Marco Marino
Marco Marino (1996) lavora per l’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani.
Marco Marino (1996) lavora per l’Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani.
Ogni generazione sente, a un certo punto del suo immergersi nella storia, l’esigenza di una confessione.
In realtà, non sono delle vere e proprie confessioni, si tratta solitamente di resoconti molto tardivi, che hanno l’aspetto di scuse a lungo procrastinate o, peggio, di insensati rimpianti.
Ce ne accorgiamo oggi, con estenuante frequenza, ascoltando gli amarcord di sessantottini e di settantasettini, di padri che confessano di aver rubato il futuro ai propri figli, lasciato un mondo indebitato, assicurato la catastrofe climatica.
Sono strane, però, queste confessioni. Non cercano assoluzione, perdono, conciliazione; anzi, al contrario, assecondando qualche assurdo paradosso, provano ad assolvere, a perdonare, a conciliare: assolvono chi le ascolta dalla possibilità di riscatto, dal desiderio di rivoluzione, dal pensarsi in divenire (qualsiasi esso sia).
Se già ti ho detto che il mondo sta per finire, che senso ha affaticarsi ancora? Che senso ha insistere? Non è accanimento terapeutico provare a forzare la vita in un corpo senz’anima?
Sembrerebbe scontato rigettarle suggestioni del genere. Sembrerebbe doveroso lottare una simile postura. Dire che non possiamo arenarci nelle sconfitte di chi ci ha preceduto.
Io, invece, che sono un ragazzo cisgender di venticinque anni, confesso che questa postura, questa assoluzione, questo sguardo delle generazioni passate mi condiziona sensibilmente. Mi annichilisce e mi giustifica nella mia inazione, nel mio mancato sentimento rivoluzionario, nella mia assenza di visione.
Me ne sono accorto leggendo un’illuminante poesia di Carlo Bordini, contenuta nella sua raccolta postuma (2021), Un vuoto d’aria, recentemente pubblicata nella collana Lo Specchio di Mondadori. La poesia si intitola Non ho più idee e comincia così:
Da molto tempo non ho più idee.
Sono capace solo di guardare.
Una volta avevo idee.
Adesso le cose sono cambiate a tal punto che non posso
più interpretarle con le idee di una volta.
Posso solo guardare.
E pensare: forse il problema è da un’altra parte.
Ma non so da quale parte.
Ma sono convinto che il problema è da un’altra parte.
È una straordinaria presa di coscienza poetica, quella di Bordini, che vuole descrivere l’animo di un ex sessantottino rivoluzionario, giunto a un punto estremo della sua esistenza, dopo un lungo percorso di lotte, di scelte, di viaggi, che oggi – confessa – non ha più idee. Che è capace di volgere lo sguardo, di sapere che la direzione verso cui guardare è diversa da quella che tutti immaginiamo, ma che non sa quale sia, questa direzione («Ma non so da quale parte / Ma sono convinto che il problema è da un’altra parte»).
Adesso, questa riflessione in versi non desterebbe senso di scandalo se non fosse che io – a venticinque anni e non a ottanta, come l’autore – penso di vivere la medesima condizione storica e sentimentale. La sensazione di non avere una visione, di sapere che c’è una risposta a questo tempo lento, apparentemente immobile, ma che si trova altrove, non dove oggi sto guardando. Eppure, questo altrove davvero non so dove sia. E non so come cercarlo.
È una confessione, la mia. Che anticipa l’inevitabile sconfitta storica. Non voglio aspettare i manuali scolastici che sinteticamente annoteranno l’insuccesso della nostra indifferenza, del nostro ammorbidirci di fronte alle giustificazioni dei nostri padri che ci sollevavano dal peso del cambiamento. Che descriveranno me e i miei cogenerazionali come vittime del sistema, certo lontani da colpe dirette: non abbiamo accresciuto noi il debito pubblico, non abbiamo sostenuto lo scellerato acuirsi della crisi climatica, non abbiamo rubato il futuro a nessuno: qualcuno ci aveva già anticipato.
Eppure, il punto è un altro. Anche stavolta bisogna sforzarci per guardare altrove.
Quando il mondo crolla nessuno è innocente, né chi s’è attardato a farlo crollare né tantomeno chi assiste alla rovina. Sono due forme ontologiche di complicità, registrano entrambe l’essenza della colpa: il non aver pensato che una soluzione era ancora possibile, fino all’ultimo, fino all’istante estremo.
Anche Bordini, d’altronde, prova a dircelo negli ultimi versi della poesia che abbiamo prima evocato. Scrive così:
E allora penso che il problema è da un’altra parte.
Ma non so dove.
O meglio, so dov’è, è chiaro, ma ho paura di dirlo.
Allora, rileggendo i suoi versi, ritengo che tutti noi sappiamo dove sia questo altrove, dove dobbiamo dirigere lo sguardo, dove possiamo trovare idee nuove, «è chiaro».
Bisogna solo confessarlo, avere il coraggio di confessarlo. A voce alta. E farlo subito. Prima che sia troppo tardi.
Ormai stiamo cominciando ad abituarci. Sulle piattaforme social succede sempre così, periodicamente vengono attraversate con incredibile irruenza dalla temperie mediatica della settimana. Gli spazi virtuali si riempiono di articoli, citazioni e meme dei più diversi tipi.
L’ultimo esempio che potremmo fare è la serie tv sudcoreana Squid Game, ideata dal regista e sceneggiatore Hwang Dong-hyuk, e distribuita in tutto il mondo da Netflix.
Per settimane (adesso l’attenzione comincia un po’ a scemare, ma è fisiologico) ovunque c’era qualcuno – nella quotidianità delle nostre app o a casa o al lavoro – che voleva parlarci di Squid Game. Ed è stato inevitabile per tanti di noi cedere, offrirsi alla visione dell’ennesima serie tv mainstream, dell’ennesimo prodotto culturale di massa.
E poi ricredersi sul proprio pregiudizio (per l’appunto, «serie tv mainstream», «prodotto culturale di massa»), e prendere coscienza dell’importanza della visione – come gesto del vedere, e come prospettiva sul futuro – di un’opera complessa quale è Squid Game.
Di cosa stiamo parlando, però? Perché è così importante – oggi, e domani, e dopodomani – recuperare e vedere questa serie tv?
Perché il lavoro di Hwang Dong-hyuk affronta spietatamente il tema della libertà. Che crediamo sia il problema e l’ossessione della fase post-pandemica. Cos’è la libertà, dopo il Covid-19? È mutato il nostro rapporto con l’idea di libertà? Si è marginalizzata, quell’idea, oppure è diventata più forte?
Ma non parla, ovviamente, di Coronavirus né tantomeno di misure restrittive. Il suo racconto si concentra su un gioco. Per cui vengono selezionate 456 persone, che sono legate tra loro da un unico punto in comune: la disperazione. Sono disperati per i debiti che hanno contratto con le banche o con gli strozzini, che hanno reso la loro vita invivibile, che hanno annullato le loro libertà di movimento, di emancipazione sociale. La loro vita è solo un fallimentare tentativo di saldare un debito. Ed è a questo punto che si inserisce nelle vite di queste 456 persone il gioco che potrebbe cambiare le loro esistenze: portati su di un’isola lontanissima dalle loro case, devono affrontare alcune sfide, perlopiù giochi d’infanzia; i partecipanti in grado di superarle tutte riceveranno una straordinaria somma in denaro per ripagare i propri creditori e ricominciare una nuova vita. Riconquistare una nuova libertà.
L’unico inconveniente è l’insuccesso nei giochi: i partecipanti perdenti non vengono solo eliminati dalla corsa al premio finale. L’eliminazione è anche fisica: il costo per la corsa alla libertà è la vita.
Si potrebbe pensare che queste 456 siano ostaggi, vittime senza via di fuga di un crudele meccanismo. Ma non è affatto così. Prima di cominciare le sfide firmano tutti convintamente un contratto per accettare le conseguenze della loro scelta: preferire la morte a una vita senza la libertà di potersi riconoscere in un contesto sociale, senza la libertà di muoversi liberamente, di rendere felice chi si ama.
Queste idee estreme, di vita come gioco al massacro, di libertà come rifiuto della vita, sono in realtà molto più antiche di quanto si possa immaginare.
Una figura paradigmatica, a questo proposito, è il leggendario Catone l’Uticense, che durante la guerra civile romana tra Cesare e Pompeo prende le parti di Pompeo. Ovvero dell’idea di libertà contro l’idea di tirannide. Catone sfida le truppe cesariane, nonostante l’esercito di Pompeo abbia già perso, tentando di organizzare una resistenza. Ma ormai tutte le strade per la libertà gli sono precluse e allora, assecondando i precetti della filosofia stoica, decide di suicidarsi. Decide di rifiutare la vita, di abbandonare il gioco al massacro dell’esistenza, e di riconquistare la sua libertà. «Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta», sono le parole che Virgilio indirizza a Catone nel primo canto del Purgatorio della Commedia di Dante.
Allo stesso modo di come fanno i partecipanti di Squid Game, che preferiscono morire giocando piuttosto che tornare indietro.
Adesso, potrebbe sembrare che il focus di entrambe queste figure letterarie, i partecipanti di Squid Game e Catone l’Uticense, sia la lotta per la libertà individuale. E invece non è così.
Il racconto di entrambi non mira affatto a esaltare il rifiuto alla vita, tutt’altro, lo stigmatizza profondamente. Non vuole significare: per la mia libertà, sarei disposto a morire. È un altro l’obiettivo della narrazione.
Il loro racconto, e il loro obiettivo, è dire: non esiste civiltà, non esiste una comunità, se i singoli non riconoscono e rispettano le libertà degli altri.
Perché se esistesse una civiltà, una comunità, in cui ogni individuo è consapevole che la propria libertà non è più importante di quella dell’altro, la vita non sarebbe di certo un gioco al massacro: la ricerca della libertà, allora, non dovrebbe essere un rifiuto – parliamo sempre in via metaforica, naturalmente – dell’esistenza.
Il problema non sono le sfide senza successo dei partecipanti di Squid Game o la resistenza fallimentare di Catone l’Uticense, il problema è il sistema di dominio che ha portato alla creazione di Squid Game e all’avanzata di Cesare.
Il problema è l’idea che la libertà è nostra non in quanto singoli individui, ma come comunità. E bisogna fare di tutto per difendere questa idea di libertà come comunità, come rispetto reciproco, attenzione comune.
Nel luogo in cui manca la comunità, il rispetto reciproco e l’attenzione comune, comincia il gioco al massacro. E da questo Squid Game non c’è alcuna certezza di uscirne vincitori.
È una questione millenaria, che ha interrogato, nel corso dei secoli, lettori di tutte le epoche: Iliade o Odissea? Qual è il poema omerico che intercetta meglio il sentimento del tempo che stiamo attraversando?
Le risposte e gli apprezzamenti, verso l’uno o l’altro testo, sono sempre stati i più disparati. Inoltre, fin dall’antichità i lettori di Omero hanno pensato che tra le due opere ci fosse una separazione: chi credeva che l’Iliade fosse un’opera di gioventù e l’Odissea di vecchiaia; altri che pensavano che la prima fosse di Omero e l’altra di alcuni suoi allievi; altri ancora erano convinti che Omero non esistesse e fossero, sia l’una che l’altra, l’insieme del lavoro di decine e decine di aedi.
Insomma, ancora oggi non ne sappiamo un granché, né tantomeno riusciamo a deciderci tra le due. Ma l’Iliade e l’Odissea sono arrivate fino a noi integre e ciascuno di noi sceglie a quale opera legarsi maggiormente.
Del loro fascino imperituro è certo prova il successo delle recenti riscritture che ha fatto Madeline Miller, La canzone di Achille e Circe, che grazie alla piattaforma social di TikTok sono diventate letture «virali», legando ragazzi di tutto il mondo e portando i due libri tra le classifiche dei libri più venduti di molte nazioni.
Ecco, dal tempo in cui Alessandro Magno si addormentava avendo accanto a sé i due volumi omerici sembra che non ci sia davvero mai stata una cesura.
Ma da dove prende vita questa malìa?
L’Odissea ha certo il fascino dell’avventura, del viaggio, del desiderio infinito di ricerca; la figura di Odisseo, poi, è irresistibile, l’eroe che «di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri»: un prototipo del cosmopolita contemporaneo, potremmo pensare, e non sbaglieremmo di molto. C’è da sottolineare che l’Odissea è anche un libro sul rapporto tra i padri e i figli, anzi è un libro di figli alla ricerca dei propri padri; comincia infatti con Telemaco che non ricorda quasi più il volto di Odisseo, che lo lascia a Itaca quando era piccolissimo, e allora decide di andare a cercarlo per mare, suo padre, ovunque sia.
E Omero lo ritrae, Telemaco, alla fine del primo libro, con queste parole che stringono il cuore: «Lì egli tutta la notte, coperto da un vello di pecora,/ progettava nella mente il viaggio che Atena aveva ispirato».
Chissà quante volte è successo pure a noi di vivere un momento come questo, di passare una notte a pensare al viaggio che avremmo intrapreso l’indomani.
Ciononostante, secondo chi scrive queste poche pagine, è l’Iliade ad abitare con maggiore consapevolezza il presente e a darci una visione necessaria per osservare il futuro.
Proviamo a spiegarci.
L’Iliade è universalmente conosciuta come il feroce racconto della guerra di Troia, come il poema della rabbia cieca, quella di Achille che uccide barbaramente i suoi nemici per vendicare l’amato Patroclo; perciò viene associato all’idea di sopraffazione, di strage, per la filosofa Simone Weil è il «poema della forza». Addirittura, nel suo saggio «L’Iliadeo il poema della forza», scrive di un processo di oggettificazione, ovvero di un particolare potere che avrebbero i protagonisti omerici, capaci di ridurre a oggetti i nemici che si inchinano alla loro forza. Per dimostrarlo Weil riportala scena finale del poema: il re di Troia, Priamo, orbo del figlio Ettore, va da Achille, suo assassino, ancora colmo di ira, per reclamarne il corpo e dargli sepoltura. Priamo si prostra, si attacca stretto alle ginocchia di Achille, e comincia a piangere, invocando la sua dignità di padre, dicendo che anche Achille è figlio, e conosce l’amore che soltanto un padre è in grado di nutrire per un figlio. Per Weil tra i due c’è uno scompenso di forze: Priamo è debole, Achille è forte. Priamo si rende oggetto, Achille il detentore della forza. Priamo si arrende alle lacrime, Achille si difende col suo fiele.
A rileggerla oggi, però, la lettura di Weil risulta estremamente parziale, quasi ingiusta. Perché in quel momento Priamo non è debole né oggetto: è forte tanto quanto Achille, anzi, possiede una forza che Achille ancora non possiede, la forza della vergogna e del rispetto: non ha vergogna di piangere, di supplicare, di dirsi padre; ha rispetto per sé stesso, per le persone che ama, per l’assassino di suo figlio. Achille, risponde piangendo e scostandolo «dolcemente». La rabbia scompare. Gli restituisce il corpo di Ettore, così potrà seppellirlo. È Achille a cedere alla forza di Priamo, non il contrario.
Perché l’Iliade si chiude con questa scena? Un poema che era cominciato con la mènis di Achille, con la sua ira irrefrenabile (prima parola della letteratura occidentale, pensiamoci), perché si chiude con la scena di un padre che supplica un figlio?
Perché l’Iliade non è il racconto della guerra di Troia o il poema della rabbia o della forza, non si concentra sulle carneficine e sulle stragi. L’Iliade è il poema della vergogna e del rispetto: il rispetto per il dolore proprio e altrui, il senso proprio di vergogna che ti fa sentire debitore verso l’altro (Priamo verso Achille, Achille verso Priamo). Che sono le maggiori qualità che un uomo possiede, e dentro di sé prova – con molte difficoltà – ad amministrare.
Non sarà un caso, credo, che in greco antico le due parole, rispetto e vergogna, coincidono in una sola, aidòs.
Gli scaffali delle librerie vennero svuotati, il 12 settembre 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Si cercavano libri sull’islam, sulla politica estera americana, sull’Iraq, sull’Afghanistan, su tutto ciò che potesse dare delle risposte, chiarire le ragioni dell’assalto.
E cominciava, sempre in quelle ore, un importante dibattito sulla presenza americana nel mondo, sulle reazioni che poteva suscitare, sulle sue conseguenze: appariva davanti agli occhi di molti uno schema di causa ed effetti che solo dopo poche settimane, già alla fine di ottobre, scomparve.
In una manciata di giorni la prospettiva universalmente accolta dalla popolazione americana, soprattutto di New York e Washington, era stata stravolta. Non ci si chiedeva più quale fosse l’apporto negativo, quali fossero le responsabilità della politica americana alla base dell’attacco di al Qaeda; adesso il problema era diventato esclusivamente «islamico»: cosa, nel mondo islamico, ha interrotto, frenato, ostacolato l’illuminismo indispensabile per coltivare democrazia, istruzione e progresso?
Era diventata «un’idea fissa» della maggior parte dell’opinione pubblica americana: loro, «gli islamici», «i cattivi», negli assalti suicidi che hanno condotto, hanno voluto attaccare un’idea di civiltà loro opposta, nemica. Il principale obiettivo degli americani, «i buoni», non doveva essere, allora, quello di contrattaccare o di vendicarsi: la missione statunitense doveva assumersi un duplice dovere, liberare e civilizzare. Come scrissero alcuni commentatori dell’epoca, era giunto il momento di fare ruotare la storia sul proprio cardine: una visione molto teleologica, e così era necessario restasse, perché l’arrivo in Medio Oriente degli americani era necessario che nell’immaginario pubblico coincidesse con il tanto atteso sopraggiungere del benessere. Sui giornali, si leggeva, che i giovani mediorientali non aspettavano altro, che vedevano gli Stati Uniti come il loro «liberatore naturale».
Pochissimi forse ricordavano le parole di Tacito, nell’Agricola, «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant», ‘dove fanno il deserto, lo chiamano pace’.
Pochissimi, ma tra di loro c’era sicuramente la scrittrice Joan Didion, che nel 2003 scrisse un libro essenziale su questo tema critico, Idee fisse. L’America dopo l’11 settembre (da poco pubblicato dal Saggiatore), in cui raccontava l’annebbiamento collettivo che aveva colpito i cittadini americani dopo la caduta delle Torri Gemelle.
Lo fece fornendo nomi e cognomi di chi tentò di dare una visione lucida del problema – come Steven Weber, consulente di analisi dei rischi per il Dipartimento di Stato, da cui abbiamo tratto il racconto sulle librerie – e di chi offriva una visione distorta della storia – come Micheal Kelly sul Post, da cui abbiamo ripreso la storia dei giovani mediorientali filoamericani.
Ma ancora più efficace, nelle pagine di Idee fisse, fu evidenziare un peculiare atteggiamento politico – che certo anche oggi contraddistingue il dibattito civile – per cui, nei momenti di estrema crisi di uno Stato, la fisiologica risposta della popolazione è adagiarsi sui racconti facili, chiari e netti. Non importa se confortati dalla logica e dalla razionalità, ciò che conta è che siano verità immediate e semplicemente accessibili. Di contro, qualsiasi tentativo di confutare quell’adagio viene segnalato come un sovvertimento dell’ordine pubblico, un nuovo attacco allo Stato e al suo tentativo di ripresa. Quindi, sono due le posizioni che si vengono a configurare: chi accetta la narrazione che lo Stato vuole che si faccia, per potere agire nel modo in cui ritiene più etico agire; e chi cerca di dubitare delle idee fisse, delle opinioni necessarie e perentorie, prova a interrogarsi un secondo in più sui rapporti tra causa ed effetto, e per questo viene immediatamente identificato come un complice del nemico.
Leggiamo dalle parole di Didion: «Un’indagine sulla natura del nemico che fronteggiavamo, in sostanza, veniva interpretata come simpatia per il nemico. L’unica parola per descrivere quelli che ci attaccavano doveva essere “cattivi” o “malfattori”, costrutti peculiari che suggerivano che chi li usava trasmetteva il messaggio di un’autorità somma. Questo fu l’anno in cui sembrava che fossimo precipitati di colpo in un mondo premoderno. Le possibilità dell’Illuminismo svanirono. Improvvisamente ci veniva richiesto di accettare – e di fatto accettavamo – un tipo di ragionamento così fragile che poteva essere basato sulla promessa di ritorno dei cargo gods».
Ci chiediamo, a questo punto, che effetto facciano queste parole a vent’anni da quei tragici eventi, e a pochi giorni dal definitivo ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan.
Ci chiediamo se, a volte, le parole degli intellettuali non siano soltanto le parole di una qualsiasi Cassandra, se certe volte non bisognerebbe ritornare su quelle parole. Pensare che non siano profezie tristemente avverate, ma presagi ancora in corso. Che siano ancora efficaci per vedere meglio, vedere di più. Sradicare dalla nostra coscienza i nostri fissi convincimenti.
Tutte le riflessioni che cercano di rintracciare le verità sul tramonto non possono prescindere dal considerare la natura del buio. Il tramonto è uno spazio liminare, il sottile interregno tra il giorno e la notte, tra la luce e l’oscurità, tra il visibile e l’invisibile. Tra ciò che crediamo vita e ciò che riteniamo non vita. È ormai una consolidata dicotomia: da una parte lo splendore dell’alba, principio di continua rinascita; dall’altra, la decadenza del tramonto, ultimo tentennamento verso le ombre, che addolorano e spaventano.
Ma è davvero così, è una giusta visione? È vero che il tramonto segna un profilo di decadenza, di titanica inevitabilità delle tenebre, del buio che addolora e spaventa? Un’ulteriore domanda: esiste un’idea di tramonto lontana dalle raffigurazioni di William Turner nella prima metà dell’Ottocento, o siamo ancora sentimentalmente legati alle sue ispirazioni romantiche?
Sono domande che sorgono leggendo un’affascinante pagina del nuovo romanzo di Andrea Gentile, Tramontare (minimum fax). Tramontare è una bambina che crede di essere la morte (o almeno «così dicono»); all’inizio della storia Tramontare decide di entrare dentro un bosco, alla ricerca dell’agnellino che ha smarrito. Nel bosco la luce sta a poco a poco andando via, ed è il motivo che porta Tramontare a riflettere sulla paura del buio:
«Non ho mai avuto paura del buio. Il buio addolora, non spaventa. Io non provo neanche dolore. Che cosa sarà mai poi questa parola? Nel buio sto bene. Nel buio si può scherzare meglio. Gli scherzi al buio sono molto più efficaci. E se vuoi uccidere qualcuno, al buio, lo fai con grande tranquillità, senza problemi, questo è ovvio. Il buio è una malattia. Ammirare questo bosco, prima ancora del buio. Qual è il momento esatto in cui il giorno si tramuta in notte? Il tramonto è una bugia».
Il tramonto è una bugia, dice Tramontare. Si mostra a tutti come quotidiana premonizione del dolore e del terrore, e in realtà è un oracolo mendace, perché il buio è la dimensione della possibilità, della liberazione (d’altronde, scriveva Costantino Kavafis nei versi di Finestre, «sarà una nuova tirannia la luce»). Al buio, tutto riesce meglio.
Si fa passare come presagio dell’ineluttabilità della fine, il tramonto, o della estinzione estrema, e invece è tutt’altro. È una bugia, o forse una distrazione. Il camuffamento di una verità a noi mai rivelata: qual è il momento esatto in cui il giorno si tramuta in notte? La bambina Tramontare, nel suo soliloquio, continua: «Il momento esatto: avrei bisogno del momento esatto».
Il tramonto ci ammanta della sua teterrima bellezza, ci costringe ad ammirarlo, ci abitua a poco a poco al suo oscuro seguito. Ci fa credere di attraversare uno spazio, restando fermi. E nel frattempo, ci nasconde il segreto della luce, del suo prima e del suo dopo, del momento esatto in cui tutto da impossibile diventa possibile.
Non bisogna fidarsi, quindi, dei tramonti. Bisognerebbe cominciare a guardarli diversamente: non come ultima verità del giorno, ma come prima menzogna della notte; non come decadenza, ma come resurrezione; non come dolore, ma come gioia. Bisognerebbe, per osservarli davvero, nel tentativo di ghermire le loro ultime verità, seguire il canto di Franco Battiato in Prospettiva Nevski e «trovare l’alba dentro l’imbrunire».
Il fuoco sta cambiando aspetto. Il suo aspetto, la sua lingua, l’immaginario che dalla notte dei tempi lo protegge, sta rapidamente mutando.
Il fuoco non è più il fuoco della ferula di Prometeo, sottratto di nascosto agli dèi perché gli uomini potessero disporne liberamente, cuocere le carni, scaldarsi durante la notte, difendersi dalle belve feroci. Simbolo di progresso, di protezione, di futuro.
E nemmeno è più il fuoco che alimentava l’ambiguità del verbo latino adolesco, che poteva significare parimenti “crescere, maturare” e “bruciare”, per quell’antica idea che ciò che brucia cresce incessantemente, arde sempre verso l’alto, fino ad arrivare agli dèi. Una trasfigurazione del desiderio di altezza, di forza, di devozione.
Che resta di quel progresso, di quel desiderio di altezza? Qual è oggi il futuro del fuoco?
Oggi, mentre il mondo brucia, sembra non esserci futuro per il fuoco. Per giunta, sembra proprio che quel principio rigeneratore, di resurrezione e ricominciamento, consustanziale alla sua natura (penso all’ekpýrosis dei filosofi stoici, alla figura della Fenice) si sia del tutto estinto. Per un inevitabile gioco metaforico, potremmo dire che ne è rimasta solo la cenere. Oppure, che l’unico fuoco che continuiamo a possedere è un fuoco dipinto, come quello di cui scrive la poetessa Maria Luisa Spaziani.
Riporto qui i suoi versi:
Ritenendo d’uscir dal labirinto
contemplavo montagne, aprivo libri,
coglievo ombre fuggenti di bellezza.
Solo tu scioglieresti l’amarezza
ma sei balsamo e scure. E il resto è inerte,
e il mondo intero m’è fuoco dipinto.
Un fuoco che non ha più la vera forza del fuoco. Che si estende per dare esclusivamente l’immagine dell’inerzia e della distruzione, del fumo che oscura, dell’inferno che avanza. Il fuoco dipinto, dalle cronache dei giornali e dei telegiornali, che svetta sugli alberi non per raggiungere il cielo, ma per incenerire i tronchi sulla terra.
E pensare che il fuoco, un tempo, era sognato addirittura come radice e basamento delle isole. Lo racconta Leonardo Sciascia, in poche pagine, oggi raccolte nel Fuoco nel mare, in una storia dedicata al personaggio mitologico di Cola Pesce, un uomo con sembianze di pesce, che conosceva come nessun altro il mare e le sue creature, anche quelle più misteriose, come le sirene.
La sua fama era giunta all’attenzione del famoso re Federico II, che volle metterlo alla prova. Gli chiese, dapprima, di recuperare tra le acque alcuni suoi oggetti preziosi. Cola non ebbe problemi, li recuperò facilmente, dimostrando la sua bravura. Federico II, davanti a quel prodigio, pensò di poter finalmente trovare risposta a una domanda che da anni si portava appresso. Domandò all’uomo-pesce cosa ci fosse sotto la Sicilia.
«“Maestà” disse Cola “sotto il vostro regno c’è un regno di fuoco”».
Il re rimase incredulo ed esigeva che gli fossero portate le prove del fuoco che abitava al di sotto dell’isola. Cola provò a dimostrarglielo portandogli un pezzo di legno consunto dalle fiamme marine, ma al sovrano non bastò. Desiderava osservare la materia che laggiù, nelle profondità del mare, bruciava.
«“Maestà” disse Cola “io posso toccare quel fuoco ma non prenderlo. Se tentassi, il fuoco mi mangerebbe le mani”».
Il re mandò comunque Cola a prendere il fuoco. Cola, però, non tornò più da quel viaggio, e il re ebbe così la prova che il fuoco l’aveva reso cenere.
Quando si tenta troppo il fuoco, quando si crede che la Natura debba dimostrarci qualcosa, che debba essere al nostro servizio, è impossibile tornare indietro.
Ecco, ripercorrendo queste pagine sciasciane, mi accorgo di essere stato avventato nel dire che il fuoco non ha futuro. Forse bisogna cambiare punto di vista. Ritrovare le tracce sottomarine di Cola Pesce, riscoprire la dimensione del fuoco nel mare. Che sia l’ultima occasione per non dare per scontata la forza del fuoco, per ritrovare il fuoco come radice e futuro, e non più come morte e cenere?
Intanto, il mondo continua a bruciare.
Intervista a Vanessa Ambrosecchio
È stato pubblicato nelle ultime settimane di scuola, Tutto un rimbalzare di neuroni (Einaudi), e si è offerto a tutti noi come un grimaldello per entrare dentro un anno di lezioni che ha convissuto quotidianamente con l’emergenza, e per prendere coscienza della nuova vita di classe al tempo della didattica a distanza (DAD). Ne parliamo con la sua autrice, Vanessa Ambrosecchio.
Scrittrice e insegnante, Vanessa. Queste due dimensioni hanno sempre convissuto parallelamente in te, ma nel tuo nuovo libro, Tutto un rimbalzare di neuroni, sono finite per coincidere. La mia prima domanda è sul rapporto tra convivenza e coincidenza. Che cosa significa, per te, vivere insieme la scrittura e l’insegnamento?
Sono solita dire che per tanti anni l’insegnamento per me è stato il marito, la scrittura l’amante. Ho scritto ovunque: sull’autobus nel tragitto da casa al lavoro, nel seminterrato di scuola tra un’ora buca e l’altra, o in piedi dietro la porta in attesa di entrare in classe, rubando ogni momento libero e consacrandolo a questa passione clandestina. Poi le cose sono gradualmente cambiate: ho ammesso con me stessa che l’insegnamento non è soltanto l’unico mestiere che potevo fare riuscendo anche a sorridere, ma una sorta di predestinazione che mi viene da una particolare inclinazione, ereditata da mio padre anche lui docente, alla relazione con i giovani. La scrittura, d’altro canto, è sempre stata il mio modo di guardare al mondo, l’acqua nella mia boccia, senza non respiro. Ma sono due spazi in cui gioco due ruoli solo apparentemente diversi: a scuola sono in costante comunicazione e immedesimazione con l’altro; nella solitudine della scrittura sono in palpitante contatto con l’altro che mi abita: invenzioni, aneliti, fantasmi. E forse un po’ dello sguardo dello scrittore c’è nella qualità dello sguardo che poso sugli alunni, teso a rintracciare di ciascuno il mistero dolente e la radice di ogni entusiasmo: il “personaggio”, insomma.
Come nasce Tutto un rimbalzare di neuroni? È stato una fisiologica e spontanea risposta alla straordinarietà della vita (della vita in sé, e della vita scolastica), un diario di bordo per provare a tracciare la nuova geografia umana che hai trovato di fronte a te, una riflessione su cosa significa abitare la crisi?
Inizialmente è stato piuttosto un “registro molto personale”, vi annotavo in corso d’opera impressioni, interrogativi, preoccupazioni, riflessioni, insomma: gli appunti di un naufrago che si rassegna a mappare ed esplorare l’isola sconosciuta dove è stato catapultato, per sopravviverle. Finito il primo lockdown, durante l’estate, quegli appunti sono stati popolati da personaggi e ricordi, i primi d’invenzione, i secondi legati a tutto il rimpianto della scuola in presenza vissuta negli anni precedenti. È banale, ma davvero si comprende il valore di quanto si è avuto quando lo si perde, e i ricordi di esperienze intense e formative, che ci è stato impossibile proporre ai nostri alunni in questi anni, ha scavato in noi docenti pozzi di rimpianto. Inventare i personaggi degli alunni, seppure basandomi su venticinque anni di esperienza didattica, mi ha poi aiutato, come sempre fa l’invenzione, a guardare al tempo stesso col microscopio e col telescopio il dato autobiografico: entrare nelle fibre del fatto reale e insieme ricostruirne una visione panoramica.
La didattica a distanza ha soltanto tolto o ha restituito anche qualcosa alla comunità scolastica?
La DAD ha tolto tanto, ed è questo che racconto nel mio libro, ma ha anche messo alla prova una generazione che io chiamo, senza alcun disprezzo ma come un dato di fatto, come un andamento indotto dal consumismo e dalla fragilità delle figure genitoriali, la generazione del “voglio dunque ho”. Abbiamo tutti imparato che nulla è dato per scontato e per sempre, che le libertà di cui siamo abituati a godere possono essere messe in forse dal più imprevedibile degli eventi, che la morte e la malattia, sistematicamente rimosse dalla comunicazione quotidiana se non per fare sensazione, sono le ombre che proietta la vita stessa, sono sorelle che non possiamo disconoscere e diseredare. Ricordarci che siamo fragili e per questo imparare a piegarci senza lasciarci spezzare è quanto si apprende dinanzi alle grandi prove della vita. Per i nostri giovani, più ancora che per noi adulti, la pandemia lo è stata e lo è.
Quanto è stato difficile per te adattarti alla comunicazione schermata, alla lontananza dei ragazzi?
A scuola si impara prima di tutto la flessibilità. Lavorando quotidianamente con variabili impazzite quali sono per definizione gli esseri umani, siamo sempre pronti a fronteggiare l’imprevedibile, che è una delle maggiori attrattive di questo lavoro mai uguale a se stesso, e insieme ciò che ne fa un mestiere usurante. Dinnanzi al trauma della DAD, una volta accusato il colpo ci siamo rapidamente rimboccati le maniche. Ciò non vuol dire che non sia stato difficile trovare le strategie comunicative e le attività didattiche giuste per non perdere il contatto con i ragazzi, è stata una sperimentazione sul campo che abbiamo dovuto condurre a carattere d’urgenza e senza alcuna preparazione: una sorta di ospedale da campo! Ma del resto si fa e si è fatto scuola da sempre nelle situazioni più disparate, dai campi profughi alle situazioni di guerra. Il maestro è, e deve essere, colui col quale, per dirla con Gino Paoli, pareti e soffitto, quali che siano, non ci sono più: al loro posto alberi, alberi infiniti.
A proposito di vicinanza e lontananza, in Tutto un rimbalzare di neuroni c’è una bellissima pagina sulla forza che trasmettono lo studio, e la scuola, quando sono intesi come l’altrove, luoghi e momenti in cui poter costruire qualcosa di diverso e tuo, lontano però da casa. Perdere questa lontananza da casa, nelle tue parole, sembra davvero una delle perdite più consistenti
Proprio così: l’esperienza scolastica è intrinsecamente connessa a quello spazio franco che è la classe e al tragitto che ogni mattina il bambino fa per raggiungerlo, lasciandosi materialmente e simbolicamente la propria casa alle spalle. In quanto luogo di dematernalizzazione non solo della lingua, come direbbe Lacan, ma della conoscenza e considerazione di sé, la scuola è chiamata a essere la più grande opportunità che ci è data per scoprire chi siamo e cosa siamo bravi a fare, e che tutto di noi e intorno a noi può, col tempo e l’impegno quotidiano, cambiare. Questo la DAD lo ha necessariamente azzerato, ma non poteva essere diversamente. Abbiamo cercato comunque di “rapire” i nostri alunni a ogni incontro in remoto, a rubarli per quei quarantacinque minuti quotidiani alle dinamiche e ai condizionamenti familiari: è stato questo lo sforzo maggiore, non tanto portare avanti il programma, quanto tenere acceso quel faro che attrae e guida, fra le nebbie della crescita e per di più in una situazione così angosciosa.
Cosa ti auguri per il prossimo anno scolastico? Cosa desidereresti per i tuoi ragazzi?
Ovviamente mi auguro un anno normale, in cui, se ancora non sarà possibile fare attività esperienziali come i laboratori e i viaggi di istruzione, si possa almeno stare insieme in presenza continuativamente. Mi auguro che il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) metta in atto tutti i provvedimenti ad hoc, tra i quali non deve esserci solo ed esclusivamente la vaccinazione di categoria, ma un distanziamento reale garantito da classi meno popolate, incremento del numero dei docenti, trasporti dedicati per gli alunni delle scuole superiori. Ma di tutto questo, a dire il vero, non si parla, eppure ci accingiamo a vivere il terzo anno scolastico d.C. (dopo Covid) e dovrebbe essere ormai chiaro cosa è necessario per poter fare scuola in sicurezza, ma anche per fare scuola tout court. Mi piacerebbe che il mio libro contribuisse a tenere vivo il dibattito in tal senso, a che la scuola sia, non solo a parole, in cima alla lista delle priorità della nuova era che il PNRR dovrebbe inaugurare. La persona giusta al posto giusto non è un’utopia, è il punto di arrivo di un percorso scolastico sistematicamente funzionale, ed è la base di una società sana e felice.
Vanessa Ambrosecchio, Tutto un rimbalzare di neuroni, Einaudi, 2021, pp. 136
«È meno mortale della maggioranza di noi», diceva di lui il poeta Iosif Brodskij nel 1993 presentando a New York Le nozze di Cadmo e Armonia ed è molto difficile oggi trovare parole più esatte per descrivere il profilo di Roberto Calasso (1941-2021). Innanzitutto, perché confessano un’idea che molti hanno sempre maturato nei suoi confronti, ovvero la convinzione che il suo costante rapporto letterario con le divinità – sia come editore delle edizioni Adelphi; sia come scrittore, da La rovina di Kash (1983) alla Tavoletta dei Destini (2020) – ne avesse inevitabilmente corrotto la natura umana, lo avesse irrimediabilmente avvicinato allo spazio dei celesti: Brodskij ipotizzava che un dio, forse Apollo, fosse entrato nel suo corpo per raccontare al mondo la storia segreta degli dei, «giacché, più di una volta, si ode in queste pagine un timbro estremamente intimo, eppure, nello stesso tempo, altamente impersonale, che non può appartenere a uno di noi». La prossimità e la distanza dei superni.
Per questa ragione, quando ieri è giunta la notizia della sua dipartita, il primo impulso è stato un generale e fisiologico sconcerto: com’è possibile, ci siamo chiesti, che la natura divina di cui Calasso s’è nutrito per anni e anni, a un certo punto, si sia estinta? Allora, anche la natura di certe divinità è caduca come la nostra? È una riflessione paradossale, lo dobbiamo ammettere, ma l’ultimo dei pensieri che ha attraversato le nostre coscienze è che anche l’autore di Ka (1996) potesse ancora partecipare alla terrestrità.
D’altronde, l’immenso è la dimensione che ha segnato la sua esistenza fin dall’inizio della sua esperienza letteraria. A questo proposito, nel suo ultimo libro, Bobi (2021), Calasso ricorda un oracolare dialogo con Roberto Bazlen:
«Un giorno sfuggì a Bazlen, quasi controvoglia, la risposta a una domanda che non gli avevo fatto ma avrei potuto fargli, come chiunque, essendo una domanda-scorciatoia: “Che cosa potrebbe tentare uno scrittore in questo momento?”. “O il minuscolo o l’immenso… O Jules Renard (il Diario) o il tutto”. Parole dette come scappando via».
Più che un consiglio letterario, quello di Bazlen sembra un autentico vaticinio. Che Calasso riuscirà a esaudire, però, solo molti anni dopo la morte di Bazlen (1965): la presenza del cofondatore di Adelphi nella sua vita inibì per molto tempo la scrittura; Bazlen era la figura sciamanica che testimoniava la possibilità di vivere di sola letteratura senza mai pubblicare una propria riga.
Per Calasso, quell’immenso, infatti, si manifestò dapprima nella sua visione editoriale, che non poteva che intendere artisticamente, come prova di autorialità assoluta. Ne scrive nell’Impronta dell’editore (2013), parla di editoria come genere letterario, dell’editore come autore, che ha il compito di immaginare e disegnare una forma, una forma unica, esclusiva ed escludente, capace di selezionare una serie di volumi che posti sullo stesso piano di un’ideale biblioteca diventino «capitoli di un unico libro». Il ripetersi dell’aggettivo «unico» è voluto, perché intende sia la straordinarietà dell’evento letterario che l’editore pubblica sia l’unitarietà del processo editoriale. Sullo stesso piano della Biblioteca Adelphi, la principale collana della casa editrice, poggiano infatti le opere di Georges Simenon, di Nonno di Panopoli e di Cioran, universi che non potrebbero risultare più distanti, eppure sono tutti accomunati da quella duplice accezione di unicità. Che è stata per Adelphi la principale direttrice da perseguire.
La prossimità e la distanza, quindi, l’immenso e l’unico, la vita di Calasso si è misurata in questa continua dialettica, in questo eterno campo di forze. Che ha cercato pure di registrare, successivamente, nella sua opera di scrittore, una volta affrancatosi dal fantasma dell’amico triestino. Adesso sarebbe impossibile riassumere i caratteri della sua produzione, l’ha fatto meravigliosamente Elena Sbrojavacca nel suo Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso (2021) e a quel saggio rinviamo per qualsiasi tentativo di acceso al lavoro calassiano; ma su un punto forse è bene soffermarsi, per legare l’impronta dell’editore a quella dell’autore, l’editore della prima edizione critica delle opere di Friedrich Nietzsche e l’autore del Cacciatore Celeste (2016): il riscatto dell’irrazionale. È stato un lavoro silenzioso e sistematico, quello di Calasso e di Adelphi, quello di recuperare un aggettivo fortemente contaminato dal pregiudizio negativo.
Nella percezione comune, l’irrazionale è ciò che è lontano dall’ordine, dall’armonia, dalla chiarezza. Come se ordine, armonia e chiarezza fossero le uniche strade per l’essere e per il poter essere. Ecco, grazie a Roberto Calasso e a quel suo lavoro silenzioso e sistematico, la nostra idea dell’irrazionale non è certo più così marcata: l’irrazionale non è la strada opposta alla ragione, è semplicemente un’altra strada. Per l’essere e il poter essere. Una strada che riesce a giungere alla conoscenza del mondo, terreno e ultraterreno, senza la necessità di dover sottostare alle leggi dell’ordine, dell’armonia e della chiarezza. Talvolta, è l’unica strada per quell’altrove verso cui tutti sentiamo la necessità di approdare, prima o poi.
Perciò, forse risulterà irrazionale (e non importa), ma le uniche parole che ci restano per ricordarlo, sono quelle di Konstantinos Kavafis, nella poesia Un loro dio, ancora una volta segnalata da Iosif Brodskij. Kavafis immagina, nella piazza di Seleucìa, il passaggio di un dio, che aveva assunto delle sembianze umane, nell’ora che fa sera. Tutti si chiedono chi sia quell’uomo così diverso, così straordinario: «[…]Ma alcuni,/ che osservavano con più attenzione/ capivano e si facevano da parte».
Anche noi, oggi, ci facciamo da parte.
Le nostre vite sono un catasto di geografie tradite.
Proviamo a spiegarci. Ogni geografia, per esistere, deve possedere dei confini definiti: uno spazio fisico compare sulle nostre mappe soltanto entro le linee chiuse che gli restituiscono una forma. Le nostre case, una serie di quadrati e rettangoli. La Sicilia, un perfetto triangolo. L’Italia, un comodo stivale.
Dove sta, allora, il tradimento?
Il tradimento è l’elemento istitutivo di qualsiasi geografia. Il tradimento è il racconto che si fa di quelle geografie, che le fonda e le ricostruisce: infatti, fin da bambini sappiamo – è una conoscenza pregressa, innata – che casa nostra non si riduce certo al perimetro di quella serie di quadrati e rettangoli che abitiamo; casa nostra, in realtà, ogni giorno può allargarsi a dismisura, o restringersi fino alla claustrofobia, trasformarsi nel luogo di battaglie storiche, di viaggi interstellari, di incontri impensabili. È una geografia continuamente tradita dal nostro immaginario, dalla nostra capacità di lettura dell’altrove, dal nostro desiderio dell’altrove. Naturalmente, lo stesso vale per le nostre città, per i nostri Paesi, per il nostro pianeta: nessuna geografia sembra essere sufficiente abbastanza per contenere una storia.
Ecco, quanto spazio occupa una storia?, potremmo chiederci. Quant’è grande il racconto dell’Iliade, delle Mille e una notte, del Gattopardo?
Sono interrogativi (assurdi, ce ne rendiamo conto) che si rafforzano soprattutto quando si entra in una libreria. È una sensazione strana, difficile è rendersi conto delle concrete dimensioni di luogo pieno di libri; confondersi tra gli scaffali, le pagine, le copertine, le quarte è disorientante. In libreria si finisce sempre per smarrirsi, anche se questa conta uno spazio calpestabile di appena 19 mq, come La stanza di carta a Palermo.
In effetti, più che a una libreria, l’aspetto della Stanza di carta fa pensare alla torre di un alchimista: per entrare nell’antro dei sortilegi si superano alcune vetrine che custodiscono rare prime edizioni (in alto) e una studiata selezione di editori siciliani (in basso); il suo cuore si trova subito dopo, ed è composto da un monumentale tavolo circolare, dove introvabili libri di antiquariato stanno accanto alle ultime novità di Sellerio. All’interno di quel perimetro circolare, il concetto di novità trova una nuova accezione, una diversa formula: non è quello che è uscito ieri o l’altroieri, ma ciò che tu, curioso lettore, hai trovato oggi, e che mai ti saresti aspettato di incontrare.
E ce ne sono tante, di novità, da trovare (o da cui farsi trovare), in questa stanza in via Giuseppe D’Alessi, al centro del capoluogo siciliano, che è vero, sarà piccola, ma basta alzare lo sguardo – badando di rallentare la frenesia dello sguardo – per accorgersi che le sue pareti sono altissime, raggiungono, dicono, i sei metri d’altezza, e sono completamente tappezzate di libri.
Adesso, sarebbe lecito chiedersi (per continuare la serie di domande assurde), come fa una libreria di appena 19 mq calpestabili e sei metri d’altezza a contenere tutte le storie che custodisce al suo interno. Non ha paura di esplodere, che gli scaffali si ribellino al peso dei racconti, che il monumentale tavolo ceda all’agitarsi dei volumi sopra di esso?
Il suo libraio, Piero Onorato, è tranquillo, come ogni buon alchimista sa che l’incantesimo si innesca solo quando il contenuto del veleno viene versato. Finché i libri non vengono letti, finché non trovano il lettore giusto, non c’è rischio che gli spazi che contengono escano fuori dalle loro pagine, che strabordino rivelando quella realtà parallela e smisurata di cui tutti noi abbiamo empiricamente coscienza. È un segreto alchemico, a quanto pare, come la pietra filosofale. Il cui processo non ammette che qualcosa sia affidato al caso.
Infatti, per preservare la sua raffinata alchimia, per continuare a restare così per come è, La stanza di carta non potrebbe permettersi niente di diverso, il suo unico locale non potrebbe essere più spazioso né il tetto più basso. Né tantomeno potrebbe trovarsi in una via che non sia via Giuseppe D’Alessi: buia traversa della famosa via Maqueda, prende il suo nome dal battiloro ricordato come «il Masaniello siciliano», che nel 1647 guidò la rivoluzione che mise a ferro e fuoco Palermo, e le cui gesta vennero successivamente ricordate dallo scrittore Nino Savarese (1882-1945) nel romanzo storico Il capo popolo, recentemente ripubblicato dall’editore (anche stavolta palermitano) il Palindromo.
Questa informazione, d’altronde, la ricaviamo da un altro volume palindromo, che fa il paio al nome della libreria, e che non può che trovarsi proprio lì, nelle vetrine basse dell’ingresso: si intitola infatti Palermo di carta, l’autore è Salvatore Ferlita, e ha inaugurato nel 2013 una felice collana, Le città di carta, ideata dai due editori del Palindromo, Francesco Armato e Nicola Leo, e diretta dallo stesso Ferlita insieme a Fabio La Mantia.
Ma cosa sono Le città di carta?
Sono delle guide letterarie, delle mappe raccontate che, con l’ausilio di romanzi e raccolte di versi, di diari e saggi di scrittori e scrittrici moderni e contemporanei, restituiscono al lettore la stratigrafia letteraria di uno spazio urbano. Il tentativo di comporre la geografia delle voci che costituiscono (e costruiscono) lo spazio delle città. Di ritracciare tutte le volte che l’immaginario letterario tradisce la realtà, la rende doppia, la nasconde o l’aumenta, la imita o la reinventa.
Il verbo rintracciare, per Le città di carta, ha una doppia valenza. Perché questi volumi sono delle mappe raccontate, come abbiamo scritto, ovvero sono composti da capitoli che descrivono di volta in volta la presenza letteraria all’interno di un vicolo, di un quartiere, di una piazza. Ma non è tutto. Le città di carta sono anche delle mappe vere e proprie, che vengono allegate ai libri della collana, e segnano minuziosamente i punti in cui la penna di uno scrittore ha generato una realtà parallela, offrendo anima a una via altrimenti anonima.
Finora sono state sette le città scandagliate: Palermo, Catania, Roma, Milano, Torino, Genova, Trieste. Il titolo più recente, invece, amplia il concetto di spazio urbano, e comprende l’intero Stretto di Messina. Inoltre, uno dei libri della collana ha già avuto un aggiornamento: nel 2019, infatti, è uscita Palermo di carta plus, sempre di Salvatore Ferlita, che ha continuato la sua opera di topografia fantastica aggiungendo delle nuove, indispensabili tracce come i luoghi della famiglia Florio ripresi dalle pagine dei Leoni di Sicilia di Stefania Auci o gli oscuri camminamenti delle indagini di Leonardo Sciascia.
Dicevamo prima, riguardo al processo alchemico, che niente è affidato al caso. E anche stavolta è così. Perché Le città di carta all’interno della Stanza di carta non sono che un altro studiato mise en abyme, realtà dentro realtà, geografia dentro geografia, tradimento dentro tradimento, storia dentro storia. Noi dentro noi: dove i piani si confondono, e si finisce sempre per smarrirsi.
Molto spesso, quasi ogni giorno, mi capita di immedesimarmi in una certa pagina di Franz Kafka. No, per fortuna non mi sono mai svegliato con la sensazione di avere il ventre arcuato di un «enorme insetto immondo» e la schiena dura come una corazza. La pagina a cui mi riferisco è un breve passo del suo diario, datato 11 novembre 1911, in cui Kafka scrive:
Indubitabile è in me la brama di libri. Non proprio di possederli o di leggerli, quanto piuttosto di vederli, di convincermi della loro esistenza nella vetrina di un libraio. Se in qualche luogo ci sono più copie del medesimo libro, ciascuna mi dà piacere. È come se questa brama venisse dallo stomaco, come fosse un appetito traviato.
Quando si trova un così celebre omologo, le proprie nevrosi non trovano soltanto conforto, ma anche fiera giustificazione. Kafka, infatti, riesce a dire con straordinaria chiarezza che il vero bibliofilo non è colui che, per amore dei libri, desidera ossessivamente possedere ogni opuscolo che gli capita sottocchio. Al bibliofilo, all’uomo che davvero nutre amore per i libri, interessa che i libri esistano e che si trovino in un posto ospitale, accogliente, un luogo che permetta loro un dialogo instancabile con i propri simili. Acquistarli, possederli, leggerli, diventano azioni accessorie e secondarie se poste di fronte alla brama di non averli ancora acquistati, di non possederli ancora, di non averli ancora letti. Dentro quel semplice «ancora» risiede la forza del desiderio che ci anima, che mi anima. Che mi anima, per esempio, tutte le volte che entro nella piccola libreria della mia città, Marsala. Si trova di fronte al duomo, nel cuore del centro storico, in certe giornate si sente persino l’odore del mare in lontananza: entrare quotidianamente in quelle stanze - anche solo per un rapido passaggio o per un semplice saluto - significa replicare un gesto che faccio fin da bambino, e prendere coscienza non solo delle stratificazioni delle mie letture, ma soprattutto delle mie persone, o per continuare a citare Kafka, delle mie «metamorfosi». Penso che le librerie in cui cresciamo siano un po’ come le crisalidi e i libri siano, quindi, le pieghe dei nostri involucri madreperlacei: standovi all’interno impariamo a riconoscere la loro disposizione, la geometria delle loro forme; col tempo impariamo a leggerli, a orientarci nelle loro dimensioni e nelle loro trame. E quando la crisalide si schiude, quando la metamorfosi è compiuta e siamo pronti per il volo, ovunque continua a seguirci l’idea di quella prima casa e delle pieghe dei suoi libri. Che la brama di libri di cui parla il diario sia, allora, anche la brama di quel senso di «casa»?
