le autorità ungheresi a scegliere lo schieramento in cui posizionarsi.

 

Immagine: Victor Orbán (28 giugno 2018). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Georgia e Moldavia, tra UE e Mosca

Dopo l’Ucraina, anche Georgia e Moldavia hanno deciso nelle scorse settimane di presentare una domanda di adesione all’Unione Europea (UE), andando oltre gli accordi di associazione già esistenti.  Si tratta di una scelta epocale per i tre Paesi ex sovietici: se quella di Kiev è una mossa dall’alto valore simbolico nel contesto dell’invasione russa, Tbilisi e Chişinău mandano un segnale forte a Mosca e alla sua capacità di proiettare influenza nella regione del Mar Nero. Lanciare un appello a Bruxelles affinché vengano riconosciute le proprie istanze europeiste costituisce un passo decisivo per i governi di Georgia e Moldavia, sebbene ammantato di un certo “opportunismo”. Entrambi gli esecutivi sembrano infatti aver puntato sulla forte solidarietà suscitata in Europa dalla crisi in Ucraina, chiedendo il medesimo trattamento che potrebbe spettare a Kiev, ovvero un’adesione quasi immediata all’Unione. Tale prospettiva resta chiaramente molto lontana, come si sono premurati di far notare diversi leader UE, menzionando le difficoltà «burocratiche» e la lista di Paesi che già hanno fatto dei passi avanti nel processo di integrazione europea, in particolare quelli dei Balcani occidentali.

 

Altro elemento critico è rappresentato dalle modalità con cui sono arrivate le richieste di adesione. A Tbilisi la decisione è stata presa in autonomia dal partito di governo Sogno georgiano, formazione che di fatto guida ininterrottamente il Paese da dieci anni. Dopo le elezioni del novembre 2020, le forze di opposizione hanno deciso di boicottare i lavori dell’Assemblea nazionale, una crisi parzialmente superata solo lo scorso aprile, con la mediazione del presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la firma di un accordo che avrebbe dovuto permettere di superare la fase di instabilità politica. L’invasione dell’Ucraina ha messo ulteriore pressione sul governo: nonostante i rapporti di cooperazione esistenti tra Tbilisi e Kiev, le autorità georgiane hanno infatti deciso di non unirsi alle sanzioni lanciate dai Paesi occidentali contro la Russia. Una mossa che ha spiazzato l’opinione pubblica e che è stata motivata dal primo ministro georgiano Irakli Garibašvili con la tutela dell’interesse nazionale, “tradendo” però l’alleato ucraino. Una parte della società civile ha ritenuto inaccettabile questa posizione, organizzando delle proteste di piazza contro il governo a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone, chiedendo anche un’immediata richiesta di ingresso nell’UE. Quando è stata annunciata la presentazione della domanda di adesione, si è assistito a una “inversione a U” da parte dell’esecutivo georgiano, che aveva in precedenza indicato il 2024 come probabile data per chiedere la membership UE, adducendo come motivazioni le difficoltà nel rispettare molti criteri fissati nel processo di integrazione. Alla base dell’ambiguità dimostrata in questa occasione da Tbilisi si possono trovare ragioni di politica interna, ma anche il complesso rapporto esistente con la Russia. Dopo la guerra del 2008 e la nascita nel territorio georgiano delle repubbliche separatiste di Abcasia e Ossezia del Sud, sono state sospese le relazioni diplomatiche con Mosca; nonostante ciò, le reciproche accuse di simpatia con il vicino settentrionale sono all’ordine del giorno nel dibattito politico georgiano tra maggioranza e opposizione. Emblematico in questo senso è stato il comportamento della presidente Salome Zurabišvili, che nei giorni successivi all’invasione russa ha sostanzialmente avviato un’iniziativa diplomatica personale per mantenere la Georgia legata ai Paesi occidentali, recandosi in visita a Bruxelles e Parigi e manifestando in vari consessi la propria solidarietà all’Ucraina, dando voce al contempo alle istanze europeiste di Tbilisi. Successivamente, in un discorso al Parlamento georgiano, Zurabišvili ha avuto parole dure contro l’esecutivo e l’opposizione, responsabili di aver messo in primo piano le dispute politiche invece di avviare un dialogo diplomatico in un momento così importante per il Paese. 