È una domanda che rimane, e rimarrà, sospesa. In verità, non sappiamo se tra poco - tra pochi mesi, tra pochi anni - avremo più i presupposti per formularla. Mi spiego meglio. Per rintracciare quel senso di «casa», di nostro piccolo rifugio contro le intemperie dell’esistenza, abbiamo necessità di rintracciare due spazi, uno materiale e uno immateriale, che oggi non possiamo dire se ci saranno in futuro: il primo spazio è la libreria, il secondo è l’anima. Entrambi combattono una sfiancante battaglia contro la famosissima piattaforma di vendita on-line, Amazon, e da costei sono continuamente sviliti, erosi e vinti.
Potrebbe sembrare retorico parlare di «anima» in questi termini e in queste circostanze, ma a incoraggiarmi è una raccolta di saggi dello scrittore spagnolo Jorge Carrión, Contro Amazon. Diciassette storie in difesa delle librerie, delle biblioteche e della lettura (edizioni e/o, 2020), che si apre con un manifesto, «Contro Amazon» appunto, in sette punti. E questi sette punti sono sette ragioni, sette «perché» non dobbiamo cedere ad Amazon: perché non vogliamo essere complici di un’espropriazione simbolica; perché non vogliamo che ci spiino mentre leggiamo; e via seguitando. Adesso, io mi concentrerei specialmente sul secondo punto: perché tutti siamo cyborg, ma non robot. Carrión sottolinea una condizione evidente, eppure non scontata: i nostri corpi hanno ormai il fisiologico bisogno di alcune protesi tecnologiche, come gli smartphone e le loro applicazioni. Vivere senza è diventato praticamente impossibile; se le perdiamo o le smarriamo, cominciamo a vivere una sorta di «sindrome dell’arto mancante», ci sentiamo mutilati: questo ci mette nelle condizioni di sperimentare, per la prima volta nella storia, la condizione del cyborg, la possibilità di essere in parte umani e in parte macchine. Che non è un male, attenzione. È una situazione inedita. Ciò che conta è che la parte della macchina non prenda il sopravvento sulla parte umana. Che l’automazione dei luoghi in cui abitiamo o lavoriamo, del nostro quotidiano e delle nostre abitudini, non ci trasformi definitivamente in robot, senza darci la possibilità di tornare indietro.
Ecco, in questa trasformazione Amazon svolge il ruolo di catalizzatore. Accelera i processi di passaggio da uomo a macchina e lo fa in modo molto subdolo. Dapprima si preoccupa di non avere concorrenti regolando, giorno dopo giorno, nuovi robot in grado di riprodurre e migliorare i gesti dei suoi dipendenti, i cosiddetti «amazonians». Che si trovano obbligati a adattarsi ai tempi delle macchine e non viceversa. Ed è questa radicale robotizzazione del lavoro a permettere all’azienda di dimezzare i tempi di distribuzione, di consegna, e offrire un catalogo di prodotti sterminato. Ma sarebbe sbagliato pensare che Amazon si limiti ai soli accorgimenti tecnici. La sua è un’operazione molto più deleteria, che corrode lentamente la nostra sfera del desiderio, e quindi la nostra anima. Proviamo a rifletterci: se qualcuno ci desse la possibilità di avere tutto ciò che sogniamo, e di averlo subito, non smetteremmo istintivamente di desiderare? Che bisogno c’è di desiderare, se tutto è facilmente e velocemente a portata di mano? D’altronde, l’etimologia della parola parla chiaro, il «de-siderium» indica proprio la «lontananza» che ci separa dalle stelle. Amazon sopprime il fascino irriducibile di quella lontananza, facendoci credere che possedere tutte le stelle, possedere tutti i libri che vorremmo, e possederli in fretta, sia l’unico approccio che possiamo stabilire con loro.
E invece bisogna ritornare alla pagina del diario di Kafka, alla lontananza che lo separava dalla vetrina dei libri bene ordinati, alla conta dei volumi, alla lenta lettura giornaliera dei loro dorsi. A quel senso di «casa». Per ritornare alle parole di Kafka, però, dobbiamo preservare i due spazi di cui prima accennavamo: la libreria e l’anima. Dobbiamo scegliere, dobbiamo scegliere di non cedere ad Amazon e di ritornare ad occupare quegli spazi.
Altrimenti, si corre il rischio che un mattino, svegliandoci, ci accorgeremo di esserci trasformati in enormi macchine immonde.
Ci sono sempre dei versi che ci portiamo dietro, con noi, come ombre affidabili, qualsiasi sia la stagione della vita che stiamo attraversando, la città in cui stiamo vivendo, i progetti che stiamo sognando. Magari li abbiamo incontrati in una poesia o in una canzone, non importa molto la fonte, quello che conta davvero è il ritmo, la misura del passo che hanno dato alle nostre vite. Per me sono due versi dell’Elegia sulla tomba d’un piccolo combattente del poeta greco Nikiforos Vrettakos, che in italiano si potrebbero tradurre così: «Mi sono accorto che il mondo è più grande / e lo è diventato, più grande, per contenere più amore».
Mi colpisce questo movimento implicito, di corpi e di spazi. Si ama singolarmente, un singolo corpo prova amore per una o per più persone. Ma questo nostro sentire, che viene percepito perlopiù come personale, privato, invisibile, intoccabile, irrintracciabile, nei versi di Vrettakos si materializza, si fa mondo. Un mondo più grande, più accogliente, di quello che ci ospita già.
Questo stesso movimento – dell’amore che trova la sua realizzazione e nella singolarità e nella comunità – l’ho ritrovato leggendo un saggio estremamente necessario (non potrei usare aggettivo diverso) per il presente che abitiamo: Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario di Jennifer Guerra.
Per questa ragione, vorrei cominciare la conversazione di oggi con Jennifer domandandole proprio di questo movimento: dell’eros, dell’amore del singolo, che diventa pratica per l’amore collettivo, l’agape. Del singolo che si fa comunità. Cosa unisce eros e agape? Cosa permette all’amore di diventare mondo?
Se riduciamo l’amore alla sua essenza, rintracciamo una pratica quotidiana di cura. Prendersi cura dell’altro, riconoscere l’alterità: noi non amiamo chi è uguale a noi, noi amiamo chi è diverso da noi. E d’altra parte, anche se riduciamo la politica alla sua essenza ritroviamo la medesima dimensione: prendersi cura dei bisogni altrui, anche quando sono diversi dai nostri. Questa dimensione io non credo sia innata, tutt’altro, penso sia naturale avere molti problemi con chi è diverso da noi. Ma la pratica quotidiana dell’amore ci aiuta a imparare i possibili modi di prenderci cura degli altri. E per farlo è importante rendersi conto che l’amore non è soltanto un sentimento romantico, una passione che ci travolge e che ci rende privi del nostro libero arbitrio; l’amore ha una parte attiva nelle nostre vite, che dipende dalla nostra volontà, dal nostro metterlo in pratica. Dal metterlo in pratica giorno dopo giorno.
Ci parli di amore come gesto di cura verso gli altri, come riconoscimento delle alterità. In questi giorni in Italia infuria il dibattito attorno al ddl Zan. Trovi che le obiezioni al disegno di legge contro l’omotransfobia tengano conto o trascurino questa dimensione di cura dell’altro di cui ci parli?
Le due principali obiezioni che vengono fatte al ddl Zan mancano di questo riconoscimento, del fatto che esiste un’alterità, ma che non significa che sia nociva per qualcuno. Da una parte, nell’ambito conservatore, si pensa che la mia libertà di espressione sia più importante della tutela dell’altro; dall’altra, c’è la prospettiva essenzialista del femminismo, per cui l’identità di genere cancella l’identità di donna. Ma chi stabilisce che il mio esistere è più importante di quello altrui? Di fatto è questo il problema.
In un tuo recente articolo per The Vision scrivi che l’Italia è pronta per questa legge, «come testimoniamo le piazze piene per i Pride di quest’anno». L’aggettivo «pieno» fa pensare ai corpi che hanno conquistato le piazze per rivendicare il loro diritto di amare liberamente e senza paura. Pensi che il ritorno ai corpi sia uno degli elementi innovativi di questa battaglia?
Andando in una direzione di crescente digitalizzazione di ogni aspetto della nostra vita, il corpo viene meno nella sua fisicità. In effetti, però, nel momento che stiamo vivendo, adesso che sono state tolte le restrizioni e le persone hanno ricominciato a potersi ritrovare, c’è un entusiasmo, una voglia di esserci fisicamente, che onestamente non mi aspettavo. Temevo che dopo questo anno di relazioni esclusivamente digitali, la gente avrebbe fatto più fatica a tornare alla dimensione corporea, e invece questa dimensione corporea, questa voglia di esserci è tornata a invadere le piazze. E proprio il Pride, e le tante altre manifestazioni, è significativo che siano molto partecipate proprio adesso. Non soltanto per la discussione sul ddl Zan, ma proprio per questa sentita esigenza di partecipazione. Per le riflessioni che conduco, penso ci diano modo, inoltre, di smentire tanti luoghi comuni sul femminismo attuale, che si pensa funzioni solo sulla rete, che sia incapace di creare delle relazioni concrete tra i soggetti. Secondo me non è assolutamente vero, se oggi dobbiamo confrontarci con la dimensione digitale, però, forse dovremmo abbattere l’idea che esista una separazione netta tra dimensione digitale e dimensione reale. Il corpo torna, torna sempre.
C’è un passaggio finale di Capitale amoroso su cui mi sono molto interrogato e di cui vorrei chiederti. Scrivi: «ancora oggi tendiamo a pensare che per risollevare la crisi dell’amore basti scrollare di dosso i retaggi dei nostri genitori e dei nostri nonni». E in queste «crisi dell’amore» penso possa benissimo inserirsi il discorso che abbiamo finora fatto. Ma la mia domanda è: per quell’istanza di cambiamento che auspichiamo, davvero non basta scrollarsi di dosso quei retaggi?
No, non credo che basti. Innanzitutto, non è affatto scontato riuscire a scrollarsi di dosso questi retaggi, perché l’interiorizzazione è così forte che le dinamiche di potere si ripetono anche in quella che pensiamo essere una prospettiva liberata. E quindi il lavoro non deve essere solo di decostruzione, ma anche di costruzione di un’alternativa. Perché, altrimenti, se si fa solo la decostruzione, se si elimina la tossicità di alcuni modelli e di alcuni meccanismi, ma poi non si propone un’alternativa concreta… Alla fine si ritornerà a quei modelli di sempre, magari ribrendizzati. E di concreto non sarà davvero cambiato nulla. Non penso sia possibile intravedere un punto di arrivo. Pure nel Secondo sesso di Simone de Beauvoir possiamo leggere, parafrasando, che della «questione femminile ne hanno parlato in tanti, e comunque siamo arrivati a buon punto». Era il 1949. Mi ripeto: non possiamo illuderci che basti la parte distruttiva, se manca quella costruttiva.
Allora, permettimi un’ultima domanda: che fare? Cosa dobbiamo costruire?
Se dovessi indicare alcuni punti su cui credo che sia importante lavorare, sicuramente direi la costruzione di una coscienza politica, soprattutto da parte delle cosiddette nuove generazioni. Coscienza politica, e direi anche coscienza di classe, maturare la capacità di capire quanto la questione economica, la questione di classe, informi le nostre esistenze. Bisognerebbe uscire da questa prospettiva di individualità, in cui sei tu solo contro il mondo, e cominciare a comprendere che, invece, ci sono tante persone sulla tua stessa barca, molto diverse da te. Persone con cui pensi di non avere nulla a che fare e che si ritrovano nella tua stessa condizione, solo che non hai gli strumenti per accorgertene, perché non c’è tanta differenza se sei uno stagista pagato una miseria, un rider o lavoratore del call center. Prendere coscienza di questa cosa che ci unisce tutti quanti: non so se chiamarla, precariato, povertà… Non voglio essere una riduzionista e pensare che una volta raggiunta questa coscienza avremo svoltato, anche perché come provo a scrivere nel Capitale amoroso tutto questo non basta se non si arriva a quella dimensione di relazione autentica e di riconoscimento reciproco dei bisogni. E quindi forse l’altra sfida importante è la questione della cura, in senso molto ampio. Partire dal prendersi cura di sé, della propria salute mentale, dal proprio benessere, e poi arrivare al prendersi cura degli altri, aiutare chi è in difficolta e poterlo fare senza che questo pesi o danneggi qualcun altro.
Jennifer Guerra, Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario, Bompiani, 2021, pp. 129
Dialoghiamo oggi con Maya De Leo, docente di Storia dell’omosessualità presso il corso di laurea in DAMS dell’Università degli Studi di Torino e autrice di un libro che ha già segnato – per la sua straordinaria importanza – la coscienza culturale del nostro Paese. Si intitola Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, la prima storia completa delle sessualità e delle identità LGBT+ in Occidente.
Comincerei dalle due parole-mondo che fanno da titolo e da sottotitolo al suo lavoro, Queer e LGBT+: Cos’è Queer? Bisogna leggere Queer e LGBT+ l’uno come il sinonimo dell’altro? In che modo, vicendevolmente, si includono e si distinguono?
Il termine, per chi non conoscesse la storia di questa parola, ha come primo significato quello di “strano”, “eccentrico”, “bizzarro” e storicamente è stato utilizzato come insulto omo-lesbo-bi-transfobico.
A partire dagli anni Novanta il termine è stato fatto oggetto di riappropriazione e rivendicazione orgogliosa da parte della comunità LGBT+. La comunità era stata colpita pesantemente dall’offensiva omolesbobitrasnfobica legata alla narrazione mediatica dell’epidemia dell’HIV (e alla sua gestione politico-istituzionale). In quel contesto, queer evocava la rabbia delle soggettività marginalizzate, il loro scarto rispetto alle norme di genere, prima ancora di definire un’identità.
In questo senso, il termine queer illumina anche la dimensione intersezionale della comunità che designa: “razza”, classe, abilità sono tutte dimensioni marcate da asimmetrie e diseguaglianze di potere che si intersecano inevitabilmente con quelle di genere.
Da un punto di vista storico, proprio per il suo carattere aperto e centrato sulla dimensione della relazione con il proprio contesto di riferimento, il termine queer può essere utile per descrivere soggettività ed esperienze del passato, a partire, appunto, dal rapporto con il loro contesto, senza forzarne un confronto con il nostro contesto attuale. Queer, dunque, è anche un approccio storiografico: la ricerca di storie, soggettività, vite le cui tracce sono state attivamente occultate nel tempo richiede infatti un ripensamento anche in relazione al nostro modo di interrogare le fonti, di inserirle nelle scansioni periodizzanti dettate dai macroeventi della storia “mainstream” e anche dalle linee narrative adottate per raccontare queste storie.
Se queer, nell’accezione che ne viene fatta in questo libro, privilegia l’attenzione alla dimensione dello scarto dalle norme di genere, l’acronimo aperto LGBT+ pone invece l’accento sulla varietà delle esperienze incarnate di questo scarto. L’acronimo aperto, pur con tutti i suoi limiti, rappresenta una formula sintetica per nominare – rispettandola – questa varietà nella sua dimensione sociale. Inoltre, il sottotitolo “storia (culturale) della comunità LGBT+” vuole enfatizzare l’attenzione che il libro pone alle dinamiche attraverso le quali, nel tempo, la varietà dei soggetti indagati arriva a nominarsi collettivamente, appunto, come “comunità LGBT+”.
Sul sito di Einaudi leggiamo a proposito di Queer: «Finalmente un’opera italiana completa e di riferimento per la storia delle sessualità e identità LGBT+». Questo è inizialmente motivo di enorme gioia, perché leggendo ci rendiamo conto di partecipare collettivamente a un momento davvero importante per la storia culturale del nostro Paese. Nello stesso tempo, però, è forse inevitabile riflettere sul «ritardo» con cui queste pagine vengono accolte in Italia. Da una parte è motivo d’orgoglio sottolineare che finalmente un grande editore pubblichi una storia della comunità LGBT+; dall’altra, nel 2021, molti di noi spererebbero che questo non fosse un evento eccezionale, ma la normalità. Che ne pensa?
Sì, è sicuramente motivo di grande gioia che un editore così importante abbia supportato con entusiasmo questo progetto che, in un certo senso, è veramente un progetto “collettivo”: oltre ai risultati delle mie ricerche e alla prospettiva data dal mio sguardo storico, si può infatti dire che il testo per la prima volta in Italia, offre una sintesi del lavoro ormai quarantennale della storiografia internazionale su questi temi. Ci troviamo quindi effettivamente di fronte a un ritardo: a differenza di altri contesti (penso ad esempio a quello anglosassone), in Italia gli studi LGBT+ hanno iniziato solo da poco un percorso di riconoscimento all’interno dell’accademia. Spero, in questo senso, che l’iniziativa di Einaudi possa servire da esempio e da incoraggiamento anche ad altri editori e aiuti a promuovere nuovi studi e nuove pubblicazioni in questo campo.
Sempre restando in Italia, c’è un capitolo davvero molto interessante sull’omosessualità e il fascismo. Il regime preferisce tacere l’esistenza dell’omosessualità, perché non venga macchiata in alcun modo l’idea della virilità italica. Ecco, questa pratica del silenziamento, l’atteggiamento all’invisibilizzazione, pensa che sia ancora presente nella coscienza del nostro Paese? O sono altri oggi le pratiche e gli atteggiamenti contro cui doversi scontrare?
Come racconto nel libro, l’invisibilizzazione, che fu in effetti una strategia centrale nel corso del ventennio fascista, era in realtà un’eredità della politica liberale dei decenni precedenti (a differenza di quanto nello stesso periodo era avvenuto in altri contesti nazionali, come Inghilterra e Germania, che avevano optato per la criminalizzazione). Inoltre, la stessa strategia continua a essere utilizzata diffusamente anche nei primi decenni del dopoguerra, senza una netta soluzione di continuità col fascismo: restano in piedi alcune misure repressive, come le retate, il coprifuoco e il foglio di via per le persone transgender, ma soprattutto prosegue l’opera di censura e, sebbene compaiano sporadicamente campagne di tono “scandalistico” su giornali e rotocalchi con l’intento di agitare lo spettro della “perversione”, la pratica del silenziamento si conferma come la “cifra nazionale” nella gestione della popolazione LGBT+.
Oggi la situazione è cambiata e, soprattutto dagli anni Duemila, i temi LGBT+ si sono spostati sempre più al centro del dibattito pubblico. Da una parte questo cambiamento è senz’altro positivo perché apre spazi per la presa di parola, la rivendicazione dei diritti e, attraverso una politica di visibilità, rende ineludibile la presenza della comunità LGBT+ nello spazio pubblico. D’altra parte, il dibattito sui media, sulla stampa generalista e sui social ha assunto toni molto violenti che espongono quotidianamente le persone LGBT+ a discorsi d’odio e ad attacchi che, anche in mancanza di tutele giuridiche mirate, comporta un oneroso costo psicologico (nel migliore dei casi).
«La diversità è ricchezza» si legge sul pancione di un uomo trans incinto, nella bellissima copertina che Fumettibrutti realizzò qualche settimana fa per L’Espresso. Cosa ci ostacola dall’accogliere la diversità? Dall’accettare che una persona si riconosca con un pronome diverso da quello a cui sarebbe legata dalla nascita? Che una persona possa definirsi non binaria? Quali sono le prossime sfide culturali che il nostro Paese dovrà affrontare per potersi finalmente dire un Paese civile?
Una delle ragioni per cui mi sono appassionata alla storia LGBT+ è proprio questa capacità della storia di «denaturalizzare il normale», per dirlo con le parole di Sara Garbagnoli, una studiosa che stimo molto. La prospettiva storica consente infatti di mettere in luce il carattere socialmente e culturalmente costruito di quel che solitamente viene indicato come “normalità” o “natura”.
La storia ci aiuta quindi a vedere come categorie che abbiamo “naturalizzato” nella nostra mente, immaginandole universali e immutabili nel tempo, siano in realtà il prodotto di operazioni culturali e politiche, in alcuni casi anche sorprendentemente recenti. È questo, ad esempio, il caso del concetto di “nazione”, e di quello, a essa legato, di “tradizione”. Ma anche concetti come quello di “famiglia” o “maternità” sono stati oggetto di profonde trasformazioni nel tempo, sia in relazione agli assetti sociali che definiscono che ai significati culturali che rivestono.
Anche i concetti di “genere” e “sessualità” non fanno eccezione. In particolare, come mostro nel libro, il binarismo di genere, ossia la riduzione dei generi a due, maschile e femminile, e la loro concezione come radicalmente e qualitativamente diversi e incommensurabili, è un sistema tipico del contesto occidentale e fortemente legato ad assunti politici e culturali propri dell’età contemporanea.
A mio avviso, quindi, una chiave importante per il superamento della diffidenza e dell’ostilità nei confronti delle “diversità” sta prima di tutto nella decostruzione – anche storica – del concetto stesso di “normalità” e, di conseguenza, anche di quello di “diversità”, a favore di una visione più ricca, articolata e complessa della realtà del nostro passato e del nostro presente.
Le ultime pagine sono dedicate al queer come aspirazione. Come condizione da raggiungere, come obiettivo a cui aspirare. Una felice utopia o un programma necessario per il futuro?
Nella parte finale del testo parlo di “queer futurity” prendendo a prestito la formula usata dal teorico queer José Estaban Muñoz e le elaborazioni di teoriche femministe come Donna Haraway e Helen Hester. Sebbene non proponga facili ricette per la salvezza del pianeta, la prospettiva queer ci offre un modello di configurazione di alleanze tra soggetti marginalizzati, una prospettiva decentrata che, mettendo globalmente in questione le dinamiche di potere, faccia spazio a una comunità di resistenza trasversale rispetto ai concetti di genere, sesso, “razza” e anche di specie.
Maya De Leo, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi Storia, 2021, pp. 260
Sinonimo di rivoluzione e ribellione, il rap negli ultimi quarant’anni non solo ha trasformato la scena musicale, ma ha condizionato la nostra cultura, la capacità di raccontare il nostro tempo. Ha inventato un nuovo spazio e un nuovo linguaggio per leggere il mondo.
Ne parliamo oggi con Paola Zukar, leggendaria manager dei più famosi rapper italiani. Nel 2018 ha fondato TRX Radio, la prima app radio dedicata al rap; e da qualche settimana è arrivata in libreria la nuova edizione, ampliata e aggiornata, del suo Rap. Una storia italiana (Baldini+Castoldi, 2021).
Paola, il tuo libro è una grande operazione di carotaggio nelle profondità di una parola: rap. Per cominciare questa nostra conversazione, allora, vorrei partire proprio dalla parola rap. Cos’è il rap? Come nasce?
Il rap è un genere musicale che nasce nel contesto, più ampio, della cultura hip hop. A sua volta, la cultura hip hop nasce negli anni Settanta, a New York, grazie a DJ Kool Herc, che ha avuto l’intuizione di unire due giradischi e creare un nuovo suono, mixando brani già editi, un nuovo beat, una nuova strumentale, un nuovo genere.
Potremmo soffermarci sull’hip hop come cultura?
La cultura hip hop newyorkese degli anni Settanta era una cultura nel senso che inglobava più arti: c’era il ballo, la break dance; c’era il djing, l’arte di suonare con i giradischi; il graffiti writing; l’abbigliamento. Una cultura declinata su più piani, quello che ha avuto più successo, l’arte che ha avuto più successo, è stata il rap.
Dal sostantivo passiamo al verbo: che significa rappare?
Rappare significa comporre in metrica delle rime che si incastrano perfettamente con le strumentali. Agli inizi, il dee-jay che creava questo sottofondo musicale ne usufruiva soprattutto nelle feste dei quartieri – magari allacciandosi all’elettricità pubblica dei pali della luce –, puntava sull’entusiasmo e sulla versatilità degli MC (Master Of Cerimonies), quelli che parlavano, rappavano, rimavano sopra queste strumentali. È questa è l’origine del Rap.
E per te cos’è il rap?
Tutto quello che ho sempre cercato nella vita. Un modo per esprimere qualcosa, per esprimermi, per sentire altri esprimersi, in libertà e con una vena di ribellione. Perché il rap, dagli inizi, ma anche ora, è la musica più ribelle: era cominciata negli ambienti underground, adesso ha avuto accesso al mainstream, ma non ha mai perso la sua aspirazione all’impegno.
Mi interessa molto quest’aspetto. Ci racconteresti la rivoluzione dell’hip hop e del rap?
La ribellione, la rivoluzione intrinseca nell’hip hop e del rap è una rivoluzione intelligente. Perché non si limita a distruggere: il suo intento è costruire. Il rap affonda profondamente le sue radici nella musica afroamericana, e possiede sempre, anche nei momenti più disperati, una sua luce. Che è propria del gospel e del rhythm and blues, dell’allegria disperata di tanti artisti che si affermavano negli anni Cinquanta. Ecco, per me è una rivoluzione intelligente perché riesce, da una parte, a stigmatizzare le storture della nostra società, come il razzismo, un tema molto affrontato nell’hip hop; e dall’altra, si prefigge l’obiettivo di unire tutti sotto lo stesso ritmo, latini neri bianchi. Questa è la rivoluzione dell’hip hop e del rap: restituire la forza per stare uniti; di scontrarsi ma sempre e solo sul piano artistico.
Forse questa è la dimensione che viene più fraintesa.
All’inizio il rapper Afrika Bambaataa apparteneva alle gang di New York, in una stagione violentissima. Ha scelto di passare all’hip hop. Lì tutte le sfide, tutti gli scontri, dovevano svolgersi su un piano artistico, non dovevano mai debordare nella violenza fisica. Sono nati da questa esigenza, l’hip hop e il rap, era troppa la violenza nelle strade, troppa la distruzione. C’è stato chi ha cercato, allora, di costruire qualcosa.
Eppure la diffidenza nei confronti del rap persiste. Soprattutto nel nostro Paese. Secondo te, perché?
Credo che l’Italia sia un Paese estremamente diffidente. Lo trovo impermeabile alle novità e poco incline ad approfondire qualcosa che ha più letture, che ha più sfaccettature. Le vere intenzioni del rap sono quelle di sublimare la violenza, raccontarla, ma questo non significa incoraggiarla o esercitarla: è ben diverso, no? Ricordo Roberto Saviano che citando Leopardi diceva che gli italiani hanno il vizio di prendersela con chi denuncia il male e non con il male stesso. Nelle canzoni non piace sentir parlare di difficoltà, violenza, droga, sessismo. Non è un caso che la canzone italiana sia definita musica leggera: non è una musica leggera il rap. È una musica pesante, che si infila fra le trame di storie che apparentemente sembrano perfette, ma non lo sono. Mi fa strano quando in Italia si cerca di leggere i testi dei rapper, o dei cantautori, cercando di dare loro un’accezione negativa, senza capire davvero cosa significhino. È questo che frena il nostro Paese, che invece nell’arte, storicamente, quando ha innovato, ha innovato a livello mondiale.
Come nel rap italiano.
Assolutamente sì. Il rap italiano, che alle origini era molto legato ai centri sociali, ha creato degli artisti importantissimi: Neffa, i Sangue Misto, Frankie hi-nrg, e tantissimi altri. Una stagione da abbracciare, non da contrastare.
Il rap è rivoluzione, dicevamo. Ed è anche, per moltissimi ragazzi, uno specchio su cui riflettere la propria identità.
L’identità ha bisogno di una voce per essere tale. Di un’espressione. Penso che il linguaggio apparentemente semplice del rap sia un modo perfetto per trovare quella voce. Tutti si possono avvicinare al rap, basta un foglio e una penna, un cellulare, ti scrivi le tue rime, provi a registrarle. Ci sono mille modi oggi. È la musica che scelgono tanti ragazzi italiani. Attenzione, però, è apparentemente semplice, perché diventa molto complessa se lo si fa ad alti livelli. Se guardiamo ai testi di Marracash hanno doppie, triple interpretazioni, rimangono lì, si sedimentano nella testa, finché non gli dai un’altra, tua, nuova, ennesima, lettura. Altro che superficiale e semplice. C’è una parte che puoi cogliere superficialmente, certo, ti diverti, balli, ti muovi, canticchi il ritornello, ma poi ci sono dei testi incredibilmente profondi, che ci lasciano tanto, ci danno una voce, come canta Madame nel brano che ha portato a Sanremo. Parla a un livello più profondo, inconscio, catartico, di voce, di espressioni, per essere se stessi. Ecco perché è la musica più riconosciuta e seguita dalle ultime generazioni.
Un’ultima domanda. Sul trap. È un’evoluzione del rap?
Il rap per sopravvivere ed essere sempre nuovo, sempre giovane, sempre interessante, deve inglobare nuovi stili, nuovi linguaggi, nuove parole. Una delle ultime forme che ha preso è quello della musica trap. Che in realtà esiste da vent’anni, è nata ad Atlanta, in Georgia, e ha iniziato a utilizzare più pesantemente delle melodie che delle metriche.
In che modo dialoga con il presente?
Le melodie, poi, come la musica rap ha sempre fatto, non fanno altro che riflettere la realtà che viviamo. Quindi, la realtà di questi ultimi anni, che è stata davvero molto superficiale e stupida, tempi in cui è importante trovare principalmente come divertirsi. Provo a spiegarmi meglio: la trap racconta anche il niente che è talmente niente che diventa qualcosa. Questo parlare di scarpe, orologi, prendo la Lamborghini, vado alla festa, questa superficialità, è uno specchio dei tempi, un segno dei tempi, che è stato raccontato molto bene dalla trap. Che non ha mai escluso o inglobato il rap. Ormai dopo quarant’anni di musica hip hop puoi trovare il rap dei veterani, come Marracash, Gué Pequeno, Fabri Fibra, Clementino, e poi c’è la corsia dei trapper. È chiaro che al mainstream arriva la musica che va in classifica; ma come puoi vedere dalle classifiche dell’anno scorso Persona di Marracash è stato il disco più streammato in assoluto e non è né un disco facile né un disco trap.
«È instabile e sono di passaggio». Quando nel 1980 Pippo Baudo, davanti alle telecamere della trasmissione Domenica In, chiese incuriosito a Franco Battiato perché indossasse un impermeabile, in quel particolare contesto, con una bella giornata di sole fuori, il cantautore siciliano sembrò rispondere a un’altra domanda: il tempo è instabile, e la mia persona sempre di passaggio.
La domanda, d’altronde, non si concentrava certo sul tipo di soprabito. Baudo aveva subito portato l’attenzione del pubblico sull’eccentricità della figura di Battiato, l’artista sperimentale, da poco accostato alla musica new wave, che si presentava in televisione impacciato, con le braccia conserte, chiuso nel suo impermeabile. Per questo l’autore dell’Era del cinghiale bianco si sentì spinto a rispondere alla vera domanda: perché sei così, perché ti mostri così?
E questa asserzione di impermanenza, di transitorietà, è molto interessante per provare a trovare un possibile motivo ricorrente, un ritornello comune, in una produzione così vasta e complessa come quella di Battiato.
Innanzitutto, richiama alla memoria la famosa «Teoria della Sicilia» del filosofo, e suo inestimabile sodale, Manlio Sgalambro:
«Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile».
Sgalambro sottolinea che un’isola – sia essa una porzione di terra accerchiata dal mare o una persona nella sua unicità – poggia su una condizione di eterna instabilità, di ineludibile tensione alla sparizione; l’isola, per Sgalambro, sconta la costante paura di non esistere più da un momento all’altro: oggi galleggia sopra la soglia marina, ma domani potrebbe inabissarsi. Allora è fisiologico il desiderio di fuga, di evasione, di sopravvivenza: bisogna salvarsi dalla sparizione, dall’inabissarsi del luogo in cui si nasce. Bisogna preferire alla stanzialità il passaggio a un continuo altrove.
Per uno strano gioco del caso, Battiato conobbe l’esperienza della sparizione fin da piccolo. Il suo paese natale, Ionia, smise di esistere appena dopo la sua nascita, nel 1945. E pensare che era sorto solo poco tempo prima, in epoca fascista, dall’unione di due Comuni, Giarre e Riposto, ma da un momento all’altro era scomparso. Oggi non esiste più, Ionia, come un’isola si è inabissato nella memoria dei suoi abitanti, è ritornato a essere separatamente le due metà che lo componevano.
Da quella Sicilia che appare e scompare Battiato andò via presto. Già a metà degli anni Sessanta, a Milano, aveva cominciato a testare la possibilità di un vivere altro, diverso, nuovo. Inizialmente le difficoltà erano state terribili: a pranzo mangiava a stento un caco e un po’ di pane; nel periodo natalizio, ebbe modo di raccontare, si saziava vedendo le vetrine addobbate. Non gli importava, però. La felicità di avere superato uno spirituale, più che geografico, Scilla e Cariddi lo confortava e gli offriva la possibilità di sperimentare una musica che non esisteva ancora, di trovare una sintassi alternativa per leggere un tempo sempre più confuso («instabile», avrebbe poi detto a Pippo Baudo).
Non bisogna sottovalutare questo passaggio biografico, perché ci testimonia della prima vittoria del suo spirito sul corpo, un esercizio che finirà per diventare una postura e una disciplina al centro di molte sue canzoni (ad esempio: «ed io che sono un solitario non riesco; per avere disciplina ci vuole troppa volontà», in Tramonto Occidentale).
Ed è perseguendo, infatti, quella postura e quella disciplina che Battiato fa delle sue canzoni delle pratiche di meditazione. Cantarle, in fondo, è per tutti noi il modo per riconnetterci a un’esperienza maggiore, più alta, della contingenza in cui viviamo. Cantarle ci consente di aprire un canale, un passaggio necessario per quanto instabile, con quei territori di noi che si sono inabissati, che sembrano remoti, inaccessibili. Con la nostra, o con le nostre anime.
Alcuni versi dell’Ombra della luce possono chiarirlo bene:
«Riportami nelle zone più alte
In uno dei tuoi regni di quiete
È tempo di lasciare questo ciclo di vite
E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai
Perché le gioie del più profondo affetto
O dei più lievi aneliti del cuore
Sono solo l’ombra della luce».
Evocando gli abissi, abbiamo ritrovato le parole di Sgalambro sull’isola. Che però assumono una sfumatura inedita. Perché è vero, ogni isola – e quindi ciascuno di noi – ha paura di inabissarsi, teme che le profondità del mare possano togliergli la luce; ma Battiato ci ha insegnato che c’è sempre un rimedio all’abisso, che inabissarsi non significa per forza scomparire: grazie al canto, alla meditazione, alla fede nell’altrove, inabissarsi vuol dire abitare la profondità, conoscere l’ombra della luce, vuol dire prepararsi a tornare. Niente e nessuno, ha ripetuto insistentemente Battiato nella sua musica e nei suoi versi, è destinato a perdersi nell’infinito. Tutto e tutti, al contrario, hanno il destino di tornare. «Ancora, ancora». Compreso lui, che ci ha lasciati ieri.
Da diverso tempo ci interessiamo del modo in cui è cambiato l’uso di certe parole dopo la pandemia. Casa, lavoro, scuola: non sono più gli stessi lemmi di un anno fa, comprendono adesso accezioni nuove, sicuramente inattese. Oggi, insieme a Gaia van der Esch, scrittrice e Sherpa del G20 EMPOWER, ci interroghiamo sulla trasformazione di altre due importanti parole, viaggio e identità. Seguendola tra le pagine e le peregrinazioni italiche del suo libro Volti d’Italia (il Saggiatore, 2021), abbiamo conversato del legame che tiene unito questo binomio e del difficile periodo che attraversa.
Gaia, vorrei intanto chiederti della parola viaggio. Figlia di padre olandese-canadese e madre italiana, hai viaggiato per tutto il mondo, confrontandoti con le culture più disparate. La mia prima domanda, quindi, è: cosa significa per te il viaggio?
Viaggiare è da sempre parte della mia vita, un aspetto necessario per stare con la mia famiglia, l’unico modo per scoprire le mie radici. Sono cresciuta in un paesino della provincia romana, ma qua non abbiamo famiglia. Mia madre viene da un villaggio operaio nell’hinterland milanese e per vedere la nonna e i cugini dovevamo sempre spostarci – salivamo in macchina e stavamo su per le vacanze di Natale o di Pasqua. E mio padre è un misto come dici tu, nato a Parigi, cresciuto in Lussemburgo e a Bruxelles, da padre olandese e madre canadese – e quindi per vedere la mia famiglia europea prendevamo aerei o facevamo viaggi di 2-3 giorni in macchina verso Bruxelles, Parigi e Londra.
Viaggiando ci si accorge di quante cose ci sono da scoprire e ci si asseta ancora di più – più viaggiavo, più vedevo, più mi si apriva la mente, più capivo quante cose ancora non sapevo, e più diventavo curiosa di viaggiare di più. E così il viaggio si è trasformato da una necessità per preservare le mie radici e relazioni ad un modo di scoprire altro. Sono partita dall’Italia a 20 anni e ho passato gli ultimi 13 anni vivendo tra Africa, Medio Oriente, vari Paesi Europei e gli Stati Uniti. Sono stata assorbita da altre culture e modi di fare che mi porterò sempre dietro.
Ma allo stesso tempo il viaggiare tanto, il cambiare posto e contesto così spesso – forse quasi troppo per via del lavoro (a volte passavo da una riunione in Malesia a una missione in Iraq per poi ripartire per Haiti perché c’era stato un uragano), può far rinascere la voglia di avere punti di riferimento fissi, ci fa riapprezzare il non-viaggiare, riemergere il bisogno di radici. L’adrenalina di una vita in viaggio ha iniziato a svanire qualche anno fa, ed è riemersa la voglia di casa, di avere le dita unte di mozzarella e olio per capirci. Quindi il viaggio mi ha in un certo senso riportata a casa un anno fa e proprio nel paesino dove sono cresciuta – sul lago di Bracciano. E dopo un anno qua, con movimenti limitatissimi a causa del Covid, mi fa strano pensare di prendere un aereo tra poche settimane per passare del tempo con la famiglia del mio compagno in Germania, di lasciare questa routine, di tornare alla mia vita “normale”, dove mi sento sempre un po' straniera. Il viaggio, se mi chiedi oggi, mi genera quasi un po' di ansia.
Ecco, il viaggio per me è tutto questo: radici, novità e adrenalina, emozioni, nostalgia, scoperta del nuovo ma anche riscoperta di quello che ci si è lasciati dietro.
Quando è nata in te l’esigenza di viaggiare per l’Italia, a bordo della Seicento di tua nonna? Per la tua ricerca sull’italianità non sarebbe bastate delle e-mail mirate?
Come ti dicevo, durante i miei ultimi anni all’estero ho iniziato ad essere nostalgica dell’Italia. Più ero all’estero più in un certo senso mi sentivo italiana e sempre un po' estranea altrove a causa della lingua, della cultura, due cose bellissime da scoprire ma difficili da rendere completamente proprie.
Il mio lavoro era gestire crisi, progetti complessi, persone di varie nazionalità, per cercare di cambiare le cose, migliorare la situazione per le persone impattate da guerre o catastrofi naturali. Per fortuna in Italia non abbiamo guerre o catastrofi (o meglio abbiamo qualche catastrofe ma di rado), ma vedevo comunque dall’esterno un Paese in crisi. Lo sentivo nella voce dei miei amici o famigliari che non trovano un lavoro, che non arrivano a fine mese, che sono preoccupati per il futuro dei loro figli. E mi è quindi venuta sempre più voglia di utilizzare tutto quello che ho studiato e imparato all’estero per cercare di cambiare la situazione in Italia. Ma per cambiare le cose bisogna prima capirle, e dopo tutti questi anni all’estero mi sentivo un po' estranea anche all’Italia ed è per questo che ho voluto fare un viaggio.
L’ho fatto prima di tutto per me, nella nozione di viaggio dei primi 15 anni della mia vita: come ri-scoperta delle mie radici. Delle e-mail mirate ti posso dare conoscenza, idee, ma non ti fanno vivere l’esperienza, conoscere sulla tua pelle, assorbire la realtà che è l’Italia di oggi. E io cercavo questo, capire da me, facendo l’esperienza di parlare con italiane ed italiani di tutte le età e regioni, vedendo dove vivono, cosa sognano e cosa temono. L’ho fatto per poter catturare in me queste varie realtà e aiutare a cambiare le cose tramite un impegno politico e sociale. Il mio libro, Volti d’Italia, è nato dopo il viaggio, come una conseguenza, per restituire e condividere quello che ho visto e imparato, ma ecco il viaggio-ricerca l’ho fatto come un progetto e una riscoperta per me.
Vorrei passare all’altra parte del binomio, la parola “identità”. Secondo te, l’identità italiana esiste? È un presupposto biologico o una scelta culturale? Una precondizione da difendere o un obiettivo da raggiungere?
Secondo me esiste, è sicuramente qualcosa che ha tante sfumature individuali e proprio per questo è difficile da catturare. Ma nel viaggio ho trovato tante cose che ci accomunano come italiani: il passato chiaramente, ma anche certi modi di vita, certi valori. Per fare un esempio concreto, tutte le persone a cui ho chiesto di darmi un ordine di priorità di alcuni valori mi hanno menzionato la lealtà come il più importante, e hanno dato più priorità alla benevolenza e alla giustizia rispetto alla sacralità o all’autorità. Chiaramente le interviste che ho fatto durante il viaggio non hanno alcuna valenza scientifica, ma secondo me danno un’indicazione importante – qualcosa che ci accomuna c’è.
Di certo non è un presupposto biologico, i miei genitori e mio fratello sono tutti biologi e mi sgriderebbero se dicessi una cosa così! Credo che sia una scelta, a volte inconsapevole (ad esempio quando si nasce e cresce in un determinato contesto) a volte consapevole (quando si decide di venire a vivere in Italia e di restarci), ma è una scelta fatta da noi o per noi di rendere l’italianità la nostra casa e cultura. Ed è una scelta che si eredita spesso nei secoli, che forse è quello che tu chiami “precondizione”.
Per me è sia qualcosa da difendere che qualcosa da raggiungere. Ci sono parti di qualsiasi cultura, parti del “DNA” per usare la biologia come parallelo, che sono positive, che ci sono tornate utili negli anni – che ne so, il sapersi sempre arrangiare. Ma ci sono parti che invece in un mondo che cambia, sempre più interconnesso, funzionano meno: abitudini che forse dovremmo perdere per ridefinire un’identità nuova, che evolve con i tempi. Ognuno di noi lo fa nella propria vita, di cambiare, imparare, ridefinirsi, proteggere quello che per noi è importante e abbiamo “ereditato”. Ma farlo collettivamente, come popolo e come Paese non è facile – un tempo le discussioni in piazza e nei bar, la passione e l’implicazione di tutti nella politica erano forse il modo di ridefinirsi insieme. Oggi, con relazioni e comunità sempre più logorate, sfiducia nelle istituzioni, nella politica ma anche nei nostri concittadini, e una vita sempre più individualista e virtuale, abbiamo forse perso la nostra capacità come popolo di ridefinirci - e secondo me è invece proprio quello che ci serve. E spero che il mio libro, dove faccio parlare e dialogare sui temi dell’italianità, dell’economia, della migrazione, dei giovani, delle donne, proprio gli italiani tra loro, possa aiutare tanti di noi a riaprire questo dibattito.
A proposito di identità, il discorso identitario sembra sempre essere un assunto dei movimenti più reazionari: è possibile pensare l’identità, l’idea di sentirsi parte di una patria, fuori dal contesto conservatore/reazionario?
Concordo pienamente, e questo è parte del problema. Abbiamo tutti voglia di appartenere, è una cosa naturale. Che sia ad una famiglia, ad una comunità, a degli ideali, ad un Paese. Ma il discorso identitario è stato portato all’estremo e poi sequestrato in un certo senso dai movimenti più reazionari, spesso di destra. Così i movimenti più di centro e la sinistra si sono quasi opposti a qualsiasi concetto di identità, vista come una deriva pericolosa, senza riuscire a creare un senso e un modo di appartenenza alternativo.
E invece serve riprendersi e ridefinire il concetto di identità in un modo sano, costruttivo, inclusivo, mobile, non esclusivo e rigido. Secondo me tanti di noi lo sentono di fatto, si sentono parte dell’Italia, di Lecce o del mio paesino, Anguillara – nel bene e nel male. Ma bisogna dare uno sbocco a questo senso di appartenenza e a questa voglia di identità anche all’interno della politica, soprattutto delle forze più moderate e della sinistra. Perché in un paese in crisi, un po' depresso e diseguale, come lo è l’Italia da decenni e ancor più dopo questa pandemia, la gente ha bisogno di direzione, di appartenenza, di identità quindi, e se non la trova con facilità la cercherà agli estremi. Opponendosi a tutto, diventando parte di un’identità distruttiva ed esclusiva, non costruttiva ed inclusiva, pur di appartenere. Quindi bisogna rimboccarsi le maniche e far fruttare questa crisi, proprio dando opzioni e visioni anche identitarie, attorno a cui le persone si possono unire e su cui ci possiamo confrontare come Paese.
Dopo anni passati in Paesi in crisi un minimo me ne intendo e ti assicuro che ci sono sempre opportunità nuove e risvolti positivi di una crisi, che però bisogna avere la capacità e la forza di cogliere. E questa è un’occasione d’oro per riappropriarsi di questa voglia di appartenenza, di direzione, di fiducia, di solidarietà e interdipendenza, e trasformarla in un dialogo identitario nuovo e inclusivo che possa far rinascere le nostre comunità e il nostro Paese.
Con la pandemia, quanto cambierà il nostro modo di viaggiare e di pensare il viaggio, lo spostarci? Faccio una domanda collaterale: l’insistere sul turismo di prossimità, pensi sia uno strumento per approfondire quel concetto talvolta smarrito di identità/comunità italiana?
Quando sento la gente dire che le cose non torneranno mai come prima ci credo poco, forse perché in parte voglio sperarci ma in parte anche perché secondo me abbiamo una capacità di adattarci e di “bounce-back” molto veloce. Guarda come ci siamo adattati in fretta a questo nuovo contesto nel 2020, come poi l’estate scorsa – che mi sembra una vita fa – ci siamo riadattati di nuovo in un batter d’occhio a più libertà e “normalità” pre-covid. Secondo me se riusciamo a rendere il Covid endemico e a proteggerci riusciremo di sicuro a tornare con facilità alla vita di prima, ci verrà naturale.
Però allo stesso tempo spero che ci porteremo dietro delle lezioni da questa pandemia. Appunto, una di queste lezioni è che si può viaggiare anche dietro casa, che abbiamo miliardi di cose da scoprire nel nostro Paese, cibi, odori, paesaggi, laghi e città, e che non dovremmo dare per scontato o ritenere non interessante quello che è vicino. E quindi sì, per me insistere sul turismo di prossimità, come anche sulla rivalutazione e l’importanza delle aree interne, sulla flessibilità del lavoro, sulla digitalizzazione dei territori, sulle infrastrutture, sono tutti investimenti che spero ci porteremo dietro post-Covid, e che saranno preziosi per ricreare connessioni, per ridare vita e dinamicità alle nostre comunità, per rispolverare e approfondire insieme – come dici tu – questo concetto di identità e comunità italiana e uscire dalla crisi più forti ed uniti di prima.
Io, dopo il viaggio alla base di Volti d’Italia, mi sono sentita così. Più vicina ai calabresi e ai friulani, più italiana, più fiduciosa nelle persone e nelle comunità che ho attraversato, e più fiera del mio Paese. Ho ritrovato il bisogno di fiducia, di dialogo e di fierezza negli occhi di quasi tutte le persone con cui ho parlato e sono quindi convintissima che l’opportunità e la voglia di ritrovarci e ridefinirci esiste eccome, spero solo che come cittadini, come politici e come classe dirigente riusciremo a coglierla.
Come il linguaggio, nemmeno la memoria è mai neutra: per questo, facilmente, sia il linguaggio che la memoria possono essere distorti. Il lavoro di linguisti e storici di questi tempi, allora, si fa unitario, più acuto e più attento alle pericolose metastasi del linguaggio e della memoria. Da questa istanza prende le mosse il nuovo libro di Carlo Greppi, Si stava meglio quando si stava peggio. 20 luoghi comuni da sfatare (Chiarelettere, 2021), che puntualmente analizza con l’occhio dello storico le allarmanti derive delle parole del nostro presente e delle idee che trasmettono.
Quanto è importante sconfessare i luoghi comuni che popolano la nostra quotidianità?
Bisogna fare una prima differenza. Ci sono luoghi comuni, familiari e innocui, che fanno parte del nostro modo di parlare e non recano danno a nessuno. Ce ne sono altri, invece, pericolosi nella forma e nella sostanza, che è fondamentale sconfessare. Nel mio libro mi sono concentrato su quei luoghi comuni che hanno un forte tratto denigratorio, che possono essere usati come arma contro qualcuno.
Come se fossero dei confini di parole, per separare i noi dai loro, e alimentare l’idea di una particolare identità. Secondo lei, l’identità esiste?
Io rifiuto l’uso della parola identità: ognuno di noi, secondo me, è identico solo a sé stesso. Nemmeno due gemelli potranno mai dirsi perfettamente identici. Adesso, parlare di identità, di identità collettive, porta la gente a pensare di essere tutta identica perché connazionali, compaesani, perché si condivide semplicemente solo uno degli infiniti aspetti che ci compongono, ovvero la provenienza geografica, territoriale. Che, se ci pensa, è una parte minima della nostra autopercezione. Ma si ingigantisce per via di certi discorsi, a proposito di effetto nocivo delle parole.
E se non ci lega l’identità, cosa ci lega?
Per me si potrebbe parlare di senso di appartenenza, che ciascuno possiede. Che può anche essere territoriale, certo, ma è sempre soggettiva, dettata dalle condizioni storiche in cui si vive e quindi per niente “naturale”. Poi, penso, si potrebbe cominciare a recuperare la parola comunità. Di fare parte di una comunità, siamo noi a scegliere; le comunità non hanno porte, deve essere una scelta propria appartenere o no a un gruppo umano.
Una parola particolarmente in crisi, «comunità».
Sì, assolutamente. La frammentazione è generalizzata, nell’ultimo anno e mezzo si è particolarmente acuita e si fa molta più fatica a sentirsi parte di una collettività, a fare comunità. Per questo credo che passare a un uso consapevole del linguaggio sia necessario. Nelle prime pagine scrivo che questo libro non è un libro per benaltristi; che è ovvio che ci siano altre questioni altrettanto importanti, ma questa battaglia sul linguaggio è cruciale per me, per una reale democratizzazione della società. Solo chi domina la capacità di esprimersi è in grado di produrre pensieri più complessi e concepire realtà più complesse di quelle identitarie.
Comunità e linguaggio, oltre che un bel binomio, sarebbe un bel manifesto per il domani. Anche se il conflitto tra comunità e linguaggio è sempre più evidente nel dibattito pubblico.
Faccio mie le parole di Edgar Morin quando dice quanto sia importante conoscere la conoscenza. Oggi è cruciale sapere come noi arriviamo a conoscere determinati temi, argomenti che costituiscono il nostro presente. Ma interrogarsi su questo processo non significa che vale tutto, che ogni opinione ha diritto di cittadinanza; significa che l’essere umano si avvicina alla conoscenza dei fenomeni, aggiornando continuamente le sue conoscenze, e il dibattito dovrebbe essere molto pacato ed equilibrato tra studiosi e opinione pubblica. Purtroppo, come sappiamo, negli ultimi dieci anni non è stato così.
Prima accennava al fatto che non sempre tutte le opinioni devono avere diritto di cittadinanza. Oggi è il 25 aprile e penso a un dibattito molto consumato: chi sostiene di non sentirsi né fascista né antifascista, chi preferisce non scegliere perché ritiene che non siano categorie contemporanee. Lei che ne pensa?
Non scegliere una posizione è comunque scegliere. Peraltro, basta ricordare la storia del fascismo e poi la storia della Resistenza, c’è un’enorme massa di italiani e di europei che scelsero di non scegliere e dunque di avallare la legge del più forte, di lasciare che il più forte avesse il sopravvento, come ci ha insegnato Claudio Pavone. Io credo che sia importante, in una giornata come quella del 25 aprile, ricordare innanzitutto chi, rischiando la propria vita, prese le armi per liberarsi e liberarci. E, in seconda battuta, le centinaia di migliaia di persone che affiancarono questa lotta in varie forme. È bene anche prendere coscienza che migliaia di persone stettero fondamentalmente a guardare, scegliendo di aspettare l’esito degli eventi. Ed è altrettanto utile, per quanto doloroso, considerare che molti scelsero la parte sbagliata.
Da qualche giorno è stato lanciato il sito Noi, partigiani, una piattaforma che raccoglie centinaia di testimonianze dei protagonisti della Resistenza. Il giorno del suo lancio, però, il sito è stato oscurato da un attacco hacker. La mia domanda è: perché qualcuno trova interesse a colpire così sistematicamente questa parte della nostra storia?
Perché il fascismo – per quanto si ammanti di prefissi, “neo” “post” “filo” “cripto” “para” – vive di violenza. Perciò è totalmente in continuità con la nascita del fascismo, con l’affermarsi del fascismo, con le violenze neofasciste che hanno inquinato la storia dell’Italia repubblicana. Ci sono persone che si ritengono più o meno dichiaratamente fasciste, possiamo parlare per ore di quanto questa autodefinizione corrisponda a una definizione scientifica: alcuni storici dicono che il fascismo storico è finito nel ‘45, a Piazzale Loreto, terminata la Seconda Guerra Mondiale. Ma di persone che si ispirano a quegli anni, tutt’ora in Italia e in Europa, ce ne sono a migliaia; non mi stupisce quindi che abbiano questo modus operandi, è il modus operandi della loro parte. E vanno sconfitti su tutti i livelli, soprattutto facendo cultura.
Un’ultima domanda. Sono argomenti, questi di cui abbiamo parlato oggi, che lei porta in molte scuole e di cui discute con molti ragazzi. Mi piacerebbe chiederle quali sono le reazioni dei più giovani e se possiamo essere fiduciosi per la memoria del domani.
Io mi dichiaro moderatamente ottimista. Ritengo che questa generazione, come quelle precedenti, se opportunamente stimolata manifesta grande interesse. Però, a differenza di tutte le generazioni precedenti, e questo per noi è una accresciuta responsabilità, loro hanno molti più stimoli culturali, un sistematico uso degli schermi e della rete, per cui catturare la loro attenzione, raccontare loro perché queste pagine di storia sono così importanti e significative non è scontato. Bisogna rinnovare nella forma e nella sostanza questi racconti, trovare nuove vie, anche inedite, per incuriosirli, poi una volta che si apre la porta il lavoro è fatto. Saranno loro a continuare le nostre ricerche.
Intervista a Mariangela Gualtieri
Mariangela Gualtieri è una delle più note e apprezzate poetesse italiane. È da poco ritornata in libreria con una nuova edizione di Antenata (Crocetti Editore), la raccolta dei suoi versi d’esordio. Ne prendiamo spunto per parlare dei temi che fin dall’inizio hanno segnato la sua opera.
Sono passati quasi trent’anni dalla pubblicazione di Antenata (1992). La mia prima domanda è sul suo rapporto con le sue prime poesie: le capita di rileggerle spesso o se ne distanzia molto? Che effetto le fa pensare che tornino all’attenzione dei suoi tanti lettori questi testi con cui ha iniziato?
Questo mio libro d’esordio è per me il più misterioso. Ho cominciato a scrivere a quarant’anni per una urgenza insopprimibile, ma con poca coscienza poetica. Questi versi avevano tutta l’aria di venire da fuori di me, come un dettato che dovevo solo trascrivere. Non avevo mai provato niente del genere: una concentrazione esatta, lucida, fredda, un ascolto di parole che quasi non mi sembravano mie. Obbedienza a quel dettato e allo stesso tempo una libertà immensa. Resta il mio libro più criptico, io stessa avverto l’intensità di alcuni passaggi senza comprenderne appieno il contenuto razionale. Penso che i miei lettori restino sbalorditi, come capita a me ogni volta che vado a rileggere. Poi negli anni i miei versi si sono fatti più chiari. Borges dice che invecchiando, nella scrittura, si va verso una apparente semplicità, che tuttavia non è semplicità, è piuttosto una modesta e segreta complessità.
Testi che oltre ad avere un’aspirazione alla voce, avevano anche un’aspirazione all’azione, sulla scena di un teatro. Quanto, questi due universi, la poesia e il teatro, si incontrano nella sua attuale idea di composizione?
A me sembra che poesia e teatro siano fatti l’una per l’altro. Il teatro chiede una lingua festiva, verticale, almeno il teatro così come lo intendo insieme a Cesare Ronconi regista dei nostri spettacoli, luogo di stupore e meraviglia, di rivelazione e catarsi. La poesia chiede di vivere oralmente, di uscire dalla pagina scritta e farsi canto, e che ciò avvenga davanti ad una comunità provvisoria in ascolto. Eccoli dunque affratellati questi due imperi, per giunta entrambi derelitti ma carichi di potenze. In me, tuttavia, i due ambiti restano ben distinti: la scrittura per il teatro è sfinente ed esaltante, mentre i versi che scrivo lontano dalla scena mi tengono sospesa in una larga e spesso serena consonanza con tutto il resto.
Antenata si apre con PARLAMI CHE, in cui si rivolge direttamente alle madri, invocate come divinità domestiche («MADRI, MANI») nella sacralità della nostra quotidianità. Vorrei chiederle diverse cose a proposito. Intanto, una domanda di natura formale: perché ha voluto mantenere un continuo maiuscolo?
«Parlami che io ascolto, parlami che mi metto seduta e ascolto», sì, sono stati i primi versi che ho scritto e dunque ho cominciato inconsapevolmente come gli antichi maestri, con una invocazione alle madri, o forse alle Muse, allora non sapevo davvero a chi, se non che si trattava di un’energia al femminile. Mi imbarazzava l’eccentricità di quel maiuscolo e ne avrei volentieri fatto a meno, ma era uno di quegli imperativi interiori che non si discutono: potevo vedere quelle parole solo scritte così. L’editore, Nicola Crocetti – sono davvero fiera di avere cominciato con lui – ha rispettato questo mio dettame, lo ha subito compreso.
Al di là della forma, mi interessa domandarle quando è sorta in lei l’idea di questa primigenia sacralità? Le madri di cui parla esistono ancora? Quanto il loro culto oggi è praticato e quanto è disatteso?
Direi che è più o forse meno di un’idea. È un sentire, intravedere, una fiumana di voci che mi popola, che non smette di farsi sentire, anche quando tace, e che fin dalla primissima infanzia ha fatto parte del panorama invisibile che mi circonda. La bambina semplice e non troppo sveglia che ero non ha mai creduto alla supremazia del visibile. Ho sempre avuto una strana certezza di un mondo oltre il mondo, e già da allora me lo configuravo come moltitudine della quale avevo rispetto, attrazione e terrore. Credo sia proprio questo che il sacro attiva in noi. Non ho una risposta a questa sua domanda, ma posso dire che senza questa dimensione di trascendenza mi pare venga a cadere l’aspetto avventuroso della mia vita. Tutto si appiattisce, si impoverisce, perde splendore.
C’è stata una grande rimozione dell’energia femminile nella nostra specie. Ancora la generazione di mio padre aveva vergogna di molti attributi bellissimi che però pareva indebolissero la virilità, come la dolcezza, la cura tenera della prole, la gentilezza, l’elasticità, la pazienza, l’ascolto dell’altro ecc. È vero, ci sono femminicidi terribili, ma va detto che c’è anche l’emergere di un maschile più evoluto e pacifico che non ha paura della propria parte femminile, del resto così necessaria ed equilibrante. In Sardegna ho avuto a volte l’impressione di un residuo del culto delle madri, anche se le madri così come la mia poesia le percepisce hanno anche una forza vegetale, strettamente legata alla terra e alla sua fecondità, e mi pare comprendano anche l’animale, anche le grandi montagne, i vulcani… una forza ad un tempo concreta e soprasensibile.
C’è una sezione di Antenata che si intitola «AL TREMORE DEI CORPI. scritto da M.G. quando era un’idiota in terra d’Otranto». In questa sezione ci sono dei versi bellissimi, tra questi: «È UNA DONNA ADESSO CHE/ INTERROGA LE ZOLLE/ PRENDE I FILI AGGIUSTA/ UNA RETE. ‘NON ABBIAMO CAPITO NIENTE’ DICE». So che a una poeta non si dovrebbe mai chiedere di commentare i propri versi, ma terrei davvero molto a chiederle di parlarci di questa immagine di donna.
All’inizio degli anni ’90 andavo spesso in Salento da sola, e riuscivo a restarci qualche mese. Affittavo qualche casetta modestissima per due soldi, ma l’intorno era sontuoso, per bellezze del paesaggio, e lì, proprio come un’idiota, scrivevo. Stavo giorni interi senza parlare e in quel silenzio tutto arrivava con un nitore straordinario, tutto assumeva connotati simbolici molto forti. Nel piccolo porto di Castro c’erano i pescatori che aggiustavano le reti, seduti a terra, forse aiutati da qualche vecchia. C’erano donne nella campagna che raccoglievano erbe e forse pronunciavano qualche formula contro le bisce, o qualche preghiera. Nessun verso di quel testo è inventato. Scrivevo ciò che spiccava dall’ordinario e mi veniva incontro con forza, fondendo a volte immagini diverse.
Arnaldo Colasanti, nella sua recente antologia Braci, riflettendo sulla natura del silenzio all’interno della sua poesia, ha scritto che «la poesia di Gualtieri, se è, è perché non è altro che la visione cieca, ma reale e molteplice del sacro». Mariangela, lei crede che la poesia ‒ la commistione tra parola e silenzio ‒ possa veicolare il sacro? Che la poesia possa essere manifestazione di un miracolo, di una grazia, capace di influire sul lettore, di renderlo diverso?
Mi colpisce la definizione di Colasanti, quasi un ossimoro quella visione cieca ma reale e molteplice del sacro. Mi sorprende e mi convince. Da più parti sento dire che la poesia non serve, che è inutile, che non salva il mondo, da Montale fino a molti poeti del nostro tempo. Partendo dalla mia esperienza mi sento di dissentire. Come sarebbe stata povera la mia vita senza poeti. Come sarei stata derelitta e mancante di una musica verbale che mi ha senza dubbio fatta più bella, più folle e più savia. Quanto bene mi è venuto dai poeti, dalle poete e quanto ancora me ne viene, anche da voci del mio tempo. A me la poesia sembra quasi parola magica: qualcosa che in me se ne sta aggrovigliato, presagito ma inafferrabile, viene precisato in modo fulmineo da un verso, secondo una comprensione che non è solo razionale ma quasi di un organo misterioso che si illumina e ci illumina solo a tratti e per il resto se ne sta assopito.
L’anno scorso, con la sua poesia Nove marzo duemilaventi, ha provato a sintetizzare molti sentimenti di comune sconforto e a ribaltarli, restituendo speranza attraverso la parola. A un anno dall’inizio della pandemia, in una situazione ancora molto critica, come si pone di fronte a questo difficile presente?
Forse adesso è necessario che muoia l’illusoria speranza di poter tornare ad una normalità che non esiste, e che uno scoramento generale ci induca ad un cambiamento vero, radicale, cioè alla rivoluzione che servirebbe nei nostri usi e costumi per permettere alla nostra specie di perdurare su questo pianeta. È talmente grave ciò che è stato fatto negli ultimi diecimila anni dagli umani, talmente rovinoso e squilibrante per tutti gli altri viventi e per noi stessi. L’immensità di ciò che dovremmo cambiare ci fa sentire impotenti, ma io credo che abbiamo la forza per fare questo grande passo, questo riavvicinamento al cuore del mondo, al grande universale concerto che non tollera più le nostre stonature. Dovrà essere in parte un passo indietro, ma corrisponderà ad un meraviglioso salto nel futuro. Un futuro che ancora non abbiamo immaginato, e dunque inatteso. Occorre un generale cambio di mentalità e noi siamo i primi ad essercene resi conto. Questo ci fa sentire colpevoli, ma il problema è l’umano così come è fatto: ora occorre un cambiamento pari a quello che ci ha fatto perdere pelo, coda e muso, e dovrà essere un cambiamento del nostro modo di pensare noi stessi e tutti gli altri viventi. Questo richiederà molto tempo, ma tocca a noi cominciare. Questo anno e più di pandemia ci sta facendo riflettere su tutto ciò. Forse stiamo raccogliendo le forze.
La mia ultima domanda. Se c’è un verso (suo o di altri poeti) che in questo periodo la accompagna. E perché proprio quel verso
C’è un famosissimo endecasillabo di Dante che mi accompagna da sempre e che in questo tempo risuona ancora di più: «Amor che move il sole e l’altre stelle». Dunque questa forza muove anche me. Mi chiedo sempre come lasciarle spazio, come permettere a questa forza – di certo rispettosa del mio libero arbitrio – di guidare il mio essere e il mio agire. Un modo geniale e larghissimo di pensare la Divinità. Un modo molto festoso.
Mariangela Gualtieri, Antenata, Crocetti Editore, Milano 2020, pp. 112
C’è una pericolosa parentesi che serpeggia nel quotidiano formulario civile e politico. Da un po’ di tempo, infatti, quando si accenna alla parola sinistra, tutti sentono il bisogno di aggiungere una precisazione: «qualsiasi cosa significhi». Come se quella parola, solo qualche anno fa così carica di storia e di idee, si fosse ormai completamente svuotata. Come se avesse perduto del tutto il suo significato originario.
Oggi ci interroghiamo sulla sinistra svuotata del suo passato, sulle sue battaglie abbandonate. E lo facciamo attraverso un saggio di Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli, 2020), che racconta la guerra dei più forti contro i più deboli, dell’omologazione silenziosa della sinistra alla classe dominante. Lo facciamo perché forse quella parola continua ancora ad avere senso e, come dice D’Eramo, perdura a essere sinonimo di una condizione ben precisa: «stare con i dominati contro i dominanti, stare contro il dominio».
Siamo abituati a pensare la rivoluzione unilateralmente, come movimento delle classi subalterne contro le classi egemoni. Lei invece nel suo nuovo saggio, Dominio, racconta il movimento opposto, parla della rivoluzione dei dominanti contro i dominati, dei potenti contro i sudditi, una sorta di «controrivoluzione». Potrebbe spiegarcene le ragioni?
La guerra dei ricchi contro i poveri, dei potenti contro i sudditi, c’è sempre stata. Altrimenti i potenti non continuerebbero a essere potenti e i sudditi non rimarrebbero sudditi: ci vuole sempre qualcuno che li tenga sotto giogo. Ma nel Novecento è sorto qualcosa di nuovo, con il movimento operario, con la Rivoluzione russa, con l’accettazione dei sindacati, con la nascita del keynesismo, l’opinione pubblica dei Paesi industrializzati in Occidente ha cominciato a cambiare. I potenti non avevano perso il potere, ma stavano perdendo l’egemonia e si sono ritrovati alla fine degli anni Sessanta in una situazione inedita: erano in pericolo, come «blocco storico» avrebbe detto Gramsci; per questo hanno dovuto riprendere l’egemonia, riconquistarla. Ecco, quella che racconto è la guerra di riconquista dell’egemonia, che si può chiamare controrivoluzione, ma è stata una vera e propria rivoluzione, nel senso che per riconquistare l’egemonia i dominanti hanno dovuto cambiare le proprie idee.
In che modo?
Inventando nuove teorie economiche, ad esempio. Il neoliberismo attuale non ha niente a che vedere con il liberismo classico, in particolare economico. Ma anche pensando una nuova antropologia, una nuova idea dell’uomo, sempre per riuscire a ottenere quello che cercavano. Naturalmente non l’hanno fatto solo con la forza delle idee. Nel libro cito Voltaire che racconta dell’eroe che si vantava di uccidere infallibilmente i suoi nemici con un saggio miscuglio di preghiere, scongiuri e arsenico: in questo caso l’arsenico è sia la tecnologia del debito sia la tecnologia della sorveglianza, due forme tecnologiche che hanno accompagnato questa rivoluzione mentale e ideologica. E bisogna dire che loro, i dominanti, hanno vinto.
Ma com’è stato possibile non accorgersi di questa controrivoluzione? Che nella stanza dei bottoni si muovesse una guerra intestina? Come può tutto questo passare sotto silenzio, senza che una parte della classe politica faccia qualcosa?
Come accennavo prima, è stata un’opera di convincimento dell’opinione pubblica per cui, a un certo punto, ci siamo ritrovati tutti a pensare come pensa la destra, senza accorgerci che eravamo cambiati. Lei provi a parlare con le persone che oggi dichiarano di essere di sinistra, se sente cosa dicono vedrà che concordano tutti con Margaret Thatcher, cioè concordano tutti con il modello T.I.N.A.: There Is No Alternative. Tutti si dichiarano progressisti, ma alla fine sono gli stessi che accettano così per com’è lo stato delle cose.
Per lei cosa significa oggi essere di sinistra?
Brutalmente, stare con i dominati contro i dominanti, stare contro il dominio. Il dominio è sempre una cosa sgradevole per chi lo subisce; sarà molto bello per chi lo esercita, ma essere dominati non è una situazione granché piacevole. Sono riusciti a sottrarci persino l’idea di futuro. Il vecchio liberismo classico, la vecchia borghesia, aveva conquistato il potere contro l’aristocrazia proponendo un futuro migliore per quelli che stavano con loro, dicendo: se voi state con noi borghesi starete meglio, l’umanità migliorerà, «le magnifiche sorti e progressive». Adesso, da trent’anni a questa parte, nessun politico ti dice: se voti per me starai meglio. Li ha mai sentiti dire qualcosa del genere? Io no. Quello che ti dicono è: se voti per me non starai molto peggio, anzi se non voti per me starai sicuramente molto peggio. L’alternativa è tra più peggio e meno peggio. Però, allo stesso modo, non c’è futuro.
Dove ravvede, ad esempio, questo furto del futuro?
Prendiamo il caso delle pensioni. Sta passando, e si sta consolidando, il pensiero che le pensioni siano un sistema arcaico di retribuzione. Adesso, vorrei sapere, i giovani che oggi hanno 25 o 30 anni e credono a questa idea, e si pensano imprenditori di sé stessi, quando fra trent’anni si ritroveranno senza pensione e in mezzo a una strada cosa faranno? Sono questi i meccanismi silenziosi che stanno rubando il futuro alle nuove generazioni. Fino a quando un uomo può continuare a essere imprenditore di sé stesso?
Eppure è uno dei modi, e delle filosofie, con cui si cerca di superare l’attuale crisi del lavoro.
Sì, ricordo che anche l’ex cancelliere Gerhard Schröder, che ha fatto la controriforma sociale in Germania, parlava di «Ich-AG» ovvero «Io-SpA», il soggetto che diventa una SpA di sé stesso. L’altro giorno mi trovavo in una trasmissione televisiva e stavano mandando in onda dei servizi sui rider: ne veniva fuori un’immagine così ottimistica che ho chiesto alla conduttrice se avesse augurato per suo figlio una prestigiosa carriera di rider. Capisce? Amazon ha da poco ammesso che i suoi autisti sono costretti a fare pipì nelle bottiglie, la più grande multinazionale del mondo accetta che i propri dipendenti si sviliscano in questo modo. E non crea scandalo! Nessuno si indigna per questo. E questa è un’altra conseguenza di questa mentalità: se siamo tutti imprenditori di noi stessi non esistono sfruttati e sfruttatori, i rider sono imprenditori, siamo tutti imprenditori, sia Jeff Bezos sia i rider.
D’Eramo, secondo lei, il problema è il presente, prima la situazione era diversa, migliore?
Non penso che si stesse meglio, prima però ci siamo rimboccati le maniche. Vede, uno degli aspetti drammatici del nostro presente - e qui la grande sagacia di questa controffensiva - è che ci hanno convinti che è inutile l’azione collettiva: ci hanno convinti che è inutile fare azioni comuni, che è inutile mettersi insieme per lottare. Questo è il problema. Che la salvezza si crede sia soltanto individuale, che soltanto da soli ci possiamo salvare.
Ma come si risponde a questa mentalità? Come si reagisce?
Contrastando tutto quello di cui abbiamo parlato. E imparando dai dominanti. Loro hanno imparato da noi molte cose. E noi dobbiamo rimparare che i punti fondamentali sono sempre gli stessi, ovvero: la redistribuzione del denaro, la giustizia e la scuola. Bisogna cominciare a ri-alfabetizzare le persone, mettersi a parlare con loro, fare politica: non vinciamo dall’oggi al domani; per la controrivoluzione dei potenti ci sono voluti sessant’anni, e anche noi potremmo metterci tanto. Bisogna porsi obiettivi a lungo termine. E noi su questo abbiamo un vantaggio straordinario: loro non offrono alcun futuro, quindi basta riproporre il tema del futuro per mobilitare le persone, basta chiedere cosa faremo tra cinque anni. Nessuno oggi lo sa.
Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 256, 19€
In epigrafe al nuovo libro di Edith Bruck, Il pane perduto, incontriamo alcuni versi di una poesia di Nelo Risi (1920-2015), suo marito; la poesia si intitola La neve nell’armadio e i versi sono questi: «La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più dà soltanto fastidio/ (che addusse lutti infiniti)/d’un sol colpo ti privò dell’infanzia».
Potrebbero essere la perfetta sinossi della storia che stiamo per cominciare a leggere, la storia di una bambina ebrea (la piccola Edith Bruck) e della sua famiglia negli anni della Seconda Guerra Mondiale, la loro deportazione ad Auschwitz, i «lutti infiniti» da sopportare. Eppure, raccontano e illuminano molto altro. In particolare, sottolineano un verbo, «privare», perché la storia di Edith Bruck racchiusa nel Pane perduto è soprattutto una storia di privazione: di dignità, di affetti, di memoria, di speranza.
Nelle pagine del suo nuovo libro, Bruck racconta cosa significa sopravvivere al presente, quando il presente ci priva di noi stessi. Ne parliamo oggi con lei.
Le prime righe del suo nuovo libro sembrano richiamare il ritmo delle favole: «Tanto tempo fa c’era una bambina …». Vorrei cominciare la nostra conversazione chiedendole se Il pane perduto può essere letto come una favola.
Sì, avevo in mente proprio di scrivere una favola. E mentre la scrivevo mi accorgevo che questa favola diventava naturalmente sempre più oscura, sempre più nera. L’ho cominciata e finita con il richiamo a questa bambina che ha nostalgia di correre scalza in una viuzza polverosa di primavera: in questo sentimento si riconosce, sa chi è, sa che la sua vita non è passato, ma soltanto futuro. È venuto fuori così, io scrivo sempre di getto, a mano, non faccio appunti, quando mi siedo comincio e finisco la storia.
Quando ha sentito l’esigenza di scrivere, in questa circostanza, la sua storia?
Ne ho sentito l’esigenza circa un anno fa. Sono passati sessant’anni dal mio primo libro, che ho pubblicato nel 1959, e ho pensato che fosse il tempo giusto per ricominciare: la memoria umana è molto corta. Oggi dappertutto c’è un nuovo dilagare di razzismo, di antisemitismo. Ho pensato di ricominciare perché i tempi cambiano, il mondo cambia, la politica cambia, cambia tutto. E perché tutto ricomincia daccapo, tutto si ripete.
Pensa che la Storia non insegni nulla?
Credo che l’uomo non impari nulla dai propri errori e vada anzi verso la propria autodistruzione. Ecco perché abbiamo bisogno del racconto. Ma non si racconterà mai abbastanza e, secondo me, non si potrà mai raccontare abbastanza. Perché sempre rimane qualcosa fuori dalle nostre storie, che non possiamo esprimere, perché non è esprimibile a parole. Non ci sono parole per raccontare quell’orrore, secondo me.
Per questo alla fine del libro sostiene che ci vorrebbero «parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova»?
Ma non ci sono, queste parole. E quelle che ci restano sono oramai svuotate completamente del loro contenuto, della loro sostanza. Si parla, si parla, si parla …
Ci sono dei momenti, scrive Virgilio, in cui persino la Storia prova dolore e piange («Suntlacrimae rerum»). Lei ad Auschwitz ha assistito alla Storia che piange, si è confrontata con essa.
La nostra Storia è seminata di sangue, di martiri. Ogni giorno io mi confronto con la Storia che piange. Ogni giorno vivo la Storia e vivo quello che accade nel mondo. Nel mondo intero, voglio dire, non solo quello nel quale vivo. Tutto quello che accade nel mondo mi riguarda. Come dovrebbe riguardare tutti, non esiste più lontananza… Non possiamo più dire che non sappiamo, solo che non vogliamo sapere. Non vogliamo confrontarci con i nostri misfatti, e invece dovremmo assumerci le nostre responsabilità nei confronti del mondo e della Storia. Quando qualche settimana fa Papa Francesco è venuto a trovarmi, ci siamo detti che anche una goccia nel mare di questo mondo è importante, anche una singola goccia di bene.
Quale pensa possa essere una cura per questo tempo, per l’uomo che lo abita?
Non fuggire dalla verità, non fuggire da ciò che riguarda la coscienza. Come dicevo, dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, l’uomo. Non si capisce perché corra verso la propria distruzione, si sente in colpa, forse per qualcosa di ancestrale, di antico, perché è impossibile che rovini l’aria, rovini la terra, avveleni i fiumi, avveleni il mare: non è soltanto razzista, ma distrugge il suo stesso habitat. E questo è incomprensibile.
Non si capiscono le ragioni di questo odio verso noi stessi.
Sì, è un problema con sé stessi, odio di sé. Sente che ha fallito, che non ha fatto quello che doveva fare. Non si capisce. Non ha la minima coscienza, la minima onestà. E non possiamo pensare, giustificarci, dicendo che verrà un mondo diverso da questo.
Nel Pane perduto ripete spesso un’espressione che mi ha colpito molto: «un dolore puro, universale». Che cosa intende lei per «dolore puro, universale»?
Nel libro racconto di un bambino, sul vagone che ci stava portando ad Auschwitz, che era in braccio alla madre e piangeva disperatamente. Quando un bambino piange disperatamente ha dentro di sé, in qualche maniera, nel suono, il dolore universale, la disperazione del mondo. E questo suo dolore è sicuramente puro perché innocente, perché profondo. Quel dolore che ha dentro tutti i dolori del mondo. Come se in quel momento stesse piangendo per il mondo.
Lei sentiva di provare lo stesso sentimento?
Nessuno di noi aveva capito dove ci stavano portando, non sapevamo nemmeno che esistesse Auschwitz, neanche che fosse in Polonia. Nel vagone mia madre era dolcissima, mi pettinava, mi faceva la treccia, e anche questo per me assumeva un significato doloroso, perché non era mai stato così. Era come se mi dicesse: ti voglio bene, mi stava dando il suo addio. Lei doveva occuparsi della casa, non aveva l’abitudine di giocare con noi, non aveva tempo per questi gesti di affetto. Ecco allora che respiravo nell’aria la fine. La fine di qualcosa, di qualcosa di definitivo.
È possibile superare questo dolore?
Si supera. Si vive. Credo che conviviamo con tutti i nostri dolori. Sia quelli fisici che quelli interiori. Non possiamo sfuggirne.
Edith, oltre che essere una narratrice, lei è una poetessa. Vorrei chiederle se considera la preghiera e la poesia due realtà distanti o coincidenti.
Per me la poesia è preghiera. Fin da bambina, da sempre. Quando mia mamma mi diceva di pregare prima di andare a dormire, io mormoravo una poesia. Certo, la poesia può essere anche un atto politico, un pianto. Ma per me la poesia è, in qualche modo, imparentata con la preghiera. Da ragazza pensavo i grandi poeti come profeti, non so perché. Come se avessero a che fare con la religione. Poi, ho incontrato mio marito, che era un poeta ma era laico, nemmeno battezzato, e posso dire di aver maturato, grazie a lui e alla sua famiglia, una diversa percezione della religione e della preghiera. Per me religioso è chi paga le tasse per il bene della comunità, chi si occupa della propria famiglia, chi si occupa degli ultimi: questa per me è religione, questa per me è preghiera. La fede è onestà, pulizia morale, solidarietà, condivisione.
È bellissima questa sua idea di religione dell’uomo. Un’ultima domanda desidero farle. Il libro si chiude con una Lettera a Dio: quanto è stato difficile scriverla?
In verità, è stata la cosa più facile. Volevo scriverla da quando avevo nove o dieci anni, e l’ho scritta dopo ottant’anni. Sento quotidianamente il bisogno di un dialogo molto nascosto, molto intimo, non so con chi, non importa, io non posso definire Dio, non so se c’è o non c’è, non importa, sarà un’energia, sarà la più geniale invenzione del mondo, non lo so, non posso dire sì, esiste, non importa. Molti hanno studiato il silenzio di Dio nei campi di sterminio. Ma a letto, quando mi ritrovo da sola, non faccio altro che parlare, e questo mio silenzio è pieno di voci. È un’entità muta, ma mi ritorna addosso tutto.
- Edith Bruck, Il pane perduto, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp. 128, 16€
Intervista a Evelina Santangelo
Ogni ferita su di noi è una traccia. Una traccia di attrito con la realtà, con il presente che si rivolta contro di noi. In questo senso, il semplice graffio di un gatto o la lacerazione dell’anima causata dalla perdita di un nostro caro sono entrambe, allo stesso modo, una irrefutabile testimonianza di contatto con il mondo, l’estrema prova dei nostri sensi.
Sbagliando, forse, abbiamo pensato che i vari lockdown ci allontanassero dalle ferite, dalla possibilità di causarle o subirle. Il distanziamento sociale credevamo limitasse, attutisse la nostra esperienza sensoriale, e quindi la nostra esperienza del mondo. E invece, paradossalmente, l’ha acuita, rendendola ipersensibile al più piccolo sfioramento.
Sono tutte riflessioni, queste, che ricaviamo dalla lettura dell’importante antologia Le ferite da poco pubblicata da Einaudi per festeggiare i cinquant’anni di Medici Senza Frontiere (MSF): sette scrittrici e sette scrittori hanno offerto i loro racconti per sostenere il quotidiano intervento di MSF nel risanamento di quelle ferite così grandi che pensiamo sia impossibile rimarginare.
Oggi conversiamo con una delle autrici della raccolta, Evelina Santangelo, che firma il racconto Che sia mare o terra.
La prima domanda che vorrei farti è sul nostro senso della catastrofe. È un tempo, il nostro, che ci obbliga a confrontarci con la complessità delle catastrofi, con tante apocalissi che sembrano inverarsi nello stesso momento: la catastrofe delle migrazioni, della pandemia, del climate change. Eppure, sembra che riusciamo ad accoglierle solo una alla volta; l’una annulla le altre. Vorrei chiederti, allora, della nostra percezione delle catastrofi: perché fisiologicamente limitiamo il nostro sguardo?
Mah… mi verrebbe da rispondere che lo facciamo prima di tutto perché non siamo in grado di contenere qualcosa di così smisurato come l’insieme di queste catastrofi. Fatichiamo già a concepire esattamente la portata di una sola di esse. Una catastrofe, nel significato etimologico del termine, è un capovolgimento, qualcosa che mette in discussione tutto radicalmente, scompagina l’esistenza, il modo di stare al mondo, la natura stessa del mondo in cui accade.
È un paradosso. Ormai è chiaro a tutti, tranne ai vari negazionisti, che isolare una questione dall’altra (migrazione, cambiamento climatico, pandemia) è un modo del tutto insensato di affrontare La Catastrofe (che è proprio l’intreccio inscindibile di tutti questi disastri: ambientali, sanitari, sociali, umanitari…), eppure ci comportiamo come degli accecati che alimentano la cecità per salvarsi, o meglio per salvare il mondo così com’è, come lo abbiamo fatto: a immagine e somiglianza di appetiti di vario genere interiorizzati come bisogni. Per questo penso che soltanto le nuove generazioni, nuove classi dirigenti sensibili ai grandi temi di questo tempo, potranno non arroccarsi nell’idea di salvare il passato, le cose così come stanno, ma avere il coraggio di capovolgere tutto, abitando la catastrofe per inaugurare un modo del tutto nuovo e sostenibile di stare al mondo.
A proposito delle diverse catastrofi che stiamo contemporaneamente affrontando, mi piacerebbe soffermarmi sulla struttura narrativa del tuo racconto, che legge insieme la catastrofe delle morti in mare e quelle della pandemia. Epidermicamente, non potrebbero apparire più dissimili, più diverse. Eppure, a legarle c’è questa dialettica che tu proponi del vicino / lontano, del dentro / fuori. Potresti spiegarcela?
Nel racconto che ho scritto per l’antologia Le ferite pubblicata da Einaudi per i cinquant’anni di Medici Senza Frontiere cerco di intessere un discorso narrativo che includa le tre grandi questioni del nostro tempo: migrazione, pandemia, cambiamento climatico, proprio perché le immagino come un’unica creatura spaventosa a tre teste. Il modo in cui intreccio pandemia e migrazione, in particolare, è incentrato sull’idea che il Covid-19 ci ha costretto a murare noi stessi.
Le migrazioni evocano un pericolo che sembra arrivare da fuori (quando in realtà viene dal mondo stesso di diseguaglianze globali e sfruttamento che abbiamo edificato). Così, il muro anche psicologico che alziamo, il rifiuto, riguarda paure che coincidono più o meno con il timore di una «invasione» da parte di «creature aliene» che mettono a repentaglio il nostro benessere e stile di vita. La pandemia – percepita come un male che riguarda le singole nazioni, non come un male globale, vista la maniera in cui ognuno si concentra sulla salute nel proprio Paese a prescindere dal resto del mondo –, la pandemia di Covid-19, dicevo, ha di fatto esasperato quel terrore dell’altro da sé, rendendolo parossistico: noi abbiamo paura di noi. Noi siamo gli alieni che possono mettere a rischio noi stessi. Così i muri fisici e psicologici si sono moltiplicati: mascherine, guanti, distanziamento, autoreclusione. Sembra un contrappasso: abbiamo cominciato con gli esseri umani che arrivavano da ogni angolo del mondo in cerca di aiuto e adesso siamo finiti per scappare da noi stessi, per automurarci. E sempre per quel gigantesco disequilibrio globale, riguardante la natura e i popoli, che finora ci ha garantito il tenore di vita cui non intendiamo rinunciare.
Nel racconto più volte fai cenno alla privazione della sensorialità. Dapprima parli della vista che si svuota della vita, lo sguardo che durante la pandemia considera il deserto delle strade: il vuoto al posto del pieno. Poi parli del tatto, del gesto elementare del contatto. Cosa abbiamo perso, cosa perdiamo, privandoci di questa quotidiana ed elementare sensorialità?
Abbiamo perso noi stessi. Perché sui sensi fondiamo il nostro rapporto con il mondo e con gli altri, con tutto ciò che ci riguarda. Anche il rapporto con noi stessi. Stiamo continuando a vivere in una sorta di prigionia, costretti dentro una bolla che ha più o meno i confini di noi stessi. Tutti i gesti che compiamo sono innaturali, mediati da una qualche misura di salvaguardia imposta per motivi di salute pubblica. Credo che questa reclusione dei sensi sia una delle ragioni che più toccano l’equilibrio psicologico di ognuno di noi. Se ci pensi è pazzesco che un’espressione del tutto ordinaria come: «baciami la nonna» sia un attentato alla vita, che le città – i luoghi per eccellenza dell’esistenza contemporanea fatta di movimento continuo – ogni sera si trasformino in spelonche buie, mute.
Certe sere mi ritrovo alla finestra e mi sembra di guardare un mondo pietrificato. Ecco, si è persa anche l’anima dei luoghi. Io ho memoria del mio quartiere vivace di locali notturni come fosse un’altra era irrimediabilmente perduta. Non so cosa accadrà dopo questo tempo. So però che dovremo rialfabetizzarci a percepire noi stessi e gli altri.
Una domanda è più privata. A un anno dall’inizio della pandemia, tu, Evelina Santangelo, come sei sopravvissuta?
…non opponendo resistenza, credo. Accettando di abitare questo tempo con tutte le limitazioni che mi impone, i disagi, persino le difficoltà di concentrazione. Durante il primo lockdown mi risultava impossibile leggere e scrivere. E non l’ho fatto. Non mi sono disperata. Ho pensato: beh, questo è il momento di comprendere cosa sta accadendo, di mettersi in ascolto, osservare... Parlare poco. D’altro canto, non avevo molte parole. O comunque le parole che avevo a disposizione non riuscivano a dire molto. Erano inerti, inadeguate, andate a male da un giorno all’altro. Non ho scritto diari. Né ne scriverò. Perché avevo e ho la nettissima percezione che questa pandemia, come tutti i capovolgimenti, sta riscrivendo noi, le nostre esistenze, la visione stessa del mondo. Io sono ancora alla ricerca. Scrivo, ma poco, e solo quando ne sento la necessità. Penso tantissimo prima di mettere giù qualcosa. So che, ogni volta, devo capire come e che non posso farlo più allo stesso modo di prima. Perché, per me, la sensazione di un «prima» e di un «dopo» è nettissima.
Alla fine del racconto scrivi che il nostro è «il tempo di Bruce Lee». Perché?
Quando ho accettato di partecipare a questa antologia per la mia devozione, direi, nei confronti di Medici Senza Frontiere, avevo solo un’immagine chiara da cui sarei partita.
Avevo visto un murale: una figurina bidimensionale di Bruce Lee in keikogi giallo rappresentata in un calcio marziale contro una ringhiera nera. Una ringhiera smisurata a confronto di quella figurina. Osservando bene il murale, mi sono accorta che la punta del piede di quel Bruce Lee realizzato come un fumetto arrivava esattamente all’altezza in cui il ferro della ringhiera era realmente deformato. Non era dunque il calcio a piegare la ringhiera. Il calcio indicava con esattezza marziale il punto di rottura: la ferita nel ferro. Ecco, a quel punto ho iniziato a capire come si poteva provare ad abitare un mondo fatto di ferite smisurate, irreparabili, che chiedono attenzione, ascolto, esigono che i tuoi gesti si conformino a loro, senza l’arroganza di volerle sanare come fossero ferite qualsiasi, e senza la presunzione di sapere come fare a prescindere dalla ferita stessa. No, ho pensato, quel Bruce Lee non è lì per sanare, il suo gesto, che si conforma perfettamente alla piegatura, è lì per rendere quella ferita meno sola, meno nuda, è lì per darle evidenza, anzi no, per prendersene carico.
Quel che alla fine ci si ferma a contemplare, infatti, guardando un murale così finto e reale allo stesso tempo, è l’equilibrio miracoloso tra quel calcio marziale esatto rappresentato in modo magistrale e la ferita reale smisurata anonima. Una ferita che, grazie a quel gesto tirato fuori dalla pellicola di uno dei famosissimi film di Bruce Lee (e dunque fuori dai canoni, dai luoghi deputati) diventa proprio quella piegatura lì, gigantesca, ineludibile.
Le ferite, a cura di Caterina Bonvicini, Einaudi, Torino 2021, pp. 152
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Vorrei cominciare la nostra conversazione parlando di Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, che Adelphi ha ripubblicato l'anno scorso. Un libro anomalo, oggi si direbbe "ibrido": una fitta narrazione sulla morte dello scrittore Raymond Roussel raccontata attraverso "gli atti" di una sbrigativa inchiesta di polizia.
Che cosa cerca di fare Sciascia, quando lo scrive? Continua a lavorare sulla struttura del racconto poliziesco come nelle sue prime opere narrative? Oppure cerca di sperimentare un percorso inesplorato di narrazione ibrida, un percorso che forse lo condurrà, nel 1978, alla forma da dare all'Affaire Moro?
Quel piccolo libro, scritto nel 1970 e che prima di uscire in volume stava tutto in due pagine del «Mondo» di Pannunzio, è effettivamente uno spartiacque nella produzione di Sciascia: perché l’intento era quello di chiarire una vicenda che gli appariva misteriosa, ancor più dopo aver letto gli Atti relativi prodotti dagli inquirenti, ma l’esito fu di apportare nuovi dubbi, nuovi misteri. Quest’idea, che aprirà la strada alla stagione delle scritture innovative di Sciascia degli anni Settanta (di cui l’Affaire Moro si può considerare il vertice, o almeno l’approdo ultimo), contrasta con l’immagine di vulgata di uno Sciascia ‘illuminista’ che è stata ripetuta anche negli interventi stimolati dal Centenario.
Beninteso, l’uso della ragione, l’opera di demistificazione degli inganni, la fiducia nelle idee, la stessa linearità della sua scrittura, sono caratteristiche effettive e documentabili, senza le quali non si inquadrerebbe correttamente lo Sciascia degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma verso la fine di quest’ultimo decennio il paradigma entra in crisi, perché cambia in modo irreversibile il quadro politico e sociale che lo scrittore metteva in prospettiva rispetto alla sua azione intellettuale. E l’atteggiamento di sollevare dubbi, di porsi domande che altri non si facevano, di osservare fatti su cui si usava passare uno sguardo distratto diventa un modus operandi pervasivo, sebbene si possano individuare anticipazioni del ‘paradigma del dubbio’ e permanenze dell’atteggiamento ‘illuminista’ in ogni momento della carriera dello scrittore.
Così, anche le storie ispirate ai moduli del romanzo poliziesco (Il contesto e Todo modo, e su piani diversi anche gli Atti relativi e La scomparsa di Majorana), sono prive del rassicurante lieto fine tipico del giallo classico; i romanzi degli anni Sessanta (Il giorno della civetta e A ciascuno il suo, e su un piano diverso Morte dell’inquisitore), e si chiudono su un mistero, che il lettore deve tentare di sciogliere sulla base degli elementi abilmente sparsi nel libro stesso, e su cui deve soprattutto riflettere, per cercare di cogliere, insieme con lo scrittore, il vero senso e il loro valore generalizzante.
Questo primo tema mi porta a farle un'altra domanda. In che modo Sciascia era legato al genere giallo? Mi spiego meglio: sappiamo che Sciascia aveva riservato particolare attenzione per la narrazione poliziesca, ma come se ne serviva? Era per lui, come per il suo omologo svizzero Dürrenmatt, il tentativo di scrivere con la sua opera "un requiem per il giallo"? Oppure se ne disinteressava, in fondo, della natura del giallo, riflettendo più che altro sulle potenzialità della scrittura come "indagine"?
A Sciascia non interessava fare della metaletteratura, ovvero una letteratura che riflette su se stessa, mettendo in evidenza i suoi meccanismi; riteneva piuttosto che la letteratura potesse offrire la più affidabile chiave interpretativa della realtà. E il giallo, del quale cercò di evidenziare le potenzialità letterarie, tanto con l’attività critica, quanto con la sua stessa produzione, non faceva eccezione in questo senso: è letteratura, non mero intrattenimento, almeno per quanto concerne le creazioni di Simenon, Agatha Christie, Conan Doyle, o anche il Rex Stout di Nero Wolfe e l'Erle Stanley Gardner di Perry Mason, e in quanto tale è «la più assoluta forma che la verità possa assumere», come scrisse in una nota di Nero su nero. In questo senso, credo che a lungo il suo utilizzo del giallo sia stato diverso da quello di Dürrenmatt, e che le riflessioni dello scrittore svizzero siano emerse in particolare nella estrema produzione narrativa sciasciana, in particolare nel Cavaliere e la morte, come peraltro conferma uno studio di Mark Chu dedicato al rapporto fra i due scrittori, pubblicato negli Atti del convegno di Ascona dedicato nel 1993 a Sciascia scrittore europeo (pubblicato l’anno successivo dalle edizioni Birkhäuser). Ma con il Cavaliere e la morte siamo ormai nel 1988, lontani dal momento della fruizione quasi compulsiva dei gialli, che avrebbero portato Sciascia a stendere delle sintesi sul genere (che ora si possono leggere in Il metodo di Maigret) e a progettarne di più ampie e sistematiche, come un progetto di storia del romanzo poliziesco per Feltrinelli (a cui accennò a Calvino in una lettera dell’aprile 1957) che non ebbe esito.
Risponderei positivamente all’ultima domanda: in effetti, l’intera produzione sciasciana può essere definita nel suo complesso un’indagine, o meglio un’inquisizione (nel senso in cui usava il termine Jorge Luis Borges, che intitolò Inquisiciones la sua prima raccolta di saggi, riprendendo il titolo più tardi in Otras inquisiciones). In questo senso i libri che mettono al centro un delitto e un investigatore, i sei romanzi che tutti conoscono, sono solo una delle forme letterarie assunte dall’inquisizione sciasciana.
Per il centenario sciasciano è stato pubblicato un libro importante, «Questo non è un racconto. Scritti per il cinema e sul cinema». Nella letteratura italiana degli ultimi anni si sono studiati molto gli effetti del cinema e delle serie tv sulla narrazione. Pensiamo alla Letteratura Cannibale, ai primi romanzi di Niccolò Ammaniti. E in questo caso gli effetti non riguardano solo gli argomenti, i temi dei libri, ma soprattutto lo stile, la struttura dei romanzi.
Retrospettivamente, e contestualizzandolo nella sua epoca, vorrei chiederle se il cinema degli anni Trenta/Quaranta ha avuto un effetto di questo tipo sull'opera sciasciana; vorrei chiederle, cioè, se il linguaggio del cinema ha influito, ha avuto un ruolo sulla scrittura di Sciascia.
Direi di sì, almeno con riferimento ai suoi romanzi degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, fino a Il contesto (con Todo modo le cose cambiano). Perché certe scene d’assieme, e penso alla scena iniziale del Giorno della civetta, alla sua stessa costruzione per sequenze in cui il racconto sequenziale della vicenda è alternato a momenti in cui agiscono vari personaggi di cui bisogna intuire la funzione, ai dialoghi, evidenziano quell’influsso. Dalla metà degli anni Settanta, ma già per certi aspetti in Todo modo, la scrittura sciasciana rinuncia alla narratività romanzesca, e con questa alle soluzioni che gli venivano dalla consuetudine col cinema, per un genere diverso, quello del racconto-inchiesta che mi pare non debba nulla alla settima arte.
Per sfatare un'incomprensibile aura di misoginia che di tanto in tanto ruota attorno a Sciascia. Potrei chiederle di parlarci dell'attenzione per i personaggi femminili che Sciascia dedica nella scrittura dei suoi soggetti cinematografici?
Parlare di misoginia per Sciascia è effettivamente assurdo, ma è stato possibile evocarla nel momento in cui le rivendicazioni del movimento femminista, per lo più condivisibili e apportatrici di civiltà in una società retrograda come quella italiana del secondo dopoguerra, hanno preso la mano e si è montata una polemica a partire dall’idea, sostenuta convintamente dallo scrittore, che nella società siciliana vigesse un matriarcato mascherato da sottomissione formale all’uomo. Ma al di là della polemica contingente, basta guardare senza pregiudizi ai personaggi femminili sciasciani per sfatare quest’idea. Nei soggetti cinematografici recuperati in «Questo non è un racconto» compaiono due donne: la prima è ispirata a Serafina Battaglia, che negli anni Sessanta sostenne in tribunale le accuse contro gli assassini del compagno e del figlio. Ma è la seconda il personaggio letterariamente più interessante, perché se per la storia della Battaglia destinata a Carlo Lizzani, Sciascia era vincolato ai dati di realtà (sui quali aveva realizzato anche una sorta di ‘cronachetta’, ancora inedita, che ricostruisce la sua vicenda), per la ragazza liceale che assiste a un omicidio e subisce intense pressioni ambientali affinché non cada nella tentazione di rivelare agli inquirenti ciò che ha visto, fu libero di esercitare la fantasia. Ne è venuta fuori una riflessione sui codici di comportamento sociali e le loro infrazioni che spiegano le ragioni per cui era così difficile esercitare un’efficace azione di contrasto alla mafia: i fatti erano noti e i responsabili individuabili, ma gli indizi non arrivavano a strutturarsi in prove, i testimoni non parlavano, e quando si riusciva a mettere insieme un quadro probatorio, questo non superava la prova del processo. Che Sciascia affidasse proprio a una giovane donna acculturata il ruolo di scardinare il sistema che consentiva alla mafia di prosperare incontrastata mi pare altamente significativo.
Ultima domanda. Per Sciascia, come lui stesso scrive e dice più volte, da ragazzo il cinema era "tutto". Ma più passano gli anni, più se ne disaffeziona, preferendogli di gran lunga la lettura. Lei si è dato una ragione di questo disamore?
Non c’è bisogno di fare ipotesi: è lo stesso Sciascia a dichiarare retrospettivamente nell’articolo intitolato significativamente Requiem per il cinema, che scrisse nell’agosto 1989 dopo aver visto, in una proiezione privata, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, che si era a un certo punto sentito tradito da un cinema «diventato altra cosa», prodotto di consumo per «masse miseramente “bisognose”», un modo per realizzare un qualcosa che appaia «parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia». Non è una posizione snobistica, è la constatazione che il cinema inventivo, libero, capace di offrire conoscenza con un linguaggio diverso da quello delle altre forme d’arte non esisteva più ai suoi occhi, mentre la letteratura conservava una capacità di interpretare il mondo più consona al suo modo di vedere le cose. E non si pensi che sia la tipica laudatio temporis acti del letterato anziano: nell’89 non fa che ribadire una convinzione maturata da anni: se Sciascia è stato inattuale (e non è stato inattuale), lo è stato sempre. Una considerazione sul fatto se il bilancio di dare-avere fra letteratura e cinema fosse tutto a vantaggio della prima la rintracciamo già nel 1965, quando in risposta a un questionario sulle novità cinematografiche europee, che spaziava dal confronto fra Bergman e Antonioni all’impatto del Vangelo secondo Matteo sul dialogo fra comunisti e cattolici, esordì dichiarando «non c’è film, per quanto buono, che valga un libro anche mediocre». Che è ancora più tranchant rispetto alla formula offerta proprio a Tornatore in un’intervista nel 1982 (pubblicata sul «Messaggero» solo nel 1996) «da un'opera grande viene fuori un film mediocre e da un libro mediocre può venir fuori un grande film». Amava il cinema della sua giovinezza, e massimamente il cinema muto, mentre il ‘cinema nuovo’, che è stato decisivo nella strutturazione del nostro immaginario, gli diceva poco. La televisione addirittura nulla.
Quando tra i componimenti di Field Work (1979) il poeta Seamus Heaney interroga la Sibilla chiedendole che ne sarà di noi, del destino dell’uomo, del futuro dell’umanità, l’antica veggente gli risponde con versi inaspettatamente chiari: «La mia gente pensa ai soldi/ e parla del tempo. Il suo futuro è cullato da piattaforme petrolifere/ su singoli e avidi steli…».
È certo indicativo che la Sibilla, nel XX secolo, dopo anni e anni di misteri ed enigmi, abbia cominciato a parlare del futuro con chiarezza e precisione. Che abbia individuato le cause dell’impoverimento umano e del disastro ambientale con riferimenti precisi, sotto gli occhi di tutti: l’ossessione per il denaro, l’estenuante corsa produttiva, la sconsiderata estrazione del petrolio. È come se l’avvenire, mai come oggi, si mostrasse continuamente di fronte a noi con tutta la sua violenza, ma la nostra risposta fosse sempre una irragionevole negazione. Come se il rumore bianco della catastrofe potesse essere ignorato o contrastato dal nostro ostinato silenzio.
La poesia di Heaney termina così:
Il suolo su cui abbiamo posato l’orecchio così a lungo
è scorticato e calloso, e nelle sue interiora
s’è accampato un empio auspicio.