 

Anche in Moldavia la scelta di chiedere l’adesione all’UE è stata presa da una sola parte politica, vale a dire la maggioranza europeista del Partito di azione e solidarietà. Al momento della presentazione della domanda, la presidente Maia Sandu ha parlato di un Paese «pronto ad assumersi la responsabilità per il proprio futuro»: un segnale diretto per Mosca, la cui influenza sulla Moldavia è molto forte e che tuttora offre la propria tutela alla repubblica separatista della Transnistria, dove sono schierate migliaia di truppe russe. Non a caso, l’invasione dell’Ucraina ha suscitato i timori di Chişinău, nella prospettiva che il Cremlino decidesse di estendere l’offensiva anche alla Transnistria. Le difficoltà incontrate finora dall’esercito russo potrebbero aver scongiurato la possibilità di un attacco alla Moldavia; nonostante ciò, il Paese deve già ora fronteggiare l’emergenza determinata dal forte afflusso di profughi che dall’Ucraina cercano di dirigersi verso l’Europa centrale. Le autorità di Chişinău hanno visto la domanda di adesione all’Unione Europea come un elemento di stabilità per il futuro del Paese, fino a pochi anni fa guidato dal presidente filorusso Igor Dodon e soggetto a frequenti crisi politiche. La vittoria di Sandu alle elezioni presidenziali di fine 2020 ha aperto le prospettive di una maggiore cooperazione con Bruxelles, una tendenza confermata poi dal successo del Partito di azione e solidarietà alle parlamentari di luglio 2021. Resta però il tema delle relazioni con Mosca: la Russia è tra i principali partner commerciali della Moldavia, a sua volta dipendente dal gas russo in materia di energia. Lo scorso autunno è sorta una crisi tra i due Paesi a seguito della scadenza del contratto di fornitura con Gazprom: il colosso russo ha imposto dei prezzi di fatto triplicati al governo moldavo, che nell’impossibilità di pagare si è trovato a fronteggiare un taglio drastico degli approvvigionamenti, dichiarando lo stato di emergenza. La disputa si è conclusa con un nuovo contratto e con il saldo del debito della compagnia statale Moldovagaz nei confronti di Gazprom, grazie a un decreto dell’esecutivo di Chişinău. Uscire dall’orbita di Mosca è dunque considerato fondamentale per l’attuale leadership della Moldavia, che guarda a Bruxelles per “diversificare” i propri legami a livello politico, economico ed energetico.

 

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Immagine: Mappa della Moldavia (Moldova) e degli Stati confinanti (27 marzo 2022). Crediti: Michele Ursi / Shutterstock.com

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La successione padre-figlio del potere in Turkmenistan

Si conclude in Turkmenistan l’era di Gurbanguly Berdimuhamedow, presidente della nazione dell’Asia centrale dal 2007. La dinastia al potere ad Ashgabat resta però la stessa: a succedere a Gurbanguly è infatti il figlio Serdar, uscito vincitore dalle elezioni presidenziali tenutesi il 12 marzo. L’erede del presidente uscente ha ottenuto il 73% dei consensi, come ha certificato dopo tre giorni dalla chiusura delle urne la Commissione elettorale centrale del Turkmenistan. Si tratta di una vittoria annunciata, in quella che diventa la prima successione padre-figlio nella politica degli “-stan” postsovietici. Dopo tre mandati, Gurbanguly Berdimuhamedow ha reso nota lo scorso febbraio l’intenzione di dimettersi dall’incarico, aprendo la strada delle elezioni a Serdar, che a settembre 2021 ha compiuto 40 anni, fatidica età per concorrere alla presidenza turkmena. Il padre manterrà comunque un ruolo importante nella politica nazionale, detenendo la massima carica all’interno del Consiglio del popolo, la Camera alta del Parlamento e istituita proprio nel 2021. Tutti questi elementi rendono piuttosto evidente il quadro in cui è avvenuto il passaggio di consegne tra i due Berdimuhamedow: Gurbanguly ha voluto preparare la successione senza rischiare strappi o lotte di palazzo, ritirandosi ad un’età ‒ 64 anni ‒ in cui solitamente gli autocrati dei Paesi vicini restano ancora saldamente al comando.

 

Che Paese trova in eredità Serdar? Il Turkmenistan è una nazione tra le più isolate al mondo, sia sul piano politico che su quello economico, sebbene inserita in un’area strategica per gli scambi energetici globali e la sicurezza, vista la vicinanza all’Afghanistan. La politica estera turkmena si basa da ormai diversi anni sul concetto di neutralità e sulla diversificazione delle relazioni economiche a livello internazionale, almeno sulla carta. Nella realtà le alternative per le autorità di Ashgabat sono limitate: dopo aver progressivamente preso le distanze dalla Russia, il Paese ha dovuto inevitabilmente cercare il sostegno della Cina, interessata a sua volta a sfruttare le risorse turkmene. Allo stesso tempo, la necessità di aumentare le esportazioni di idrocarburi ha legato il Turkmenistan ai vicini meridionali, non solo l’Afghanistan, ma anche Pakistan e India, con cui è in corso di sviluppo, pur con molti ostacoli, il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India).

Proprio il 12 marzo, data delle elezioni presidenziali, le autorità di Ashgabat hanno dato l’approvazione per la fornitura di strumentazione per la trasmissione di energia elettrica all’Afghanistan, un trasferimento di tecnologia che potrebbe consentire di rafforzare gli scambi lungo la rete che connette anche il Pakistan ai due Paesi. In questo modo, il Turkmenistan contribuirebbe alla stabilizzazione del vicino meridionale e guadagnerebbe maggiore visibilità a livello internazionale, instaurando un prezioso rapporto con il regime dei Talebani a Kabul. Al contempo, la difficile situazione in cui si trova l’economia turkmena rende complesso pensare all’effettiva costruzione delle infrastrutture energetiche necessarie a potenziare le esportazioni del Paese. La sostanziale dipendenza del Turkmenistan dalla vendita all’estero di idrocarburi e la quasi totale mancanza di un’industria autonoma hanno effetti molto pesanti sulle condizioni di vita della popolazione, da anni alle prese con carenze di beni di prima necessità. In un’intervista rilasciata nell’ultima settimana, il neopresidente Serdar Berdimuhamedow ha rilanciato il programma di sviluppo dell’imprenditoria privata già avviato in linea teorica dal padre: tuttavia, se anche c’è stata la volontà da parte delle autorità di Ashgabat di portare avanti dei progetti in materia, i risultati sono stati quantomeno fallimentari. Difficile pensare di attrarre investimenti in un Paese in cima alle classifiche di corruzione a livello globale, con un’economia fortemente statalizzata e una quasi totale mancanza di trasparenza in ambito giuridico e amministrativo. Situazione simile per quanto concerne il turismo, che nei piani del governo avrebbe dovuto assumere un ruolo importante nell’economia nazionale e che invece ha patito più di qualsiasi altro settore il quasi totale isolamento imposto dal regime di Berdimuhamedow dal 2020 per evitare casi di contagio da Covid-19 nel Paese, l’unico al mondo ad essere uscito indenne dalla pandemia in base alle statistiche ufficiali di Ashgabat.

 

La crisi economica in cui versa attualmente il Turkmenistan ha preso il via dal 2014, a causa della diminuzione degli introiti per la fornitura di gas, di cui la Cina è di fatto divenuta l’unico acquirente. Le autorità turkmene, già impegnate nel ripagare il debito contratto con Pechino per il finanziamento del gasdotto e alle prese con le fluttuazioni del mercato degli idrocarburi, non hanno saputo negli anni trovare una risposta alla galoppante inflazione, che il regime ha peraltro nascosto, lasciando la popolazione a doverne pagare le conseguenze. La relativa giovane età di Serdar Berdimuhamedow potrebbe creare delle aspettative circa la capacità di lanciare finalmente le tanto attese riforme economiche, in grado di portare sviluppo e benessere al Turkmenistan. Viste le premesse, però, è probabile che il nuovo presidente segua le tradizioni del padre Gurbanguly, che ha abituato i cittadini a proclami di progetti inconcludenti, bizzarre esibizioni pubbliche e una situazione economica in costante peggioramento. La guerra in Ucraina potrebbe aprire una nuova opportunità di cooperazione energetica per Ashgabat: la necessità per i Paesi europei di sostituire gli approvvigionamenti di gas provenienti dalla Russia richiederebbe però un ingente aumento della produzione da parte del Turkmenistan e la costruzione o il potenziamento delle infrastrutture esistenti, uno scenario di difficile realizzazione allo stato attuale, senza considerare gli ostacoli di natura politica e diplomatica a tale prospettiva.

 

Immagine: Veduta di Ashgabat, Turkmenistan. Crediti: gonetothemoon / Shutterstock.com

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E se Svezia e Finlandia abbandonassero la loro storica neutralità?