La nostra isola è piena di rumori sconsolati. (trad. M. Sonzogni)
Ecco, questi «rumori sconsolati», sembra che siano stati intercettati già qualche anno prima, nel 1976, anche dallo scrittore italiano Carlo Cassola nel suo saggio Il gigante cieco (da poco ripubblicato da Minimum Fax). Un’opera che potrebbe apparire, a una prima lettura, di inquietante lungimiranza, ma che in realtà possiede un dono di gran lunga maggiore della semplice lungimiranza, e questo dono è la concreta visione della realtà. Cassola si accorge del mondo che ha attorno, e riesce a intuire la disastrosa circostanza storica in cui si trovava, e in cui ci troviamo noi oggi, perché guarda al mondo con gli stessi occhi della Sibilla di Heaney, con la stessa sincerità e preoccupazione. Cassola decide di non ignorare che l’umanità sta andando incontro al proprio annientamento e allora si oppone a quell’ostinato e generale silenzio e comincia a scriverne con lucido furore: «L’umanità cammina verso il proprio annientamento: non dovremmo tentare di impedirlo? Non dovremmo prenderlo per un braccio, questo gigante cieco, e indurlo a cambiare direzione? Sarebbe un forzargli la mano, certo: ma quando mai la politica è stata qualcosa di diverso?».
Ritorneremo dopo sull’affascinante immagine dell’umanità vista come «gigante cieco», per il momento ci preme riflettere sull’ultimo interrogativo dell’autore della Ragazza di Bube: qual è il ruolo della politica nell’impedire che l’umanità si distrugga con le sue mani?
Cassola sottolinea un preoccupante paradosso: nella storia dell’uomo, l’umanità non è mai stata tanto intelligente, non ha mai disposto di un progresso tecnologico, culturale, economico, civile, tanto grande; eppure, allo stesso tempo, nella sua politica, nell’amministrazione di questo enorme patrimonio tecnologico, culturale, economico, civile, non è mai cambiato nulla: «Gli uomini del ventesimo secolo non sono selvaggi che si battono con le lance e le frecce o belve che si battono con i sassi e i bastoni; sono selvaggi e belve che hanno a disposizione le armi micidiali fabbricate dall’intelligenza. Giacché civile è diventata solo l’intelligenza; la politica, quanto meno la politica estera, è rimasta barbara». L’inconciliabilità del binomio politica e intelligenza è il punto cruciale su cui si basa qualsiasi nostra riflessione sul domani: in che modo queste due realtà possono essere risanate, riportate a unità? Dal momento che l’enorme progresso a nostra disposizione è «cieco» senza lo sguardo della politica; e viceversa, la politica non può pensare di non prendere in considerazione le implicazioni morali che quel tipo di progresso comporta.
Che fare, allora? Per Cassola, bisogna recuperare la proposta fatta da Platone 2400 anni fa e da Voltaire 200 anni fa, ovvero far gestire il potere ai filosofi e agli artisti, che sono, secondo alcuni, i filosofi del nostro tempo. «Di speculazione sono incapaci i politici ma sono incapaci anche i tecnocrati. Gli uni e gli altri sono disabituati a vedere le cose in grande. […] Chi è tutto preso dai problemi tattici, non riesce a pensare in termini strategici. Ciò di cui abbiamo bisogno è un pensiero che non corra dietro il piccolo ma vada dietro al grande».
A questo punto, l’immagine del gigante, acquista ancora più fascino e interesse. Perché pare richiamare quel vecchio adagio per cui saremmo, tutti noi, «nani sulle spalle dei giganti». La risposta di Cassola si tradurrebbe, in questa prospettiva, in una nuova scalata su quelle spalle, per allenare la vista alla grandezza, provare a pensare «in termini strategici». Per riuscire finalmente a scongiurare, una volta per tutte, l’ossessione per il denaro, l’estenuante corsa produttiva, la sconsiderata estrazione del petrolio, di cui parlava la Sibilla.
C’è solo un dubbio che ci assale. Soltanto un’esitazione ci trattiene dall’immediata ascensione: e se i giganti, sulle cui spalle noi nani abbiamo provato a salire in passato e oggi, fossero nel frattempo diventati ciechi? Se provando a salire adesso ci accorgessimo del vuoto nelle loro pupille, della loro incapacità a leggere il presente? La risposta di Cassola avrebbe bisogno di un’integrazione. Alla cecità dei giganti, dovremmo rispondere trovando nuovi giganti; anzi, il compito sarebbe più difficile, da nani dovremmo noi stessi diventare giganti, dovremmo trovare il coraggio per essere i giganti del futuro.
In effetti, all’inizio del suo vaticinio, la Sibilla aveva parlato a Heaney di una nostra metamorfosi: «Credo che la nostra stessa forma sia destinata a cambiare. / Cani in un assedio. Ricadute nei sauri. Formiche». Ma a volte anche la Sibilla guarda male da lontano.
Riferimenti
Seamus Heaney, Poesie, Meridiani Mondadori, Milano 2016.
Carlo Cassola, Il gigante cieco, Minimum Fax, Roma 2021.
Leggendo il nuovo libro di Antonella Anedda, Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola (Chiarelettere, 2021), scritto con Elisa Biagini e curato da Riccardo Donati, mi torna in mente un breve passaggio del discorso tenuto dal poeta Ghiorgos Seferis nel 1963, quando gli venne conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Seferis disse:«La poesia affonda le sue radici nel respiro umano – e che sarebbe di noi, se il nostro respiro venisse meno? È un atto di fede – e Dio solo sa se i nostri mali peggiori non li dobbiamo alla mancanza di fede» (trad. M. Caracausi). Risulta immediata, quasi naturale, l’associazione tra ossigeno e respiro per figurarsi la poesia: l’idea di immaginare la poesia come chimica e pratica, «atto di fede» per abitare il presente.
Per questo motivo, Antonella, vorrei chiederle innanzitutto cosa pensa di questa relazione poetica, di respiro e ossigeno, di chimica e pratica. Ma soprattutto mi interessa chiederle: quanta fede abbiamo oggi in questo respiro/ossigeno, in questo “credo”?
Alla parola fede preferisco fiducia e alla parola credo preferisco pensiero. Condivido con gli altri autori di questo libro, Elisa Biagini e Riccardo Donati, la parola respiro, ma anche in questo caso come qualcosa di profondamente naturale che riguarda tutti: esseri umani e animali e piante. Forse addirittura la poesia è in quel minimo spazio tra respiro e respiro. Più che di un credo la poesia si nutre di un “eppure”, nonostante tutto c’è, sopravvive. Nonostante tutto come scrive un poeta che amo molto, Marianne Moore, a leggerla con un’attenzione vi si scopre uno spazio per l’autentico.
Nelle settimane passate molti sono rimasti travolti dalla voce della poetessa Amanda Gorman, che ha letto una sua composizione durante l’Inauguration Day del nuovo presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Tra gli aspetti che più hanno colpito l’uditorio internazionale, c’è stato l’uso del pronome noi: questa pronuncia plurale dei suoi versi sembrava davvero creare, progettare una comunità, una comunità americana, una comunità umana. Nel vostro libro, lei ed Elisa Biagini accennate alla poesia come metodo attraverso cui riconoscersi e creare comunità. Quindi, mi domando, quanto è difficile confrontarsi col pronome noi in poesia? E come, e in che misura, la poesia edifica comunità?
Non sono sicura che crei una comunità. In questo forse sono meno ottimista di Elisa Biagini e Riccardo Donati, eppure …eppure. Una poesia può essere un modo inaudito, non convenzionale per leggere la realtà. Agli attori che gli chiedevano indicazioni su come recitare Bertold Brecht diceva: «Non così, ma così». C’è uno scarto tra così e così. Possiamo usare qualsiasi pronome. Tutto dipende dal tono, da un elemento impercettibile, da un’architettura che calibra ragione ed emozione e riesce a dare una prospettiva inaspettata. È un equilibrio (difficile). I buoni sentimenti non bastano, non bastano le buone intenzioni. La banalità può fare breccia sul momento e la retorica apparentemente funzionare. Piace. Nulla di male ma siamo in un territorio diverso. La poesia è una forma molto particolare di conoscenza, non è sfogo, e non è neppure solo intelletto. Leggerla con attenzione può procurare piacere, è una forma molto particolare, di conoscenza.
Il sottotitolo del libro è Per un’ecologia della parola. È una formula che rapisce per la sua attualità e per la sua efficacia…
Volevamo riprendere l’etimologia del termine, pensare a uno spazio concreto della parola, un luogo dove è possibile stare. Volevamo anche suggerire una visione non antropocentrica della lettura delle cose. Un verso può essere una boccata d’ossigeno. In questo senso si può parlare di un’ecologia della parola. Abbiamo pensato questo titolo prima dell’ondata del virus, ma ora può indicare qualcosa di ulteriore nella difficoltà fisica: leggere, ascoltare parole non di plastica può avere senso.
Viviamo in una quotidianità in cui la parola è continuamente abusata, dai social network alle Camere del Parlamento. E della parola cominciamo davvero ad avere paura per la violenza da cui viene segnata. Questa sua natura ostile cosa comporta nella nostra società? Come possiamo reagire? Qual è il percorso che dobbiamo intraprendere per pensare, e attuare, una sana ecologia delle parole?
Forse cominciando a rispettare le parole? Pensarci su? Avere dubbi? Non affannarsi a commentare, interpretare, accusare spesso solo per mettersi in mostra. Sapere che le parole ostili hanno un suono, essere consapevoli che se le pronunciamo quel suono si amplifica, viene accolto, dilaga, può generare non solo banalità ma odio etc. Chi scrive, ovunque scriva, dovrebbe trovare un punto in cui la riflessione non esclude la frontalità. Una franchezza senza astio? Non so. Come vede le mie risposte sono domande a me stessa prima di tutto.
C’è una sua riflessione, all’interno di Poesia come ossigeno, su cui mi piacerebbe soffermarmi: «Il paesaggio snaturato dalla costruzione di centri commerciali ha delle ripercussioni sul linguaggio». Qual è il rapporto tra lingua/linguaggio, poesia e paesaggio? In che modo convivono o vengono in conflitto? In che modo si alimentano reciprocamente o reciprocamente perdono di forze?
Andrea Zanzotto, con cui si chiude l’antologia, descrive perfettamente soprattutto negli ultimi anni della sua poesia questo intreccio paesaggio-linguaggio. Il paesaggio detta il linguaggio. La storia scrive sulla terra, storia e geografia sono connesse profondamente tra loro. Un centro commerciale non è il male in assoluto ma lo è se sfigura un luogo per ubbidire solo al profitto e ha come conseguenza lo sfruttamento dei più deboli. Certo penso che questo si riverberi sul linguaggio. La bellezza non deve coincidere con una minoranza, deve essere di tutti come l’acqua.
Prima citava la bellissima antologia del volume, commentata da lei e da Elisa Biagini. In questi difficili mesi di lockdown, su quali testi le è capitato di ritornare?
Sono tornata ai classici. Rileggere Alcmane, Saffo mi dà gioia, i loro paesaggi, la notte, il meleto, il mare. Nel mese in cui ho avuto il Covid mi è capitato di rileggere Spinoza. Perché? Perché non è innamorato né della morte né di se stesso, mi mette di buonumore. Certo non era affetto da quella paura di perdere un’occasione a cui oggi si dà il nome di FOMO (fear of missing out) ma che c’è sempre stata. Prima ho parlato di parole di plastica: mi riferivo a un libro che ho riletto, scritto anni fa ma molto attuale: Parole di plastica di Uwe Porksen curato da Rocco Ronchi, un filosofo amico (e vivo).
Un’ultima domanda. Nel libro ripetete più volte che la poesia non salva. Ma confidare nella poesia, come diceva Seferis, in un certo senso, non significa credere nella possibilità di un risanamento, di una ricucitura tra sé e il mondo?
Forse. Si può provare (non è affatto facile) di volta in volta a rammendare. Sembra difficile, come per la poesia, eppure. Forse nella consapevolezza della nostra vulnerabilità è inscritta già una possibilità di risanamento. Siamo mortali mortalmente spaventati.
«Ma l’acqua passa e gira e il colore poi stinge / Cos’è che mi respinge e che m’attira?». Questo dubbio così suggestivo è il refrain di una famosa canzone di Francesco Guccini, Acque, contenuta nel disco Parnassius Guccinii. La suggestione accresce se questo dubbio viene immerso all’interno del testo della canzone, che potrebbe essere definita a tutti gli effetti una vera e propria “fenomenologia dell’acqua”.
Guccini, infatti, sembra che voglia provare a descrivere le tante trasformazioni dell’acqua che viviamo nella nostra quotidianità: l’acqua della pioggia e del fango, l’acqua che beviamo per dissetarci, quella che scorre come lacrime sulle nostre guance, l’acqua dei fiumi e dei mari, l’acqua che riempie pozzi e pozzanghere. Anche se ci sembra di incontrarla in aspetti, circostanze e contesti diversi, è sempre la stessa acqua, imperturbabile e indifferente al nostro stupore, alle nostre gioie e ai nostri dolori.
In realtà, il dubbio da cui siamo partiti è una variazione del refrain di Guccini, è un interrogativo posto al centro della canzone, in cui il cantante di Pavana prova a chiedersi la ragione del suo sconforto, quella disillusione nata dalla consapevolezza che l’acqua, quella che incontriamo ogni giorno, che ci bagna e ci sporca, è molto lontana dal simbolo di purezza e di salvezza a cui ci hanno sempre abituato. «Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente / di gente e me o di quest’aria bassa». È questo il ritornello principale, che apre e chiude il brano.
Potrebbe essere scolasticamente letta come un’idea leopardiana della Natura: un’entità all’apparenza prossima e comprensiva, ma in fondo insensibile. Un elemento onnipresente, ma senz’anima. Su cui non possiamo fare altro che proiettare le nostre ansie di uomini e la nostra facile retorica escatologica.
Ma nonostante lo sconforto, ci resta la sua domanda. Dell’acqua, cos’è che ancora ci respinge e ci attira?
Solo due anni fa l’Academy ha premiato con l’Oscar per il miglior film The shape of water (‘La forma dell’acqua’) di Guillermo del Toro. Una storia d’amore tra una donna affetta da mutismo, Elisa Esposito, e un uomo anfibio che ci riporta a riflettere sulle possibilità semantiche dell’acqua: nella relazione tra Elisa e l’uomo anfibio, nessuno di loro due è capace di parlare; l’acqua allora si trasforma in una sorta di lingua comune, di linguaggio universale, di spazio in cui potersi incontrare, capire, condividere le proprie necessità, i bisogni. L’acqua, in quell’occasione, costituisce la matrice essenziale per la nascita di una comunione, di un’intesa, di una comunità. E il titolo, The shape of water, non si riferisce, quindi, alla capacità dell’acqua di adattarsi a un recipiente, ma paradossalmente di riuscire essa stessa a dare forma a quel recipiente, a quello spazio.
Ma se proviamo a pensarci, è sempre stato così. Acqua è sinonimo di comunità, perché là dove c’è una fonte d’acqua, c’è una comunità. Attorno all’acqua sono nati i primi centri urbani della Storia, dalla Mesopotamia all’Egitto: potremmo dire che l’acqua ha materialmente edificato la prima idea di città, cioè di luogo comune, di lingua comune, di impegno comune. Togliere l’acqua alle città non significa togliere soltanto una risorsa alimentare o energetica, vuol dire soprattutto privare le città del maggiore elemento aggregante.
A questo proposito, è importante segnalare un capitolo del nuovo romanzo di Giosuè Calaciura, Io sono Gesù (Sellerio, 2021), in cui lo scrittore palermitano racconta gli anni della vita di Gesù di Nazareth di cui i Vangeli non parlano, quella lunga e sconosciuta parentesi compresa tra i dodici e i trent’anni.
Calaciura immagina un lungo periodo di siccità nel villaggio. Una siccità contro cui Gesù e gli altri uomini provano a reagire partendo periodicamente per lunghe spedizioni alla ricerca di nuove fonti d’acqua. Ognuno in groppa al suo povero asino cerca di sfuggire a quella piaga collettiva, ma con le poche riserve d’acqua che si trovano di tanto in tanto a stento potrebbe dissetarsi una singola famiglia. Ogni uomo, compreso Gesù, ha trovato la sua personale, piccola fonte con cui spera di tirare avanti. Ecco, allora, che il primo sentimento che nasce dalla mancanza d’acqua è la diffidenza, la paura che gli altri possano impossessarsi di quella piccola pozza, che possano rubarla alla mia famiglia. Come la presenza d’acqua genera comunità, edifica città, la sua mancanza le disgrega, distrugge i centri urbani e separa i cittadini. Gesù e gli altri uomini cominceranno a fare dei giri improbabili per fare perdere le proprie tracce ed essere sicuri che nessuno li abbia seguiti in quel tragitto segreto per la propria salvezza.
Finora questo capitolo risulta essere perfettamente in sintonia con quella disillusione di Guccini, quell’acqua indifferente al dolore degli uomini che la inseguono disperatamente. Ma il capitolo non finisce qui. Una mattina Gesù, vinto dalla sete e dalla fatica, si sveglia e trova sua madre Maria sul patio di casa: ha sistemato lì una sedia e una bacinella d’acqua, custodita gelosamente; vuole tagliargli i capelli, restituire dignità al volto di suo figlio.
«Mia madre ha questa capacità di stupirmi col suo naturale, ingiustificato ottimismo. Ha dentro una speranza che riesce a ribaltare ogni sentimento infausto, ogni ipotesi di arresa all’annientamento, contro l’evidenza che le nostre forze sono insufficienti a combattere la ferocia della natura impazzita».
Che sia questo ottimismo la risposta al dubbio di Guccini? Che sia proprio questo naturale, e irragionevole, ottimismo quello che dell’acqua ci respinge e ci attira? L’ottimismo che nasce dal vedere, nel momento di massima crisi, una semplice bacinella d’acqua, la speranza di una rinascita, di una storia da ricominciare, nonostante tutte le difficoltà dell’arido presente. Forse basta una goccia di quelle Acque per tornare a credere che il mondo abbia ancora qualcosa da dirci.
Quando cominciamo a registrare la nostra conversazione con la dottoressa Paola Michelozzi, direttore dell’U.O.C. Epidemiologia Ambientale della Regione Lazio, in Italia le persone positive al Covid-19 sono più di 400 mila: dall’inizio della pandemia sono stati stimati più di due milioni di casi. La campagna vaccinale, però, è iniziata e già quasi un milione di persone ha ricevuto le due dosi necessarie del vaccino. Con la dottoressa Michelozzi parliamo della situazione epidemica italiana a partire dallo studio sull’eccesso di mortalità nel 2020, che ha condotto insieme a Francesca de’ Donato, Matteo Scortichini, Manuela De Sario, Fiammetta Noccioli e Marina Davoli.
Dottoressa, perché nell’indagine sugli effetti del Coronavirus è così importante riflettere sulla mortalità totale del 2020?
Fin dall’inizio della pandemia, abbiamo monitorato la mortalità totale e l’eccesso di mortalità totale perché secondo noi l’informazione sui decessi per Covid-19 e l’eccesso di mortalità totale sono due indicatori che danno due informazioni diverse. Bisogna stare attenti. La mortalità, infatti, è un indicatore molto condizionato dalla capacità del sistema di tracciare gli infetti, dal momento che i denominatori di questa misura sono appunto i casi che vengono identificati. Per questo ha una forte variabilità: i dati ci fanno vedere che la letalità, calcolata nella prima parte della pandemia al 10%, si riduce al 2% nella seconda parte.
Da cosa è dipeso?
Diciamo che non dipende dalla letalità del virus o dalla capacità del sistema di rispondere e di proteggere la popolazione; dipende piuttosto dal fatto che abbiamo gestito una popolazione più ampia: nella seconda ondata abbiamo avuto molti più casi non gravi, asintomatici, e quindi il denominatore cambia.
Invece l’eccesso di mortalità totale cosa misurerebbe?
L’eccesso di mortalità ci dà una misura che non dipende dalle capacità del sistema. Quindi ci permette di confrontare rispetto agli anni precedenti se, in concomitanza con l’epidemia di Covid-19, c’è stato un incremento della mortalità e di quanto rispetto ai cinque anni precedenti.
Valutando questi dati, a un anno dall’inizio della pandemia, possiamo sconfessare del tutto le posizioni di chi l’ha considerata «un’influenza» da tenere sotto controllo? È possibile sconfessare chi dice che sono pochissime le persone che muoiono di «solo» Covid-19?
Penso assolutamente di sì. Come accennavo, abbiamo fatto dei confronti con gli anni di alta mortalità e abbiamo visto che nel 2020 si è registrato un incremento di mortalità che probabilmente raggiunge e supera i 100 mila decessi in eccesso. Che è superiore rispetto al 2015 e 2017, anni nei quali si è osservato un incremento di mortalità. Credo che questo sia un dato molto rilevante. Adesso, facendo un confronto della mortalità nel 2020 con l’ultimo anno Istat disponibile, la mortalità che viene identificata come «mortalità per Covid-19» (stiamo parlando della letalità dei casi identificati di decessi degli infetti) è la quarta o la terza causa di decesso in Italia. Che questo sia un effetto simile a quello di altre epidemie influenzali, diciamo che non regge.
Molti sottolineano che i decessi sarebbero determinati, per la maggior parte, da altre cause: l’età, altre malattie, ad esempio.
È un’infezione che dà delle complicanze gravi, l’abbiamo visto nelle fasce d’età più avanzante. Non conosciamo ancora i determinanti della letalità. Ma abbiamo visto anche che ci sono casi, più rari in verità, di persone giovani che muoiono per questa infezione. Poi ci sono sicuramente i fattori demografici e, come ricordava lei, le condizioni di salute e quindi la presenza di malattie croniche. C’è la possibilità che una parte di questi decessi, che vengono definiti come «decessi per Covid-19», sia composta da persone i cui mali presentavano una gravità tale che ci sarebbe potuto essere il decesso a breve, e hanno subito l’effetto ulteriore dell’epidemia. Però c’è anche una quota di casi per i quali il momento del decesso sarebbe stato molto più lontano.
Su questo aspetto, come si pone la vostra indagine sull’eccesso di mortalità?
Dicevamo che l’infezione è sicuramente un fattore aggravante per una fascia di popolazione, ma non possiamo dire che i decessi per Covid-19 sono decessi che si sarebbero verificati comunque. Su questo punto, la risposta la dà proprio lo studio sull’eccesso di mortalità: un eccesso di mortalità che è enormemente maggiore nel 2020 rispetto agli anni precedenti e che quindi è dovuto a componenti legate direttamente al virus e forse, in parte, a fattori indiretti.
Sui fattori indiretti vorrei che ci soffermassimo dopo. Prima però terrei a chiederle di un dato presente nel vostro studio, che si può leggere sul sito di «Scienza in rete»: a causa del Covid-19, la speranza di vita degli italiani alla nascita si sarebbe ridotta di un anno…
È un dato che viene elaborato dai demografi. E io ritengo che questa sia una sottostima. Nel senso che ci sono altri studi, che sono stati pubblicati, che mostrano come questo dato potrebbe anche essere più elevato rispetto a quello che abbiamo riportato nell’articolo. Quello che riportiamo, infatti, è una prima stima di un dato medio per tutto il Paese; ma, come sappiamo, ci sono state delle aree, soprattutto le regioni del Nord, molto più colpite, con un elevatissimo eccesso di mortalità. È stato stimato che in queste regioni, e in alcune province, la speranza di vita si sarebbe ridotta anche di tre, quattro, cinque anni. Sono dei dati che dovranno essere approfonditi: non è uniforme per tutto il Paese, perché la mortalità è stata molto diversa.
Ritornando adesso agli effetti indiretti, ci potrebbe chiarire cosa si intende per «indiretti»?
Gli effetti indiretti sono associati alla capacità del sistema di reggere l’impatto dell’epidemia Covid-19. Nei momenti più critici, nei picchi epidemici, abbiamo notato un incremento forte della mortalità e questo è dovuto in parte alla capacità del sistema sanitario di rispondere alla crisi e ai suoi effetti indiretti. Ad esempio: sono stati rimandati interventi già programmati; la popolazione si è rivolta di meno al servizio sanitario per paura dell’infezione.
Perché succede questo?
Se un sistema sanitario è commisurato per rispondere alla normalità, perché noi lo sappiamo che il nostro sistema sanitario ha ricevuto sempre molti tagli di finanziamenti, quando ci troviamo davanti a una situazione eccezionale come quella dell’epidemia Covid-19, il sistema può non reggere. Sicuramente ci saranno stati degli adattamenti nel corso del tempo, quindi sarà importante studiare come sono variati gli indicatori di assistenza tra la prima e la seconda ondata. Questo è un dato che secondo me darà delle informazioni fondamentali sui possibili effetti indiretti dell’epidemia di Coronavirus.
È una conseguenza del Coronavirus su cui forse si riflette troppo poco.
Pensi poi che molti pazienti, soprattutto nella prima ondata, sono stati gestiti a domicilio. Ecco, noi abbiamo visto un incremento di mortalità non solo nei pazienti ospedalizzati, ma anche nei pazienti a domicilio. Allora, sottolineiamo questo punto: c’è stato un problema non solo dell’assistenza ospedaliera, ma anche dell’assistenza territoriale. Un problema molto complesso. Nella seconda fase della pandemia, l’assistenza territoriale si è più organizzata e questo fattore può avere avuto un impatto nel ridurre la mortalità.
Oggi in Italia sono stati somministrati oltre due milioni di vaccini. In che modo il vostro studio sulla mortalità potrebbe guidare la campagna vaccinale?
La campagna vaccinale, come sappiamo, presenta alcune criticità: innanzitutto, la disponibilità dei vaccini e poi l’allungamento dei tempi di somministrazione. A cui si aggiunge il problema delle varianti del virus. Quello che noi abbiamo visto è che c’è una forte correlazione tra il rischio dell’età e il rischio dei decessi, per cui è giusto che siano vaccinati prima il personale sanitario e la popolazione ultraottantenne.
Ci sono fasce della popolazione più esposte durante questa campagna?
Sì, l’aspetto decisamente più rilevante forse è il ritardo che ci potrà essere nella vaccinazione delle classi anziane intermedie, penso alla popolazione tra i 65 e gli 80 anni, in cui noi abbiamo osservato un incremento di mortalità importante. Loro verranno vaccinati molto tardi, perché adesso c’è da vaccinare tutta la popolazione ultraottantenne, che sono quattro milioni e mezzo di soggetti in Italia. E non potranno nemmeno disporre del nuovo vaccino, AstraZeneca, che è indicato per una fascia di popolazione più giovane. Penso, allora, che la criticità sia proprio questa fascia di popolazione anziana dai 65 fino agli 80 anni.
Di cosa parliamo quando parliamo di cibo? Quando leggiamo le ricette di alcune pietanze siciliane nei romanzidi Andrea Camilleri, oppure quando vediamo le settimanali puntate di Masterchef, a che tipo di rappresentazione del cibo assistiamo?
Sarebbe insufficiente, infatti, pensare che siano soltanto intermezzi letterari o passatempi televisivi. C’è molto di più dietro questo tipo di “narrazione culinaria” che ormai fa parte della nostra quotidianità. C’è una traccia della nostra identità storica e culturale, che va al di là della storia e della cultura legate direttamente ai piatti, e interessa contesti di certo più vasti. E forse è proprio questa traccia uno degli elementi fondamentali per il successo di certe opere letterarie e di certi programmi televisivi.
Un prototipo di questa narrazione culinaria è da attribuire, ad esempio, ai romanzi di Andrea Camilleri a cui prima facevamo riferimento. In particolare, ai romanzi che hanno per protagonista il commissario Salvo Montalbano. La loro fama è stata determinata da tanti fattori, ma tra questi c’è sicuramente la cucina. Spesso si incontrano passaggi come: «Più che una nuova ricetta per cucinare i polipetti, l’invenzione della signora Elisa, la moglie del questore, sembrò al palato di Montalbano una vera ispirazione divina». Che sono pagine in cui l’autore si diverte a scrivere di tutte le debolezze gastronomiche dell’integerrimo poliziotto di Vigata. Per prenderlo un po’ in giro e, nel frattempo, avvicinarlo al lettore.
Eppure, l’espediente delle divagazioni a tavola non si limita a questo; a Camilleri interessa soprattutto un altro aspetto, un particolare meno evidente, a cui però possiamo facilmente risalire rivelando la fonte della precedente citazione. Quell’«ispirazione divina» si trova all’inizio del capitolo Quindici della Forma dell’acqua, il primo romanzo in cui appare Montalbano, pubblicato nel 1994 dalla casa editrice palermitana Sellerio. La data è molto importante, in questa riflessione. Ci troviamo a due anni dalle Stragi di Capaci e Via d’Amelio, nel pieno di una terribile stagione terroristica, in un momento della storia del nostro Paese in cui la parola “Sicilia” è diventata il primo sinonimo della parola “Mafia”.
Ecco, a Camilleri interessa innanzitutto confutare questa equivalenza. E alla richiesta del mondo editoriale italiano che desidera portare in librerie romanzi “tipo-Sciascia”, dove i mafiosi vincono e il malaffare regna, oppone il racconto di una provincia siciliana che non è dominata dalla mafia, in cui la giustizia trionfa (almeno il più delle volte), e in cui è possibile mangiare tranquillamente un piatto di “pasta ‘ncasciata”.
Beninteso, nel 1994 l’operazione di Camilleri non è negare l’esistenza mafia, che è una realtà contro cui strenuamente combatte; ma per combatterla più efficacemente, il suo intento è creare unimmaginario alternativo della Sicilia, che non sia schiacciato dal pregiudizio criminale. Perciò la narrazione del cibo è decisiva: perché ricostruisce un’idea positiva di un luogo considerato vinto dal male, irredimibile. Quando Camilleri indugia sul cibo, vuole provare a riabilitare un’idea di terra accogliente, prospera e generosa.
Se ci pensiamo, il proposito di utilizzare il cibo per trasmettere un’immagine diversa, migliore, del nostro presente, fa parte anche del sistema narrativo di Masterchef. Giunto alla sua decima edizione, il programma nato da un format americano prevede che una ventina di cuochi amatoriali si sfidi per raggiungere l’ambito titolo di “masterchef”, traguardo che darebbe a uno di loro la possibilità di pubblicare il primo libro di ricette e di aprire, grazie a un ingente premio in denaro, il ristorante dei propri sogni.
È interessante sottolineare che Masterchef, attraverso la competizione culinaria, abbia sempre avuto l’obiettivo di mostrare l’Italia come una nazione plurale, aperta e multiculturale. Fin dalla prima edizione, le cucine del programma hanno avuto come protagonisti donne e uomini, giovani e anziani, operai e imprenditori, eterosessuali e LGBTQ, immigrati, italiani di seconda o terza generazione: tutti uniti dalla convinzione che il cibo e la cucina siano davvero i principi aggreganti del nostro Paese, lenti attraverso cui leggerlo nella sua molteplicità. E anche se nelle camere del Parlamento la corsa verso i diritti civili di alcune minoranze continua a procedere con passo incerto, negli studi di Masterchef quei diritti sembrano già raggiunti. È un motivo di ispirazione, un sogno.
Risulta chiaro adesso che le puntate di Masterchef non siano solo delle avvincenti gare davanti ai fornelli. Il loro spirito è, piuttosto, quello di inseguire quel sogno di pluralità, e quindi di scrivere una sorta di romanzo popolare a puntate, un’epopea condivisa che racconti mediante la cura per il cibo, la cura per il nostro vivere in comunità. Che descriva quanto siano legate la riflessione sul cibo e la riflessione sull’alterità.
Concentrarsi su questa narrazione culinaria, come l’abbiamo chiamata all’inizio, ci permette di capire una parte del successo della saga di Montalbano e del programma di Masterchef, ma specialmente ci aiuta a comprendere con più attenzione “la pancia del Paese”.
Esattamente quattro anni fa, nel giorno dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, negli Stati Uniti si verificò un curioso fenomeno editoriale: le vendite del romanzo Millenovecentottantaquattro di George Orwell ebbero un inaspettato incremento del 9,5%. E nei mesi successivi l’attenzione degli americani nei confronti di Orwell e del suo libro più famoso non accennò a diminuire, anzi nella sola settimana tra il 5 e il 12 febbraio 2017 vennero acquistate quasi 35 mila copie e la tragica storia di Winston Smith raggiunse il primo posto nella classifica di Amazon dei libri più venduti nel Paese.
Tra i due eventi, l’elezione di Trump e l’interesse per Millenovecentottantaquattro, venne subito segnalato dai giornali un evidente legame, come se le vicende raccontate nella distopia di Orwell (la cui prima pubblicazione risaliva al 1949) avessero preconizzato l’arrivo del tycoon nelle vesti di «Big Brother» e, quindi, potessero offrire adesso un modo per leggere il futuro, e soprattutto i rischi, del suo mandato presidenziale.
È importante, allora, quattro anni dopo, a settantuno anni dalla morte di George Orwell (1903-1950) e con Joe Biden nuovo presidente degli Stati Uniti, ritornare a riflettere su quell’impulso, su quell’esigenza che spinse centinaia di migliaia di americani a leggere o a voler leggere Millenovecentottantaquattro. Sottolineiamo “voler leggere” perché l’effettiva lettura del romanzo è un aspetto marginale in questa riflessione; quello che conta è definire una nostra attitudine ricorrente: al ciclico presentarsi delle catastrofi (un leader dispotico, un virus sconosciuto, un disastro ambientale), è divenuto comune il bisogno di confronto, di accostamento tra la realtà apocalittica che stiamo iniziando a vivere e quei libri, o quei film, che sembrano averla predetta.
Per esempio, l’anno scorso, all’inizio della pandemia da Coronavirus, il saggio di David Quammen sui virus e il salto di specie, Spillover (Adelphi, 2014), risultò il bestseller del momento. In una situazione di assoluto smarrimento, la scrupolosa indagine del reporter statunitense appariva l’unico appiglio per riuscire a decifrare quello che stava accadendo e prendere coscienza del pericolo a cui andavamo incontro. Un sentimento molto simile avrà sicuramente attraversato gli elettori increduli della vittoria di Trump. Quali saranno le prime mosse di un capo di Stato accecato da idee sovraniste e xenofobe? Bisognerà temere per un possibile ricorso agli ordigni nucleari? Costruirà davvero un ciclopico muro con il Messico?
Quando una catastrofe è appena cominciata, porre questo tipo di domande è ragionevole, ma per trovare delle risposte bisognerebbe consultare una sibilla. Ed è proprio in queste circostanze, tutte le volte che desidereremmo consultare una sibilla, che di fronte ai nostri occhi ritornano le copertine di libri come Spillover o Millenovecentottantaquattro. Perché la loro funzione, ai nostri tempi, si sovrappone a quella che le sibille avevano nel mondo antico. Predire l’avvenire? Certo che no. Le sibille non vaticinavano l’avvenire, non rivelavano mai con parole chiare o immagini esatte cosa sarebbe successo ai viandanti che le andavano a trovare. Avevano una funzione diversa, il loro compito era “sfatalizzare il futuro” ovvero disinnescare le inevitabili e irrimediabili paure che il futuro suscitava nei viandanti.
Basta immaginarlo, il futuro, perché la sua morsa cominci a pesare di meno sui nostri animi: più ne parliamo, ne leggiamo, più ce lo figuriamo, più ci sembra di possederlo, più l’angoscia che ci attanaglia si riduce, il timore del pericolo imprevisto si affievolisce. Il panico non scompare mai del tutto, ma si attenua molto. È una sorta di medicamento legato alla parola: nell’antichità rifugiarci nelle frasi criptiche della Sibilla, e oggi nelle pagine di Millenovecentottantaquattro, ci dà l’opportunità di misurarci con ciò che non avremmo il coraggio di immaginare, con ciò che ci terrorizza sapere; ma nel momento in cui chiudiamo il libro, quel coraggio di immaginare è ormai un nostro possedimento, quel terrore di sapere è un terrore già superato e sconfitto. Sopravvivere alla parola significa sopravvivere alle nostre vite potenziali e a tutto ciò che virtualmente può succederci.
Sappiamo che può parere alquanto improbabile parlare di “sopravvivere alla parola”, quando Millenovecentottantaquattro è un romanzo che nega risolutamente la salvezza attraverso le parole. Ricordiamo tutti, infatti, il dialogo del capitolo cinque tra il protagonista Winston Smith e il filologo Syme, in cui viene descritto l’annientamento della persona attraverso il sistematico annientamento del linguaggio: «Le parole diminuiranno di anno in anno», dice Syme a Winston, «e il raggio di azione della coscienza ne risulterà sempre più ristretto». Eppure, se da settant’anni a questa parte continuiamo a ritornare sulle pagine di Orwell, un motivo ci sarà.
Se quelle pagine non agissero sulle ferite del presente come un rimedio omeopatico, forse Trump continuerebbe da presidente degli Stati Uniti a contrarre le parole e la verità con i suoi tweet. Se quelle pagine non rispondessero all’oscurità di questi anni con l’oscurità di un futuro ancora più incerto, forse non avremmo oggi alla Casa Bianca Joe Biden e Kamala Harris.
Forse sì o forse no. La pronuncia di quelle pagine è, e rimarrà, sibillina. Come quella delle sacerdotesse di Apollo.
George Orwell, Millenovecentottantaquattro, trad. Tommaso Pincio, Sellerio editore Palermo, 2021, pp. 456
All’inizio degli anni Ottanta, quando la RAI gli propose di recitare in televisione il ruolo di Napoleone nell’intervista immaginaria che lui stesso aveva scritto, Leonardo Sciascia si rifiutò. «Non è il mio mestiere», disse, «io non faccio l’attore».
Non fu la prima né l’ultima volta in cui Sciascia si trovò a ribadire chi non era e quale mestiere non praticava. Ecco perché, oggi che si celebrano i 100 anni della sua nascita (8 gennaio 1921) e si ricordano i 31 della sua morte (20 novembre 1989), accanto ai dovuti tributi è importante scrivere di quanti in Italia abbiano cercato di assegnargli sempre una nuova mansione, un nuovo lavoro al quale Sciascia si applicava a sua insaputa o suo malgrado. Farlo, ovvero dire chi Sciascia non era e quale mestiere non praticava, forse ci aiuterà a tracciare meglio il profilo di un uomo che per troppo tempo è stato largamente frainteso.
Per molti fu, anzi resta un mafiologo. Lo dimostra il fatto che il primo e spesso l’unico libro a cui viene associato sia Il giorno della civetta. Quando nel 2019 il ministero dell’Istruzione deve scegliere un brano dalla sua vastissima produzione per la prima prova di maturità, è da lì che attinge; quando il settimanale Robinson gli dedica il primo numero del 2021 lo apostrofa come «l’autore del Giorno della civetta». Che sia l’unico suo libro degno di nota? D’altronde, è il romanzo in cui don Mariano Arena snocciola la sua famosa teoria sulla tassonomia umana, che si dividerebbe tra «gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà». Una pagina che per Sciascia sarà una gabbia e uno stigma: il tentativo di entrare nella mentalità del boss viene subito letto come una sorta di farsa; persino Andrea Camilleri lo accusa di aver reso la mafia «simpatica».
E la gabbia e lo stigma si fanno ancora più opprimenti se consideriamo Il giorno della civetta per quello che davvero è stato e continua a essere, cioè un libro rivoluzionario. Come ricorda Matteo Collura, il maggiore biografo di Sciascia, viene scritto nel 1960 e pubblicato da Einaudi nel 1961. Ebbene, per l’insediamento della prima commissione parlamentare antimafia bisognerà aspettare il 1962. A quella commissione, nelle sue pagine Leonardo Sciascia offre già il metodo più efficace per riconoscere e combattere la mafia (e le mafie): seguire la bussola economica. Eppure, proprio queste tre date vengono sempre taciute e dimenticate.
Quindi, che sia stato uno scrittore che ha scritto anche di mafia è indubbio. Che la mafia abbia negli anni occupato il resto dei suoi studi e della sua scrittura, non è affatto vero. La mafiologia non è mai stato il suo mestiere.
Per molti altri fu, anzi resta un notevole giallista. Un giallista che riesce addirittura a provare l’irrealizzabilità di un giallo in Sicilia, in terra di mafia appunto. Come se l’anomalia sia la terra in cui l’investigazione si svolge e non il genere in sé.
Una prima risposta a questa posizione potrebbe essere l’epigrafe che Sciascia appone al suo libro, A ciascuno il suo (1966); anche stavolta si tratta di una negazione che ribadisce con forza il suo profilo intellettuale: «Ma non crediate che io stia per svelare un mistero o per scrivere un romanzo» (Poe, I delitti di rue Morgue). Contrariamente alla pratica di ogni buon giallista, a Sciascia non interessa sciogliere le trame che costruisce: non vuole trovare soluzioni ad alcun mistero. I suoi “investigatori” perdono costantemente, si lasciano ingannare dai loro antagonisti, sembrano suggerire che la verità sia una condizione irraggiungibile: e quindi, che la giustizia sia un ideale ultraumano, che sia una delle tante aberrazioni della ragione; una ragione convinta che nel mondo che abitiamo regni l’ordine. Ma a quest’ordine Sciascia non crede: trovare una soluzione, svelare un mistero, significherebbe cedere a una visione consolatrice dell’esistenza; ma per Sciascia le nostre esistenze, la Storia che insieme costruiscono, sono un rovello inintelligibile, una lingua su cui non è possibile articolare alcuna filologia.
Riflettiamoci, proviamo a fare un esempio: in A ciascuno il suo Sciascia fa morire nel generale disinteresse il professor Laurana, il solo personaggio del libro in grado di risolvere il caso. Adesso, per un versante la sua scelta gli dà modo di onorare e consacrarsi al «requiem per il giallo», inaugurato da Carlo Emilio Gadda e da Friedrich Dürrenmatt, autori a lui molti cari; ma da un altro punto di vista, questo non gli basta, non gli è sufficiente.
Infatti, nei lavori che seguiranno A ciascuno il suo, Sciascia vuole insistere soprattutto sulla seconda parte dell’epigrafe di Poe, «non crediate che io stia per scrivere un romanzo». Ed è proprio questo sotterraneo conflitto con la forma romanzo che gli permette di diventare protagonista di una delle esperienze letterarie più sperimentali del Novecento. Basta citare uno dei suoi capolavori, Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971).
Apparentemente lo scrittore racalmutese, attraverso la scrupolosa lettura degli atti d’inchiesta, ritorna a investigare attorno a un cold case, la misteriosa morte di Raymond Roussel a Palermo: il poeta francese era stato ritrovato senza vita il 14 luglio 1933 nella sua stanza d’albergo, all’Hotel des Palmes. Il lettore, però, si accorge presto che la morte di Roussel e le nuove indagini di Sciascia sono soltanto un pretesto. Ancora una volta, la sua narrazione complica la storia, piuttosto che semplificarla. Aggiunge domande, dubbi; sottolinea spettrali coincidenze.
Ma perché, allora, Sciascia si avventura in questo racconto, se non vuole risolverlo? Perché desidera disordinare le carte, se non vuole formulare per esse un ordine nuovo? A questo nostro ricorrente interrogativo l’autore replica alla fine del piccolo volume Adelphi: «Ma forse questi punti oscuri che vengono fuori dalle carte, dai ricordi, apparivano, nell’immediatezza dei fatti, del tutto probabili e spiegabili. I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da “atti relativi” diventano, per così dire, “atti assoluti”».
È una dichiarazione di poetica, in fondo. Sciascia non vuole scrivere gialli o romanzi che indaghino le anomalie del giallo. Non vuole nemmeno scrivere romanzi, il rispetto delle forme non lo preoccupa. Però, ogni volta che si mette davanti alla macchina da scrivere gli preme constatare questa singolare circostanza: ridurre una vita a scrittura significa sempre evocare, rivelare i fantasmi che agitano quella vita. E cosa sono per Sciascia quei fantasmi se non le aberrazioni della ragione di cui parlavamo prima? Il desiderio di ordine, di giustizia, di verità: spettri di cui la letteratura di Sciascia è sempre stata medium inascoltato.
Potremmo continuare a enumerare tutte le prestigiose definizioni che nel tempo sono state affibbiate a Sciascia ‒ sicilianista, polemista, eretico ‒, ma ora è necessario avviarci alla conclusione della nostra riflessione. Perciò, dobbiamo ritracciare di nuovo l’intervista immaginaria a Napoleone (oggi pubblicata dall’editore Henry Beyle).
Nelle ultime battute il generale corso ricorda che il signor Jean-Baptiste Pérès, bibliotecario di Agen, era certo che lui – Napoleone Bonaparte – non fosse mai esistito, che in realtà fosse espressione di un antico mito del sole. E contro ogni evidenza storica, scrisse un pamphlet per esporre sagacemente le sue prove.
Noi vorremmo riuscire a supporre la stessa cosa per Sciascia. A 100 anni dalla sua nascita, contro ogni evidenza storica, desideriamo credere che Leonardo Sciascia non sia mai esistito, che la sua opera in realtà sia espressione di un antico mito della ragione in cui più nessuno si riconosce. Noi abbiamo bisogno di credere che Leonardo Sciascia non sia esistito: perché la sua esistenza è la prova che il nostro Paese per 68 anni, dal 1921 al 1989, ha avuto una coscienza critica, ha posseduto «un’idea eroica della ragione che, sebbene non ne esalti – anzi la escluda – la funzione pratica, è tuttavia sufficiente a dirci quale debba essere il nostro posto di combattimento».
Di quella coscienza critica, di quell’idea di ragione, del nostro posto di combattimento, ci sentiamo tristemente esuli.
Lo facciamo spesso senza accorgercene, ci viene spontaneo, immediato. Alle persone che abbiamo accanto, alle esperienze che viviamo, finiamo sempre per dare l’aspetto di un elemento della natura, ci ritroviamo inevitabilmente ad accostarle a una particolare stagione o a un particolare clima. «Sei il mio sole», diciamo all’uomo o alla donna che ci rende felici, illuminandoci le giornate; «è un tipo freddo», è un modo per indicare un uomo insensibile, scostante; «anche questo inverno passerà», lo ripetiamo per incoraggiarci quando attraversiamo un periodo difficile, non necessariamente in inverno.
Si potrebbe tranquillamente argomentare che è una fisiologica inclinazione letteraria, o meglio poetica. Grazie alla famiglia, alla scuola, alla pubblicità ci risultano tanto familiari versi come «Dovrei paragonarti a un giorno d’estate?» che abbiamo finito per farli nostri; li abbiamo resi strumenti per sintetizzare il mondo più facilmente, per comprenderlo meglio. La natura, infatti, è una dimensione che tutti pensiamo di conoscere, di dominare, di saper gestire. La natura, le stagioni, il clima sono, almeno in apparenza, materie chiare e comprensibili. Quale persona non è in grado di riconoscere i segni della primavera o il rumore di un tuono?
Eppure, questa comune argomentazione non convince molto Louise Glück, quest’anno vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura, che alla coincidenza tra essere umano e natura dedica il suo libro Averno (il Saggiatore). Il suo approccio al tema è genealogico, cioè prova a risalire al primo momento in cui per tutti noi la primavera è diventata l’infanzia e l’inverno la vecchiaia, la primavera è diventata simbolo di speranza e rinascita e l’inverno di rassegnazione e morte. E rispetto alle condizioni simboliche, della primavera dell’estate e dell’inverno, Glück introduce la domanda che sarà poi il motivo conduttore della sua raccolta di versi: che cos’è l’autunno? Se la primavera è la speranza e la rinascita, l’estate la vita che si afferma e sprigiona la sua forza, l’inverno la rassegnazione e la morte, che ruolo ha allora l’autunno all’interno delle nostre esistenze?
Ecco, per rispondere a queste domande la poetessa americana decide di andare indietro nel tempo, tanto indietro da sconfinare nel mito, ritrovare i racconti greci sulla nascita delle stagioni e consultare il fantasma di Persefone «l’errante», l’anima che inconsapevolmente ha dato origine al ciclo della natura, contesa di continuo dalla madre Demetra (ovvero la Terra, la Vita) e dall’amante Ade (ovvero gli Inferi, la Morte). Il suo inesausto errare dall’una all’altro, da un mondo all’altro, dalla vita alla morte, ci assicura ogni anno la rituale trasformazione dell’ambiente e conforta il nostro immaginario: quando vive negli Inferi, qui sulla terra ogni cosa diventa fredda e sterile, arriva l’inverno; quando si ricongiunge alla madre, i campi rinascono, torna la primavera.
Nevica sulla terra; il vento freddo dice
Persefone sta facendo sesso all’inferno.
A differenza di tutti, lei non sa
cosa sia l’inverno, solo che
lei ne è causa.
Un immaginario facile da intuire e utilizzare, dicevamo, ma non soltanto: quello di Persefone è un immaginario rassicurante, perché offre a ciascuno di noi la possibilità, la speranza, di pensare che dopo l’inverno ci sia sempre la primavera, che non esista ferita che il tempo non curi, che la nostra natura – la natura della realtà che ci circonda, la natura umana – possegga la capacità di guarire da sola. Ed è a questo punto, quando pensiamo di essere parte della natura rassicurante e guaritrice, che Louise Glück apre sotto i nostri piedi la voragine dell’Averno. Perché tutti riflettono sugli effetti dell’erranza - Persefone entra ed esce dagli Inferi, dando vita all’inverno e alla primavera -, ma nessuno presta attenzione all’erranza stessa, a questo incessante transitare di Persefone avanti e indietro dalla esistenza alla non-esistenza, un viaggio attraverso un tempo sospeso e uno spazio sospeso per approdare nell’uno o nell’altro regno: ebbene, il regno di mezzo che attraversa, l’interregno tra la vita e la morte, tra la primavera e l’inverno, è il suo e il nostro autunno, è il suo e il nostro Averno. L’autunno, quindi l’Averno, non è che il tempo e lo spazio che percorriamo ogni volta che ci sentiamo in bilico tra la vita e la non-vita, tra la speranza e la rassegnazione. L’Averno, quindi l’autunno, non è che una voragine, una ferita nella nostra anima, una traccia del passaggio di Persefone in ciascuno di noi, che ci ricorda non la felicità della vita o il silenzio della morte, ma la condizione di appartenere ad entrambe, alla vita e alla morte insieme. Come Persefone.
Dicono
che c'è una spaccatura nell'anima umana
che non fu costruita per appartenere
interamente alla vita. La terra
ci chiede di negare questa spaccatura, una minaccia
mascherata da suggerimento –
Louise Glück, adesso, ha un’ultima considerazione da avanzare. Nell’anima umana, scrive, c’è «una spaccatura» (rift), una frattura. E una frattura è uno strappo generato da una violenza, una lacerazione inflitta e sofferta. Ma se noi fossimo davvero parte di quella natura rassicurante e guaritrice, se noi fossimo «il giorno d’estate» o «il campo fiorito» di qualcuno, questa ferita non dovrebbe a un certo punto risanarsi? Perché se il campo fiorito va a fuoco, la primavera successiva ritornerà fertile. Per quale motivo non riusciamo a ricucire la ferita? Glück ci lascia questi versi:
La natura, si vede, non è come noi;
non ha un deposito di memorie.
Il campo non sviluppa una paura dei fiammiferi,
delle ragazze. Non ricorda
nemmeno i solchi. Viene ammazzato, viene bruciato,
e un anno dopo è di nuovo vivo
come se non fosse accaduto niente di insolito.
Il campo non ricorda, noi sì. Il campo può tornare a essere vergine, noi no. A renderci impossibile il sentirci parte della natura che ci circonda o ci sovrasta, delle stagioni che promettono rinascita, è la memoria, è la coscienza di essere stati feriti dal mondo, di portare con sé il proprio Averno. È questo ciò che ci condanna alla nostra umanità.