 

Nelle ultime settimane ha preso slancio in Svezia e Finlandia il dibattito interno circa la posizione di neutralità dei due Paesi e un’eventuale adesione alla NATO. Si tratta di un tema che già era tornato d’attualità nei mesi scorsi a causa delle crescenti tensioni tra la Russia e l’Occidente: la decisione di Vladimir Putin di lanciare l’offensiva contro l’Ucraina ha però radicalmente accelerato questa dinamica, in quella che per il Cremlino rischia di divenire una “profezia che si autoadempie”. Se infatti Svezia e Finlandia hanno sempre accettato la propria neutralità come un fattore determinante di politica estera, condizionate in questo anche dalla vicinanza alla Russia, l’invasione dell’Ucraina ha messo in discussione principi adottati e rispettati dalla guerra fredda a oggi.

 

Esempio evidente di tutto ciò è il sorprendente esito di due sondaggi d’opinione condotti tra fine febbraio e inizio marzo per conto delle emittenti nazionali dei due Paesi. La svedese Svt ha rivelato come il 49% degli intervistati sarebbe favorevole all’adesione alla NATO, a fronte di un 27% di contrari e un 25% di indecisi; la finlandese Yle ha invece riscontrato come addirittura il 53% dei cittadini aprirebbe all’ingresso nell’Alleanza. In Finlandia il sondaggio fa seguito a una raccolta firme che ha raggiunto i 500 mila partecipanti, numero necessario per obbligare il Parlamento di Helsinki a discutere un referendum sull’adesione alla NATO. Si tratta di risultati difficilmente immaginabili fino a pochi mesi fa, che in qualche modo vanno ad anticipare il dibattito sul tema a livello parlamentare.

 

Gli eventi e la sensibilità popolare rischiano dunque di sopravanzare i partiti e la politica, spingendo Svezia e Finlandia verso l’adesione alla NATO? Non proprio, dal momento che le istituzioni sembrano frenare su questa eventualità. Al contempo, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato i governi di Stoccolma e Helsinki a dover inevitabilmente ridiscutere l’architettura di sicurezza in cui sono inserite le due nazioni scandinave. Sabato scorso la prima ministra svedese Magdalena Andersson ha incontrato nella capitale finlandese l’omologa Sanna Marin, con cui ha discusso del rafforzamento della cooperazione difensiva bilaterale di fronte alle modifiche dell’equilibrio di sicurezza in Europa. Sia Andersson che Marin hanno parlato in conferenza stampa delle discussioni avviate con i partiti nazionali e le istituzioni circa l’adesione alla NATO, un tema che non può più essere messo in secondo piano. Nel caso finlandese è interessante notare come proprio il giorno prima della riunione tra le due premier a Helsinki, il presidente Sauli Niinistö si sia recato a Washington, per una serie di incontri con le autorità statunitensi, compreso quello alla Casa Bianca con Joe Biden. I ministri degli Esteri di Svezia e Finlandia hanno inoltre partecipato la scorsa settimana alla riunione degli omologhi NATO a Bruxelles, altro segnale importante. Tale attività diplomatica, se non è indirizzata necessariamente a un rapido allargamento dell’Alleanza atlantica, segnala l’assoluta rilevanza per Svezia e Finlandia di alzare il livello del partenariato con la NATO e in ambito europeo. Questa scelta passa anche per un rafforzamento delle capacità militari delle due nazioni, come sottolineato dalla premier svedese Andersson nel corso di un discorso ai cittadini tenuto nei giorni successivi all’inizio dell’invasione russa in Ucraina. «La Svezia deve avere una difesa forte» e «portare avanti il riarmo», ha detto la prima ministra e leader del Partito socialdemocratico.

 

La prospettiva di un ingresso nella NATO dei due Paesi scandinavi ha suscitato anche la dura reazione di Mosca: la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, non ha esitato a parlare di «gravi conseguenze», sia a livello militare che politico, nel caso Stoccolma e Helsinki si vadano ad aggiungere agli altri 30 membri dell’Alleanza atlantica. Sebbene con traiettorie e condizionamenti parzialmente diversi, Svezia e Finlandia hanno condiviso dal 1949 a oggi la necessità di “sposare” la neutralità al fine di mantenere “buoni rapporti di vicinato” con l’Unione Sovietica e successivamente con la Federazione Russa. L’aggressività di Mosca degli ultimi anni, culminata nell’attacco all’Ucraina, rende inevitabile per Stoccolma e Helsinki un ragionamento sulle prospettive future di convivenza con la Russia, dando forma a un calcolo dei costi-benefici di una revisione della propria posizione internazionale. Vista da Bruxelles, l’adesione di Svezia e Finlandia all’alleanza permetterebbe di rafforzare in maniera determinante il fronte settentrionale, dando maggiore copertura anche alle nazioni del Baltico. Proprio dall’Estonia, con le parole della premier Kaja Kallas, è giunta giorni fa un’entusiastica dichiarazione in merito a un eventuale ingresso della Finlandia nella NATO, che il Parlamento di Tallinn «approverebbe immediatamente». I due Paesi scandinavi hanno del resto eserciti ben addestrati e pronti a rispondere in tempi rapidi a situazioni di emergenza, una caratteristica fondamentale per l’Alleanza atlantica, a cui si aggiunge la dotazione di sistemi d’arma e di mezzi all’avanguardia, grazie anche alle sviluppate industrie della difesa nazionali. Stoccolma e Helsinki sarebbero inoltre due membri “fidati” per la NATO, ovvero due democrazie solide e affidabili, i cui esecutivi difficilmente potrebbero mettere in difficoltà gli altri partner con decisioni avventate.

 

La parola sull’adesione all’Alleanza spetta ora ai Parlamenti dei due Paesi, dove sono attesi dibattiti accesi, sulla scia di un mutato sentimento popolare. Qualora non si raggiungesse un’intesa nei prossimi mesi, il tema non rimarrà congelato ma sarà indubbiamente tra le principali questioni delle prossime campagne elettorali: in Svezia si voterà per il rinnovo del Riksdag l’11 settembre 2022, mentre in Finlandia i cittadini saranno chiamati alle urne nel 2023. I prossimi governi di Stoccolma e Helsinki potrebbero dunque avere un mandato chiaro in merito alla NATO.

 

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Immagine: Mappa del Nord Europa. Crediti: TonelloPhotography / Shutterstock.com

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Gli altri “punti caldi” dello spazio ex sovietico

L’attenzione a livello internazionale è concentrata ormai dalla scorsa settimana sull’Ucraina e sull’invasione decisa dal presidente russo Vladimir Putin, dopo mesi di tensioni montanti. Il discorso tenuto il 21 febbraio dal leader russo sulle origini storiche della crisi tra Mosca e Kiev ha messo in evidenza l’importanza del “passato condiviso” nei rapporti tra i due Paesi, ma anche dell’esperienza storica della guerra fredda, della dissoluzione dell’URSS e della dinamica tra Occidente e Russia dagli anni Novanta ad oggi. Non bisogna però dimenticare un fatto già emerso a inizio 2022: lo spazio post-sovietico continua a essere in fermento, al di là della crisi in Ucraina. A darne testimonianza sono state le rivolte in Kazakistan che hanno aperto il nuovo anno, avvenute in un Paese tradizionalmente considerato il più stabile dell’Asia centrale. Altre aree continuano a destare la preoccupazione degli analisti internazionali e dei governi vicini, considerando anche come i Paesi eredi dell’Unione Sovietica si estendono su un arco che va dal Baltico all’Asia orientale, come raccontato bene dalla giornalista norvegese Erika Fatland.

 

Partendo dall’Estremo Oriente, si può infatti citare la disputa decennale sulle Isole Curili, che la Russia e il Giappone si contendono dall’Ottocento e su cui l’ultimo sviluppo importante si è avuto nella Seconda guerra mondiale. Mosca detiene il controllo sull’area, situata tra l’isola giapponese di Hokkaido e la penisola della Kamčatka, portando al contempo avanti dei negoziati con Tokyo in materia di riconoscimento della propria sovranità. Sebbene nel 2020 vi fosse stata un’intensificazione del dialogo diplomatico bilaterale, l’ascesa l’anno successivo del nuovo premier nipponico Fumio Kishida, forte di una linea nazionalista, ha presto rimesso in discussione il percorso fatto dai due Paesi fino a quel momento. Nel rapporto tra Giappone e Russia sulle Isole Curili conta anche la presenza degli USA nel Pacifico, un elemento che rende rilevante a livello geopolitico il controllo da parte russa sull’arcipelago.