Alla fine del suo libro, Louise Glück propone una breve poesia dal titolo Telescopio. E dice che c’è un momento, dopo che togli l’occhio dal telescopio, che dimentichi dove sei:
Hai smesso di essere qui nel mondo.
Sei in un luogo diverso,
un luogo dove la vita umana non ha significato.
Non sei una creatura in un corpo.
Esisti come esistono le stelle,
partecipando alla loro immobilità, alla loro immensità.
Presto però ti accorgi, che sei di nuovo su una collina o nella tua stanza, e ti metti a smontare il telescopio. Ti rendi conto più tardi, «non che l’immagine è falsa/ ma la relazione è falsa». Che le stelle, la notte, l’inverno esistono, ma che non sei tu.
***
Poscritto natalizio. Se ho voluto parlare di Louise Glück in questo numero del Faro dedicato allo strano Natale che abbiamo superato, è perché penso che la sua poesia ci abbia restituito una certa postura, un equilibrio necessario per potere continuare a prestare ascolto al mondo. Senza concederci facili speranze o sogni di primavere, i suoi versi descrivono il nostro presente, e le sue intime incrinature, come se fossero uno specchio che teniamo in mano per osservarci. Certo, se ci intimorisce, uno specchio possiamo provare a coprirlo, ma persevererà comunque a riflettere.
I versi delle poesie di Averno di Louise Glück (il Saggiatore) sono tratti da: Persefone l’errante, Averno e Telescopio, la traduzione è di Massimo Bacigalupo.
La poesia, scriveva Giovanni Raboni, non è un’astrazione ineffabile e inservibile, ma un bene reale, concretamente fruibile e godibile: «il problema è cosa si possa e si debba fare […] per rimpiazzare il fantasma della poesia con la poesia in carne e ossa».
E a questo «problema» da anni prova quotidianamente a rispondere Nicola Crocetti con il suo impegno di editore e di traduttore. Il suo nome si lega ormai istintivamente alla rivista Poesia, da lui fondata nel 1988, e alle tante, mirabili traduzioni di autori greci contemporanei (Kavafis, Seferis, Ritsos), a cui si aggiunge in questi giorni la sua ultima impresa: la prima traduzione integrale in italiano dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, il poema di 33.333 versi in cui il poeta cretese immaginò il seguito dell’Odissea di Omero, immergendola nelle atmosfere filosofiche e spirituali del Novecento.
La prima domanda che vorrei porle è: perché l’Odissea di Kazantzakis? È vero, il nostro Paese non disponeva ancora di una traduzione del poema, ma ci sono altre ragioni che l’hanno spinta, in prima persona, ad affrontare questo arduo e lungo viaggio di traduzione?
Mi imbattei la prima volta nell’Odissea di Kazantzakis a poco più di vent’anni e rimasi folgorato. Poi, così come si prova il desiderio di condividere con gli altri le cose che ci piacciono e che amiamo, provai immediatamente il desiderio di tradurlo. Feci anche qualche maldestro tentativo, ma non ero ancora attrezzato. Però quel desiderio mi ha accompagnato per tutta la vita. Nel 2013, esaurita una lunga e pressante serie di altri impegni di lavoro, mi ci sono dedicato. Ci sono voluti sette anni, ma facendo anche molto altro nel contempo. Un’altra ragione importante è che considero Kazantzakis uno dei giganti della letteratura neogreca, assieme a un altro grande poeta, Ghiannis Ritsos, del quale ho tradotto sessanta raccolte delle 150 che ha scritto. Di Kazantzakis ho tradotto quattro romanzi, ma lui considerava l’Odissea l’unica opera a cui voleva fosse legato il suo nome. Perciò era indispensabile tradurla.
Lei è uno dei maggiori divulgatori, traghettatori di poesia contemporanea; per anni ha tradotto instancabilmente, e ci ha così permesso di conoscere, i più importanti poeti e scrittori greci contemporanei. Ma suoi libri, di prosa o di poesia, romanzi o sillogi, non ne se ne trovano in giro. Allora terrei a chiederle, secondo la sua esperienza, quanto l’atto del tradurre replica quello dello scrivere; vorrei chiederle se prestare la propria vita alla traduzione significhi, in fondo, prestarla anche alla scrittura.
Io non ho mai scritto un libro mio, in versi o in prosa. Certo, la traduzione di autori importanti diventa per chi la fa un surrogato della propria scrittura. Si presta la voce a chi non può averla nella nostra lingua. È un’operazione molto importante, lo sappiamo bene, che comporta una grande responsabilità e richiede una collaudata esperienza, anche se per ragioni economiche alcuni editori si affidano spesso a traduttori principianti o a dilettanti. Io ho tradotto più di centomila versi dal greco (ma anche da qualche altra lingua) e decine di migliaia di pagine di prosa. Il che mi ha fornito una robusta attrezzatura per affrontare la traduzione di questo difficilissimo poema. Credo che dedicare la propria vita alla traduzione sia, al pari di chi si dedica alla poesia o alla prosa, una sorta di missione, che richiede, come la poesia, una passione totalizzante. Il traduttore, come il poeta, cerca disperatamente la parola “esatta”.
Kazantzakis scrive la sua Odissea tra il 1925 e il 1938. Il suo non è un semplice seguito dell’Odissea omerica, il poema sintetizza le tante stagioni della vita che aveva attraversato, le tante filosofie e fedi che aveva sperimentato. Perché sarebbe necessario ritrovare oggi quelle pagine, in che modo potrebbero aiutarci a capire la realtà che abbiamo attorno? Quando uscì il libro fu, per motivi disparati, lungamente frainteso; quindi in realtà mi domando anche se non sia questo, il nostro, il tempo giusto, l’epoca giusta, per leggere quei versi.
Per Kazantzakis l’Odissea era la summa delle sue esperienze di vita, dei suoi studi filosofici, dei suoi numerosi viaggi in giro per il mondo. Cominciò a scriverla poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, e la pubblicò alla vigilia della Seconda: come si dice in greco per indicare l’assenza di una via d’uscita, “dietro, un fiume impetuoso, davanti, il baratro”. E affidò a Ulisse, il suo avatar, il compito di risolvere la questione. Credo anch’io che questo nostro tempo sia forse il più indicato per un’opera come questa, che nella sua complessità può aiutarci anche a comprendere la realtà attuale. Basterebbe leggere il brano in cui il poeta si astrae dal suo racconto e fa un appello alla Virtù (XXII, 1-29) perché impedisca che Ulisse precipiti nell’Ade. Un appello simile andrebbe fatto nostro oggi per scongiurare che anche il nostro Paese precipiti nel baratro, sull’orlo del quale temo si trovi.
«Virtù dal sonno leggero, preziosa figlia dell’uomo,/come sei felice quando sola, mordendoti le labbra,/ perseguitata e povera, sei confinata nel deserto! …»
Quando il poema uscì, la Grecia era ancora un Paese culturalmente e politicamente sottosviluppato, legato a canoni etici ed estetici ottocenteschi, in cui le poche persone istruite parlavano e scrivevano una lingua dotta (la katharèvusa) incomprensibile al popolo, che parlava invece la dimotikì, la lingua popolare, per la quale Kazantzakis aveva una passione che sfiorava l’ossessione. Poiché lui era avanti di decenni rispetto al suo tempo, non poteva essere compreso né accettato, perciò fu osteggiato in ogni modo. Non solo fu costretto a morire in esilio, in Francia, ma si impedì che fosse sepolto in un cimitero cristiano con l’accusa – falsa e speciosa – che era un comunista. Sulla sua tomba, sopra le mura della fortezza Martinengo, a Iraklio, le poche parole dell’epitaffio da lui dettato: «Non spero niente. Non temo niente. Sono libero».
Qual era il rapporto tra Kazantzakis e i poemi omerici? È un particolare della vita dell’autore che fa nascere in me questa curiosità. Leggendo l'avventurosa biografia che lei traccia nell’introduzione, ci si accorge che le traduzioni che Kazantzakis fa dei poemi omerici non precedono la composizione dell’Odissea, ma sono successive: l’Iliade dopo gli anni della Seconda Guerra Mondiale; l’Odissea dopo gli anni Cinquanta. Mi incuriosiva molto questo ritornare su Omero dopo aver cercato di proseguirlo. Fare forse un passo indietro, dopo aver cercato il salto.
In effetti uno si aspetterebbe il contrario. Kazantzakis aveva studiato Omero per tutta la vita, ma la sua priorità era raccontare l’ultimo viaggio di Ulisse. Un viaggio, secondo la raccomandazione di Dante – la cui Commedia egli aveva tradotto – alla ricerca della virtù e della conoscenza. Vi dedicò tredici anni della sua vita, e solo dopo, come se avesse adempiuto a una missione, si dedicò alla traduzione dei poemi omerici.
Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate lungo la sua traduzione dell’Odissea di Kazantzakis?
Quella dell’Odissea è una lingua molto scabra, irta di arcaismi e di molte migliaia di lemmi non registrati su nessun dizionario. I lemmi dei pastori, dei contadini, dei pescatori, dei marinai, custoditi nei villaggi di Creta e delle isole dell’Egeo, che Kazantzakis batté per lunghi anni, trascrivendoli direttamente dalla bocca della gente del popolo, e che erano destinati a scomparire con l’avvento della civiltà. Il suo intento era quello di compilare un dizionario di queste parole moriture, ma poiché non vi riuscì le salvò inserendole nel suo poema. Così l’Odissea è anche un’arca di Noè linguistica, con migliaia di parole salvate dall’estinzione. La ricerca di questi lemmi è stata per me la difficoltà maggiore, visto che nessuno in Grecia si è preso la briga di fare un’edizione annotata del poema, cosa che peraltro ne ha reso difficile la fruizione da parte degli stessi lettori greci.
Ha mai pensato di abbandonare il lavoro?
La mia scelta di fare una versione metrica rispettando la scansione originale del poema ha comportato il sacrificio di alcuni dei numerosi aggettivi di Kazantzakis e ha reso il lavoro di traduzione più arduo che se fosse stato in prosa. Ma non ho mai pensato di abbandonare l’impresa. E per superare le difficoltà causate dalle parole “difficili” ho fatto mia la sua lezione: ho battuto a lungo gli intricati sentieri del web alla ricerca dei lemmi non registrati sui vocabolari. Li ho trovati tutti, e ho arricchito immensamente il mio greco.
Vorrei farle ancora due domande. La prima è chiederle una parola. Dal vocabolario sterminato dell’Odissea, tra neologismi e parole arcane, potrebbe suggerirci una parola che la affascina, che porta con sé.
La prima che mi viene in mente è uno degli oltre cento epiteti (103 per la precisione), che Kazantzakis ha forgiato per caratterizzare il suo Ulisse: l’Uomo dai mille tormenti. Ma una parola sola mi pare troppo poco per un poema che ne conta ben 320.000. Perciò ne cito qualche altra, sempre riferita a Ulisse: l’Inaddolcibile, Mente di avvoltoio, il Conoscicuori, l’Assediato dalle ombre, lo Schernitore del cielo. E già che ci siamo, qualche epiteto di Elena: Che ride come un mandorlo, Che ha la bocca come un anello d’oro, Che risplende come la luna, Che parla come un fiore coperto di rugiada...
La seconda, e ultima: e adesso? Dopo aver tradotto l’Odissea di Kazantzakis, ha già nuovi progetti di traduzione o di studio?
La letteratura neogreca ha ancora molti “tesori sepolti”, che aspettano giovani archeologi disposti a scavare per portarli alla luce. Per quanto mi riguarda, c’è un altro poeta che io amo e che è ancora quasi del tutto sconosciuto in Italia, Kostìs Palamàs, tra l’altro un mio concittadino essendo nato a Patrasso. C’è un suo poema, bello quanto difficile, Il dodecalogo dello zingaro, che mi aspetta.
-Nikos Kazantzakis, Odissea, trad. Nicola Crocetti, Crocetti Editore, Milano 2020, pp. 840.
Si apre con una pagina del Fedro di Platone, la conversazione tra Carlo Sini e Gabriele Pasqui raccolta in Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare (Jaca Book, 2020). Rivolgendosi a Fedro, il saggio Socrate dice che la sua passione è imparare, «ma la campagna e gli alberi non mi insegnano e non mi rispondono, mentre imparo dagli uomini in città». E noi, quest’oggi, memori dell’insegnamento socratico, abbiamo voluto conversare con il filosofo Carlo Sini per tornare a riflettere sui destini dell’abitare e sulla rivoluzione degli spazi urbani dopo l’esperienza del Covid-19.
Mentre leggevo Perché gli alberi non rispondono, più volte sono finito a chiedermi perché una materia come l’urbanistica, lo studio dello spazio, venga spesso trascurata tra le lenti d’indagine per leggere la nostra realtà
Credo che lei abbia ragione: raramente l’urbanistica esce dall’ambito degli studi e dei lavori specialistici. Forse qualche invito alla eccezione lo troviamo proprio tra i filosofi, per i quali il tema dell’abitare è fondamentale; penso in particolare a Heidegger, ma non solo. Infatti è almeno dal Rinascimento italiano che il modo nel quale gli esseri umani hanno colonizzato la terra è oggetto di riflessione. Posti tra gli angeli e i bruti, direbbe Pico, la nostra caratteristica è di riuscire a trovar casa ovunque, anche nei luoghi e nei climi estremi del pianeta. Questo lungo processo di umanizzazione della natura selvaggia, culminante nella imposizione universale del principio antropico, motiva oggi, come sappiamo, molti problemi e profonde considerazioni che coinvolgono il nostro antico e tradizionale creare muri e ripari e vie di comunicazione. Questa umanissima architettura dell’esperienza è diventata oggi un luogo di interrogativi e di problemi, sicché proprio l’urbanistica è in particolare invitata a uscire da quel tratto di ottusità specialistica che affligge oggi in varia misura l’insieme dei nostri saperi.
La sua conversazione con Gabriele Pasqui, pubblicata all’inizio del 2020, si concentra sui destini dell’abitare. Nessuno avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe successo solo pochi mesi dopo. Il Coronavirus, la pandemia, i due lockdown, come hanno influenzato, modificato il nostro abitare gli spazi?
La pandemia ha influito profondamente sulle esperienze legate all’abitare, sia per lo spazio privato, sia per quello pubblico. La cosa, credo, ha rivestito persino qualche tratto positivo, se non proprio per tutti, almeno per molti. Per esempio, ci siamo riappropriati delle possibilità dimenticate o ignorate offerte dalle nostre abitazioni, possibilità per le quali non si aveva solitamente né tempo né attenzione. Il medesimo è accaduto per gli spazi della nostra città che abbiamo ripercorso dopo periodi di forzata assenza e che abbiamo riscoperto o scoperto nella loro “bellezza” estetica o anche solo psicologica. Ma naturalmente i problemi nati dalla pandemia hanno prodotto conseguenze di gravità inaudita, che tutti stiamo sperimentando dolorosamente. Colpita al cuore è la natura stessa della nostra vita di umani, perché gli umani sono tali solo nella condivisione sociale e comunitaria del loro essere e di ogni loro azione. La rarefazione o addirittura la proibizione dei rapporti personali e collettivi ha totalmente snaturato sia lo spazio pubblico delle città, sia quello privato delle case, cioè la loro vitale e feconda interdipendenza. Non dimenticheremo facilmente lo spettacolo spettrale delle vie cittadine e delle piazze deserte, per non dire delle nostre porte di casa sbarrate agli estranei, dietro la quali stare, all’occasione, in agguato circospetto con mascherine e disinfettanti ad hoc, cioè ad hominem.
A proposito di spazio urbano e di case, vorrei chiedere in che modo lo spazio urbano condiziona le persone che lo abitano. Mi spiego meglio: in che modo lo spazio in cui abitiamo ‒ una grande casa, così come una grande città ‒ ha effetti sulle nostre persone, sul nostro modo di essere e di abitare il mondo?
Ricordo una esperienza che credo sia molto comune: quella di un sogno nel quale mi rivedo bambino in una casa dove abitai con la mia famiglia moltissimi anni fa: la casa nel sogno è grandissima e, in certi anfratti, un po’ misteriosa e persino paurosa. Poi capita che in quella casa del sogno per caso mi ritrovi come ospite oggi e mi rendo conto che non è affatto vasta e misteriosa. Si trattava della esperienza del bambino rispetto all’abitazione e viceversa. Lo spazio in cui viviamo e la natura del nostro abitare sono componenti determinanti del nostro essere. In questo senso la rivoluzione urbana, già nel mondo antico, ma ovviamente ancor più nel mondo moderno e contemporaneo, ha di fatto prodotto inedite modalità dell’essere umani, a cominciare dai modi di relazione con il nostro stesso corpo naturale. Oggi sappiamo dalla epigenetica, in base a dati oggettivi e incontestabili, che il corpo umano è il risultato di processi di interazione biologica e sociale. Nelle concrete esperienze di vita storiche il biologico si fa sociale e il sociale si fa biologico. Ne deriva che il nostro modo di essere animali è da sempre interamente modificato dal nostro essere soggetti culturali, in particolare da quando la nostra comunità iniziò a diventare una comunità linguistica, ovvero simbolica. Di qui la grande, profonda responsabilità di ogni progetto abitativo, la sua natura etico-politica profonda, poiché modificare le qualità di esistenza quotidiana e la qualità generale dell’ambiente artificiale e naturale circostante reca sicuramente con sé conseguenze decisive per la storia e l’identità degli esseri umani che vi si trovino coinvolti. Di questa nascita sociale e di questo destino biologico le nostre realizzazioni abitative sono direttamente responsabili, il che sembra ancora lontano dall’essere adeguatamente compreso dai progetti della politica e dell’economia dei nostri giorni. Forse la pandemia offrirà occasione di inedite meditazioni in proposito.
In Perché gli alberi non rispondono, riprendendo un precedente saggio di Pasqui sul rapporto tra case e scuole, lei si pone una domanda importante: perché scuola e lavoro, casa e scuola conviene pensarle insieme? Oggi che abbiamo assistito, per questioni di necessità, a cosa significa pensarle insieme, ritiene che sia un bene o un male per il nostro modo di vivere in comunità?
La questione fondamentale che sottende, a mio avviso, la sua domanda penso che si potrebbe esprimere così: che gli esseri umani non sono tali per essenza o a priori, non nascono “umani” e chi sostiene il contrario, per le sue ideologiche convinzioni, mente e si, o ci, inganna. Essere umani significa sempre diventare umani, cioè accedere a quel connubio di natura e cultura, connubio inscindibile, che costituisce l’appartenere all’umanità. L’umano è in cammino e non ha luoghi definitivi o assoluti per definirsi. Questo significa che abitare insieme, come la natura sociale dell’animale umano da sempre esige, comporta un infinito processo di formazione e di educazione. Esso comincia con il rapporto originario dell’infante con gli adulti che gli sono vicini e che lo curano (ricordo che nessun infante lasciato solo diventerebbe un essere umano o imparerebbe a parlare) e prosegue entro gli istituti educativi che ogni società umana, da quando ne abbiamo notizia, ha strutturato e previsto. Questo fatto fondamentale, nella moltiplicazione moderna dei suoi tratti e dei suoi aspetti, nella uscita dalla religione come unico fattore educativo, imposto dalla evoluzione della storia, nel diffondersi di iniziative private mosse da finalità esclusivamente economiche, nella influenza nefasta di questa mentalità mercantile sulle scuole pubbliche, ossessionate dal problema “lavoro” e di essere gradite e “attuali” per i propri giovani alunni, è il punto di partenza da cui è derivata una situazione problematica sotto gli occhi di tutti: che le nostre società democratiche esigono cittadini in grado di fare scelte autonome e responsabili, cioè di cittadini “educati” e “formati” alla vita societaria e comunitaria, non di masse il cui consenso sia facilmente catturabile dalle tecniche per la diffusione del consumo delle merci, dalle false notizie e da linguaggi aggressivi e accattivanti per gli ignoranti e i facinorosi. Quindi, niente autentica democrazia senza un profondo investimento nella formazione, nella cultura e nella scuola, la casa del cittadino in formazione.
Un’ultima domanda, vorrei ancora soffermarmi sul concetto di comunità. Parlando delle grandi città dice che «sono, o sono divenute, per loro natura, impolitiche o extrapolitiche». Assumono la logica degli aeroporti, sono «un luogo di transito del consumo universale». Secondo lei, com’è possibile contravvenire a questa logica, rivoluzionarla? Oggi, com’è possibile rendere di nuovo le città “abitabili”?
Le città del futuro dovrebbero allontanarsi dall’antico modello della città chiusa nelle sue mura, col portone sbarrato per gli stranieri. In una umanità globale in cammino le differenze possono essere molto più virtuose che non viziose. Si tratterà di ritrovare, alla base delle differenze, un’unità ideale ancora più antica e più profonda, risalente alle epoche nelle quali l’umanità era primordialmente in cammino, e fare di questa origine comune un progetto vivente di umanità; quindi il punto di partenza per la progettazione di città che accolgono il contributo reale e la collaborazione di tutti. Una urbanistica non calata dall’alto, ma costruita pazientemente insieme a coloro che, con le loro differenti culture ed esigenze, ne sono o ne saranno i reali abitatori e responsabili.
C’è fretta in giro. C’è fretta che arrivi Natale e finisca l’anno. Che il 2020 si chiuda alle nostre spalle e possa finalmente essere contenuto all’interno di una parentesi di cui conosciamo ogni cosa, di cui possiamo ripercorrere l’inizio e la fine, le paure e le speranze. E tutti ci stiamo accorgendo di questa fretta che c’è in giro grazie a un importante particolare domestico: l’albero di Natale.
Costretti a stare a casa, moltissimi hanno anticipato alla fine di novembre le annuali operazioni di allestimento, pensando, forse, di anticipare in qualche modo anche le atmosfere che quel felice momento porta con sé, e così di prolungarle il più possibile. Da una settimana le innumerevoli riunioni su Zoom o Google Meet, che ormai scandiscono ora per ora la nostra quotidianità, sono state popolate da una foresta natalizia di desideri e buoni propositi.
L’aria delle feste, però, sembra essere stata incrinata dal rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, che ha descritto un’Italia più povera, più insicura e più abbrutita. Nell’anno che vogliamo chiudere in fretta, per effetto del Coronavirus le disuguaglianze si sono sensibilmente acuite, la soglia della povertà si è largamente estesa. Ed è risultato chiaro che le emergenze affrontate non sono state soltanto di natura sanitaria e soprattutto non sono sorte, all’improvviso, nel 2020.
Eppure, avremmo potuto prenderne coscienza diversi mesi prima della pubblicazione del rapporto del Censis, sarebbe bastato leggere l’ultima raccolta di poesie di Laura Accerboni, Acqua Acqua Fuoco, pubblicata da Einaudi a fine maggio, appena riaperte le librerie. In verità, è impreciso parlare di Acqua Acqua Fuoco come di una semplice silloge, perché il libro di Accerboni è a tutti gli effetti un reportage fotografico in versi sul nostro Paese, sull’indigenza che lo attraversa, sulla sua crudeltà e sulla sua spietatezza. L’autrice prova a fare dei suoi versi rapide sequenze di scatti: ogni scatto una parola o due, un istante, un’immagine. I clic sono talmente veloci che, oltre alla realtà degradata che ritraggono, riescono a catturare persino le ombre, i fantasmi e i mostri che generano quella realtà («Ho sparato/ a un grosso/ pesce/ diceva/ di avere/ due gambe/ e una famiglia./ Si inventerebbero/ qualsiasi cosa/ pur di non/ morire»).
Nel nostro panorama letterario non ci sono poeti che ingaggiano con il presente una simile dialettica. Infatti, per azzardare dei paralleli con il percorso di Accerboni, le sue intenzioni, la tecnica, bisogna cercare altrove, citare Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans o I poveri di William T. Vollmann: due libri che scavano nella miseria umana e la rappresentano usando parole e fotografie, voci e volti. Accerboni riesce a fare a meno della dimensione dell’immagine, caricando la parola di tutta la sua portata icastica. Può esserne un esempio questo suo breve testo, che offre una perfetta istantanea di cosa sia oggi in Italia lo sfruttamento, il caporalato, di cosa significhi provare fame e sentire addosso un inestinguibile desiderio di sopravvivenza: «Si raccolgono/ per i campi/ insieme/ ai pomodori/ hanno abitudini/ particolari:/ muoiono/ tra piante/ e rinascono/ già grandi/ con lo stesso/ nome».
Allora, viene da pensare che tra gli addobbi dei nostri alberi di Natale, accanto alle palline variopinte e alle stelle con i brillantini, quest’anno potremmo (o dovremmo) aggiungere alle decorazioni anche alcune poesie-fotografie di Laura Accerboni. Perché quei desideri e quei buoni propositi, che traspaiono luminosi dai rami verdi, stavolta non riflettano esclusivamente desideri individuali o propositi egoistici, ma si estendano concretamente sul nostro modo di vivere in comunità. Di considerarci una nazione più ricca, sì, ma dal momento che è più umana e più generosa. In particolare, sono due le poesie legate al Natale che potremmo (o dovremmo) appendere sui rami. La prima è questa:
Il pranzo
di natale
si fa
il giorno dopo
quando i cassonetti
hanno tutti
i rifiuti
disposti a festa
e ben curati.
L’ironia e l’assurdo sono gli elementi che danno forma al testo. L’assurdo che ci coglie durante la prima lettura, che ci immerge in una circostanza insensata, perturbante: Natale è il giorno di Natale, non è «il giorno dopo». A questo punto sopraggiunge l’ironia, l’ironia feroce, che svela il facile inganno e, adesso, costringe tutti noi a indossare gli indumenti consunti di un senzatetto che «dispone a festa» gli avanzi «ben curati» di qualcun altro.
La seconda poesia ci permette, invece, di leggere in profondità le ragioni del nostro senso di claustrofobia, un sentimento molto familiare negli ultimi tempi, che rende insopportabile la vita chiusa dentro quattro mura. Soffermarsi sui versi di Accerboni dà modo di comprendere che le nostre paure sono molto più antiche dei lockdown che abbiamo o stiamo scontando. Che hanno origini più recondite dei dpcm governativi, e non dispongono di soluzioni immediate.
Ho cinque stelline
millecinquecento punti
posso viaggiare
ad alta velocità
e comprare
il dyson airwrap
I miei figli
sono sani
Non abbiamo
bisogno di niente
la mia porta
è sempre aperta
Non capisco
questo
metro e sessanta
di legno
che mi chiude
dentro
Appenderle all’albero di Natale, tenerle vicine per una costante rilettura, magari non modificherà i dati del rapporto del Censis del prossimo anno, non renderà il Paese meno povero, non sanerà le disuguaglianze sociali; però consentirà a qualcuno di rinnovare il proprio sguardo sul mondo, l’idea di essere sufficiente solo a sé stesso. Ci consentirà di sentirci un grosso pesce con le gambe, un bracciante che rinasce dalla terra in cui muore, un clochard che celebra il Natale il giorno dopo Natale, una persona che ha tutto, può andare ovunque, ma ciononostante si sente chiusa dentro un metro e sessanta di legno. Perché siamo ciascuno di loro: e quella sequenza di rapidi scatti fatti di parole, sul nostro albero di Natale, alla fine, non riproduce altro che il nostro volto.
Che lo ammettano o no, c’è una domanda che si pongono tutti almeno una volta nella vita, e la domanda è questa: le catene di Sant’Antonio funzionano davvero?
Solo un anno fa aveva destato molta curiosità proprio uno di questi testi che inanellano tra di loro migliaia di smartphone. Non si trattava, però, dell’ennesima richiesta di miracolo né della promessa di premi milionari. Stavolta a girare di cellulare in cellulare erano alcuni versi dell’Eneide di Virgilio: «In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge. Ma che razza di uomini è questa? Quale patria permette un costume così barbaro, che ci nega perfino l’ospitalità della sabbia…». Una protesta silenziosa, si potrebbe pensare, contro le disposizioni dei decreti sicurezza di Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno, contro la sua decisione di chiudere i porti per qualsiasi tentativo di sbarco dei migranti. Erano una rivendicazione politica, quei versi, un modo chiaro e semplice per dire che da duemila anni chi è costretto a lasciare la sua terra chiede, a chi lo accoglie, soltanto pietà. Ma oggi, per noi, cosa significa la parola “pietà”?
Per rispondere bisogna ritrovare le tracce di quella catena di Sant’Antonio, cercandone l’origine. Le parole che tante persone hanno condiviso sui loro profili Facebook o Twitter, inviato attraverso WhatsApp, sono di un uomo che si chiamava Ilioneo. Era un compagno di viaggio di Enea, Ilioneo, uno dei pochi sopravvissuti alla distruzione della città di Troia. Insieme avevano preso una nave ed erano sfuggiti a un sicuro destino di morte, ma nemmeno il mare si rivelò clemente con loro: una violenta tempesta, durante la navigazione, li fece naufragare sulle coste africane, lasciandoli confusi e smarriti. Vennero subito visti e catturati dalle guardie della città di Cartagine: i soldati li trattarono malissimo, minacciarono addirittura di bruciare la nave, ma il loro futuro era affidato alle decisioni della regina Didone. Ecco, quando il profugo Ilioneo si trovò di fronte alla regina Didone, prima di dirle quelle famose parole che hanno fatto il giro dei social network, le chiese pietà: «salva un popolo pio, e più da vicino consideraci».
Nel mondo antico, la pietas è un sentimento molto più complesso della compassione, di cui invece spesso pensiamo sia sinonimo. La compassione, infatti, implica il rispetto e l’immedesimazione nel dolore dell’altro; la pietas, però, richiede uno sforzo ancora maggiore. Non è solamente rispetto e immedesimazione nel dolore dell’altro: la pietas è devozione, anzi è devozione reciproca. Chi ha pietà dell’altro, dello straniero, del profugo, lo accoglie come si accoglierebbe una divinità in casa, altrimenti commetterebbe un gravissimo peccato d’empietà. Allo stesso modo, chi riceve la pietà percepisce il suo ospite come un dio, come la manifestazione suprema del senso di umanità. La pietà, allora, è innanzitutto un sistema di doveri etici e civili che non possono (e non devono) essere violati. E sarà la regina Didone a rivelarci perché non possono (e non devono) essere violati.
Ilioneo le chiese pietà e Didone non gliela negò. Al contrario, gli replicò con grande devozione:
Chi ignora degli Eneadi la stirpe, le mura di Troia,
e il valore e gli eroi, o le fiamme di simile guerra?
Non sordi a tal punto rechiamo i cuori noi Punici,
né volgendo le spalle alla città tiria aggioga i cavalli il Sole.(trad. A. Fo)
Adesso questa affascinante risposta potrebbe risultare enigmatica. In nostro soccorso arriva, a questo punto, il latinista Maurizio Bettini, che in un suo recente saggio, Homo sum. Essere “umani” nel mondo antico (Einaudi, 2019), ha sentito l’esigenza di leggere l’esperienza letteraria dell’Eneide con gli occhi del presente, della nostra attualità: «Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz’acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia». Bettini spiega che Didone è consapevole della triste sorte dei troiani, sa da cosa stanno fuggendo, conosce le sofferenze che hanno patito, lei stessa le ha vissute sulla sua pelle fuggendo dalla città natale di Tiro, e quindi mai potrebbe essere sorda al dolore, mai potrebbe negare l’ospitalità, mai potrebbe negare la pietà. Infatti, per rafforzare ciò che dice, utilizza un’immagine di certo apocalittica: «né volgendo le spalle alla città tiria aggioga i cavalli il Sole»; ovvero: se il suo popolo fosse sordo al dolore, se negasse ospitalità e pietà a chi le chiede, il Sole, «il più giusto degli astri, quello che tutto vede e tutto giudica», comincerebbe a dare le spalle alla città di Cartagine, sorgendo a Occidente e così sovvertendo l’ordine naturale delle cose.
Dunque, violare il dovere della pietà significa sovvertire l’ordine naturale delle cose, cedere all’oscurità, respingere il senso di giustizia che ciascuno di noi possiede e che fonda la società in cui abitiamo. In fondo, violare il dovere della pietà significa essere “apolidi”: non sentirsi parte di un organismo complesso, di una città (polis), che continuamente riconosce il nuovo, l’estraneo, e lo accetta; ma sentirsi l’unità separata da tutto il resto,che perennemente difende il tracciato della sua persona, di cui sempre teme la rovina e la futura distruzione.
Pensandoci bene, questa catena di Virgilio resiste da oltre duemila anni. Talvolta sembra che inizi ad arrugginirsi, che le parole - parole come “pietà” - perdano effetto. In questi casi, bisognerà forse ricominciarla, questa catena, aggiungere nuovi anelli, passarla a molte più persone. Bisognerà farsi catena, una corda di metallo inossidabile che tiene fermo e lega lo scafo delle navi che sono appena arrivate, perché tutti possano toccare terra.
Se la sua casa andasse a fuoco, un intellettuale come dovrebbe reagire all’incendio?
La domanda potrebbe apparire inutilmente provocatoria o terribilmente scontata, eppure nell’aprile del 1997 è la “miccia” che accende un cruento dibattito tra Umberto Eco e Antonio Tabucchi sul ruolo e l’utilità degli intellettuali all’interno della nostra società.
In un articolo intitolato Il primo dovere degli intellettuali: stare zitti quando non servono a niente, Umberto Eco sostiene che un intellettuale dovrebbe limitarsi a essere un buon cittadino: se la sua casa brucia, alza il telefono e chiama i pompieri. Nient’altro. D’altronde, cosa potrebbe fare? La sua attività, la leggendaria “attività intellettuale”, non ha potere sull’immediato, non serve a spegnere le fiamme né tantomeno a salvare la vita di qualcuno. Il lavoro di un intellettuale funziona nei tempi lunghi, offre uno sguardo inedito sul futuro, ma non può frenare la catastrofe del presente. Così scrive Eco: «Se li si prende per quel che sanno dire (quando ci riescono) gli intellettuali sono utili alla società, ma solo nei tempi lunghi. Nei tempi brevi possono essere solo professionisti della parola e della ricerca, che possono amministrare una scuola, fare l’ufficio stampa di un partito o di una azienda, suonare il piffero alla rivoluzione, ma non svolgono la loro specifica funzione». Una di quelle specifiche funzioni, spiega invece, sarebbe scrivere un buon manuale scolastico per i nipoti dei politici razzisti e corrotti, perché crescendo non commettano gli stessi sbagli dei nonni.
A queste apocalittiche considerazioni, e a quell’originaria domanda, replica Antonio Tabucchi in un’appassionata lettera pubblica indirizzata ad Adriano Sofri. Certo, dice l’autore di Requiem, è vero, se la mia casa o quella del mio vicino va a fuoco, chiamo immediatamente i pompieri, «però mi sembra che questo non sia sufficiente perché io vorrei sapere dell’origine dell’incendio». È una risposta interessante, quella di Tabucchi, che merita un’attenta analisi. Innanzitutto, notiamo che si divide in due parti. Nella prima, smonta le ipotetiche e improbabili differenze tra la casa di un intellettuale e quella di un qualsiasi altro lavoratore: l’una non è più infiammabile dell’altra, entrambe possono andare a fuoco allo stesso modo, e per tutt’e due sarà necessario il soccorso dei pompieri. Questa pragmaticità permette allo scrittore di sottolineare il rilievo e l’unicità del ruolo dei vigili del fuoco. Soltanto un vigile del fuoco, infatti, può spegnere un incendio, è un dato di fatto. Adesso, terminate le osservazioni lapalissiane, la seconda parte si apre con un «però», una congiunzione avversativa che in questo caso si potrebbe tradurre con un «e dopo?»: dopo che ci siamo accorti dell’incendio, dopo che i pompieri l’hanno estinto, dopo che succede? Ecco, la funzione dell’intellettuale, per Antonio Tabucchi, il suo intervento sulla realtà si concentra sull’intuire, conoscere o immaginare quel «dopo» che segue immediatamente il dato di fatto, l’evidenza delle circostanze. Che è parimenti importante all’estinzione dell’incendio.
Qualcuno potrebbe chiedersi: belle parole, sì, ma effettivamente questa volontà di conoscere, immaginare l’origine dell’incendio, a che serve? E l’unica obiezione da sollevare potrebbe essere questa: non serve a salvarsi, ma serve a sopravvivere. L’uomo non è una semplice concatenazione di cause ed effetti (scoppia un incendio, lo spegne un’autopompa), tra le cause e gli effetti nasce talvolta un’enorme distanza, e in questo vuoto enclave sostano ragioni poco chiare o assenti, cui però sempre bisogna venire incontro. Come sopravvivere all’incendio, perché sopravvivere all’incendio, se il mondo fuori dalla nostra casa è semplicemente un inevitabile concatenarsi di azioni? L’intellettuale è colui che lavora su questa distanza tra cause ed effetti, colui che insegue quelle ragioni poco chiare o assenti, chi le offre agli altri perché le facciano proprie o perché ne cerchino di nuove. Non è chi ci salva dall’incendio, ma chi ci permette dopo di sopravvivergli.
Forse, se Eco e Tabucchi avessero cominciato nel 2020 questa diatriba, di certo l’esempio sarebbe stato diverso. Magari poteva essere formulato così: se un virus sconosciuto sta infettando tutto il mondo, il dovere dell’intellettuale è aspettare il vaccino. Anche in questo caso Tabucchi avrebbe dato ragione a Eco e allo stesso modo avrebbe fatto seguire il suo «però». Quel «però» che è poi la ragione che ci spinge a conoscere il virus, a cercare il vaccino, a desiderare di guarire. E da chi possiamo ricavare queste ragioni se non dagli intellettuali?
Nel suo Elogio della letteratura Tabucchi cita la lezione inaugurale di Roland Barthes al Collège de France del 7 gennaio 1977, in cui il semiologo francese scrive: «La letteratura lavora negli interstizi della scienza: è sempre in ritardo o in anticipo su di essa, simile alla pietra di Bologna che irradia durante la notte ciò che ha immagazzinato durante il giorno e grazie a questa luce indiretta illumina il giorno a venire. La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci interessa». Che non manchi mai alla nostra società chi tenta di correggere quella distanza.
Guidando lungo la strada per Racalmuto, Piero Guccione si accorge che la macchina comincia a fare degli strani rumori. Gesualdo Bufalino, seduto al suo fianco, lo osserva e inizia a preoccuparsi: hanno appuntamento con Leonardo Sciascia, li sta aspettando in contrada Noce, faranno tardi. Per fortuna trovano facilmente un meccanico nei pressi di Villaggio Mosè, frazione di Agrigento. Scendono dall’auto e attendono la fine della riparazione. Bufalino, però, dopo solo qualche minuto non riesce più a nascondere la sua impazienza. «Mi scusi», dice rivolgendosi al meccanico, «ma quanto ci vorrà? Perché, sa, ci aspetta una persona importante, ci sta aspettando Leonardo Sciascia. Lei lo conosce, Leonardo Sciascia?». Il meccanico sbuca da sotto la vettura e tranquillo scuote la testa in senso di diniego. L’impazienza di Bufalino si trasforma subito in sbigottimento; ed esterrefatto, quasi arrabbiato, gli risponde: «Ma come? Leonardo Sciascia? Non conosce Leonardo Sciascia?».
La reazione di Bufalino contro il povero, ignaro meccanico rivela molto della sua figura umana e intellettuale. Perché non descrive semplicemente la stima e la riconoscenza che nutriva nei confronti di Sciascia, l’uomo che insieme a Elvira Sellerio e a Enzo Siciliano aveva scoperto il suo talento pubblicando nel 1981 Diceria dell’untore. Questa sua reazione è il sintomo di un credo, di una fede. Di una sua personalissima fede, potremmo dire, che trovava codici e dogmi, santi e sacre scritture nella letteratura. Non conoscere lo scrittore Leonardo Sciascia era, dunque, un terribile peccato. Bufalino credeva nella letteratura così come si potrebbe credere in una divinità. D’altronde, era stata sua eterna compagna fin dall’infanzia, lo aveva salvato dallo sconforto durante la sua lunga permanenza in sanatorio, e una volta tornato a Comiso gli aveva offerto la possibilità di sfuggire all’asfittico clima della provincia siciliana. Della fede viveva, naturalmente, anche contraddizioni e blasfemie, continue disillusioni e frequenti intemperanze, sentimenti che nel suo zibaldone, Il Malpensante, lo portarono a scrivere persino questo tipo di pensieri: «Con la letteratura ho rapporti tempestosi, come con Dio. Non ci credo ma la bestemmio e la prego».
Ecco, è incredibilmente importante questa similitudine, o questa coincidenza, tra il suo rapporto con la letteratura e il suo rapporto con Dio. Un ulteriore sintomo di quella fede di cui parlavamo prima, che vede una perfetta esemplificazione nel racconto Le visioni di Basilio ovvero La battaglia dei tarli e degli eroi. Bufalino si immagina un futuro distopico in cui una nuova pandemia sta corrodendo l’umanità. Ma stavolta non è un virus la causa della peste e non sono gli uomini le vittime dell’eccidio: il nuovo nemico è una varietà di trogium pulsatorium, un insetto quasi invisibile che sta divorando tutti i libri del mondo «con tale prontezza da far pensare che una Natura misantropa, delusa nel suo proposito di spegnere l’uomo per mano dell’uomo stesso, si contentasse quanto meno di corromperne le memorie». I libri superstiti vengono trasferiti in uno sperduto monastero arroccato sul Monte Athos e a sorvegliarli viene posto il monaco Basilio. La sua guardia, in verità, è più simile a una prigionia e a un supplizio: si trova da solo in una stanza piena di libri chiusi ermeticamente in speciali involucri per non essere erosi dai tarli. Però Basilio non resiste, con cautela comincia a leggere alcuni di quei libri e i pestiferi insetti colgono immediatamente l’occasione per il loro assalto. Rimane un unico rimedio: il proprio sacrificio. Il monaco custode cosparge il suo corpo di miele, di cui quei piccoli esseri sono ghiotti, e quando stanno per banchettare con la sua carne, si getta nelle acque dell’Egeo.
A questo punto, risulta istintivo ravvisare nell’immagine di Basilio il profilo di Bufalino: quel Bufalino, monaco della letteratura che per tutta la vita aveva custodito i propri libri, i libri che aveva letto e i libri che aveva scritto; lo stesso Bufalino che all’età di sessant’anni apre per la prima volta quegli speciali involucri, rivela al mondo cosa custodiscono, e lascia ai tarli la possibilità di contaminarli. È lui il loro custode ed è sempre lui il loro assassino, il sacerdote e l’apostata della sua stessa religione. Nel Malpensante lo confessa chiaramente: «Non cercate in altre tasche che nelle mie il cerino per il prossimo incendio della biblioteca di Alessandria». La notorietà, l’enorme successo letterario (nel 1981 vince il Premio Campiello con Diceria; nel 1988 il Premio Strega con Le menzogne della notte), segnano l’apice di un lungo percorso ascetico e le paure di un possibile contagio, di un prossimo incendio. La sua opera e la sua vita ci insegnano che la letteratura, talvolta, è un dio troppo gravoso per poter essere condiviso, ciononostante bisogna sempre correre il rischio di farlo, perché soltanto nella letteratura persevera e resiste l’irriducibile senso di umanità che ci fa comunità, continente, mondo.
Recentemente, lo scrittore Fabio Stassi ha voluto rendere omaggio a Gesualdo Bufalino, nell’anno del centenario della sua nascita (era nato il 15 novembre 1920), continuando la storia del monaco Basilio in un racconto intitolato Congedo. Stassi dà voce a un suo confratello, fra’ Macario, che si rende conto delle ragioni del sacrificio di Basilio e decide quindi di partire alla ricerca «della biblioteca scomparsa», un luogo in cui un ordine segreto di bibliotecari ha tramandato ogni opera dell’intelletto umano, anche quelle che nel corso dei secoli si erano ritenute perdute per sempre. Non sa se sia una sciocca diceria o l’ultima speranza che gli resta, la sua ricerca è un credo, un atto di fede. Nei confronti della letteratura, e degli uomini: «Eppure non facevo che ripetermi, come una litania o un salmo, che un solo pugno di libri avrebbe potuto rifondare l’intero universo».
Piccole note
Il ricordo di Piero Guccione è ripreso dal documentario Auguri don Gesualdo di Franco Battiato (2010).
Le visioni di Basilio ovvero La battaglia dei tarli e degli eroi è contenuto in L’uomo invaso (Bompiani, 1986).
Il racconto di Fabio Stassi, Congedo, è contenuto in Vivere con i classici (Sellerio, 2020).
Quando nel 1591 Menichino, bovaro di Latisana, raccontò agli inquisitori delle sue battaglie contro le streghe e gli stregoni per difendere la fede e incrementare le messi, dovette sicuramente destare stupore e trasalimento anche in chi era abituato a confrontarsi quotidianamente con i rituali demoniaci. Menichino si confessò un benandante, un uomo nato con la camicia (cioè involto nel cencio amniotico), che tre volte all’anno andava in spirito nel campo di Josafat, armato di rami di finocchio, per preservare il raccolto e impedire che i suoi nemici lo guastassero. All’inizio degli anni Sessanta, a scoprire il suo interrogatorio fu lo storico Carlo Ginzburg, che da quel documento di poche pagine, rinvenuto nell’Archivio di Stato di Venezia, prese le mosse per i suoi studi futuri sui fenomeni irrazionali, la stregoneria, il sabba. Studi che oggi ci permettono di immaginare e prendere coscienza, con inestinguibile fascino, di «una sotterranea mitologia euroasiatica».
Giorgio Manganelli apprezzava molto la qualità letteraria dei suoi libri. Recensendo I benandanti ne parlava addirittura come di un «dramma religioso», ripercorrendone la trama linearmente come un romanzo. Per Storia notturna, invece, sottolineava l’efficacia dei suoi incipit. «Non si tratta di un romanzo storico», scriveva, «né di un racconto poliziesco; ma ha dell’uno e dell’altro». Dopo i suoi lavori storiografici, ha mai pensato allo sconfinamento, alla possibilità di scrivere un romanzo?
In età adulta non mi è mai successo. Non sono proprio stato tentato. D’altra parte, la consapevolezza della dimensione narrativa l’avevo, e mi aveva fatto piacere quella lettura di Manganelli, che non avevo trovato illegittima proprio perché Manganelli era consapevole che si trattava di Storia. Io poi ho continuato a riflettere su questo confine di fronte a una posizione che non era affatto quella di Manganelli, era una posizione neoscettica, che sosteneva che tra narrazione di finzione e narrazione storica non c’era un confine ben preciso. In quel caso ho polemizzato per molto tempo; ma ho anche sostenuto che tra narrazioni di finzione e narrazioni storiche nella nostra tradizione, a partire dall’antica Grecia, c’è una sorta di conflitto, di competizione per la rappresentazione della realtà. E quindi anche degli scambi, e questo mi interessa molto, mi ha sempre interessato molto.
Ricordo che in una sua intervista ad Adriano Sofri, che le chiedeva un consiglio per un giovane che vuole cominciare a studiare la Storia, lei rispose: «Leggere molti romanzi».
Sì, è vero. Un paio di decenni dopo non l’avrei ripetuto, perché rischiavo di essere frainteso. Ma allora ne ero convinto e ne sono convinto ancora. I romanzi ampliano la nostra immaginazione morale: nostra in quanto esseri umani, ma quindi anche di noi storici.
Cosa intende per “immaginazione morale”?
Nella lettura di libri di finzione, ci possiamo ritrovare nei panni di un assassino, di un burattino, di un insetto. Delitto e castigo di Dostoevskij, Pinocchio di Collodi, La metamorfosi di Kafka: dimensioni lontanissime da noi; però questi scritti ci permettono di entrare in un mondo che non è il nostro e questo è, mi pare, qualcosa che ci nutre profondamente.
E forse ci permettono una lettura più complessa di eventi che ci riguardano, o che studiamo. Il suo lavoro di storico dialoga da sempre con la dialettica razionale/irrazionale. I benandanti ne sono una chiara testimonianza. Qual era il suo rapporto con il binomio razionale/irrazionale quando scrisse I benandanti?
Sono interessato ai fenomeni irrazionali, ma non in maniera mimetica. Non credo nella realtà dei poteri magici, ma mi interessano le persone che nel passato hanno creduto nella magia. Tra questi, Ernesto De Martino, il cui libro, Il mondo magico, è stato per me decisivo; anche se De Martino credeva nella realtà dei poteri magici e ha argomentato in questo senso, e io invece no.
Come osserva i fenomeni irrazionali?
Guardo i fenomeni irrazionali in una maniera non razionalistica, ma razionale, cioè non appiattendo il fenomeno irrazionale, ma cercando di capirlo dall’interno. E anche dal di fuori, ecco perché in maniera non mimetica, come dicevo. Credo che l’esempio più efficace ci venga offerto da Sigmund Freud: Freud ha cercato di guardare il sogno non in maniera mimetica, ma provando a ricostruirne la logica, il linguaggio, la retorica.
A proposito dei suoi tentativi di sottoporre fenomeni irrazionali a un’analisi razionale, nella postfazione alla nuova edizione Adelphi dei Benandanti scrive che all’inizio delle sue indagini si era ritrovato solo nell’archivio della Curia Arcivescovile di Udine: quella solitudine fisica le dava l’impressione che rispecchiasse una solitudine intellettuale, la consapevolezza di essere l’unico a percorrere quella strada di ricerca. Quante altre volte ha vissuto quella sensazione?
Nella postfazione, però, riguardo a quel senso di solitudine faccio un’eccezione, cito gli studiosi legati alla tradizione del Warburg Institute: una tradizione che mi attraeva moltissimo. Era una solitudine con una macroscopica eccezione, quindi. Però, ecco, ero consapevole del fatto che dei benandanti, dopo i loro inquisitori, non si era mai occupato nessuno. In quella circostanza ho percepito il senso di un’esperienza che non si è mai più ripetuta nella mia vita: l’idea, e l’impressione, che tra me e gli attori della mia ricerca non ci fosse di mezzo nessuno, non ci fossero degli studiosi. Soltanto gli inquisitori. In seguito, mi sono sempre trovato a lavorare su temi attorno a cui avevano lavorato altri studiosi e quindi il rapporto diventava più complesso. Non c’era quello sgomento, quell’euforia che avevo provato per i benandanti, però c’era una complessità maggiore.
Nel rispondermi ha sottolineato che nessuno si era mai occupato dei benandanti “dopo gli inquisitori”. Altro tema a lei molto caro, oltre allo studio degli attori, è lo studio degli osservatori.
Ho scritto un saggio a riguardo, che adesso devo tradurre in italiano perché vorrei raccoglierlo in un volume con altri scritti; si intitola Our words, and theirs, in cui rifletto da un punto di vista generale sul rapporto tra le parole e le categorie dell’osservatore e le categorie degli attori. È un tema che interessa una letteratura considerevole. C’è un antropologo e linguista americano, Kenneth Pike, che ne se occupò negli anni Sessanta: io però ho riletto Pike alla luce di Marc Bloch, che si era posto questo problema in termini molto più profondi. In epigrafe, infatti, riprendo una sua frase da Apologia della storia: «Fortunati i chimici che non hanno avuto a che fare con elementi che si autonominavano». Che naturalmente è uno scherzo, è ironico, però è legato a una riflessione sul lavoro degli storici: il confronto tra le categorie dello storico e le categorie degli attori.
Un confronto che le si pose anche per i benandanti?
Sì, si era posto anche nel momento dei benandanti, ma lì per lì non me ne sono reso conto con tanta profondità, come mi è capitato successivamente. Ero consapevole che le voci dei benandanti mi arrivavano filtrate dagli inquisitori, però inizialmente mi sono occupato soprattutto dello scarto che c’era tra di loro, tra ciò che riferivano i benandanti e il modo di recepirlo degli inquisitori. Era un aspetto di una ricchezza senza eguali.
A maggio, su «la Repubblica», è uscito un suo articolo dal titolo Perché la rete non potrà mai sostituire le biblioteche in cui scrive della differenza e della reciproca essenzialità del ruolo delle biblioteche e di internet. Ma se lei avesse avuto a disposizione “solo” l’esercizio della rete, sarebbe comunque riuscito a trovare Menichino?
No, sicuramente no. Quello richiedeva e richiede ancora un lavoro in un archivio che non è stato digitalizzato. Certo, qualcuno potrebbe pensare che ad un certo punto tutti gli archivi del mondo saranno digitalizzati, ma siamo lontanissimi da un’ipotesi del genere. Il lavoro diretto sulle carte dell’archivio era necessario per arrivare a scoprire Menichino. Si tratta di metodi e strumenti, le biblioteche e la rete, che bisogna sapere usare. Tra i due ci deve essere un rapporto di nutrimento reciproco. Non si può pensare che la rete sostituisca le biblioteche e gli archivi.
Carlo Ginzburg, I benandanti, Adelphi, Milano 2020, pp. 311 (ed. or. 1966).
Alla fine degli anni Ottanta Gérard Genette scrive uno dei saggi più importanti della critica letteraria del Novecento, che presenta un titolo affascinante ed enigmatico, Soglie. Per Genette le “soglie” sono tutto ciò che sta nei dintorni del testo - al suo “ingresso”, potremmo dire - e che dà la possibilità di leggerlo da diversi punti vista. Soglie sono il nome dell’autore, il titolo, le dediche, le epigrafi. Ecco, è l’epigrafe, ovvero la citazione che precede l’inizio di un romanzo o di un saggio, l’elemento che potrebbe darci modo di capire molto della storia e delle riflessioni che matureremo insieme a Ruska Jorjoliani. Perché sulla soglia, all’ingresso di questa nostra conversazione, bisognerebbe apporre i versi di una poesia di Vincenzo Cardarelli, Novembre, che comincia così: “C’è un giorno che tutte le formiche escono dal bosco/ a fare il fascio per l’invernata”. Chiedersi perché proprio questa poesia debba stare lì significa chiedere a Ruska Jorjoliani, giovane scrittrice georgiana, come cominciano i suoi rapporti con l’Italia.
“Era il 1996. Facevo parte di un gruppo di bambini provenienti da famiglie sfollate per la guerra, che sarebbero stati accolti in Sicilia per offrire loro uno spazio di pace e tranquillità. Tornata in Georgia continuo a vivere il legame con l’Italia, ci vengo ogni anno, frequento un liceo in cui si studia l’italiano. In quel liceo incontro una professoressa di lettere, si chiamava Ketevan Devadze, che crede molto nelle mie capacità e mi esorta a scrivere. Allora ci provo, però, non scrivo un racconto, come forse sarebbe stato naturale, ma traduco una poesia. E mi ritrovo a tradurre in georgiano Novembre di Vincenzo Cardarelli. Da quel momento la mia professoressa si convince, ha quasi la prova che la letteratura sarà la mia strada”.
E pure tu ne eri convinta?
“No, io no. Erano gli anni in cui il mio Paese si apriva al mondo, tra i miei intenti c’era quello di fare la diplomatica, e quindi ho cominciato a studiare Relazioni Internazionali a Tbilisi. Con il progetto di trasferirmi in Italia, dalla mia famiglia italiana, una volta finita l’università in Georgia. E così ho fatto, mi sono laureata e poi, a ventidue anni, mi sono trasferita in Sicilia. A Palermo ho iniziato a studiare Scienze politiche, ma qualcosa non andava. Vivevo tutto con enorme disagio e insoddisfazione. Cominciavo a pensare di avere sbagliato strada, che Scienze politiche non fosse la scelta giusta. In quel momento ho deciso di scrivere una lettera alla mia professoressa del liceo, per chiederle un incoraggiamento, una sorta di benedizione, per dirle che aveva sempre avuto ragione, che il mio desiderio più profondo era quello di scrivere, di confrontarmi con la grande letteratura”.
Come ti ha risposto lei?
“Che ne era convinta. Ed era felice che finalmente me ne rendessi conto io. È stata una figura determinante per me”.
Quindi, dopo quella sua risposta cominci a scrivere.
“Diciamo di sì. Mentre frequento Scienze Politiche, in un momento di grande malessere e scoramento, leggo molti poeti italiani. Giuseppe Ungaretti, Cesare Pavese, Dino Campana. Torno moltissimo sulle loro sillogi, finisco per studiarli sempre più a fondo. E parallelamente a quelle letture, a quello scavo, provo a replicare il loro fare poesia, il mettersi in versi, e così scrivo delle poesie in italiano. E le faccio leggere alla mia madre italiana, che in un primo momento non ci crede, non crede che possa esserne io l’autrice”.
Sarà poi lei a spingerti a partecipare al premio Mondello Giovani - Poesia, che vinci nel 2009. Cosa ti ha portato a scrivere in italiano? Mentre scrivevi, pensavi al fatto che stavi usando l’italiano e non il georgiano?
“Sì, è stata una scelta. Una volontà dettata da una spiccata spontaneità, da un clima che mi portava fisiologicamente a scegliere di adottare quella lingua. Dentro di me univo coraggio e ingenuità: il coraggio di confrontarsi con una lingua che non era la mia e con una tradizione letteraria insormontabile. L’ingenuità che ti permette, in quel momento, di non pensarci, alle questioni della lingua e della tradizione letteraria, e ti lascia scrivere così come senti di farlo.
La scelta dell’italiano era anche un modo per allontanarti, per separarti dalla te georgiana?
“Forse sì. A muovermi però non era l’intenzione separarmi dalla me georgiana, piuttosto l’esigenza di sigillare la mia volontà di fare parte di una cultura, della cultura italiana. Cercare di dare un’impronta più forte al mio voler essere italiana. Sono entrata in questa cultura, l’ho fatta mia: abitando la lingua italiana sono entrata a far parte della forma di vita italiana”.
Cosa intendi?
“La lingua modella le nostre vite. È il carattere che ci condiziona più di ogni altra cosa, che si insinua nei più riposti meandri della nostra personalità, che fa la nostra personalità. La lingua che abitiamo ci appartiene più di ogni altra cosa. O ci dà l’illusione di appartenerci più di ogni altra cosa, perché noi della lingua non possiamo appropriarci: non è qualcosa di materiale, un oggetto; siamo noi la lingua, ne siamo parte, ne facciamo parte. Eppure, è una bellissima illusione credere convintamente che ci appartenga per quel breve lasso di tempo che sono le nostre vite”.
La riflessione di Jorjoliani mi riporta alla memoria una risposta di Antonio Tabucchi a un interrogativo molto scomodo. Dal momento che era noto il suo cosmopolitismo, molti giornalisti gli chiedevano spesso quale fosse la sua patria, il Paese in cui si riconosceva cittadino. Allora Tabucchi rispondeva sicuro: “La mia patria è la lingua italiana”.
La conversazione con Ruska Jorjoliani rimane sulla soglia, non varca l’ingresso dei suoi due romanzi scritti in italiano - La tua presenza è come una città (2015) e Tre vivi, tre morti (2020). In futuro ci sarà l’occasione per superarla. Intanto fuori il tempo intuisce il seguito dei versi di Cardarelli: “Sopraggiungono, di lì a poco,/ le lunghe piogge autunnali,/ simili a un gran pianto dirotto, interminabile”.
Intervista a Mattia Insolia
«Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione?». Sembrerebbe un interrogativo molto provocatorio quello espresso da Umberto Saba in Scorciatoie e raccontini. Ma l’autore triestino non ha intenzione di provocare, bensì di rispondere, di chiarire un incomprensibile dato di fatto della storia italiana. Per Saba la ragione è rintracciabile nel mito fondativo della Penisola: «Gli italiani», scrive, «sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Pensiamoci bene: Romolo e Remo, Ferrucci e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani, e l’elenco potrebbe continuare a lungo.
C’è però uno scrittore italiano che con il suo primo romanzo è riuscito a sovvertire questa tradizione, sociale storica e letteraria, e a riabilitare il concetto di fraternità. Si chiama Mattia Insolia, ha venticinque anni e quest’anno ha esordito con Gli affamati (Ponte alle Grazie), la storia di Paolo e Antonio Acquicella, uno di ventidue e l’altro diciannove anni, uno muratore e l’altro studente, senza padre e senza madre, confinati nel piccolo paese di Camporotondo.
«Nei miei ragazzi non direi che c’è un tentativo di rivoluzione, ma di superamento. La rivoluzione pretende che si cerchi di superare il vecchio per costruire il nuovo. Negli Affamati, invece, Paolo e Antonio hanno l’intenzione di superare il loro passato, ma non quella di costruire qualcosa, anche perché non posseggono nemmeno i mezzi per farlo. Ecco, per superare il passato e il presente, entrambi si rendono conto che la loro forza è nell’unità. Non c’è fratricidio; rispetto a quanto diceva Saba, c’è una controtendenza».
Questa distinzione tra rivoluzione e superamento è importante. È come se nel concetto di superamento si volesse descrivere un impulso, un istinto alla vita, senza meta, senza fine o progetto. All’interno di questa idea, se Paolo e Antonio sono gli affamati che aspirano al superamento, che cos’è la fame?
La fame è vuoto. È un vuoto che riempie. È uno spazio che, nonostante sia sgombro da qualsiasi cosa, è quasi impossibile da colmare, perché ha una forma troppo particolare, e dentro ci può stare solo qualcosa che abbia i suoi stessi contorni. Ogni vuoto, che appunto è un tipo di fame, nasce da un abbandono, nasce da una mancanza, e solo qualcosa che abbia la sua stessa forma può riempirla.
I temi della fame e del vuoto si somatizzano non solo nei profili dei tuoi personaggi, ma soprattutto nei corpi dei nostri coetanei, la cosiddetta Generazione Z. Diventano ansia, claustrofobia (o claustrofilia), scompensi fisici, depressione. Come affrontare oggi quel vuoto, come saziare quella fame?
La nostra generazione è la prima vera generazione che sta affrontando la parte più profonda di sé stessa, dal punto di visto emozionale. Noto che tra di noi il dialogo sulle nostre emozioni, sul proprio sentirsi, finalmente viene fuori. Si sta evolvendo qualcosa, un diverso livello di coscienza, che prima non c’era. Bene, essere consapevoli di una così vasta scelta d’emozioni, ci spaesa, d’un tratto abbiamo capito che dobbiamo educarci a vicenda per saperci orientare, e ancora non sappiamo bene come muoverci.
Sarà dovuto anche a uno strano paradosso: l’epoca in cui una generazione matura un “diverso livello di coscienza” è la stessa in cui si vive un tempo enormemente accelerato. Profondità e velocità come codici e sintesi della medesima generazione
È vero. Per elaborare tutto avremmo bisogno di lentezza, però il mondo va veloce, va troppo veloce. Ci ritroviamo, allora, a procedere in modo contrario: velocemente da un punto di vista pratico, nei rapporti tra noi e l’esterno, tra noi e il mondo; lentamente da un punto di vista emozionale, nel confronto tra noi e l’interno, tra noi e noi stessi, tra noi e gli altri. C’è una sorta di scarto, di ritardo: la mia paura è che arriveremo a quaranta, cinquanta, sessant’anni con la parte di noi che ha a che fare col mondo esterno sovrasviluppata e la parte che ha a che fare con le emozioni sottosviluppata. Che, secondo me, è proprio quello che è successo alle vecchie generazioni.
Alla fine di questa nostra conversazione, dopo la tua riflessione sulle emozioni, mi sopravviene una scena da un film di Jean-Luc Godard, Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), quando si parla della responsabilità della propria infelicità («Sono infelice, sono responsabile»). Mi piacerebbe salutarti chiedendoti se la nostra generazione saprà essere responsabile della propria infelicità
Sì, credo di sì. La nostra sarà un’esistenza incredibilmente travagliata. Ci scontreremo con la nostra fisiologica infelicità per molti anni, se non per sempre. Però, sapremo razionalizzarla. È difficile riuscire a razionalizzare i propri problemi, è difficile riuscire a trovare una logica all’interno della propria infelicità. E non è detto che una volta trovata questa logica, provata questa razionalizzazione, saremo capaci di superare l’infelicità che ci portiamo addosso. È qui, però, che deve cominciare un fondamentale e indispensabile lavoro empatico.
In che senso?
Un’altra cosa che sto notando della nostra generazione è il suo essere attraversata da un forte sentimento di empatia. E noi di quell’empatia abbiamo bisogno. Ognuno di noi, attraverso il rapporto con l’altro, attraverso il rapporto con sé stesso, riesce a trovare una logica alla propria infelicità; ma solo attraverso l’empatia, che ci lega gli uni agli altri, è possibile trovare uno spazio comune, una bolla di condivisione in cui quell’infelicità possa essere sopportata. Compresa, accettata. È un grande lavoro futuro nei confronti del prossimo.
Una pagina, a margine. Parlando con il suo migliore amico Italo, Antonio gli confessa che vive le cose in modo più intenso. «E che significa ‘sta cosa?», gli chiede l’amico. «Che ne so…», risponde Antonio, il pensiero nella sua testa è chiaro, funziona, ma non riesce a dirlo a parole. Alla fine, ci prova: «Che sento di più le cose, diciamo».
Se dovessimo utilizzare un’efficace immagine bellica per descrivere la posizione e il ruolo delle librerie in Italia, potremmo dire senza esitazione che tutte le librerie, in Italia, “stanno in trincea”. Ce ne accorgiamo giornalmente: si reinventano di continuo, trovano sempre nuovi espedienti per poter arrivare ai lettori, e lo fanno nelle condizioni più difficili e disperate. Durante i mesi di lockdown, ci racconta Maria Romana Tetamo della libreria Dudi di Palermo, “abbiamo dovuto spostare le nostre attività sui social. Non potevamo semplicemente chiudere le porte della libreria e abbandonare i nostri lettori. Allora, per prima cosa, abbiamo deciso di portare sulla nostra pagina Facebook il progetto di lettura ad alta voce: ogni giorno segnalavamo dei libri e ne leggevamo dei lunghi brani. Ed ecco che succede qualcosa di assolutamente inaspettato: ci telefonano moltissimi genitori, non solo perché vogliono acquistare i libri che leggiamo (intanto avevamo attivato un servizio di consegne a domicilio), ma soprattutto perché desiderano che gliene consigliamo degli altri. E in queste telefonate ci confidano l’importanza delle nostre letture online e le enormi difficoltà nate in casa per tenere impegnati i bambini tutto il giorno. Ci siamo sentiti investiti di un’incredibile responsabilità”.
Il lockdown, quindi, ha permesso a tanti di accorgersi del vero lavoro di presidio, culturale e civile, dei librai. E pensare che riconoscere il ruolo sociale di una libreria, e in particolare di una libreria per bambini e ragazzi, dovrebbe essere scontato, dovrebbe anzi essere banale ricordarlo; eppure nel nostro Paese persiste una incomprensibile distrazione: “Quando ho aperto Dudi - ma mi capita anche adesso - alcuni genitori la scambiavano per ludoteca, altri per asilo, altri ancora per doposcuola. Avevano difficoltà ad accettare che potesse esistere uno spazio dedicato esclusivamente alla lettura dei più piccoli, che non avesse una utilità ulteriore”.
Lo spazio di Dudi, invece, da anni insegna un diverso valore del concetto di utilità e di necessità, quella che fin dall’infanzia ci lega alle pagine e alle voci delle storie. Una domanda, però, sorge. Questa distrazione non ostacola la sopravvivenza delle librerie? “La mia libreria va avanti, resiste. Certo, è un luogo dinamico: ho già parlato del progetto di lettura ad alta voce; ma ne abbiamo molti altri, per piccoli e per grandi. Molti corsi, laboratori. Questo genere di attività che noi ospitiamo non genera sulla libreria una ricaduta diretta, però le dà modo di essere continuamente scoperta, conosciuta, vissuta, e questo è fondamentale.”
C’è una domanda che da secoli rifonda l’idea di Occidente, una domanda semplice e chiara che però trova, di volta in volta, una risposta diversa, nuova. Spesso inattuale. È una celebre sollecitazione di Friedrich Holderlin ripresa dall’elegia Pane e vino: Perché i poeti nel tempo della povertà?
Lo scrittore tedesco si interroga sulle possibilità dell’esistenza di uno spirito creatore, e quindi della poesia, in un tempo di generale crisi. E in base alle diverse, nuove e inattuali risposte che sono state date nel corso dei secoli al suo quesito, è possibile continuare a leggere l’Occidente sotto una luce sempre originale: perché effettivamente sono i poeti a tracciare l’immagine del mondo che abitano (e che abitiamo), e mai il contrario.
Due giovani critici letterari, Diego Bertelli e Raoul Bruni, hanno deciso di rispondere a questo assillo occidentale inaugurando una nuova collana di poesia contemporanea, “novecento/duemila”, sorta all’interno del catalogo dell’editore Le Lettere.
Molte importanti realtà editoriali tendono a chiudere le loro collane, uniformando il catalogo, voi invece ne avete aperta una, e per giunta di poesia. Cosa vi ha spinto a farlo?
Certo, il panorama della poesia contemporanea è cambiato molto in questi anni, ma ciò non è necessariamente un male. È un fatto agli occhi di tutti che alcune collane storiche di poesia non ci sono più ed è altrettanto evidente che siano molto mutate quelle che ancora vediamo in libreria. Ci sono, allo stesso tempo, nuove realtà editoriali, anche interessanti, per cui si tratta di guardare in prospettiva a quello che sta avvenendo. La collana «novecento/duemila» si inserisce in questo contesto ancora in divenire, dove collane di poesia che prima non c’erano stanno cercando di rafforzare la propria identità e di rappresentare un punto di riferimento sempre più riconoscibile. La nostra collana, tuttavia, intende distinguersi dalle altre proponendo un progetto più ampio, dove coabitino una certa tradizione novecentesca e il presente, come si può desumere dal nome che abbiamo scelto. Accanto a libri di poeti esordienti o di giovane generazione intendiamo proporre volumi di autori che negli anni hanno segnato svolte linguistiche ed espressive. All’invito che ci è stato fatto dal direttore della casa editrice Le Lettere, Giovanni Gentile Jr., è seguito prima di tutto un progetto che spiegasse i motivi per cui era necessario aprire una nuova collana, oltre che un piano editoriale. In un contesto che, come abbiamo ricordato, è mutato ma nel quale è indubbia una presenza molto forte di nuove collane, noi volevamo insistere sull’idea che non basta proporre libri nuovi o autori emergenti ma che bisogna recuperare poeti del passato, riaprire l’interesse nei confronti di figure non canoniche, guardare anche a cosa c’è, o c’è stato, di eccentrico o di marginale rispetto al canone, specie sul versante stilistico-espressivo. Crediamo che nessun’altra collana stia facendo oggi un’operazione di questo genere: repêchage, auto-antologie e nuove proposte, senza eccessivi vincoli anagrafici. Le nostre prime uscite affiancano Nino De Vita, nato negli anni Cinquanta, siciliano, che scrive da molti anni in dialetto anche se ha esordito in italiano, con un’antologia personale, Il bianco della luna, dove si raccolgono trentacinque anni di produzione poetica, a due poeti trevigiani – Roberta Durante e Francesco Targhetta – che sono nati all’inizio e alla fine degli anni Ottanta: la prima con una nuova raccolta, Le istruzioni del gioco; il secondo con la riedizione di un libro importante ma rimasto ai margini, I fiaschi, arricchito di un’intera sezione di 60 testi inediti che conferiscono a tutta la raccolta un’impronta nuova.
A chi si rivolge la vostra collana? Punterà su chi è già un lettore di poesia o su chi ancora non lo è?
Solitamente il lettore di poesia è un lettore educato alla lingua della poesia, e non è raro che chi legge poesia la scriva. Sicuramente tra i nostri lettori ci saranno, prima di tutto, poeti o amanti della poesia. Noi ovviamente guardiamo a loro con grande entusiasmo, ma ci auguriamo al contempo di “intercettare” anche lettori più trasversali. Non è un caso che fra gli autori che abbiamo scelto, due su tre scrivano poesia con una forte propensione narrativa, come Nino De Vita e Francesco Targhetta, i quali però sono indubbiamente poeti raffinati dal punto di vista stilistico, e quindi l’andamento dei loro versi si nutre di una continua ricerca e di un costante lavoro sulla lingua. Devo dire che tutti e tre i poeti con cui inauguriamo la collana sono profondamente segnati da uno stile riconoscibile e da un uso della lingua difficilmente imitabile. È in questa prospettiva che ci auguriamo di ottenere anche l’attenzione di studiosi e critici. Che poi i nostri libri finiscano in mano a chi si avvicina alla poesia, a lettori “giovani”, in senso non strettamente anagrafico, questa è la speranza più grande.
Vorrei farvi una domanda difficile: non temete che “novecento/duemila” possa essere un insuccesso?
Pensare a una collana di poesia come a un prodotto di successo è una prospettiva che non ci appartiene. Pensiamo piuttosto a «novecento/duemila» come a una proposta di qualità, basata sulla ricerca di testi che abbiano un valore autonomo da ogni calcolo estrinseco. Anche perché un’operazione culturale fatta seriamente è sempre in qualche modo appagante, al di là di quello che sarà il riscontro del pubblico.
Che in Italia si legga poca poesia è un dato di fatto. Ma a cosa attribuite questo disinteresse? È forse colpa della scuola e del suo modo di approcciarsi al testo poetico?
Già nella prima metà dell’Ottocento, Leopardi scriveva che in Italia «sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacché gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive)». Questa sentenza è particolarmente cogente nel caso della poesia: qualcuno faceva notare che se i molti (troppi) che in Italia pubblicano libri di poesie, spesso a proprie spese, acquistassero almeno un libro l’anno, la crisi dell’editoria ne trarrebbe un decisivo giovamento. Certo, l’approccio della scuola ai testi poetici è in alcuni casi discutibile, ma il disinteresse dei lettori italiani per la poesia non può essere imputato esclusivamente al sistema scolastico. Andando controcorrente, si potrebbe dire che il disinteresse dipende anche dalla cattiva qualità di certa poesia contemporanea, che tende a chiudersi in un mondo asfittico di piccoli premi e piccolissime vanità personali.
Il nostro è un tempo difficile, attraversato da crisi e incertezze. Fuori da qualsiasi retorica, pensate che la letteratura, in particolare la poesia, possa davvero aiutare a salvarlo, questo mondo?
A questa domanda aveva già risposto esemplarmente Patrizia Cavalli, intitolando la sua raccolta di esordio del 1974 Le mie poesie non cambieranno il mondo. Se allora, quando il poeta era ancora investito di un mandato sociale e perfino politico, un titolo del genere andava controcorrente, oggi una dichiarazione del genere può sembrare fin troppo ovvia. Quindi sì: la poesia non incide direttamente sul miglioramento della società, a maggior ragione quando si propone di farlo per programma. Si può perfino andare oltre e sostenere che la poesia non ci rende necessariamente persone migliori (si ricordi che anche Stalin pubblicò una raccolta di poesie). Eppure, paradossalmente, mai come oggi, la poesia ci è necessaria, anche, e forse soprattutto, per il suo sottrarsi al dominio dell’utile.
Si intitola La linea del colore (Bompiani, 2020) il nuovo romanzo di Igiaba Scego. Un titolo che richiama molte storie e molte persone. Innanzitutto, William E.B. Du Bois che nei primi anni del Novecento sosteneva che la linea del colore ‒ una linea che divide, che marginalizza, che lacera i corpi ‒ sarebbe stato il problema di tutto il XX secolo. Ma è anche un riferimento ai saggi e all’impegno culturale di Alessandro Portelli, l’intellettuale a cui dobbiamo la diffusione della letteratura afroamericana in Italia, e la persona che ha spinto Igiaba Scego a scrivere. E infine c’è lei, Lafanu Brown, la protagonista della storia, una pittrice che ribalta l’aspetto ominoso del titolo, restituendo ai lettori la sua vita fatta di infinite linee e colori.
A partire dai molti temi che animano l’opera di Scego, proviamo ad affrontare alcune delle istanze più impellenti per il futuro del nostro Paese.
È possibile rintracciare un’origine, o una ragione, del diffuso sguardo razzista che oggi segna prepotentemente il nostro Paese?
L’Italia sconta la volontaria rimozione di due momenti importanti della sua storia. Da una parte, è stato un Paese colonialista e come gli altri Paesi europei è andato nel Sud del mondo, s’è accaparrato risorse, ha sfruttato manodopera, ha ucciso e violentato. Dall’altra, però, resta un Paese che ha conosciuto e vissuto l’emigrazione: gli italiani sono stati additati come feccia dell’umanità, hanno sofferto il razzismo. Allora da sempre penso che la rimozione di queste due storie, quella del colonialismo e quella dell’emigrazione, pesi molto sul nostro presente.
E questo cosa comporta?
Ci impedisce di vedere la vera natura italiana. L’Italia – la mia è un’utopia, lo so – dovrebbe essere il ponte tra Europa e Africa, ma ha scelto di non esserlo ed è questo il problema principale, ciò di cui un processo di decolonizzazione culturale deve occuparsi. Il nostro Paese ha scelto di abbracciare l’imperialismo, di diventare come il resto d’Europa e di agire come ha agito il resto d’Europa: colonizzare, sfruttare, depredare, distruggere. Ecco perché oggi è molto importante scavare nella complessa storia italiana. Non per assegnare colpe, dire “siete stati brutti, sporchi e cattivi”: non è quello che ci interessa, o almeno non interessa me. Ciò che serve è costruire una società che dialoga, che capisce perché oggi arrivano i migranti, soprattutto da alcune zone del mondo. La verità è che l’Italia continua ad essere percorsa dal razzismo, anche istituzionale: perché non abbiamo una legge sulla cittadinanza? Perché abbiamo ancora la legge Bossi-Fini? La risposta si trova in quella doppia rimozione di cui parlavo. Attenzione, dire che l’Italia ha rimosso il suo passato significa dire che tutti, italiane e italiani, lo hanno fatto. Ecco perché sono convinta che per decolonizzazione questo Paese basterebbe aprire gli armadi di famiglia, e mettersi davanti alla propria storia, sicuramente in ogni armadio si troverebbero foto e cimeli che rimandano alla Libia o all’Africa Orientale.
Che ci sia troppa paura di aprire quelle porte?
È necessario conoscere questa storia per destrutturarla nella nostra vita quotidiana, nei modi di dire, nel panorama urbano. Io non voglio distruggere il panorama urbano legato alla storia coloniale, però vorrei che la gente lo conoscesse, vorrei che lo sapesse affrontare. La reazione così non si concentrerebbe sul distruggere, ma sull’aggiungere. Aggiungere qualcosa per capire a che punto siamo oggi nella nostra storia collettiva. Faccio questo discorso perché facilmente si può scadere nella retorica: noi possiamo dire di rimuovere il nome del colonialista dalla strada o di togliere una statua da una piazza, ma mi ripeterò, quello che serve davvero è far capire, alle persone che non sono vicine a questi temi, che quella storia riguarda anche loro, che riguarda gli armadi delle loro famiglie. Perché altrimenti diventa tutto una mera astrazione, un semplice atto simbolico.
Come potremmo affrontare questi argomenti, fuori dalla retorica e dall’astrazione?
Adesso noto che si comincia a parlare di colonialismo, ma resta comunque un tema elitario, legato al mondo accademico. Per esempio, manca un grande film popolare sul colonialismo, un po’ come quegli sceneggiati degli anni Settanta che hanno insegnato la storia italiana agli italiani. Sarebbe molto utile perché quella storia venga conosciuta da tutti, e non solo da una nicchia di persone. A questo proposito si profila la sfida a cui siamo chiamati a partecipare nei prossimi anni, fare intorno a questi argomenti un lavoro di educazione, un lavoro scolastico, che non si limiti alla paginetta sulla storia coloniale, ma apra lo sguardo sul Sud globale: l’Africa non è una distesa di capanne, l’Africa è composta da 54 Paesi, bisogna studiarli, conoscerne la storia, soltanto così possiamo superare lo sguardo coloniale. E poi, io ho un sogno, che un giorno ci siano gli Erasmus per l’Africa.
Forse anche questo sogno in Italia prende l’aspetto dell’utopia…
Perché? Perché è impensabile un programma dove gli studenti delle università, invece di andare in Francia o in Gran Bretagna, vanno ad Addis Abeba? Perché no, perché non a Tunisi o in Ruanda? L’Africa non è una distesa di capanne, è un continente moderno, e questa cosa va capita, se no anche il nostro sforzo di parlare di colonialismo potrebbe cadere nel vuoto.
Igiaba, vorrei chiederle ora di un altro problema che interessa i temi che abbiamo affrontato: l’uso distorto del concetto di libertà. Non è raro vedere la parola libertà sbandierata come una sorta di superpotere grazie a cui ti è permesso fare e dire di tutto. Come rispondere a questo atteggiamento?
Io intendo la libertà come qualcosa che costruisco insieme agli altri: la libertà non può essere un’espressione singola e indipendente, la mia libertà deve entrare in dialogo con le libertà degli altri, con le identità degli altri. Contrariamente, qualsiasi colonizzatore potrebbe sentirsi libero di avere degli schiavi, potrebbe rivendicare ciò come suo diritto, ma questa non è libertà: se lede la vita di qualcuno questa non è libertà, è sopruso.
Un sopruso che spesso non trova voce. Anche questo è un problema che riguarda la libertà
È vero. Prendiamo i media, ad esempio. In Italia manca una rappresentazione reale di quello che noi consideriamo libertà d’espressione. A comandare sui media sono pochi maschi bianchi di mezza età, e questo è un enorme problema, perché uccide la tanto agognata pluralità. Nel nostro Paese non abbiamo una vera pluralità di voci, le voci “altre” fanno una fatica incredibile a emergere: quindi dobbiamo prendere coscienza che la libertà d’espressione di molte parti di questo Paese è effettivamente annullata. Non sentiamo le voci altre, sentiamo sempre le stesse voci. Allora, mi chiedo, possiamo parlare di libertà d’espressione in un Paese quando al suo interno c’è chi non ha la possibilità di esprimersi? Questo è un problema, è un dilemma. L’Italia deve creare una rappresentazione più ampia di quello che è il popolo italiano, che non è costituito soltanto da quegli italiani con passaporto italiano, ma comprende tutti quelli che vivono in Italia da tanto tempo, ci sono nati e cresciuti, e magari non hanno ancora la cittadinanza per colpa di una legge ingiusta.
Alla fine di questa nostra conversazione, la mia ultima domanda è: che fare? Quali sono gli interventi che bisognerebbe mettere in atto per cambiare concretamente qualcosa?
In Italia dobbiamo fare subito la riforma della cittadinanza. Dobbiamo permettere che le persone nate o cresciute qui possano subito essere riconosciute come italiane. Adesso c’è il dibattito sullo ius culturae, ma non si riesce nemmeno a fare quello: lasciamo in sospeso persone che vivono qui senza avere alcun documento, è allucinante, vuol dire avere un Paese a metà, vivere in un Paese bloccato. Poi, l’altra cosa che dovremmo fare è cancellare la Bossi-Fini, che è una legge che crea apartheid e illegalità: le persone non arrivano in modo illegale, ma per colpa di questa legge infausta entrano in uno stato di illegalità. A questo punto, il Paese si deve organizzare: quando l’Italia dà l’asilo, finora lo rilascia esclusivamente a livello di documenti, ma non si occupa per nulla dell’inserimento nella società del migrante. Chi arriva qui è quasi sbattuto sulla strada, se non ha una comunità forte alle spalle è finita. In altri Paesi, come la Germania, dopo aver concesso l’asilo, si insegna la lingua, un mestiere, c’è un percorso di inserimento, il Paese investe su di loro, sono parte del futuro di quella nazione. In Italia non c’è niente, le persone sono lasciate a sé stesse e tutti i nostri discorsi sull’accoglienza risultano davvero, in gran parte, pura retorica.
«I pochi intellettuali rimasti», sostiene Romano Luperini, «sono nella scuola e sono dei traghettatori di contrabbando». Tra i traghettatori più abili quest’anno si è distinto Davide Ruffini, insegnante di lettere in una scuola media abruzzese, che ha esordito nel mondo letterario con Tutti assenti. Un anno di scuola in campagna (Mesogea). Uscito poco prima del lockdown, ha visto trasformare il suo titolo da ideale richiamo e citazione delle Anime morte di Nikolaj Gogol a funesto presagio del destino della scuola. Il romanzo, attraverso la voce narrante di un professore cinico e disincantato, mostra dell’universo scolastico un volto irriconoscibile, se l’unico nostro sistema di riferimento erano stati finora i resoconti dei quotidiani o le fiction Rai. Tutti assenti racconta, con semplicità disarmante, le difficoltà di una delle tante, dimenticate scuole di periferia del nostro Paese, che non assurge mai a modello di qualcuno o di qualcosa, ma strenuamente resiste e ogni giorno si confronta con le storture del presente. Alla vigilia del rientro in classe, con Ruffini dialoghiamo della scuola dentro e fuori le sue pagine, dell’esperienza della didattica a distanza e dello stato d’animo con cui riascolterà finalmente la prima campanella dell’anno.
Il suo romanzo a tratti si rivela davvero molto cinico. Pochissimi avrebbero il coraggio di raccontare delle lezioni in una classe “morta” come fa lei in Tutti assenti. Al di là del riferimento a Tadeusz Kantor, cosa vuole sortire la sua scrittura?
Spesso si racconta la scuola come un posto infernale, dove le classi sono tutt’altro che “morte”: sono vivacissime, euforiche, trasbordano vita. E sono le classi all’apparenza più problematiche. A me invece interessava un racconto che si fa poco, che si sente poco; volevo raccontare quella zona d’ombra popolata da alunni che a lezione hanno pochissima verve, che hanno altri interessi, che sono “assenti” rispetto al luogo in cui si trovano. Perché ci sono, sono tantissimi gli alunni così, con questo atteggiamento di semi-dormienti. A questo nel romanzo si affianca una riflessione sull’inadeguatezza dei personaggi di fronte alla scuola e alla vita. Questa vita di provincia che in qualche modo contagia anche la scuola.
Quindi è l’aria della provincia a suscitare il torpore generale in aula o è piuttosto la scuola a suscitare l’aria della provincia?
Capita di leggere sui giornali o vedere in televisione dei servizi sulle scuole modello, soprattutto in quartieri molto difficili di provincia, che sono presentate come baluardo di salvezza della loro comunità. Io non conosco quelle realtà, e non posso dire se siano vere o no. Nel mio romanzo, tra il dato realistico e la dimensione letteraria, la scuola, il quartiere e la provincia sono tutt’uno: la scuola non è un’oasi di differenza, di alternativa, di alterità in contrasto con l’ambiente circostante. L’ambiente circostante è soporifero e questo gas soporifero entra dalle finestre che noi in classe lasciamo sempre spalancate. D’altronde, è molto più semplice imitare l’esterno che essere parte attiva e diventare qualcosa di alternativo.
Qual è allora il ruolo della scuola?
Nell’immaginario comune la scuola dovrebbe essere una specie di frangiflutti per proteggersi da ciò che sta all’esterno. La verità è che le nostre scuole oggi sono sovraccaricate di responsabilità. Altri enti formativi, come la famiglia, attraversano un forte periodo di crisi e la scuola si fa carico anche dei loro oneri. Spesso per i ragazzi diventiamo davvero un’ancora di salvezza. Finché la scuola riesce a sopportare questo carico è un bene, ma non è detto che ce la faccia.
Potremmo dire che ce la farà finché ci sarà la sentita vocazione di tanti docenti? Forse uno dei pochi elementi che ancora sorregge il sistema.
Tre le tante cose assenti nel mio personaggio c’è la vocazione all’insegnamento. Anzi potremmo dire che la vocazione è uno dei protagonisti della storia, ma è assente. A differenza di tanti giovani insegnanti che vedo si impegnano con enorme passione, il narratore è un po’ spinto dalle cose: gli arriva la convocazione come supplente e lui semplicemente si lascia trascinare dagli eventi. Almeno all’inizio del libro.
E lei sente di averla, la vocazione all’insegnamento?
Non so se ho una vera e propria passione per l’insegnamento. So che ho una grande passione per le materie che insegno – italiano, storia, geografia. Fin da quando ho iniziato la mia carriera di lettore, ho sempre avuto questa inclinazione a suggerire letture, a dire che la lettura può essere un piacere. Ed è questo per me il punto delle mie materie: restituire, a chi non lo conosce, il piacere di scoprire. Sono convinto che l’insegnamento abbia a che fare con la generosità, che sia una forma di generosità, l’istinto a condividere con gli altri ciò che più ci entusiasma.
Come ha vissuto la didattica a distanza? È stata un’esperienza positiva o negativa?
La didattica a distanza è stata molto, molto pesante. Il nostro lavoro si è triplicato, ma dai ragazzi abbiamo ottenuto un terzo. Gran parte di loro ha appreso meno di quello che avrebbe appresso in classe; molti altri si sono dispersi totalmente. Questo è stato uno degli effetti di quanto dicevamo prima. Quando la famiglia manca o è in difficoltà, con più facilità i ragazzi si sono persi o dispersi. Tra l’altro, vivevamo un clima terribile. Non so se eravamo noi a sentire la mancanza dei ragazzi o i ragazzi la nostra. Avvertivamo da parte loro la necessità di vicinanza. È stata un’esperienza negativa ma inevitabile: meglio fare tre mesi così che non fare niente. Ecco perché io non la chiamerei didattica “a distanza”, ma didattica “dell’emergenza”.
Ed è impensabile vivere in una continua situazione d’emergenza…
Chi vagheggiava di una didattica che potesse essere fatta in assenza, ha avuto la prova che la tecnologia può essere un supporto, non può però sostituire completamente la fisicità dei corpi e degli spazi.
Avete avuto delle difficoltà tecniche: computer che mancavano, assenza di connessione a internet?
All’inizio c’è stato chi ha avuto difficoltà: magari a casa non avevano il computer o una buona connessione. Allora la scuola s’è attrezzata per fornire i computer e la connessione: siamo arrivati ad un punto in cui tutti i ragazzi avevano la possibilità di connettersi e lavorare. Immagini, però, la difficoltà dei bambini della prima elementare che dovrebbero imparare a leggere e a scrivere, o consolidare e perfezionare l’esperienza di scrittura e lettura. Ribadisco ancora una volta: un conto è avere a casa genitori attenti, un conto è non averli. La didattica a distanza ha rimarcato, ha approfondito, la distanza che c’era tra chi ha la possibilità di essere seguito e chi non ce l’ha. Non è più soltanto una questione di strumenti, perché siamo andati incontro a tutti. Il problema che si rivela è la presenza o meno della famiglia.
Qual è il suo stato d’animo a pochi giorni dal rientro?
Da una parte sono felice perché torno in classe con gli alunni, dall’altra sono preoccupato perché abbiamo tre mesi di una sorta di deficit di apprendimento, e specialmente perché adesso i nostri ragazzi si ritroveranno a vivere in una situazione inedita, con tantissime nuove regole, nuovi protocolli da rispettare. Protocolli e regole che fuori non sono abituati a rispettare. Il mondo di fuori, in questi mesi, non ha dato un buon esempio. Ecco, penso che dovremmo innanzitutto affrontare questa crepa tra dentro e fuori.
Da questa settimana cominciamo una nuova serie di conversazioni con giovani intellettuali italiani: editori, scrittori, insegnanti, influencer, attivisti. Il nostro intento è dimostrare che esiste ancora una generazione di intellettuali pronta ad affrontare il presente con idee inattese e originali e a prendere posizione sui temi decisivi per il nostro futuro.
Molti filosofi hanno disputato attorno alla parola “utopia”. Alcuni credono che indichi un luogo che non esiste, o che non esiste ancora, che non è presente nelle carte geografiche (ou-topos); altri, d’altro canto, ribaltano la prospettiva e pensano che sia il luogo migliore, il posto da sempre agognato per la realizzazione delle proprie speranze (eu-topos). Gerardo Masuccio, ventinove anni, quest’anno ha fondato una casa editrice che si chiama proprio Utopia e custodisce all’interno del suo nome l’ambiguità di cui accennavamo: innanzitutto, era una realtà che non esisteva ancora, che non ha simili nel panorama editoriale italiano. Nello stesso tempo, però, nasce per essere quel “luogo migliore” dove i libri sono al centro di una particolare filosofia di lettura, sì, ma soprattutto di una particolare filosofia di vita.
Come nasce Utopia?
Dal punto di vista teorico, Utopia è un progetto che risale a molti anni fa. Anche se non corrispondeva a questo nome, a questo piano editoriale, a questa squadra di lavoro, l’idea di costituire una casa editrice risale alla mia adolescenza. Ho iniziato a studiare all’università già con questa prospettiva. Un progetto che è cresciuto con me, di fatto, sono più di dieci anni che ci penso. Concretamente, Utopia è nata alla fine di gennaio, a Milano.
Quali ruoli rivesti all’interno della casa editrice?
Sono il fondatore. Poi, nello specifico, mi occupo della parte della ricerca, dello scouting: vado alla ricerca di romanzi e saggi in Italia, in Europa e all’estero.
Quante persone lavorano al progetto?
Siamo in sette. Tutti nati negli anni Novanta, tutti con una certa esperienza nel mondo dell’editoria, ciascuno a titolo diverso. Quando abbiamo capito che c’erano le condizioni “ambientali” per creare progetti nuovi, ci siamo ricongiunti, ci siamo chiamati, e abbiamo cominciato insieme a lavorare su Utopia.
Qual era il vostro capitale di partenza?
Oggi è possibile aprire una S.r.l. con poche migliaia di euro. Il nostro capitale è nell’ordine delle decine di migliaia di euro ed è un capitale sostenuto - quindi non quantificabile nello specifico - da diversi evergeti che ci aiutano, e all’occorrenza sono disponibili a coprire delle spese. C’è un sostegno importante di questi benefattori, dicevo, e poi ci sono i nostri risparmi, i miei risparmi, che sono stati fondamentali per iniziare.
Quindi esiste davvero chi investe in progetti culturali.
Sì, l’editoria richiede degli investimenti importanti, e c’è chi con più esperienza, con più anni, ha voluto investire su di noi. Sono delle persone che lavorano in altri ambiti, ma hanno una certa sensibilità per la cultura. Nel mondo anglofono si parla di business angels, che non sono dei finanziatori, come può essere qualsiasi banca, che richiede un preciso interesse. Sono delle persone di successo, che amando i libri e la letteratura, e vedendosi presentare un progetto concreto, si sono prestate ad aiutarci.
Le sette persone che lavorano in casa editrice avranno un loro stipendio o stanno facendo anche loro un investimento in termini di lavoro?
In questo momento le nostre retribuzioni non sono allineate con quelle del settore. Sono molto più basse. È un momento in cui le entrate sono sporadiche, perché è un periodo di investimenti, di uscite. Quindi speriamo che nel giro di un anno e mezzo, due anni, ci possa essere una retribuzione per chi sta lavorando. Fermo restando che noi lavoriamo tutti anche, in parallelo, in attività simili. Per esempio, io faccio il consulente per la poesia in Bompiani. Il resto della mia giornata la dedico, invece, a seguire questo progetto, questa startup. Mi rendo conto che nel mondo dell’editoria non è frequente questo fenomeno, però in altri sì, specialmente quelli delle tecnologie nuove, delle nuove app: succede spesso che ragazzi che lavorano in contesti più strutturati nei margini del proprio lavoro ufficiale si dedichino a questi progetti crescenti, ambiziosi, che possono soppiantare la vecchia carriera e diventare preponderanti.
Hai definito Utopia una startup. Effettivamente è strano associare la parola startup a una casa editrice.
È una startup, sì, credo che sia una delle pochissime startup, nell’ultimo ventennio dell’editoria italiana, che parta già con una distribuzione nazionale. Perché i nostri libri sono distribuiti in tutte le librerie da Messaggerie. Il mese scorso abbiamo ringraziato tutti i librai perché i primi tre libri saranno veramente in tutte le librerie del Paese, e questo secondo me è essenziale. Perché è vero che ci sono tante piccole case editrici, però forse spesso lavorano come tipografie, cioè stampano libri con grande professionalità, a volte anche con lungimiranza, ma non riescono a immetterli nel mercato. Se essere è essere percepiti, in qualche modo è necessario che i prodotti arrivino all’utente, al fruitore, nei luoghi deputati all’acquisto. Almeno per i libri di qualità, le librerie sono indispensabili, più degli store online, più dell’e-book. I lettori forti vogliono leggerli quasi sempre su carta e vogliono comprarli in libreria. Quindi è essenziale che i nostri titoli siano disponibili sia nelle librerie di catena che in quelle indipendenti.
Qual è l’idea che anima Utopia?
L’idea è quella di concentrarsi soltanto sulla grande letteratura. Su una letteratura che non sia consumo puro e non si estingua in pochi mesi come succede a molto prodotti librari - non voglio chiamarli libri - che spesso la grande editoria veicola. Chi legge tanto, entrando in una libreria, ha un po’ un senso di spaesamento, perché c’è così tanto da leggere che non basterebbe una vita. Poi se uno impara ad allenare l’occhio si accorge che la maggior parte della carta stampata in una libreria non merita un’autentica lettura, sono dei libroidi che somigliano, che si vestono da libri ma non hanno niente a che fare con i libri veri. Sono oggetti di consumo, intrattenimento, divertissement. Che certamente hanno la propria dignità merceologica, ma non hanno nessuna dignità intellettuale.
Il 17 settembre in libreria arriveranno i vostri primi due titoli. Ce ne puoi parlare?
Iniziamo con due recuperi importanti del Novecento. Utopia ha superato la dicotomia storica tra letteratura italiana e letteratura straniera, e non soltanto perché chi cura queste collane è nato intorno agli anni di Maastricht. Noi faremo due collane, una di Letteratura europea e un’altra Letteratura straniera: capiterà, ad esempio, che uno scrittore di lingua italiana e uno scrittore di lingua francese convivano in una collana sola, e due scrittori di lingua spagnola siano ospitati da collane diverse.
Chi sono gli autori recuperati?
Due straordinari scrittori europei, Massimo Bontempelli e Camilo José Cela. Se possiamo pubblicarli è soprattutto grazie ai loro eredi, che si sono fidati di questo nostro progetto in divenire. Di Bontempelli proponiamo Gente nel tempo, il romanzo-manifesto del realismo magico italiano. E di Camilo José Cela, Premio Nobel nel 1989, pubblichiamo il suo capolavoro giovanile, La famiglia di Pascual Duarte, romanzo epistolare che ricorda il miglior Dostoevskij.
Da che cosa dovrebbe essere assicurato il futuro e il successo di una casa editrice?
Credo che il successo non sia prevedibile. Muovermi in questa attività economica non ha l’obbligo di un effettivo risultato. Noi lavoriamo nel migliore dei modi, con un’attenzione particolare alla ricerca, con un particolare interesse alla coerenza grafica di questi libri, con dei principi che sono una filosofia di vita e di lettura: siamo dei lettori che hanno ben chiara l’idea dei libri che meritano di essere letti.
Ed è questo che vi distingue all’interno del mondo editoriale?
L’editoria tradizionale è sul viale del tramonto, soprattutto dopo questo periodo di crisi. I grandi gruppi editoriali sono dei giganti, sono strutturati come delle aziende che si fondano sul principio dell’impiegatizio, e non danno più spazio agli intellettuali. Le case editrici non sono più locomotive di un sistema culturale, ma son dei vagoni semplici che seguono le tendenze, non le dettano più. È facile cadere in questo tranello perché il capitalismo non impone di orientare, ma spinge l’impresa a lasciarsi orientare dal mercato. Questo condanna l’editoria a sopravvivere senza identità: se un editore segue i propri lettori senza orientarli, senza conversare sul senso della letteratura, non ha più senso che faccia l’editore.
Per tracciare con precisone il disegno di un’isola a volte è necessario divagare, altre volte bisogna addirittura perdersi.
Giorgio Agamben comincia la sua raccolta di saggi letterari, Il fuoco e il racconto (nottetempo), con una pagina di Gershom Scholem sulla mistica ebraica. Scholem racconta che quando Baal Schem, il fondatore del chassidismo, si trovava in difficoltà, «andava in un certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le preghiere e ciò che voleva si realizzava». Le generazioni successive a Baal Schem a poco a poco cominciano a perdere la conoscenza di questi rituali: inizialmente non sanno più come accendere il fuoco, poi non sanno più dire le preghiere, e poi dopo non conoscono più il posto nel bosco. Ma il ricordo di almeno uno di questi gesti permette loro di realizzare sempre ciò che desiderano. Rabbi Israel di Rischin, però, vive in un tempo in cui s’è perso del tutto questo antico sapere. Allora, resta seduto nel suo castello e dice: «Non sappiamo più accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia». E così, ciò che vuole, ogni volta, si realizza.
Adesso, è lecito chiedersi: cosa c’entra il racconto di Scholem con l’isola di Amorgos? Niente, all’apparenza. Ed è facile, come recita il vecchio adagio, farsi ingannare dalle apparenze. Perché, in realtà, c’è una storia che lega il racconto di Scholem all’isola di Amorgos e questa storia inizia nel 1943, in Grecia, durante l’occupazione italo-tedesca, quando il poeta Nikos Gatsos, appena trentunenne, in una sola notte scrive un poemetto in sei parti e lo intitola Amorgos.
L’opera si ispira al surrealismo francese, con delle evidenti venature mediterranee («Così l’uva appassisce in un orcio profondo e nel campanile/ di un fico ingiallisce una mela»), tra i giovani diventa presto leggendaria. Sicuramente la più famosa di Gatsos, la più misteriosa, e anche l’unica, dal momento che dopo Amorgos l’autore smette di scrivere poesie. Le ragioni di questa decisione non sono mai state chiarite.
La prima parte si apre con la scena di un naufragio: «Con la patria legata alle vele e i remi appesi al vento/ I naufraghi dormirono mansueti come fiere morte/ nei sudari delle spugne». Nella rapida e convulsa successione di immagini, niente è lasciato al caso. Descrivere nei primi versi la condizione del naufrago, figura al limite tra la vita e la morte, tra l’oblio e la resurrezione, significa anticipare lo spirito che animerà tutto il componimento. Gatsos, infatti, inscena l’eterna dialettica che vede da una parte il desiderio di esistere e resistere (l’eros) e dall’altra l’inclinazione a scomparire e ottenebrarsi (thanatos): «Devi tuffarti nel sangue prima che il tempo ti raggiunga/ E passare dall’altra parte a ritrovare i tuoi compagni/ Fiori uccelli cervi/ A trovare un altro mare un’altra tenerezza». Sembra quasi una metafora della sua personale esperienza poetica.
All’interno di Amorgos i continui e precisi riferimenti alla dimensione mediterranea, alla flora e alla fauna, al mare che circonda lo spazio dei naufraghi, potrebbero facilmente giustificare il titolo che Gatsos ha scelto di dare: l’approdo ad Amorgos, l’isola più orientale delle Cicladi, una delle cartoline greche più affascinanti, la natura rocciosa e aspra ancora incontaminata, con un solo piccolissimo paese di case bianche che pare spuntino fuori dal profondo azzurro del Mar Egeo. Ecco, quest’isola, la sua natura rocciosa e aspra, le case che spuntano dall’Egeo, Nikos Gatsos non le conosceva affatto, non c’era mai stato, non le aveva mai visitate. Infatti, non è l’isola che evoca nei suoi versi, nei quali invece traccia con la precisione di migliaia di immagini il disegno di un’altra isola, un’isola parallela, che si chiama Amorgos ma non ha niente a che vedere con l’arcipelago delle Cicladi. Questa invenzione di Gatsos si regge su di uno spazio sospeso, che è quello della poesia, del racconto. Perché i poeti, gli scrittori sono dei geografi beffardi e mendaci, e i loro atlanti sono in perenne trasformazione.
A questo punto possiamo ritornare al rapporto con il racconto di Scholem. All’età di trentun anni, nel pieno della Seconda guerra mondiale, il nostro poeta si trova a vivere un tempo in cui l’uomo ha smarrito sé stesso, la coscienza del suo passato, il suo rapporto con la natura, le liturgie che lo legavano ad essa. Come Rabbi Israel di Rischin, Gatsos non conosce più il fuoco, le preghiere e il posto nel bosco, però di tutto questo può raccontare la storia. Può raccontare la sua Amorgos. Ed è così che anche stavolta le parole hanno avuto l’occasione di fondare nuovi mondi e di far sorgere nuove isole.