 

Altro “punto caldo” è il Kirghizistan, nazione incuneata nel cuore del continente asiatico e vicina al gigante cinese. Tradizionalmente esponente della politica estera multivettoriale che permetteva di dialogare con gli USA, con la Russia e con la Cina, il Paese è divenuto nel tempo più legato a Pechino e Mosca. L’elezione a inizio 2021 del presidente Sadır Japarov ha confermato questa tendenza, sebbene sia arrivata dopo un lungo periodo di crisi politica in Kirghizistan. Fino a pochi mesi prima di diventare capo dello Stato, Japarov era in carcere con l’accusa di avere organizzato il rapimento di un governatore provinciale kirghizo. Il futuro presidente è stato liberato durante le rivolte popolari dell’ottobre 2020, scoppiate a seguito delle contestate elezioni parlamentari e che hanno portato alle dimissioni del predecessore Sooronbay Jeenbekov. Oltre alle relazioni con Cina e Russia, Japarov deve lavorare anche a quelle con il nuovo governo afghano dei Talebani, altra area di instabilità ai confini dell’ex Unione Sovietica.

 

Sebbene l’Afghanistan non sia stato mai controllato da Mosca (anzi, la fallita campagna militare del periodo 1979-89 contribuì alla caduta dell’URSS), il Paese ha rappresentato e rappresenta ancora un fattore di grande criticità per tutte le nazioni dell’Asia centrale, eredi del potere sovietico. Il ritiro degli USA la scorsa estate e il ritorno a Kabul dei Talebani hanno inevitabilmente reso l’Afghanistan un nuovo “punto caldo” nell’equilibrio regionale.

 

Spostandosi nuovamente verso nord, è necessario tornare al Kazakistan. Quanto accaduto a inizio gennaio 2022 ha lasciato sgomenti molti osservatori, abituati a guardare al Paese come un elemento di stabilizzazione in tutto lo spazio ex sovietico. Altra nazione che ha puntato su un approccio multivettoriale agli affari esteri, il Kazakistan ha assistito nel 2019 al cambio della guardia alla presidenza: lo storico leader Nursultan Nazarbaev ha ceduto il potere a Kassym Jomart-Tokayev, pur mantenendo apparentemente un forte controllo politico. Le rivolte di gennaio hanno però portato all’allontanamento di molte persone legate a Nazarbaev da posizioni di potere e lo stesso ex presidente ha perso il ruolo di guida del Consiglio di sicurezza del Kazakistan.

 

Un avvicendamento alla presidenza sembra imminente anche in Turkmenistan, nazione importante per quello che riguarda gli aspetti energetici globali, grazie alle ingenti riserve di gas naturale. Il 12 marzo prossimo sono in programma le elezioni per il capo dello Stato, in cui il vincitore sarà con ogni probabilità Serdar Berdimuhamedow, figlio dell’attuale leader Gurbanguly Berdimuhamedow. Quest’ultimo ha deciso di farsi da parte dopo aver guidato il Turkmenistan per 15 anni. L’ascesa del quarantenne Serdar potrebbe portare a una maggiore apertura del Paese a livello internazionale, approfittando della necessità europea di diversificare sempre più le fonti di approvvigionamento del gas.

 

L’energia e il gas naturale sono fondamentali per l’Europa anche quando si guarda al Caucaso. In quest’area abbiamo assistito nel settembre 2020 alla guerra del Nagorno-Karabakh, il territorio conteso tra Armenia e Azerbaigian. Un conflitto che da “congelato” è tornato a fare migliaia di vittime tra soldati e civili. Turchia e Russia hanno contribuito al raggiungimento di una tregua, ma tra Baku e Erevan continuano le tensioni, in un contesto regionale in cui non bisogna dimenticare la presenza della Georgia e delle repubbliche separatiste (riconosciute da Mosca) di Abcasia e Ossezia del Sud.

 

Per finire la rassegna, sul versante europeo abbiamo la presenza in Moldova della Transnistria, altra entità autonoma sostenuta dalla Russia, e le minoranze russofone nel Baltico, in particolare in Lettonia. La guerra in Ucraina potrebbe innalzare il livello di rischio anche in questi Paesi, mettendo ulteriore pressione nei rapporti ormai incrinati tra l’Occidente e il Cremlino.

 

Immagine: Veicoli distrutti dopo un attacco terroristico nella città di Almaty, Kazakistan (6 gennaio 2022). Crediti: NICK MELNICHENKO / Shutterstock.com