Non dobbiamo diffidare delle geografie letterarie, sono i luoghi più concreti e reali in cui ci viene offerta l’occasione di esistere e resistere.
Una breve nota finale. È vero che il poeta Nikos Gatsos non ha più scritto poesie dopo Amorgos, ma sarebbe sbagliato lasciare intendere che abbia completamente abbandonato la scrittura. Gatsos continua a scrivere testi per le composizioni dei maggiori musicisti greci, tra cui Manos Chatzidakis e Mikis Theodorakis.
Amorgos è stata integralmente, e magistralmente, tradotta in italiano da Maria Caracausi. La traduzione è possibile reperirla nel numero 152 della rivista Poesia di Crocetti editore.
Certe volte un cappello può fare la differenza. Perlomeno era così a casa dello scrittore Carlo Fruttero, che aveva escogitato con i suoi familiari un curiosissimo stratagemma per potere lavorare tra le mura domestiche senza essere disturbato: se lo si vedeva in giro con indosso il cappello, allora nessuno poteva rivolgergli la parola; se invece non aveva il cappello indosso, gli si poteva chiedere qualsiasi cosa.
Questo simpatico aneddoto raccontato dalla figlia Maria Carla non descrive soltanto una prima, felice esperienza di home working, o smart working, ma ci offre la possibilità di riflettere su ciò che viene spesso definito “lavoro immateriale”. Carlo Fruttero, infatti, non sfoggiava il cappello per foderare una scarpa o aggiustare una staccionata. Il cappello aveva una funzione essenziale per un motivo ben preciso: impedire che qualcuno gli facesse perdere il filo dei suoi pensieri. Perché il suo lavoro si concentrava proprio sul trattenerli, quei pensieri, indispensabili per inventare storie e poi scriverle. Un perfetto esempio di lavoro immateriale, potremmo dire.
Naturalmente l’immaterialità comprende tanti altri campi oltre a quello letterario: un attore che recita un monologo di Shakespeare, un pianista che suona una partitura di Rachmaninov, un artista che fa una performance dal vivo. Nessuno di loro produce una merce acquistabile; tutti però offrono a un editore, a un produttore o a un imprenditore le loro esperienze artistiche perché queste vengano offerte a un pubblico.
Adesso, a noi non interessa ritornare sulle implicazioni proposte dal filosofo Walter Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ma senza dubbio importa capire qual è oggi la percezione del lavoro immateriale nel nostro Paese. E cercheremo di farlo attraverso un libro e una lettera.
La lettera è la risposta del premier Giuseppe Conte all’appello del maestro Riccardo Muti del 26 ottobre. Dopo l’annuncio del dpcm del 24 ottobre sulla chiusura di teatri, cinema e sale da concerto, Muti in una lettera aperta pubblicata dal Corriere della sera esortava Conte a non considerare «superflue» queste attività e chiedeva la loro riapertura. Giuseppe Conte replica l’indomani, sempre sul Corriere, ricusando elegantemente le richieste del direttore d’orchestra. È molto interessante, però, soffermarsi sulle categorie utilizzate per mitigare la sua posizione. Per sottolineare che la sua è stata «una decisione particolarmente sofferta», Conte scrive: «Ma non intendiamo affatto rinunciare alla bellezza, alla cultura, alla musica, all’arte, al cinema, al teatro. Abbiamo bisogno del nutrimento che da queste attività ricaviamo e della capacità di sogno che queste ci suscitano. Intendiamo tornare al più presto a fruire di queste emozioni in compagnia, condividendo la muta armonia che si instaura in presenza di un vicino, anche se sconosciuto. La nostra dimensione spirituale non potrebbe sopravvivere senza questa esperienza». Bellezza, cultura, emozioni, dimensione spirituale: queste parole tracciano il campo semantico del lavoro immateriale in Italia. Se si parla di cultura, non si parla mai di indotto, di sistema economico che partecipa alla ricchezza della nazione. Non sentiamo mai parlare della macchina industriale che vive dietro ai teatri, ai cinema, alle sale da concerto, ai festival. È sempre tutto relegato all’universo delle emozioni, dei sogni. E un’emozione in più o in meno, alla fine, non conta molto per uno Stato. Effettivamente, emozionare non è un lavoro, è una conseguenza suscitata dalle esperienze culturali prima evocate.
Ebbene, se il lavoro immateriale continuerà a essere considerato solo dentro quel campo semantico, i teatri, le sale da concerto, i cinema, i festival saranno sempre giudicati attività superflue. Sia durante la pandemia sia dopo la sua fine. Dal momento che vengono percepiti esclusivamente nella loro dimensione di passatempo e svago, di assistenza per spiriti afflitti o cuori infranti, è difficile pensare che possano avere un’utilità ulteriore. Quando, invece, sappiamo bene che contribuiscono concretamente al PIL italiano.
Questo non significa che il governo Conte sbagli ad applicare certe misure per il contenimento del contagio; ma le parole del premier nella replica a Muti testimoniano sicuramente il pregiudizio, consapevole o meno, nei confronti di tutti quei lavoratori che non producono o vendono niente di materiale.
Per provare a sanare quel pregiudizio bisognerebbe provare a leggere un libro uscito da poco, si intitola Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore (il Saggiatore), l’esordio narrativo di Gabriele Sassone: un insegnante d’arte si trova a preparare, in una notte, una relazione sulla situazione dell’arte nell’epoca dei social media. Che si trasforma presto in una complessa e appassionante riflessione su chi siano oggi e come si diventi artisti, sul ruolo che questi occupano nella nostra società e sulla percezione che molti hanno di simili figure. In una delle pagine più sorprendenti Sassone fa un raffronto tra il dipinto di Francisco Goya, Cane interrato nella rena, e i sacrifici che compie un artista emergente per sopravvivere. Come il cane di Goya, l’artista si affanna strenuamente per emergere dalla sabbia, rinuncia a tutto, alla famiglia, a un lavoro sicuro, rinuncia persino al suo corpo, per potere continuare a esserci, a creare. Ma attorno a lui c’è solamente la rena, l’indifferenza generale che lo annega.
Assimilare quell’immagine significherebbe cominciare a prendere coscienza del ruolo e della necessità del lavoro immateriale in Italia. E comprendere che la metafora del cane di Goya potrebbe fatalmente estendersi e risucchiare, come sabbie mobili, i lavori di tutti i generi. Lasciando in superficie un trascurato, consunto cappello.
Ogni giorno mi sembra di assistere a uno strano sortilegio. A Marsala, all’ora del tramonto, chiunque passi per Capo Boeo, che sia estate o inverno, che lo voglia o no, si ferma a guardare il mare. Chi stava guidando accosta la macchina appena può, e scende; chi era in bici o passeggiava sul litorale, si arresta e sposta subito lo sguardo verso i profili trasparenti delle isole Egadi – Favignana, Marettimo, Levanzo. Istintivamente tutti tirano fuori il cellulare e provano a fotografare la sfera rossastra che si inabissa davanti ai loro occhi, ma restano sempre delusi dall’esito delle foto. Mancano i colori che in quel momento stanno osservando, mancano le sfumature della luce sulle isole: si vede solo un piccolo cerchio su uno sfondo scuro. Però a loro non importa, ci riproveranno, domani, dopodomani.
Raccontato così, potrebbe apparire l’ennesimo incantamento da social network, la moda di tappezzare Instagram con immagini di dolci crepuscoli; in verità le ragioni che condizionano quel fermarsi, osservare e fotografare un tramonto sono molto più complesse e molto più antiche di quanto potremmo immaginare. Basterebbe ricordare che persino il filosofo Porfirio, quando Marsala si chiamava ancora Lilibeo, ogni giorno, alla stessa ora, che fosse estate o inverno, fermo sullo quello stesso punto di osservazione, si attardava a contemplare il mare e il sole che vi sprofondava dentro. Originario di Tiro, si era spinto fino all’estrema punta della Sicilia occidentale per trovare una cura risolutiva alla depressione che lo affliggeva da anni e più volte lo aveva portato a considerare il suicidio. La sua lunga permanenza siciliana non solo lo liberò dalla voglia di morire, ma gli diede anche l’occasione di scrivere alcune delle sue opere più importanti, tra cui il De abstinentia, il rivoluzionario trattato sull’etica vegetariana e la cultura della non violenza. Il miglior inno alla vita che Porfirio potesse tributare alla terra che lo aveva accolto.
E pensare che quella stessa terra era stata anticamente maledetta da Enea con l’epiteto di “inlaetabilis”, ‘incapace di dare gioia’. Virgilio, infatti, racconta nel terzo libro dell’Eneide che sulle sponde del litorale trapanese l’eroe troiano perdette il padre Anchise, e preso da profondo sconforto, guardando l’orizzonte innanzi a sé, riuscì soltanto a dire: «E questo fu l’ultimo strazio, del lungo andare la fine./ Partito di là, sulle vostre spiagge un dio m’ha gettato» (trad. R. C. Onesti). A volte rifletto sulla possibilità che tutti i tramonti che sono seguiti alla morte di Anchise abbiano cercato di scongiurare quella maledizione, di riscattare questo frastagliato lembo costiero dalle parole di Enea che ci condannano all’infelicità. Non serve soffermarsi molto per capire che sovente i tramonti non sono riusciti nei loro intenti.
Forse è il motivo per cui tutti i popoli che hanno provato a insediarsi su questa sottile appendice tra due continenti - da una parte l’Africa, dall’altra l’Europa - hanno poi conosciuto presto il loro epilogo. Fenici, Romani, Arabi, Francesi, Spagnoli, Borboni, tutti loro dovevano sicuramente avvertire di avere già le ore contate qui, su questa sottile appendice, che in realtà, per la storia che si porta dietro, è anch’essa un vero e proprio continente. «Il sesto continente, piccolo e clandestino», direbbe un poeta. Un continente che ha la forma di un confine e si alimenta unicamente dei suoi tramonti.
È inutile attribuire le colpe della scarsa qualità delle foto dei tramonti al modello di smartphone o alla propria incompetenza fotografica. La verità è un’altra. Quando da questo litorale ci apprestiamo a scattare una foto è come se provassimo a fotografare un fantasma, una presenza rassicurante o perturbante, che si staglia nitidamente davanti a noi e con cui pensiamo di riuscire a parlare la stessa lingua. È come se provassimo a replicare lo sguardo di Enea, di Porfirio, di un fenicio, di un romano, di un arabo, di un francese, di uno spagnolo, di un borbone, a immedesimarci in un sentimento del tempo comune, a intercettare una comune aspirazione.
E quell’aspirazione ce l’abbiamo davanti, che scolorendo lentamente si nasconde dietro le sagome azzurre di Favignana, Marettimo e Levanzo, e ci trasmette la sensazione di una fine inesorabile. E solo dopo qualche secondo, scongiurate tutte le maledizioni, la certezza di un’infallibile rinascita. Ecco perché non importa se la foto riesce o no, l’importante è che non si esaurisca in noi il desiderio di replicare quegli sguardi che osservano al di là della costa.
Al centro di un arcipelago di sedie arrugginite, Leonardo Sciascia guarda dritto verso l’obiettivo. Seduto a sghimbescio, poggia sullo schienale il gomito destro; tra l’indice e il medio, una sigaretta accesa. Il suo sguardo è raccolto e stretto, quasi non si vedono gli occhi. Si trova a Parigi, nel 1979, in compagnia di Ferdinando Scianna, che in questo momento è dietro alla macchina fotografica. Adesso, che sia al Giardino delle Tuileries, tra il Museo del Louvre e Place de la Concorde, o nel parco di una città della provincia nissena, poco importa: il momento che Scianna cerca di fermare non lo ritrae come indaffarato turista alla scoperta dei misteri parigini, ma come flâneur apparentemente spensierato.
In realtà, dai suoi scritti raccolti in Parigi (Edizioni Henry Beyle, a cura di Paolo Squillacioti), legati a nove fotografie di Scianna, Leonardo Sciascia non dà mai l’impressione del turista trafelato né tantomeno del viaggiatore spensierato. Forse perché la natura del suo viaggiare è molto diversa dal comune turismo. La sua attenzione è completamente rivolta alle persone, ai loro caratteri, al rapporto coi luoghi. Ad esempio, nell’epoca in cui la capitale francese viene considerata una meta esotica per molti italiani, si diverte a scrivere delle loro abitudini notturne, dipingendone i volti turbati durante la colazione nella sala da pranzo dell’albergo.
«Chiedo alla signora dove hanno trascorso la serata, mi racconta che sono capitati in una boîte in cui camerieri e ballerini erano vestiti da apaches, si vedevano cose, oh dio, cose...; aggiunge – e per questo che lui si è sentito male. Lei no, non si è sentita male. Ritorna il marito e geme – cose, cose...; evidentemente non è disposto a dire di più». Non gli interessa raccontare Parigi di notte o descrivere nel dettaglio le Folies Bergère, lo affascina invece questa particolare forma di “turismo umano”: sono gli uomini-forestieri e indigeni - il vero paese inesplorato, continuamente in trasformazione; anzi sono la ragione per cui una città come Parigi non può essere vista e vissuta come un’entità inscindibile, ma come raggruppamento di tanti piccoli nuclei umani e urbani. Jean Cocteau dice che «Parigi è una grande città fatta di piccole città e villaggi che persino il parigino ignora e che gli stranieri conoscono meglio di noi».
Alla definizione di Cocteau forse sarebbe possibile sostituire le “città” e i “villaggi” con una parola chiave del vocabolario sciasciano: “isole”. Parigi è una città fatta di piccole isole. Spazi autonomi, circondati da atmosfere storiche, letterarie ed emotive che li rendono indipendenti gli uni dagli altri; eppure ognuno di questi spazi, umani e urbani, possiede sempre un approdo libero e sicuro, pronto ad accogliere nuovi visitatori senza curarsi del luogo da cui provengono.
Allora, riportare una grande realtà all’aspetto e al sentimento di tante piccole isole per Sciascia non è solo un modo per delimitare il perimetro in cui si sposta («Per me, poi, Parigi è tutta in un triangolo che sta tra la rue de Bourgogne, il Louvre e il Lussemburgo: e questo triangolo credo di conoscere ormai in ogni strada»), ma diventa soprattutto un tipo di approccio ermeneutico, un espediente di lettura e interpretazione del mondo che ci sta attorno: su di un’isola, come ci insegna Derek Walcott in The Schooner «Flight», chiunque può sentirsi nessuno o può sentirsi una nazione, può riconoscersi del tutto estraneo alla cultura del posto oppure può rivendicarne la patria. Su di un’isola non c’è cittadinanza, c’è senso di appartenenza. E un uomo può appartenere a molte isole: essere alla stessa misura italiano e francese, racalmutese e parigino.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, quando a Sciascia capita di misurare gli edifici e i caratteri francesi con lo spettro di quelli siciliani, non rivela i limiti di quello sguardo raccolto e stretto, piuttosto confessa la prossimità dei propri orizzonti culturali. In questa prossimità le pagine di Giovanni Verga e Francesco Lanza sono utili per fare proprie strade, piazze e persone tanto quanto quelle di Victor Hugo e Denis Diderot. Parlando della città di Besançon, scrive: «Hugo dunque è nato qui. In città come queste nascono i geni; nascono uomini appassionati e prodighi: in città di avarizia, che in senso non dannunziano si possono dire città del silenzio, nascono uomini di sconfinata generosità. Siciliani, noi pensiamo il Verga a Catania. Nessuno è più lontano di Hugo dallo spirito di una città come Besançon: eppure Hugo forse non si spiegherebbe senza Besançon».
Però l’unica condizione indispensabile perché ciò effettivamente accada, è fare delle proprie isole di appartenenza un arcipelago e abitare al centro di questo fitto reticolo di approdi, come Sciascia tra le sedie del Giardino di Tuileries nella foto di Ferdinando Scianna. Così, per spostarsi dalla Torre Eiffel di Parigi ai Quattro Canti di Palermo, basterà girare l’angolo, cambiare leggermente rotta, ritrovare uno spazio familiare e mai distante. Basterà riscoprire, ancora una volta, gli orizzonti di un’isola.
Nascere in una casa senza libri può essere considerata una grande sfortuna oppure una straordinaria occasione. In entrambe le circostanze, ogni volta che un libro supera l’ingresso di casa, viene accolto come un’anomalia: per alcuni inquilini è un ulteriore peso del mobilio, una provocazione che mina l’ordine già precario delle mensole; per altri, invece, il nuovo arrivato è sempre una conquista attesa e desiderata, un volume che da tempo si osservava in libreria o su Amazon, e adesso si trova incredibilmente sul tavolo del soggiorno, pronto per essere letto. E nonostante sia stata una lettura voluta e sperata, continua a conservare il sapore dell’epifania, della scoperta imprevista, che ha la capacità di stupire e condizionare.
In realtà, a pensarci bene, “stupire” e “condizionare” sono verbi che assumono un significato strano se si usano oggi per descrivere le conseguenze, o le qualità, della lettura. Senza voler fare alcun tipo di ironia e senza indulgere nella retorica, è doveroso chiedersi: nell’agosto del 2020 un libro può ancora suscitare stupore? Con Netflix il nostro immaginario non è già sufficientemente nutrito? Da questi primi interrogativi sorge, poi, la domanda più irrazionale: in che modo leggere può condizionare la nostra vita? Perché leggere può condizionarci di più rispetto ad altri stimoli intellettuali?
In un’intervista del 2009 rilasciata a Tina Brown lo scrittore americano Philip Roth sosteneva che «il libro non può competere con lo schermo. Prima non poteva competere con lo schermo cinematografico. Non poteva competere con lo schermo televisivo e non può competere con lo schermo del computer. E ora abbiamo tutti questi altri schermi, e il libro non può sostenere il confronto neanche con questi». E concludeva dicendo: «Ma magari mi sbaglio».
Dopo undici anni, possiamo dire che il libro è riuscito a competere e a convivere con tutti questi altri schermi, almeno per due ragioni: la prima è il suo carattere anacronistico; la seconda, la facoltà di alimentare serene e felicissime ossessioni. Ma procediamo con metodo. Innanzitutto, l’anacronismo. Contrariamente a quanto si pensa, il libro impedisce la passività della ricezione. Tutte le nostre estensioni virtuali ci pongono come destinatari passivi, eccetto la lettura: “scrollare” gli aggiornamenti di Instagram e di Facebook, ascoltare musica su Spotify, guardare un film o una serie TV mentre si cucina o si fa il bucato, ci stanno abituando a una postura passiva e svagata che sarebbe impossibile replicare durante la lettura. La lettura obbliga a stare fermi, ostacola la possibilità di fare contemporaneamente qualcos’altro, ci induce a isolarci, a trovare uno spazio tranquillo, a rallentare il tempo del mondo di fuori per rintracciare il ritmo delle pagine che si sfogliano. Ogni libro che leggiamo innesca una discussione totalizzante con il testo: sottolineare, appuntare parole, frasi, scrivere a margine commenti e dissensi. Sembrano tutte esperienze opposte alla percezione che abbiamo del presente, eppure sono gesti che fanno parte di noi e continueranno a farne parte.
Potremmo dire che tra noi e i libri c’è un’affinità naturale, o meglio ancora un rapporto di serena e felicissima ossessione, di invasamento. Leggere, in effetti, vuol dire farsi abitare da una storia, da alcuni versi, da una riflessione da cui non riusciamo a separarci. Anche quando riponiamo il libro in borsa, la sua voce continua a suggestionarci come se fosse un rumore bianco, segnando l’andamento delle nostre giornate e il procedere dei nostri pensieri. È un processo di perenne metamorfosi, un modo per ibridare di continuo le nostre coscienze. Forse è scorretto dire che “siamo ciò che leggiamo”, ma con sicurezza si potrebbe sostenere che “siamo ciò che stiamo leggendo”.
Tutto quello che finora abbiamo detto, però, investe delle implicazioni molto più profonde. Perché è davvero difficile smettere di leggere, una volta che sono germinati in noi il piacere dell’anacronismo e il demone della lettura, ma prima di cominciare bisogna condividere, consapevolmente o meno, una certa idea di letteratura. Che è anche una certa idea di umanità ed è stata meravigliosamente esposta nel discorso che Orhan Pamuk tenne per il conferimento del premio Nobel nel 2006, intitolato La valigia di mio padre: «La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino».
Allora, leggere è proprio questo. Prima di coltivare il gusto per l’anacronismo e farsi felicemente abitare dai fantasmi di qualche romanzo, leggere rispecchia la nostra esigenza di somigliare agli altri, di trovare comprensione nelle parole degli altri, di sapere che c’è qualcuno che possiede le nostre stesse ferite. Quindi la lettura è soprattutto un atto di fiducia nell’umanità che ci sta attorno ed è un modo per curarsi con le sue storie, il farmaco più efficace che sia mai stato scoperto.
Alla fine, risulta chiaro che non è possibile nascere in una casa senza libri. Che ci siano materialmente non importa, ciò che conta è che in noi cresca impellente la necessità di trovarli, e con essi trovare quella certa idea di letteratura e di umanità.
Due settimane fa, sulle pagine del Faro ci siamo interrogati sulla difficoltà di tracciare con precisione il sentimento che lega insieme una o più generazioni. Abbiamo provato a rispondere dicendo che molte venivano accomunate da un’idea, che l’identità di ciascuno è il transito, la continua possibilità di mutare, di non essere etichettati. Altra idea che unisce i ragazzi che oggi hanno un’età compresa tra i venti e i trentacinque anni è la consapevolezza di dover cambiare le cose. Di ribattere in modo netto e chiaro al proprio tempo. E per cominciare a definire queste risposte, abbiamo pensato di coinvolgere Jonathan Bazzi, che con il suo primo libro, Febbre (Fandango), e i suoi articoli sta rovesciando i paradigmi culturali su cui comodamente si adagiano le coscienze di tanti. L’intervista coinvolge un ragazzo di ventitré anni, l’intervistatore, e uno di trentacinque, l’intervistato, quindi ai poli di quel sentimento generazionale che si proverà a descrivere.
Jonathan, vorrei cominciare chiedendoti della distanza, che sembra essere sempre più marcata, tra noi e i nostri padri, tra noi, ragazzi dai venti ai trentacinque anni, e i cosiddetti «boomer».
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una profondissima trasformazione culturale, forse persino antropologica: internet e i social hanno davvero creato una nuova forma di umanità. Che generalmente viene stigmatizzata, appiattita, considerata ignorante, preda della dispersione, della disattenzione. Ecco, guardare così questa trasformazione significa negarle qualsiasi aspetto positivo, che invece c’è: la maggiore disponibilità al nuovo, innanzitutto, poi la leggerezza, la capacità di mettere insieme esperienze molto diverse e di coniugarle in un unico gesto. Più sono giovani le persone che ci capita di incontrare più queste qualità si mostrano evidenti. Ecco, questa trasformazione è uno spartiacque, un fossato, tra chi vi è dentro e chi ne è fuori. Anche se i punti di attraversamento, i ponti, tra le due realtà, ci sono, devono esserci. Almeno, per me.
Secondo te, perché gli intellettuali italiani non discutono di questo genere di argomenti? Il tuo articolo sulle nostre generazioni e la sessualità fluida, uscito sul settimanale Sette, è uno dei pochi che non si limita a descrivere la situazione, ma prende una decisa posizione.
C’è un’abitudine a omettere e a nascondere certi argomenti, perché non li si considera degni di discussione: esprimere le proprie posizioni sull’identità di genere, sulla rappresentazione del genere, sulla sessualità fluida forse non è ritenuta una scelta sufficientemente alta. È come se ci trovassimo continuamente di fronte a una tacita accondiscendenza, a una connivenza con una tradizione intellettuale immutabile. È un dato di fatto che in Italia gli studi di genere sono arrivati scandalosamente in ritardo e tuttora non posseggono la complessità raggiunta negli Stati Uniti o in Inghilterra.
Qualcosa, però, sta cambiando.
Ora le cose lentamente stanno cambiando, qualche segnale c’è. Però la situazione continuerà a essere molto difficile se anche gli intellettuali progressisti, parlando del regime del politicamente corretto, della cancel culture, finiscono semplicemente per sminuirli e svilirli, sfoggiando la loro superiorità morale. Mi succede sempre più spesso di incappare in questo tipo di profilo: persone, anche piuttosto giovani, fino a ieri progressiste, che riescono solo a dire che oggi va di moda indignarsi per qualsiasi cosa e rivendicano un certo gusto per la tolleranza e la pace. Che si rivela, invece, una posizione di assoluta irresponsabilità: non li si vede mai difendere quelli che ancora oggi devono essere difesi, prendere le parti di altri che non siano sé stessi o la loro categoria. Sono i nuovi sofisti, scrivono per difendere la loro posizione, questo lo trovo desolante.
C’è da dire poi che molte delle persone che occupano la scena intellettuale trascurano o ignorano i riferimenti culturali che negli ultimi tempi stanno costituendo un nuovo immaginario di valori. Penso al musical Hamilton, ai libri di Bernardine Evaristo e Paul Preciado, alle performance di Achille Lauro.
Come dicevamo prima, ad esempio anche per Achille Lauro è stata ingaggiata una campagna di svilimento e riduzionismo. Dal momento che non si è in grado di considerare e valorizzare i temi che cerca di portare sulla scena, allora lo si schiaccia su qualcos’altro, parlandone come di un’esclusiva operazione commerciale costruita con Gucci. E non si capisce perché la sensibilità e il coraggio di affrontare temi nuovi e inesplorati non possano avvalersi di un marchio che oltre al suo ufficio commerciale, comprende molti e geniali creativi. Io sono tendenzialmente ottimista, perciò credo che questa mutazione antropologica darà i suoi frutti e inevitabilmente queste voci che non riescono a sentire le questioni che animano il nostro presente si ridurranno sempre di più.
Vorrei passare adesso a Febbre, il tuo esordio letterario, che ti coinvolge in prima persona nella dimensione narrativa. Solitamente si parla di autofiction come genere, a me invece piacerebbe considerarlo uno strumento, e allora ti chiedo: l’autofiction che utilizzi nel tuo libro è oggi l’unico strumento in grado di raccontare il presente?
Questo tema mi appassiona molto perché si porta dietro delle resistenze da parte dell’ambiente letterario. In qualche modo, lo scrittore che parla di sé fa qualcosa di autoreferenziale o di ombelicale oppure non è pienamente uno scrittore perché uno scrittore è tale se inventa, se inventa delle trame, dei personaggi. Questa è una visione che c’è, ed è consistente, sia tra gli addetti ai lavori sia tra chi legge, ed è un’interpretazione che a me sta stretta. Perché io sono un’altra cosa, a me interessa scrivere e mi interessa la scrittura narrativa, ma radicata nella realtà. Che vuol dire tutto e vuol dire niente, la stessa realtà apre spazi per l’immaginazione, per il ricordo, per l’anticipazione del futuro, quindi per me non è affatto detto che il riferimento autobiografico significhi sradicare qualsiasi tipo di elemento immaginativo. Sai, credo che abbia a che fare con la mia formazione…
In cosa ti sei laureato?
Sono laureato in filosofia e quando scrivo sento di unire una passione per la narrazione, il racconto, il fatto di tratteggiare delle scene, delle immagini, a un mio temperamento verso le forme dell’esperienza, le strutture dell’esperienza. Nel caso di Febbre questo era importante, perché Febbre nasce anche come bisogno di reagire a una tradizione del pudore, della vergogna, del nascondimento sia sull’HIV sia sulla violenza domestica. Quindi per me era essenziale mantenere dei riferimenti nitidi con la realtà, con quei luoghi e con quelle situazioni che sarebbero stati molto distanti da ciò che volevo e molto meno potenti se li avessi raccontati usando una cornice finzionale. La distinzione tra romanzo e autofiction passa dal mantenere dei riferimenti nominali originali.
Reagire alla tradizione che tende a nascondere temi come l’HIV e la violenza domestica. Febbre si ferma al resoconto di un’esperienza privata o cerca di innescare quella mutazione antropologica di cui accennavi all’inizio della nostra conversazione?
Credo che non si fermi al racconto di qualcosa che non è stato ancora raccontato o che è stato poco raccontato. Partendo dalla mia esperienza personale, sono convinto che sia molto importante trovare dei modelli e dei prodotti culturali – libri, dischi, film…- capaci di cambiare significato a esperienze considerate vergognose o censurabili. Da adolescente ho vissuto malissimo il fatto di avere la balbuzie, gravato maggiormente dalla vergogna di celarlo, con l’effetto contrario di ingigantirne l’importanza. Ed è stato così fino a quando, a un certo punto, non sono entrate nella mia vita figure come Filippo Timi che mi hanno permesso di leggere quella mia caratteristica con toni assolutamente diversi, permettendomi di capire che era possibile essere balbuzienti e interessanti, carismatici, affascinanti. È stata una piccola rivoluzione. Quindi spero che i temi contenuti nel mio libro possano trasmettere in chi legge un’inclinazione diversa nel rapporto con sé stessi e con gli altri.
Per concludere, desidero riportati l’estratto di una recensione di Nicola Lagioia a La straniera (La Nave di Teseo) di Claudia Durastanti, altro stupendo esempio di autofiction: «Man mano che la Durastanti racconta con successo e padronanza la sua storia, per forza di cose lo status di “straniera” le si stacca di dosso come una vecchia pelle. È ancora tale – straniera – mentre scrive, non lo è più alla fine del racconto». Quando hai finito di scrivere il tuo Febbre, quelle esperienze che hai raccontato ti sono cadute di dosso, in qualche modo la “febbre” è stata superata?
Per certi aspetti sì, per altri forse no. Non per tutte le esperienze basta scrivere un libro per poterle archiviare, e credo che non sia possibile saperlo in anticipo. Scrivere è uno stare sulla soglia dove si può forse notare cosa è stato archiviato e cosa no. Non viviamo nel vuoto pneumatico, attorno a noi c’è un mondo che in qualsiasi momento può richiamare la nostra attenzione e riportarci su dei temi che avevamo già affrontato. Scrivere su alcune questioni ha sicuramente innescato su di me quella che in psicoterapia viene chiamata “desensibilizzazione”, rendere inattivi ricordi o eventi traumatici, ma questo non significa che si svuotino di importanza e di rilevanza, perché comunque continuano a fare parte di me e può essere che nel futuro prossimo, o meno, tornino in primo piano e si facciano sentire con una nuova voce.
«Miei cari: ditemi, dove sorge Atene, in quale terra?». Sembra una domanda innocente quella che la regina persiana Atossa, vedova del re Dario e madre di Serse, rivolge ai suoi fedeli sudditi nella tragedia di Eschilo, i Persiani. Dove sorge Atene, la città che in quel momento sta combattendo senza alcuna speranza contro l’esercito del figlio? L’armata di Serse, infatti, è di gran lunga più numerosa, più forte e più spietata, non c’è motivo di temere l’esito finale della guerra. Eppure, qualcosa la inquieta, un presagio che non riesce a decifrare. Si chiede dov’è quella città, in quale terra può sorgere un popolo tanto incosciente da tenere testa al regno che sta al centro del mondo.
Ecco, quell’interrogativo, che suona come un’incrinatura nella voce della regina, implica l’innocente certezza che la Persia sia il centro del mondo. Non c’è bisogno che lo attesti una mappa o un esploratore, la centralità del suo regno è stata la fissa e stabile sicurezza della sua vita e la ragione della forza del suo popolo. Ma nello stesso momento in cui pone quella domanda, qualcosa fuori e dentro di lei sta cambiando. Come se avesse avvertito un terremoto arrivare, come se si fosse accorta che la geografia che aveva sempre abitato, da un momento all’altro, stava per essere stravolta. O forse sarebbe meglio dire, scentrata.
In verità, è una storia di cui già conosciamo la fine: nella battaglia navale di Salamina del 480 a.C., Atene sconfigge la minaccia persiana. In che modo ci riesce, però? Cos’è andato storto? Senza soffermarci sulle mere strategie militari, e per provare a comprendere cosa effettivamente sbaraglia la flotta rivale, bisogna considerare una circostanza: a Salamina non ci troviamo di fronte all’ultimo duello tra Persia e Grecia, ma al primo scontro tra l’antica idea di Oriente e la nuova idea di Occidente. Tra l’idea di un impero centralizzato e piramidale e l’idea di una democrazia egualitaria e periferica. Due idee, due continenti: l’Asia, da una parte, e l’Europa appena nata, dall’altra. Lo storico Franco Cardini ne scrive in maniera efficace nei capitoli preliminari del suo saggio Lawrence d’Arabia (Sellerio, 2019): «I greci hanno inventato l’Occidente. Primi al mondo, per quanto noi ne sappiamo, hanno creato un modo di sentirsi non al centro dell’universo, bensì in una sua area periferica addirittura prossima all’estremità (quella dove il sole “va a morire”: beninteso, per chi lo guardi da una sponda mediterranea). Tutte le culture in generale si sentono al centro dell’universo: non quella occidentale. È un caso forse unico nelle millenarie vicende delle culture umane. L’Occidente nasce dalla consapevolezza di una non-centralità: d’altronde la Grecia era tributaria dell’impero persiano. Questa novità avrebbe segnato per sempre la “nostra coscienza identitaria occidentale”».
Secondo Cardini, allora, è necessario attribuire ai Greci questa ennesima, rilevante scoperta: la coscienza della non-centralità del loro continente, la consapevolezza dell’essere periferici rispetto a qualcosa. Sono stati questi gli impareggiabili punti di forza che hanno permesso loro di vincere. D’altronde, il sentimento della non-centralità era già rintracciabile nella mitologia legata alle origini dell’Europa: a Sidone, lungo un fiume, insieme ad altre ragazze, la figlia del re Agenore e della regina Telefassa, chiamata Europa, sta raccogliendo dei fiori. Mentre gioca con le sue compagne, vengono tutte accerchiate da un branco di tori, tra questi uno di colore bianco si avvicina a Europa: lei lo accarezza e gli sale in groppa. Il toro bianco è Zeus, che ha cambiato le sue sembianze per rapire la principessa fenicia e portarla con sé in un continente sconosciuto. Che da quel momento da lei prenderà il nome.
Quindi il nome Europa non sorge da una inamovibile cultura millenaria, non descrive la fissità di un’idea di stato, ma racconta la storia di un rapimento, di un transito, di una dislocazione da una parte all’altra del Mediterraneo, da una periferia all’altra dell’universo conosciuto, senza centro, senza punti fissi: è un nome che custodisce la scoperta di un mondo nuovo e serba le tradizioni del mondo antico che ha dovuto abbandonare. Europa alcuni dicono significhi “dal vasto sguardo”, dividendo il sostantivo in due parti, eurys (“vasto”) e ops (“sguardo”). Altri, invece, pensano che sia connessa alla radice della parola Erebo, “la zona oscura”, dal momento che l’Europa è l’Occidente ovvero il luogo in cui tramonta il sole. Nessuna etimologia è certa e fondata ed è per questo che vorremmo azzardare una terza ipotesi. E se il nome di Europa avesse a che fare con il verbo greco che indica “lo scoprire”, “il trovare”, “l’inventare”? Nella lingua di Eschilo si dice heurisko. A questo punto Europa non sarebbe più una zona d’ombra e nemmeno la capacità di una vista smisurata. Diventerebbe la fanciulla dallo sguardo adatto a scoprire, la donna destinata a trovare una terra inesplorata e a inventare dal nulla una civiltà diversa dalle precedenti. Una comunità senza centro, senza punti fissi.
Eravamo tutti lì, la notte del 4 gennaio 2008. Dodici, tredici, quattordici anni, da Marsala a Milano, accolti da librerie e biblioteche per aspettare insieme il momento in cui avremmo finalmente stretto tra le mani la nostra copia di Harry Potter e i doni della morte, l’ultimo capitolo della leggendaria saga di J.K. Rowling. Allora non potevamo averne coscienza, ma per tutti noi quella notte fu un vero rito di passaggio, un commiato dall’eroe che ci aveva accompagnato fin dall’infanzia e adesso, dopo la sua ultima impresa, ci chiedeva di proseguire da soli.
Non è facile stabilire con precisione i tratti e i caratteri di una generazione, eppure possiamo tentare un esperimento attingendo proprio dall’universo di Harry Potter. Recuperiamo il primo volume delle sue avventure, Harry Potter e la pietra filosofale, e leggiamone l’incipit: «Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di affermare di essere perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano».
Ecco, se qualcuno volesse cominciare a capire qualcosa della nostra generazione, noi ragazzi e ragazze, che oggi abbiamo ventitré, ventiquattro o venticinque anni, abbiamo vissuto le nostre intere vite orgogliosi di affermare di non essere perfettamente normali. Anzi, siamo le prime persone al mondo da cui aspettarsi cose strane o misteriose. Le prime da cui sperare, o temere, una rivoluzione. Una rivoluzione culturale, naturalmente, che partirà sempre dalle lezioni apprese sui libri di Rowling: rifuggire la normalità, innanzitutto; poi affrontare con determinazione compiti che ci sembrano molto più grandi di noi; sentirci liberi di cambiare forma, di essere chi davvero ci sentiamo di essere; porsi in ascolto delle storie altrui, esserne rispettosi, compresivi, compassionevoli.
Immaginate, a questo punto, lo smarrimento e lo sconcerto quando negli ultimi mesi ci siamo trovati a leggere i tweet di J.K. Rowling contro le donne trans. S’è pensato subito a uno scherzo, a un profilo falso: è impossibile. E invece no. È tutto vero: per difendere la radicale polarizzazione uomo-donna, l’autrice di Harry Potter ha ingaggiato una battaglia mediatica contro tutte le persone che non si riconoscono nel proprio sesso, accusandole addirittura di sfruttare le loro convinzioni sull’identità di genere per entrare nei bagni o negli spogliatoi e molestare le donne. Non ha avuto remore a sminuire e a schernire le scelte di uomini e donne che non accettano di condizionare le loro esistenze in contenitori e schemi rigidi. Sul settimanale Sette del 10 luglio 2020, Jonathan Bazzi è riuscito perfettamente a descrivere qual è il sentimento che li attraversa, e che ci attraversa: «Non sono maschio, non sono femmina», scrive, «Sono un po’ e un po’, mezzo e mezzo – certi giorni mi sento nell’intersezione, altri proprio non ho interesse a posizionarmi sul tabellone del genere. […] Più leggeri delle distinzioni, refrattari alle palizzate, ai confini. La nostra identità è il transito, il movimento, provare e poi restituire, lasciare giù».
La nostra identità è il transito, dice Bazzi, e non potrebbe esprimersi in modo migliore. Ed è per questo che è arrivato il tempo di chiarire un grande equivoco. Se una personalità pubblica scrive un saggio, un articolo, un post su Facebook o un tweet per offendere, svilire, ferire qualcuno, difendere la sua libertà di farlo non significa difendere la libertà d’espressione, ma attaccare quella di un altro e acconsentire che venga ferito.
È necessario spiegarsi meglio: vivere in una società che sancisce tra i suoi diritti fondamentali la libertà d’espressione, non ci giustifica dal dire, senza giudizio e senza criterio, ciò che vogliamo. A fondamento di qualsiasi libertà c’è il rispetto verso l’altro: se non rispettiamo l’altro, se non abbiamo cura di conoscere la sua storia, di comprendere le sue scelte, non abbiamo alcun diritto di parlare per lui o contro di lui. A fondamento di quella società così complessa ed eterogenea che siamo fieri di abitare non c’è il tribale e cannibalico «homo homini lupus», ma il più illuminato «homo homini deus».
«L’uomo è un dio per gli uomini», aveva osato scrivere il poeta latino Cecilio Stazio, e aveva aggiunto una condizione indispensabile a questo senso di divinità: «se ciascuno conosce il proprio dovere». Il punto è questo: qual è il nostro dovere?
Il 7 luglio 2020 più di 150 scrittori (tra cui Rowling), giornalisti, professori universitari hanno firmato sulla rivista Harper’s una lettera aperta «sulla Giustizia e il Dibattito aperto», nella quale affermano che «i limiti di quello che si può dire senza timore di ritorsioni si sono assottigliati. Stiamo già pagandone il prezzo, in termini di minore propensione al rischio tra gli scrittori, gli artisti e i giornalisti che sono preoccupati di perdere il lavoro se si allontanano dal consenso generale, o anche solo se non dimostrano sufficiente entusiasmo nel dirsi d’accordo» (trad. da ilpost.it).
Avere la possibilità di dire senza timore di ritorsioni: in questo si sintetizza il dovere dell’intellettuale per i firmatari. Anche stavolta il problema è un problema di prospettiva: non ci si chiede mai che ritorsione possano avere le nostre parole sulla vita degli altri. Quanto possano ferire, che conseguenze ingenerare.
Soltanto un ultimo esempio legato a J.K. Rowling. Il giornale Devex ha usato nel titolo di un suo articolo l’espressione “people who menstruate”, ‘persone con le mestruazioni’, per comprendere anche gli uomini trans e le persone non binarie. Rowling ha condiviso l’articolo su Twitter e ha cominciato a prendersi gioco della scelta della testata: «‘Persone con le mestruazioni’. Sono sicura che c’era una parola per queste persone. Qualcuno mi aiuti…», e comincia e storpiare il sostantivo woman (donna), «Wumben? Wimpund? Woomud?». Come se non esistesse nessun’altra realtà di genere all’infuori dell’uomo e della donna, come se gli uomini trans o le persone non binarie, che non si riconoscono nell’espressione “donna”, fossero chimere, incubi della ragione, persone con particolari vezzi che prima o poi passeranno di moda.
Quindi, per concludere: ribadire che ha torto chi scrive e giustifica questi atteggiamenti dichiaratamente intolleranti, non vale a dire censurare, volere togliere la parola a qualcuno, ma è un modo per impegnarsi in una rivoluzione culturale che induca alla sensibilità e che prenda coscienza del fatto che le comunità, che abitiamo e che abiteremo, hanno e avranno come principio irrinunciabile la pluralità.
Noi continueremo sempre a leggere i libri di Harry Potter, fanno parte di noi, hanno edificato i valori in cui crediamo. E continueremo a cercarne nuovi, nuovi libri e nuovi valori, che provino a rincorrere questi tempi, cercando di descriverli senza timore di ritorsioni. Uno ve lo possiamo già consigliare, è Girl, Woman, Other di Bernardine Evaristo che si apre con questa straordinaria dedica intraducibile, come intraducibile e irrefrenabile è la famiglia umana di cui tutti noi ci sentiamo parte:
For the sisters & the sistas & sistahs & the sistren
& the women & the womxn & the wimmin & the womyn
& our brethren & our bredrin & our brothers & our bruvs
& our men & our mandem & the LGBTQI+ members
of the human family
Conversando con Elena Pasoli, exhibition manager della Bologna Children’s Book Fair, di continuo mi ritorna in mente la Fabbrica di cioccolato di Willy Wonka immaginata da Roald Dahl. È uno spazio che assimilo spontaneamente alla fiera bolognese perché, come la fiera, nemmeno la fabbrica del misterioso fabbricante di dolciumi è un luogo per il grande pubblico, non ci si va per acquistare libri o caramelle. La fiera, come la fabbrica, è un posto dedicato ai sogni, all’ingegnoso tentativo di tradurli in più lingue, di fare in modo che attraversino le frontiere. I libri, in verità, hanno una preparazione lunga e difficile come quella del cioccolato e come dice Pasoli «senza la fase di preparazione, costruzione, discussione tra operatori su temi, tendenze e novità, non ci potrebbero essere i prodotti meravigliosi che troviamo nelle librerie».
Muniti del nostro biglietto d’oro, oggi proviamo a esplorare quel mondo dietro le quinte dei libri per ragazzi.
Da quasi sessant’anni Bologna Children’s Book Fair è una delle più importanti fiere dell’editoria per ragazzi. La Fiera come preserva la sua eredità e come guarda al futuro?
Di anno in anno noi portiamo avanti un progetto preciso, senza interferenze. La Fiera del Libro di Bologna è solo ed esclusivamente per operatori, non c’è nemmeno mezza giornata di apertura al pubblico, perché è una fiera dove si scambiano diritti d’autore, si creano nuovi progetti, nascono le coedizioni: tutto il lavoro che serve per portare dei buoni prodotti alla lettura dei bambini e dei ragazzi. Naturalmente negli anni non sono mancate le sollecitazioni per aprire lo spazio ai bambini, per permettere loro di vedere gli stand e i libri. Ma noi abbiamo sempre dato ascolto agli editori, che ci dicevano che erano attività diverse, che non sarebbero stati in grado di dialogare con il pubblico e di promuovere i loro libri mentre erano a Bologna per occuparsi d’altro. Così siamo sempre andati avanti con il nostro progetto iniziale.
La Fiera però non è circoscritta soltanto allo scambio dei copyright
No, infatti. Concentrarsi sull’aspetto professionale della costruzione del libro ha fatto sì che sia nata da subito una parte fondamentale di approfondimento culturale e di individuazione delle tendenze. Per cui, fin dall’inizio, venire a Bologna voleva dire vedere tutto quanto c’era in cantiere, potere acquistare o vendere diritti, ma anche vedere quali erano le ultime voci dell’illustrazione, incontrare autori, parlare con gli operatori delle varie problematiche del settore, della distribuzione.
E fuori dalle mura bolognesi, quali sono le vostre iniziative?
Col tempo abbiamo anche intrapreso tante attività che non limitassero la nostra presenza a Bologna, una sola volta l’anno. Oggi siamo coorganizzatori della Fiera del Libro per ragazzi di Shangai, siamo dentro la New York Rights Fair e abbiamo un tour di nostre mostre d’illustrazione che gira per diversi Paesi del mondo.
Mi piacerebbe parlare delle mostre, ma prima vorrei chiedere come avete attraversato i mesi di lockdown
È stata per tutti una situazione inimmaginabile, ma ha offerto l’occasione per fermarsi a riflettere o per accelerare certi progetti. Era da almeno due anni che pensavamo di espandere la nostra attività in senso digitale, permettendo alla fiera di essere al fianco della propria comunità per 365 giorni all’anno. Era un’esigenza che avvertivamo da tempo e avevamo già pensato di costruire un luogo virtuale per eventi e incontri. Dovere mettere tutto in scena in poche settimane ci ha costretto a presentarci non in maniera completa, accurata, così come invece avremmo desiderato. Però è stato positivo, perché intanto abbiamo creato un’esperienza. È un’esperienza che tutti i saloni hanno fatto; quando è cominciato il lockdown, noi eravamo molto vicini alle nostre date di apertura, quindi abbiamo avuto l’onore e l’onere di essere i primi, la prima fiera internazionale del libro a giocarsi la partita sulla rete.
Questa partita ha investito anche un anniversario speciale, il centenario della nascita di Gianni Rodari. Voi avevate preparato una mostra per l’occasione, vero?
«Figure per Gianni Rodari. Eccellenze italiane» è una mostra progettata insieme all’Istituto Italiano di Cultura di San Francisco e alla regione Emilia-Romagna: in vista dell’anniversario, abbiamo pensato di concentrarci sugli artisti che avevano illustrato le favole e le filastrocche di Gianni Rodari. L’inaugurazione è stata fatta a Portland, e poi è arrivata a San Francisco. Dopo di che a Bologna, in Fiera, doveva essere presentata al pubblico internazionale. Quando abbiamo dovuto cancellare l’edizione, ci siamo detti: no, teniamo la mostra per l’anno prossimo. Però poi abbiamo pensato che non era giusto fermare questa macchina prodigiosa che si era già attivata e che vedeva venti Paesi coinvolti per ospitare l’esposizione. E questi Paesi ci stavano chiedendo la possibilità di mantenerla nel loro calendario ma virtualmente, nella versione digitale. Allora non abbiamo voluto bloccarla e l’abbiamo offerta anche noi al pubblico, su questa nuova piattaforma che si chiama «BCBF Galleries», che è diventata e sarà il nostro museo on-line.
Nel mondo dell’editoria, sembra che la letteratura per ragazzi sia l’unica a godere di buona salute. Sono i bambini e i ragazzi i veri lettori forti nel nostro Paese. Allora, mi chiedo, perché poi col passare degli anni l’amore per la lettura tramonta?
Io credo che leggere, per un ragazzo, sia un gesto incredibilmente appagante, la sua è una sete di storie, di fantasia, ma anche di conoscenza del mondo. L’incremento esponenziale dei libri di non-fiction, di divulgazione, che stiamo vedendo in questi ultimi anni, lo testimonia chiaramente: i ragazzi hanno voglia di conoscere oltre che di sognare, immaginare. Crescendo è normale che questa pianta, a volte, interrompa la sua crescita. Perché ci sono altre distrazioni, altre curiosità. Non mi sento di stigmatizzare il fatto che la lettura a un certo punto diventi attività di primo, secondo, terzo o quarto piano perché le curiosità che si trova davanti un adolescente sono tante, e adesso ci sono tanti strumenti che un tempo non c’erano. Penso però che un buon lettore da bambino, passata la fase dell’esplosione delle curiosità più disparate, poi possa recuperare l’amore per la lettura. Per quanto riguarda il mondo del libro, sono altre le cose che mi dispiacciono.
A cosa si riferisce?
Se la vogliamo guardare dal punto di vista economico, i libri per ragazzi funzionano, vanno bene, e il mercato dà sempre segnali positivi. Se lo vediamo da un punto di vista dell’educazione, tutti concordano sul fatto che i bambini che leggono saranno degli adulti migliori. Attorno a tutti questi discorsi c’è una grande retorica. All’atto pratico continua ad essere vero che, nell’opinione comune e anche nello spazio che i media riservano ai libri per ragazzi, la letteratura per l’infanzia fa sempre la parte della povera e bistratta Cenerentola.
Cosa bisognerebbe fare?
A me piacerebbe constatare un’inversione di tendenza, scorgere da parte dei media un’attenzione particolare anche per questa parte di letteratura. Noi siamo coorganizzatori del Premio Strega Ragazze e Ragazzi, insieme alla Fondazione Bellonci, all’azienda Strega Alberti Benevento e al Cepell. Ora, è chiaro che il Premio Strega Ragazze e Ragazzi non può avere lo stesso appeal del Premio Strega che ha oltre settant’anni di storia, però è anche vero che è un evento molto trascurato dai media. Eppure, nei libri per ragazzi vengono trattati dei temi decisivi per la società, talvolta in anticipo rispetto ai libri per gli adulti: è sempre stato così, perché nel libro per ragazzi gli autori azzardano di più, sono sempre libri innovativi, tematiche innovative che successivamente ritroviamo nelle pagine dei giornali o nei temi di dibattito della letteratura per adulti… Vorrei che fossimo tutti coerenti e, oltre a compiacerci della retorica del libro che può costruire cittadini migliori, ci impegnassimo tutti davvero a parlare di questi libri per ragazzi, a non lasciare soli quegli insegnanti meravigliosi che fanno promozione vera della lettura. Non la lettura del libro con la scheda alla fine del capitolo da compilare e la prova con le domande a cui rispondere, i riassunti. Dobbiamo comunicare il piacere della lettura. Aiutiamoli, insegnanti e genitori, parlandone di più, raccontando di più, riconoscendo lo spazio che merita questa dimensione del mondo editoriale.
«Mondimperfetti»: doveva essere il tema di Una marina di libri di quest’anno, prima dell’emergenza COVID19. Per un’eventuale edizione autunnale del festival, pensate di recuperarlo o di modificarlo?
Pensiamo di recuperalo. Anzi, è un tema che s’è rafforzato. Riflettere sui mondi imperfetti, dopo quello che è successo, è un’esigenza ancora più impellente. Quando lo abbiamo pensato, alcuni elementi erano già evidenti: il precariato nel mondo del lavoro, il tramonto di certi valori e la mancata insorgenza di nuovi, le tecnologie come estensione ed etichetta di questo periodo storico. Adesso sembra tutto amplificato.
In questi mesi, però, non siete rimasti fermi. Molti di quei temi sono diventati oggetto di discussione su sMARtINA, la piattaforma digitale che avete inaugurato per sopperire alla sospensione del festival. Ce ne può parlare?
Abbiamo approfittato di un’esperienza che era nella pancia di Una marina di libri da molti anni, ovvero il legame con l’Università. Il festival fisico si tiene nell’Orto Botanico di Palermo, che è gestito dall’Università. Nel nostro programma regolarmente facciamo degli itinerari dedicati agli studenti universitari, così Masha Sergio, Matteo Di Gesù e Salvatore Ferlita hanno voluto evolvere il progetto di sMARtINA sviluppando sulla rete quei percorsi che facevamo dal vivo, con gli studenti che si erano già abituati a fare lezioni a distanza. E devo dire che l’iniziativa è andata molto bene.
Avete pensato delle date per una possibile edizione 2020?
Le date non sono ancora certe. L’unica cosa certa è la volontà nostra, del Consorzio promotore, degli editori Navarra e Sellerio, dello staff che ci lavora, di tentare questo atto di coraggio. Con tutti i distanziamenti e le precauzioni, naturalmente. Vorremmo fare il festival fisico in una data autunnale da stabilire. Non le nego che le difficoltà ci sono, e non sono poche. Perché dovremmo anche calcolare un’affluenza controllata, numeri minori rispetto alle precedenti edizioni. Stiamo affrontando questi aspetti tecnici: procediamo risoluti, ma navigando a vista.
Nel suo ultimo libro, La notte della civetta, ha affrontato il complesso tema dell’irredimibilità: «In che momento si era fottuta la Sicilia?», si chiede pagina dopo pagina. Eppure realtà come Una marina di libri sembrano in controtendenza con il racconto dell’irredimibilità siciliana.
Sì, nella Notte della civetta ho trovato un modo per affrontare l’argomento, che sembra quasi una finzione letteraria, per carità, e agisce sul piano della provocazione. Ritengo che, se non ci rendiamo conto di certe cose, è davvero finito tutto e possiamo veramente considerarci irredimibili. Per evadere da questa irredimibilità, dobbiamo cominciare ad accettare le verità scomode, capire che è possibile sciogliere quei nodi e quei grovigli che sembravano indissolubili. Dobbiamo provare a guardarli bene. È la metafora del malato: chiunque sia malato, abbia un vizio o una dipendenza, come primo passo deve prendere coscienza del suo male e affrontarlo. Solo allora può trovare una cura efficace. La stessa cosa vale per la condizione dell’uomo. Provocare un minimo il tuo interlocutore può servire a spingerlo a fare dei passi avanti in questo senso.
Una questione che sempre mi lascia interdetto. È molto facile che dal Sud lettori e lettrici si spostino per partecipare al Salone del libro di Torino o al Festival di Mantova; molto più difficile è il contrario: lettori e lettrici che dal Nord partano per vedere Una marina di libri. Secondo lei, da cosa dipende?
Un festival in Sicilia può essere un giocattolino sofisticato, capace di attrarre il suo pubblico grazie al fascino del contesto in cui si svolge. Però, bisogna innanzitutto accettare una condizione incontrovertibile: siamo separati dall’Italia da un braccio di mare e questo ingenera un senso di isolamento e l’idea che, al di là di quel braccio di mare, ci sia il cosiddetto “continente”. E il nostro legame con il continente è condizionato da un istinto duplice e contraddittorio: raggiungerlo, e quindi attraversare quel braccio di mare, o restare qui, e sentirci assediati dalla nostra stessa isola.
Come si può rovesciare questa situazione?
Nel Sud abbiamo maturatouna forte propensione a spostarci per festival, spettacoli teatrali, concerti.Meno attenzione invece riceviamo dal continente, che arriva qui per le vacanze ma per i nostri eventi culturali nutre un certo disinteresse. Per provare a spiegarne il perché, provo a fare un esempio. Nei giorni scorsi è ricominciato il calcio. In un Paese come il nostro, in cui solo un mese fa la principale preoccupazione era registrare gli effetti del virus, tutti i commentatori sportivi hanno sentito il bisogno di cominciare le loro telecronache con delle riflessioni sulla pandemia, dicendo che è stato un evento epocale, che ci segnerà come il sequestro di Aldo Moro o come l’11 settembre. Mi ha colpito che nessuno abbia citato, tra le circostanze più apocalittiche della nostra storia, le stragi mafiose del Novantadue.C’è una tendenza, quasi inconscia, nel continente, a far scivolare via le cose che capitano in Sicilia, a non considerarle storia d’Italia. Madobbiamo essere noi siciliani a trovare gli argomenti per imporre il fatto che la Siciliafa parte della storia italiana, sia di quella passata che di quella presente. Siamo espressione della medesima cultura.
Vorrei ora, prima di chiudere, puntare i riflettori sulla città di Palermo. In che modo la città vive e interagisce con Una marina di libri?
Quando abbiamo scritto agli ottanta editori della fiera chiedendo loro: voi verreste se tentiamo di fare un festival fisico a fine estate? Ci hanno risposto tutti di sì. Sentiamo la necessità di parlare, di confrontarci, di vivere un’esperienza che non sia la mera ricezione passiva di uno spettacolo. Perché si va nei festival? Perché i festival ci consentono, a differenza di quando stiamo su internet o guardiamo la televisione, di partecipare attivamente, non soltanto di fruire di ciò che dice una persona su un palco, ma di venire a contatto, di interagire con grandi personaggi. È un’occasione incredibile e Palermo la vede come una strana macchina dei sogni, per citare Mimmo Cuticchio, che riesce a mettere insieme racconti e meraviglie da cui tutti noi vorremmo trarre arricchimento. Ecco perché il dialogo si ripropone di anno in anno e può andare avanti, cioè può diventare sempre più incisivo e profondo. Quando si ritorna a casa, dopo essere stati a Una marina, la percezione deve essere che qualcosa in noi è cambiato.
Una domanda più tecnica. Prima le ho chiesto come la città vive il festival. Adesso vorrei domandarle: il festival viene supportato dalle istituzioni palermitane?
L’anno scorso abbiamo festeggiato il nostro decennale. Siamo ormai una realtà grande e significativa ma le istituzioni cittadine non hanno ancora deciso di prendere in mano il proprio festival e non ci hanno dato supporto. Come invece succede per il Salone di Torino, per Pordenonelegge. Palermo è più lenta in questo. Dopo l’emergenza che abbiamo vissuto, il quadro economico è estremamente peggiorato, l’incertezza istituzionale lo stesso, però è cresciuta anche l’esigenza di stringersi attorno a dei punti fermi, per questo motivo non voglio essere pessimista, può darsi che il futuro ci riservi sorprese. Mi ha reso felice - perché poi si vive per piccoli segnali - la vicinanza dell’Università di Palermo, che da sempre ci accoglie e ci offre il suo sostegno. In questi mesi ci hanno contattato per ribadire che vogliono che Marina si faccia e che ritorni negli spazi dell’Orto botanico.
Prosegue la nostra indagine sul ruolo sociale dell’editoria in Italia; da questa settimana però cambia angolazione. Dopo gli interventi di diversi editori italiani, adesso ascoltiamo le riflessioni dei direttori artistici di alcuni dei principali festival letterari del Paese, a cominciare da Giorgio Vasta, direttore editoriale di Book Pride – Fiera nazionale dell’editoria indipendente.
Il 17 aprile, alla Fabbrica del Vapore di Milano, si sarebbe dovuta inaugurare la nuova edizione di Book Pride. Ma la storia, come sfortunatamente sappiamo, ha preso un’altra piega. Come avevate immaginato la Fiera?
Da qualche anno Book Pride pone un’attenzione particolare al tema, che viene assunto come una prospettiva e, allo stesso tempo, come un criterio organizzatore. Quest’anno era, forse sarà, «Leggere i venti». Lo abbiamo pensato, discusso, modificato in tante riunioni, lo abbiamo collaudato. Ha come obiettivo quello di tenere viva un’altra peculiarità che ci sta molto a cuore, che è l’ambiguità, l’oscillazione dei significati, il fatto che le cose non stanno ferme, si procede appunto per collaudi, per interpretazioni, per ipotesi, non per certezze assolute. La parola “venti” in una locuzione come “leggere i venti” non sta ferma. Venti è l’anno che stiamo attraversando, 20-20, quasi una specie di moltiplicazione interna o di elevazione a esponente: il racconto del tempo presente mentre prende forma e assume sembianze inattese. Venti è il fenomeno atmosferico che, di nuovo, non sta fermo in sé, ma non sta fermo nemmeno nelle impressioni che ne abbiamo. Perché, è vero, i venti distruggono; al contempo però modificano profondamente gli ambienti, rimodellano, riplasmano e sono fertili. Trasportano i pollini, i semi in giro per lo spazio. Sono addirittura un mezzo attraverso il quale spazi lontani tra loro dialogano e costruiscono parentele. Venti è anche un’età: fin dall’inizio abbiamo voluto evitare l’equivoco per il quale gli incontri in una fiera sono incontri in cui si parla dei ventenni, un po’ idealizzandoli, un po’ ospedalizzandoli, considerandoli un problema o appunto dandone una versione edulcorata. L’idea è di dare loro la parola… ma “dare la parola” non rende ancora, perché tradisce un’intenzione concessiva, come se uno concedesse la parola: vogliamo che siano loro a prendersi la parola.
Il Book Pride è una fiera di editoria indipendente. Ecco, per voi cosa significa “indipendente”?
Indipendente è la parola su cui ho dovuto maggiormente studiare per farla evolvere dalla percezione poco chiara che ne avevo. Nel senso che la registravo come un termine un po’ eroico, distintivo, come se esprimesse uno sguardo forte sul mondo, per cui ciò che è indipendente si oppone all’atteggiamento omologato degli altri. Ma bisogna ricordare che indipendente è prima di tutto un termine tecnico: descrive quelle case editrici che dal punto di vista economico e finanziario non appartengono a grandi gruppi ‒ rischiano in proprio, mi vorrebbe da dire ‒ e non sono partecipate, cioè non hanno una quota partecipata di un grande editore o di altri soggetti. Alla luce di questo, è un aggettivo che non va né semplificato né banalizzato né idealizzato. Indica un aspetto specifico del comparto editoriale, e rispecchia quegli editori che decidono di non assecondare semplicemente il mercato, ma cercano di provocarlo, di carezzarlo contropelo.
Ci potrebbe fare un esempio?
L’orma editore può offrirci un esempio molto concreto. Prima che cominciasse a pubblicare Annie Ernaux, alcuni libri della scrittrice francese erano già usciti in Italia per tre diversi marchi editoriali. Ma erano edizioni scollegate fra di loro. Non c’era lungimiranza, non trovavano spazio in uno sguardo complessivo. Quando L’orma ha pubblicato Il posto, subito ci si è accorti che quell’autrice stava all’interno di una visione d’insieme. Che durava nel tempo, che sarebbe durata nel tempo. Il pubblico della Ernaux, prima dell’Orma editore, non c’era, l’uscita dei suoi libri non aveva suscitato alcunché, perché su di loro non c’era stato un investimento culturale. Con L’orma cambia tutto. Allora, a prescindere dal fatto di essere piccola, appena nata o di avere le dimensioni di Sellerio o del Saggiatore, una casa editrice è una realtà che riesce a costruire un equilibrio tra le ragioni dell’ufficio commerciale e le ragioni di una visione, di uno sguardo. È una realtà che dice: questo è un libro culturalmente indispensabile, e se il pubblico non c’è, lo inventiamo, lo creiamo. Perché possediamo fiducia sufficiente nell’animo dei lettori per andarlo a generare, quel pubblico.
La Fiera ha due anime, una a Milano e una a Genova. Quest’anno ci sarebbe stata la sesta edizione milanese ad aprile e poi la quarta edizione genovese in autunno. Che tipo di rapporti vive Book Pride con queste due città?
Sono due rapporti diversi. A Milano ciò che prevale è la sensazione di un’efficacia: ragionare sulle cose e trasformarle in fatti che accadono. Il rapporto con Genova, invece, somiglia tanto a quello che è lo spazio fisico attorno a Palazzo Ducale. Palazzo Ducale sta nel centro storico. Il centro storico di Genova è un dedalo e ha una caratteristica: se non conosci molto bene quel reticolo di strade o se non hai qualcuno che ti accompagna, il navigatore del cellulare non basta. Perché il segnale non arriva. Questa caratteristica s’è rivelata essere una piccola, accidentale metafora del rapporto che abbiamo, a poco a poco, creato con Genova. Abbiamo costruito legami con dei “Virgili” e delle “Beatrici” che ci hanno portato in giro e che ci hanno letteralmente messo nelle condizioni di non perderci. Non sono semplicemente interlocutori, sono complici nella realizzazione della fiera. E come per Milano, ognuno di questi legami è diventato un rapporto d’amicizia e lo dico al netto di qualsiasi edulcorazione e idealizzazione. Direi che Milano, in alcune sue zone, è una città con una sua regolarità, con delle sue procedure, con un ordine logico e dei risultati altrettanto logici. Genova è più selvatica, più imprevedibile.
Una curiosità, quasi un paradosso. Vasta, lei è uno dei più apprezzati scrittori e intellettuali italiani. Progettare una fiera letteraria, in qualche modo, ha a che fare con lo scrivere? Dare forma a una fiera come Book Pride è per lei una sorta di scrittura parallela?
Organizzare una fiera come Book Pride non può venire considerata un’azione identica alla scrittura di un libro. Per un insieme di motivi. Il libro lo scrivi da solo, hai un governo assoluto, tutti gli azzardi sono tuoi. Mentre invece l’organizzazione di una fiera è un’attività condivisa. Che ti mette a confronto con tante persone, con tanti “altri”, che non possono essere te, che non devono essere te. E ancora: noi possiamo realizzare la migliore fiera possibile, il miglior programma, ma il cattivo tempo può sempre vanificare tutto…
Mentre scrivi un libro, se fuori piove o se c’è bel tempo, non ha una particolare importanza
Nel non essere sovrapponibili, nel non essere identiche, non significa però che queste azioni non abbiano alcuni elementi in comune. È possibile affrontare la direzione di una fiera con un’esigenza autoriale, cioè con l’idea che costruire un programma sia dare forma a un disegno o costruire una pagina. Pensare Book Pride come un editore di editori, nell’accezione di editoria che ci dà Roberto Calasso nell’Impronta dell’editore: si fanno libri perché è un bellissimo modo di far continuare una conversazione, di renderla inesauribile. E questo proviamo a farlo anche noi. Quindi uno prova a dare forma a una fiera con un atteggiamento, con una postura che non è identica a quella che si assume quando si scrive un libro ma che ha comunque dei punti di contatto, dei punti di somiglianza.
Nel nostro Paese, da Nord a Sud, i festival e le fiere letterarie riscuotono sempre enormi successi. Eppure un rischio c’è, lo sottolineano bene Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini nel loro ultimo saggio, La cultura orizzontale: è la preoccupazione che questi eventi predichino a chi è già convertito
Penso che una manifestazione letteraria debba rivolgersi sia ai convertiti sia a quelli che non hanno un’altra religione, che proprio non si pongono il problema. Deve riuscire a portare nella sua dimensione, nei giorni che ha a sua disposizione, qualcuno che non è convertito. Anzi, una grandissima quantità di non convertiti. A loro fa una proposta, è come se dicesse: tu vieni qui, vieni ad ascoltare qualcuno o qualcosa che già conosci, però può anche darsi che entri in contatto con qualcosa che ancora non conosci, che ti sorprende, che ti interessa. Il problema principale, che riguarda tanto i convertiti che i non convertiti, è che le manifestazioni possano diventare “sostitutive”.
In che senso sostitutive?
Mi spiego: vent’anni fa le prime manifestazioni letterarie, come il Festivaletteratura di Mantova, davano l’impressione di essere delle possibilità di sensibilizzazione nei confronti di un comportamento particolare che è leggere. Arrivi, ascolti un autore e poi magari leggerai il suo libro. Oppure: hai letto il libro di un autore e ne integri la conoscenza ascoltandolo dal vivo. Trascorsi vent’anni dobbiamo tenere conto che qualche volta si va ad ascoltare l’autore senza averlo letto, senza avere intenzione di leggerlo, ma al posto di leggerlo. E l’incontro che dura cinquanta minuti, un’ora, possiede una brillantezza che finisce davvero per prendere il posto della lettura. Che è un’azione che permette di confrontarsi con dei livelli di complessità del tutto diversi rispetto a quelli che si presentano quando ascolti qualcuno durante un evento. Dobbiamo considerare questo aspetto e fare in modo che il libro non si trasformi in una cornice retorica: il libro deve rimanere il punto d’origine e la ragione verso cui ci si indirizzano le nostre iniziative. Se diventa la sola cornice di qualcosa che è la fruizione degli incontri, allora sì, un problema c’è.
Che fare, allora?
L’obiettivo di una manifestazione è ottenere che da qualche parte ci sia qualcuno che se ne sta da solo, silenzia il cellulare e si prende un’ora per iniziare a leggere o per finire di leggere un libro. Un’attitudine come la lettura non può trasformarsi in modernariato. È chiaro che le forme di conoscenza si modificano, e senz’altro il ruolo del libro è meno significativo di quanto lo era in passato, ma è qui che sopraggiunge il compito di una fiera: farsi punto di congiunzione di due parti, che sono gli editori e i lettori. L’elemento attraverso cui comunicano, ciò che concretizza il loro legame, è il libro. Gli editori lo pubblicano, i lettori lo comprano e lo leggono.
Prima di iniziare l’intervista con Massimo Bray, direttore generale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, scambiamo qualche battuta. Parlando del suo rapporto con i libri, mi racconta che da bambino aveva una grande passione per i vocabolari, si divertiva a ricostruire un periodo storico attraverso le parole di quel tempo. Cercare “armatura” o “scudo” nelle minute descrizioni della pagina era un modo per immaginare un corpo preciso, per vederli davanti a sé.
Allora, prima di lasciare spazio al colloquio, provo a riprendere per un attimo quel gioco con una parola molto cara alla realtà di Treccani. E la parola che scelgo è atlante. Un volume che contiene tutte le mappe geografiche del mondo, che da piccoli ci ha aiutato a prendere familiarità con le città che abitiamo, e con i luoghi che vorremmo abitare. Atlante, però, se facciamo un passo indietro, nella mitologia greca è anche il nome di un gigante che regge sulle spalle il peso del globo terrestre. Ma cosa succede se ci soffermiamo proprio sulla parola? La parola atlante nasce da un verbo greco che in realtà non esiste, è il verbo tlao. La lingua greca ne registra solo pochissime forme verbali. Che raccontano, eppure, una storia molto affascinante, una storia che si lega indissolubilmente all’animo di Treccani. Il verbo tlao ha due significati. Il primo: “tollerare”, “sopportare”, “resistere”. Il secondo è una diretta conseguenza del primo: tanto hai tollerato, sopportato, resistito che hai imparato a “osare”, ad “avere coraggio”.
L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana da quasi un secolo segue, registra e influenza la storia culturale del nostro Paese. Vorrei cominciare la nostra conversazione chiedendole in che modo Treccani dialoga con il suo passato.
Nell’introduzione della prima edizione del Ventinove, leggiamo che l’Enciclopedia ha una duplice missione: da una parte, serve a conservare la memoria della storia culturale di un Paese; dall’altra, a farla conoscere, quella memoria, a portarla nelle case di tutti. È insieme un compito di tutela e di valorizzazione. E sono tanti gli Istituti come il nostro che affidano questo compito all’Enciclopedia. Era il 2004, lo ricordo ancora nitidamente: alla Fiera del Libro di Francoforte rimasi stupito dallo spazio che occupava uno di quegli istituti, non aveva un padiglione intero, ma molto meno della metà. Chiesi il perché a uno dei suoi direttori e lui mi rispose lapidario: «Ma se n’è accorto o no che con Wikipedia siamo stati tutti colpiti da un ciclone?». Il 15 gennaio del 2021, tra meno di sei mesi quindi, Wikipedia compie vent’anni, e noi possiamo dire di aver resistito a quel ciclone. Però, come diceva quell’uomo austero che aveva guidato un grande istituto di cultura, è inevitabile che sia cambiato il nostro modo di fare enciclopedia. Treccani non ha mai voluto rompere i ponti con il passato, ma ha provato continuamente a ricostruire il suo impegno guardando al futuro.
Non rompere i ponti con il passato e, nel frattempo, guardare al futuro: come possono convivere i due aspetti?
Innanzitutto, con un lavoro editoriale in grado di sintetizzare queste due istanze. Per esempio, penso ai volumi del Contributo italiano alla storia del pensiero che indagano l’apporto italiano alla storia del diritto, della musica, della letteratura; ma nello stesso tempo mi vengono in mente le nuove frontiere culturali che abbiamo esplorato: basta citare la prima grande opera sulle neuroscienze, realizzata da Rita Levi-Montalcini, che si chiudeva con una parte dedicata all’ecologia e alla bioetica. Questo è stato il modo in cui una parte della missione iniziale non si è mai interrotta, e ha trovato nuovi percorsi per proseguire. Stiamo per ultimare un lavoro che abbiamo discusso a lungo con Tullio Gregory: due volumi che andranno ad aggiornare l’enciclopedia gentiliana, che raccolgono, possiamo dire, le parole del Ventunesimo secolo. Con Gregory ci dicevamo spesso che non bastava più aggiornare alcuni lemmi: adesso è arrivato il momento di ripensare radicalmente alcune parole nel contesto in cui viviamo. Ci stiamo confrontando con le voci “Umanesimo”, “Giornalismo”, “Innovazione”. Parole sensibili alle trasformazioni della nostra epoca, che oggi mostrano un modo differente di essere.
La domanda potrebbe risultare impertinente: questo tipo di lavoro editoriale oggi basta?
Come accennavo prima, provare a continuare una storia significa saperla interpretare sempre in maniera diversa. Per fare questo sono necessari linguaggi e strumenti nuovi. Ci siamo accorti che l’enciclopedia non era più sufficiente come unico canale di comunicazione. Infatti, poco più di un anno dopo la nascita del Web, Treccani ha aperto il suo sito Internet. Lo dobbiamo alla modernità, all’intuizione e alla curiosità di Rita Levi-Montalcini, che fu presidente del nostro Istituto. Lo abbiamo messo in piedi costruendolo come una piazza dei saperi: in un tempo in cui risulta difficile orientarsi nel mondo delle informazioni, offriamo ai nostri lettori tutto il nostro patrimonio, con la garanzia di un sapere certificato. E non solo: cerchiamo di dare vita a esperienze alternative, nuove, con i nostri magazine digitali, che sono parte integrante della nostra realtà.
Durante il lockdown, il portale ha raggiunto oltre un milione di utenti al giorno.
Credo che dipenda dalla necessità di trovare un punto di riferimento. Seguendo l’utilizzo degli utenti del portale, abbiamo capito che c’era un grande disorientamento generale. Intanto occorreva capire cos’era questa pandemia. Molti hanno cercato le parole contagio, virus. Eravamo tutti storditi di fronte ai provvedimenti draconiani annunciati dal governo Conte. Abbiamo cercato di dare risposte sicure sul pericolo dell’assembramento o sull’uso delle mascherine. C’è poi una cosa che mi ha colpito. Per molti giorni una delle parole più ricercate è stata resilienza: durante la pandemia, gli italiani capivano che bisognava trovare le forme per resistere. Di questi tempi, invece, le ricerche si orientano su crisi economica o divario digitale. È così che Treccani si confronta quotidianamente con i cambiamenti. E credo che ci sia molta continuità con i suoi primi propositi, non ci sono stati dei momenti di rottura. Probabilmente abbiamo anche commesso degli errori, provando ad andare avanti sicuramente si fanno degli errori, però mi sembra che quella piazza dei saperi sia oggi un luogo di riferimento importante per la cultura italiana.
A proposito di crisi economica, il mondo del libro sta scontando, e sconterà, un periodo di difficile ripresa. Come lo sta affrontando Treccani?
È chiaro che la pandemia, dopo la crisi del 2007-2008, pone a tutti gli editori il serio problema di come andare avanti. Sotto questo aspetto, i nostri canali digitali ci hanno molto aiutato a tenere vivo il rapporto con i lettori, e forse lo hanno incrementato, dando loro l’occasione di apprezzare quest’altra parte di Treccani che non riusciva a venire a galla. Lo abbiamo fatto, credo, con il solito garbo. Treccani nasce, ed è una società privata. All’inizio è un’anonima per quote, guidata da questa figura di imprenditore illuminato che era Giovanni Treccani. Oggi abbiamo la fortuna di avere diciannove soci molto solidi, che credono nella nostra missione. Nei mesi di lockdown, quando è cominciata la didattica a distanza, hanno favorito in tutti i modi la scelta di mettere a disposizione, in maniera gratuita, la nostra piattaforma rivolta alla scuola. Un grande sacrificio, in un momento di crisi così difficile, eppure per tutti fondamentale.
Quali saranno le vostre mosse future?
Negli ultimi mesi mantenere l’equilibrio non è stato facile, e anche noi stiamo cercando di ragionare su quali saranno i prossimi passi. Di sicuro la presenza nel mondo della scuola ci sembra indispensabile, perché è lì che andremo a formare i cittadini del futuro. È lì che dovremo cominciare a immaginare una storia diversa per il nostro Paese, e non solo. Perché sarà lì, e solo lì, che ritroveremo le forze per ricostruire la nostra identità europea.
Un’ultima domanda, una domanda personale, ecco. A vent’anni sognava, si immaginava, di diventare l’editore di un’importante casa editrice?
Editore è una parola troppo grande! Io non sono un editore. Tullio Gregory diceva che Treccani appare come un iceberg, a volte affiora la punta, che sono le persone che capita di vedere di frequente, però sotto c’è questo incredibile blocco che è composto da tantissime persone. Ovviamente, a me piacciono molto i libri. E adoro stare in Istituto. Penso che sia il posto in cui passo più ore, molte più che a casa … E questo spesso mi viene anche rimproverato. Lo faccio perché mi ritengo fortunato, è un luogo pieno di bellezza. È un’immensa fortuna stare tra queste pagine, tra queste letture, confrontarsi con grandi intellettuali. La vera sfida è tenere insieme tutto questo, storia e futuro, come dicevamo all’inizio, e non avere paura di guardarlo, questo futuro. Forse questo è un piccolo merito. Affrontarlo e indagarlo con coraggio.
Intervista a Mario Biondi
Quando l’Ulisse di James Joyce uscì nella collana Oscar biblioteca della Mondadori, Giorgio Manganelli sottolineò l’evento editoriale con una felicissima recensione, adesso raccolta in Concupiscenza libraria (Adelphi): «Forse è semplicemente un segnale in codice calato dalle stelle, per indicare che sta per cominciare la stagione dell’oro. Dal punto di vista delle mente letteraria, l’Ulysses negli Oscar equivale a quella terra dell’oro, nella quale il giovane Tibullo vedeva scorrere latte e stillare miele – dieta scarsamente diversificata, ma distinta e ricca di calorie». Pubblicare uno dei testi più difficili, affascinanti ed enigmatici del Novecento con un marchio di grande diffusione, facilmente rintracciabile a basso costo persino sugli scaffali delle edicole, dei tabacchini e dei chioschi ferroviari, per Manganelli significava esprimere una «dichiarazione di principio: una sorta di diritto umano ad accedere a quanto di più intenso, di più ostico, di audace si inventò nella letteratura».
Ed è come se quella dichiarazione di principio venga rinnovata ogni volta che dell’Ulisse si presenta una nuova traduzione: nel 2012 Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi per Newton Compton, nel 2013 Gianni Celati per Einaudi, e da qualche settimana Mario Biondi per La nave di Teseo. Tutte animate dal medesimo intento: offrire ai lettori il capolavoro joyciano come patrimonio comune, un’opera mondo che dia a chiunque la possibilità di riconoscere sé stesso nella complessità del nostro universo.
Non può che essere motivo di gioia, quindi, festeggiare la nuova versione italiana di Mario Biondi: una gioia doppia se lo si fa per proseguire idealmente la giornata dedicata a Leopold Bloom, il Bloomsday, che quest’anno, a causa del Covid-19, ci ha scoraggiato dal ritornare sulle strade di Dublino, riempiendone i pub, ma non ci ha ostacolato a leggere e rileggere le gesta di quel 16 giugno 1904 e a discuterne ancora.
In una recente intervista ha detto che finalmente, nella sua lunga carriera di traduttore, è stato lei a scegliere l’opera da tradurre. Allora, vorrei chiederle, cosa l’ha spinta a scegliere proprio l’Ulisse di Joyce?
L’assoluta convinzione che sia l’opera moderna in lingua inglese più difficile da tradurre (a parte il valore immenso). Lo penso da quando ho cominciato ad affrontarlo a poco più di vent’anni. Ho tradotto autori “impossibili” anche se di carature diversissime come il Nobel William Golding (che usa l’inglese celtico della Cornovaglia), l’australiano Peter Carey (il cui anglo-australiano è di radici profondamente celtico irlandesi), il canadese Robertson Davies, lo scozzese Irvine Welsh, e le loro opere mi sono per così dire servite da palestra per affrontare i fuochi d’artificio linguistici di Joyce.
A proposito di fuochi d’artificio linguistici, c’è chi, parlando della traduzione dell’Ulisse, ha affermato che non è importante capire tutto: la cosa più importante è restituire le sonorità ricreate da Joyce, fatte di parlate, di gerghi e di chiacchiere da bar. Lei che ne pensa? Per preservare quelle musicalità/sonorità, è possibile sacrificare il tentativo di dare un senso al periodo?
Allora però bisogna perlomeno leggerlo in inglese, altrimenti ci si affida alle musicalità/sonorità del traduttore, che appartengono a un’altra lingua e sono un’altra cosa. Certo, in diversi casi ho rinunciato alla traduzione letterale per cercare di preservare la musicalità o il gioco linguistico. E ogni volta l’ho spiegato in nota. Tuttavia le infinite oscurità di Joyce nascondevano i suoi vezzi di travestitismo, che lui attribuisce a Leopold Bloom (e il fratello Stanislaus argutamente smaschera). Travestitismo linguistico, si badi bene, ma sempre travestitismo. Joyce voleva che ci si rompesse la testa per capirlo, ma ardeva dall’ansia che lo si capisse fino in fondo. Che si capissero tutte le sue amarezze di giovinetto incompreso in casa e a scuola e di autore sottovalutato in patria (secondo lui, naturalmente). Non usa una sola parola a caso, e dietro/sotto quasi ciascuna di esse c’è un proliferare di significati, allusioni e rimandi. Chi vuole perderli li perda pure: ciascuno è libero di buttare via il sugo e mangiare la pasta scondita.
Prima di provare i suoi primi tentativi di traduzione dell’Ulisse, negli anni Settanta, ne è stato un lettore, e continua ad esserlo. Oggi, dopo averlo tradotto, che consiglio d’approccio darebbe a un nuovo lettore dell’Ulisse? In che modo si comincia e ci si rapporta con la sua lettura?
Leggendolo, che cos’altro? Mi viene la “pecolla” (dotta espressione lombarda da tradurre “pelle del culo che si scolla”) se penso a quanta gente mi sta dicendo: “Lavoro magnifico, Biondi! Ah, se io avessi tempo di leggere…” Che cosa diavolo avranno da fare, a parte jogging, palestra, cyclette, happy hour, apericena, talk show televisivi et absit iniuria verbis? Tutto cinema d’autore, teatro off-off e musica dodecafonica? Salvo poi concludere: “Comunque, sai, ho appena finito un testo che mi piacerebbe tu leggessi. Te lo mando…”.
Mi vorrei soffermare su questa posizione di lei lettore. Di lei lettore e viaggiatore e scrittore di viaggi. L’Ulisse è un romanzo intensamente legato alla città di Dublino. Mi domando: in che modo la letteratura legata a un luogo condiziona il nostro modo di abitare quel preciso luogo? La Dublino di Joyce, senza l’Ulisse, esisterebbe di meno?
Esattamente il contrario. Esisterebbe di meno l’Ulisse senza Dublino, e forse non esisterebbe affatto. Come ‒ “cambiate tutte le mutande possibili” e mi sia concessa la presunzione ‒ esisterebbero di meno o non esisterebbero alcuni miei romanzi senza Istanbul o Manhattan. Per non parlare ovviamente di Milano, del Lago di Como e delle coste dell’Italia Meridionale (anni Sessanta).
Ha più volte evidenziato l’importanza di Internet per sciogliere alcuni nodi testuali che sembravano irrisolvibili. È la rete il migliore interlocutore che un traduttore possa avere?
È un mezzo preziosissimo, di cui il traduttore ha il dovere di saper fare tesoro (sia pure con tutte le cautele del caso), senza nascondersi dietro anacronistici vezzi di antitecnologia. Chissà perché, poi. Devi tradurre? Hai il dovere di capire quello che stai traducendo. Il lettore da te non si aspetta molto altro. Altrimenti non usare nemmeno il dizionario e la Treccani. Ho risolto moltissimi problemi attraverso i motori di ricerca, e ogni volta ho indicato l’indirizzo web della soluzione. Si badi bene: non è che trovassi la traduzione bell’e fatta, ma cerca e cerca con testarda pazienza, alla fine saltava fuori il dizionario antico, lo studio, il commento, persino il dépliant turistico o il manuale tecnico che dava la chiave per scardinare la segreta.
Un’ultima domanda. Il suo Ulisse conta 1.070 pagine e oltre 2.000 note. Per lei il lavoro del traduttore è un lavoro di servizio, che ha il principale scopo di servire il testo e di offrirlo ai lettori? Oppure è proprio un gesto di scrittura parallela, in cui il traduttore, alla fine del suo lavoro, diventa autore parallelo di quel libro, influenzandolo e restituendogli una personale prospettiva?
È entrambe le cose. Prima di tutto deve offrire al lettore un servizio ben fatto. Ma poi, se “Dio è un romanziere e il suo romanzo è il mondo”, come ha scritto tante volte il mio incommensurabile maestro I.B. Singer, e se per contraltare (dico io) il romanziere con i suoi romanzi leva una sfida a Dio con l’inaudita pretesa di creare “un mondo altro”, che non è ma potrebbe benissimo essere, così il traduttore consapevole leva una sfida all’autore originale. “Io, nella mia lingua, l’avrei scritto così.” Il risultato, poi, lo giudica il lettore.
Intervista a Caterina Marietti e Michele Foschini
Se negli ultimi anni la percezione del fumetto è cambiata, dobbiamo sicuramente ringraziare BAO Publishing. Nasce nel 2009 per iniziativa di Caterina Marietti e Michele Foschini, quando in Italia sono ancora troppe le realtà inesplorate per i lettori di fumetti. Sia per quanto riguarda le possibilità dei titoli proposti sia per il modo di proporli e di contestualizzarli. «Avevamo girato mezzo mondo per un anno, di fiera in fiera, imparando le modalità dei mercati del fumetto. Lo avevamo fatto per passione, ma poi ci è venuta l’idea, e da lì la scintilla d’incoscienza».
Una scintilla d’incoscienza che in undici anni non ha soltanto alimentato la categoria del graphic novel, ma ha soprattutto offerto tecniche nuove, e sorprendenti, per raccontare il nostro presente. Per definire meglio i contorni di chi siamo oggi, sperimentare chi potremmo essere. Pochi scrittori come quelli presenti nel loro catalogo ‒ penso a Zerocalcare, Daniel Cuello, Leo Ortolani ‒ riescono a intercettare così in profondità il sentimento del tempo in cui ci troviamo immersi.
Qual è l’idea che sostiene e suggestiona quotidianamente il vostro progetto editoriale?
La scelta dei titoli è legata sempre al nostro gusto personale, e misteriosamente su questa cosa non litighiamo mai. Il modo di proporre i titoli, invece, è improntato sull’onestà verso il lettore, al punto che raccontiamo quasi tutto ciò che succede dietro le quinte, tramite i social, a chi speriamo vorrà credere nei nostri progetti. La comunità di lettori che si è venuta a creare è diventata uno dei nostri assi nella manica più efficaci.
Che rapporto hanno gli italiani con il fumetto e con il graphic novel? È diverso rispetto a quello con i libri “non illustrati”?
Il rapporto con il linguaggio del fumetto è storico, radicato, passa per le edicole, i titoli popolari che hanno informalmente scolarizzato la generazione dei nostri nonni. Il romanzo grafico ci ha messo tempo ad affermarsi, ma oggi il lettore di prosa lo apprezza o lo sta imparando ad apprezzare. Così le due anime del medium fumetto si ricongiungono, grazie a una generazione di lettori tra i 25 e i 40 anni, capaci di non sottilizzare e di apprezzare sia l’intrattenimento “alto” che le tematiche più profonde, proprio come fanno quando scelgono un romanzo senza immagini.
Macerie prime di Zerocalcare, Guardati dal beluga magico di Daniel Cuello, Cinzia di Leo Ortolani: sfogliando il vostro catalogo, si fa presto ad accorgersi che sono davvero molti i titoli che hanno segnato lo spirito delle loro generazioni.
Siamo stati molto fortunati nel trovare lungo il cammino voci così personali e significative. Ci piace restituire frammenti di riflesso della realtà, nei libri che pubblichiamo, e con certi autori riesce particolarmente facile, perché hanno veramente il polso del loro tempo. Infatti sono i più facili da supervisionare: li ascoltiamo, e al massimo li aiutiamo a focalizzare certi aspetti minuti delle loro narrazioni, ma il più delle volte il dialogo tra noi basta e non c’è bisogno di alcun intervento editoriale. Ci sono molti “talenti puri”, nel nostro catalogo. La scrittura di Teresa Radice è un altro esempio.
Sui vostri canali social è apparsa la Piccola guida alla lettura digitale dei fumetti. Solitamente c’è una naturale ritrosia a pensare i fumetti nella loro versione digitale. Si pensa sempre di perdere qualcosa, il contatto con il corpo del libro, la possibilità di sfogliarlo. Voi che ne pensate?
Sebbene sia prioritario per noi dare un’esperienza sensoriale appagante con gli oggetti-libro che confezioniamo, sono più importanti le storie, comunque se ne fruisca. Il confinamento a casa degli ultimi mesi ha fatto scoprire a molti la lettura digitale, che negli anni abbiamo imparato a curare meticolosamente. Quindi ci è sembrato logico aiutare i neofiti a fruirne al meglio.
Durante le settimane di lockdown avete promosso una bella iniziativa, scontando incredibilmente una selezione del vostro catalogo. Vorrei chiedervi, oltre alla grande prova di vicinanza che avete dimostrato, non c’è anche l’esigenza di sottolineare un ruolo sociale che l’editoria ricopre nel nostro Paese?
Non lo abbiamo sottolineato in modo palese, ma proprio per il senso nobile del termine “passatempo” abbiamo pensato che ciò che produciamo fosse perfetto per rendere meno gravosa l’atmosfera di preoccupazione e disagio di quelle settimane. Noi abbiamo sempre fatto una militanza molto sussurrata sul tema del lenire le solitudini. Dai libri sulla disabilità a quelli sull’accettazione delle identità di genere. Il nostro lavoro è dire alle persone che non sono sole. Non potevamo fare diversamente in questo periodo, con i pochi strumenti a nostra disposizione. Se abbiamo migliorato una sola giornata a qualche lettore, ne è valsa la pena.
In che modo l’esperienza della chiusura delle librerie, dell’investimento sul catalogo digitale, ha modificato la vostra idea sull’e-book e la vostra idea editoriale in generale?
In realtà abbiamo sofferto molto la chiusura delle librerie, perché sono il canale attraverso il quale interagiamo con chi ci legge. Non abbiamo mai pensato di sostituirle, o di poterlo fare se lo avessimo voluto. Ci siamo semplicemente detti che alla gente non devono mancare mai i libri, che unire lettori e storie in un momento di emergenza avrebbe preservato il senso della filiera. Così abbiamo usato il nostro e-commerce e le conoscenze sul digitale sviluppate nell’ultimo decennio (in BAO c’è una persona che si occupa solo di quello, da sempre, e che idealmente si era preparata a un’evenienza di questo tipo, anche se non pensava che avremmo fatturato nel marzo 2020 come in tutto il 2019, in quanto a lettura digitale) e abbiamo cercato di soddisfare un bisogno che sappiamo, da lettori noi stessi, essere spesso più spirituale che materiale. E poi ci siamo detti che se avessimo trasmesso il senso che neanche una immane tragedia mondiale poteva impedire ai libri di raggiungere i loro lettori, avremmo trasmesso un importante segnale di serenità, tangibile o potenziale.
Quando proviamo a restituire l’immagine complessiva che un libro ha impresso su di noi, utilizziamo spesso un linguaggio diverso da quello letterario: di un certo libro potremmo dire che è stato per noi come vedere una serie tv o un film, come sentire un’orchestra suonare un concerto jazz o seguire un pittore dipingere a poco a poco una tela.
Per Economia sentimentale di Edoardo Nesi (La Nave di Teseo, in uscita il 12 novembre) l’impressione che mi attraversa durante la lettura è quella di stare assistendo a un documentario sui mesi della pandemia del 2020 in Italia: un documentario in cui le voci degli intervistati si alternano alla voce del narratore, gli sconfortanti scenari economici del Coronavirus alle pagine di Joan Didion e di Doctorow. Un ritmo di pensieri e di figure che permette di vedere il nostro Paese contemporaneamente da dentro e dall’alto.
A muovere le pagine di Economia sentimentale sembra essere un binomio di parole a te molto caro, il binomio nostalgia-futuro: la nostalgia di qualcosa che si è perduto per sempre; il futuro inteso come uno spazio sempre più inafferrabile. In che modo hai affrontato queste due anime del tuo nuovo libro?
In questo libro la mia riflessione sulla nostalgia credo si risolva. Perché, alla fine, penso di aver capito di cosa avessi nostalgia. La mia non è nostalgia del passato, non mi manca il passato, nemmeno quello che mi raccontava mio padre. A me manca il futuro che quel passato prometteva, mi manca poter vivere come pensavo da piccolo che avrei vissuto. E quando ho scoperto gli scritti di Robert J. Gordon, mi sono stati di grande aiuto.
Nel libro dedichi molto spazio alle teorie di Gordon espresse in The Rise and Fall of American Growth. Soprattutto riguardo all’idea del «Secolo Speciale»: un secolo che va dal 1870 al 1970, in cui si concentrano le maggiori invenzioni della modernità e la nostra epoca di maggiore sviluppo sociale ed economico. Dopo il 1970, invece, cominciamo a vivere un lentissimo declino…
Gordon ha compreso che quello che davvero scontiamo è la mancanza del progresso, della crescita economica, della quale siamo tutti figli: siamo tutti nati con il sogno di questa crescita economica. E dopo il Secolo Speciale, non sono finiti i nostri sogni perché siamo stati noi incapaci di continuare a sognarli; no, s’è fermato qualcosa di superiore, come se l’intera umanità si fosse fermata nella sua ascesa.
Progresso, crescita economica. In questo nostro confuso presente, sono diventati vocaboli ambigui. Cosa significano per te? Come dovrebbero esprimersi nella nostra società?
La crescita economica è un fluido che pervade la società, è una dimensione di sviluppo condiviso e collettivo. Se in una società sono in pochi ad arricchirsi, bene, bravi, possiamo fare loro i nostri complimenti, ma non sono indicatori di alcuna crescita. Io penso sia tutt’altra cosa, la crescita: era quella della gente che dal Sud veniva a Prato, arrivava senza una scarpa e dopo cinque o sei anni aveva pagato l’anticipo per la casa. Ecco, penso sia questo. Per me il progresso è questa roba qua.
Un progresso che, paradossalmente, ha conosciuto il ragionier Ugo Fantozzi nei film di Paolo Villaggio e non conosce (e forse non conoscerà) un ragazzo di venti o trent’anni.
È incredibile. Mentre scrivevo il libro, mi è capitato di rivedere un film di Fantozzi. E mi sono accorto che aveva tutto: aveva la casa, la macchina, il lavoro sicuro. E noi lo prendevamo in giro! Pensa a come è cambiata la nostra società. Quanto peggio stiamo noi. Questo uomo era considerato il simbolo della pochezza, la sua vita ci sembrava il minimo; però, guarda oggi, a noi sembra di essere chissà chi perché abbiamo un telefonino in mano: e i nostri figli, di quelle tre cose che possedeva Fantozzi, non hanno niente.
Ma non le hanno perché non le possono ottenere o perché, da quei film a oggi, i desideri di un ragazzo di vent’anni sono cambiati?
Le nostre esigenze sono cambiate perché ci siamo abituati a vivere con poco. E la generazione dei nostri figli è vittima di questa abitudine. Se torni ai tempi di quei film, e vai a vedere le statistiche economiche di quelle stagioni, ti accorgi che in Italia c’era una crescita trainata dall’industria, dall’artigianato. I posti di lavoro c’erano perché c’erano le aziende che producevano qua in Italia. Se hai un sistema economico che produce, e quel sistema economico si basa sulla manifattura in buona parte, la manifattura ha bisogno di persone. Negli anni Settanta investivi nelle macchine, certo, ma non era mai un investimento che impediva alle persone di trovare un posto di lavoro; perché se anche una macchina avesse rubato posti di lavoro ad alcuni operai, ci sarebbe stata un’altra azienda che di quegli operai aveva bisogno. Era un circolo virtuoso.
Un circolo virtuoso che è stato spezzato con la fine del Secolo Speciale e l’arrivo della globalizzazione. Credi che la rottura di quel circolo segni anche una frattura generazionale, un’irreparabile rottura tra padri e figli?
Nel mio ultimo romanzo, La mia ombra è tua, il protagonista, Emiliano, è un ragazzo di vent’anni, molto intelligente,che ha preso coscienza di una condizione fondamentale del nostro tempo: a lui e ai suoi coetanei è stato tolto qualcosa, ed è stato tolto loro in maniera così furba che non ne sentono nemmeno la mancanza. È la mancanza di quell’idea di crescita, di progresso. Noi padri abbiamo perduto la possibilità di dire ai nostri figli che i posti di lavoro ci sono, che il merito e la bravuraverranno premiati. Un tempo, queste cose, potevi dirle, perché davvero potevano succedere.
Adesso, allora, mi piacerebbe parlare di quello che potrebbe succedere, quindi della nostra idea di futuro. Quando, in Economia sentimentale, chiedi a Enrico Giovannini come attendere il futuro, lui risponde: «Non si deve solo cercare di anticipare il futuro, bisogna orientare le scelte di oggi verso altri futuri possibili, e migliori». È molto affascinante, anche perché è una risposta che, solo qualche anno fa, forse, ci saremmo aspettati da uno scrittore e non da un economista.
È vero. Prima “i futuri” venivano raccontati dagli scrittori. E ora uno scrittore lo va a chiedere a uno statistico. Anche questo è un segno della strada che s’è persa. Negli anni Settanta, in quanto scrittore, in quanto intellettuale, sarei stato io a dire come sarebbe cambiato, anzi come sarebbe dovuto cambiare il mondo. E oggi invece, come tutti gli altri scrittori, sono sperduto. Il segno più evidente di questa circostanza è proprio il fatto che sono andato a chiederlo agli altri, come si sta trasformando il mondo che abbiamo attorno.
E nel libro lo chiedi a gente di diversa estrazione, sociale e culturale, senza fare gerarchie.
Sì, ho intervistato il macellaio, la ragazza che fa il vino. Perché io non ce l’ho più una gerarchia di riferimento, non sono più convinto che una gerarchia possa darmi un punto di vista più interessante di prima: il futuro bisogna andare a raccattarlo dove si trova. Poi, sai, ho incontrato molti ottimisti, e probabilmente loro sono nella direzione giusta. Perché non è che il mondo non va avanti; il mondo va avanti, ma a settori sempre più piccoli, per sempre meno persone.
Ci possiamo soffermare su questa tua visione dell’economia come “categoria letteraria”, come nuova (o unica) possibilità di raccontare il presente?
In questi anni, senza una conoscenza specifica dell’economia, tu non puoi scrivere, secondo me. Perché non percepisci più il reale. Il reale è determinato dall’economia, dai mutamenti terrificanti dell’economia. E quindi uno scrittore che oggi scrive senza parlare della situazione economica, senza dare ai personaggi una loro “personalità economica”, fa una cosa antica.
Un’ultima domanda, che si rifà alla possibilità che la letteratura si leghi strettamente a una visione economica del mondo. Dobbiamo continuare a credere che la letteratura, questo mondo, possa “riportarlo in attivo”, possa dunque salvarlo?
Trovo che non ci sia niente di più bello della letteratura, della musica, del cinema. E tu alla bellezza devi aggrapparti, perché leggere non basta: bisogna leggere cose belle. Bisogna leggere libri belli, libri importanti. Quando in Economia sentimentale parlo di Joan Didion, lo faccio perché a me ha fatto stare bene, mi ha fatto vedere il mondo della quarantena in maniera diversa. Mi ha fatto bene leggerla e rileggerla per la trentesima volta. Quando, poi, parlo della Fiera Mondiale, io non potevo raccontarla bene come l’ha raccontata E. L. Doctorow. Ci sono eventi, momenti della nostra storia, che devono essere raccontati da uno scrittore, perché se non lo fa uno scrittore, noi non ce la facciamo. E non basta essere un romanziere. È necessario essere uno scrittore che abbia capito di avere il compito di trovare la chiave di interpretazione della realtà.
Edoardo Nesi, Economia sentimentale, La Nave di Teseo, Milano 2020 (dal 12 novembre in libreria)
Il nuovo libro di Roberto Calasso, Come ordinare una biblioteca (Adelphi, pp. 127), comincia con questa considerazione: «Il miglior ordine, per i libri, non può che essere plurale, almeno altrettanto quanto la persona che usa quei libri». Che sembra ragionevole e sensata. Bisogna intendersi, però, su cosa significa “plurale”; perché se si intende la varia, e personale, tipologia di interessi letterari che si può comodamente allineare su uno scaffale di rovere o di noce, allora la pluralità di cui parla Calasso non è abbastanza plurale.
Ma prima di chiarirne le ragioni, è necessario fare un passo indietro. Il volumetto adelphiano raccoglie quattro brevi saggi e una particolare idea di cosmogonia. Naturalmente, non si occupa della nascita di astri e sistemi solari. Secondo la cultura greca arcaica, la cosmogonia è innanzitutto il gesto mitico che mette in ordine il mondo. Ed è a quel gesto che Calasso si rifà per dare armonia e unità al suo libro: i suoi scritti, infatti, indagano la possibilità di riuscire a mettere in ordine le nostre finestre sul mondo, le nostre biblioteche e le librerie, ricolme di libri, riviste, ritagli di giornali. Come se la disposizione di quelle scaffalature fosse davvero un grimaldello per attraversare i meri spazi fisici e accedere a una più profonda coscienza del reale.
Per portare a termine l’ardua impresa, sono due le regole che ci vengono in soccorso. La prima è la regola del buon vicino, formulata da Aby Warburg, «secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». La seconda, invece, è la regola della poikilía ovvero della «variegatezza»: ogni biblioteca deve contenere opere di diversa natura, genere, formato, colore.
Dunque, dell’indagine di Calasso, cosa non convince o convince poco? Intanto bisogna dire che oggi il significato di biblioteca ‒ o di libreria ‒ non è più fortemente definito. Quando parliamo di “libreria” non ci immaginiamo soltanto un rettangolo in compensato con i ripiani. Perché subito ci viene in mente anche la nostra libreria su Spotify o su iTunes, la libreria dei film su Netflix. A pensarci bene, le pagine dei nostri profili Instagram non sono altro che cubi di una libreria d’immagini. Quindi è vero che la forma della libreria sintetizza il nostro modo di affacciarci sul mondo, di esplorarlo in profondità, ma con una pluralità molto più vasta di quella letteraria. Spotify e Netflix, oltretutto, seguono le medesime regole di buon vicinato e di «variegatezza» che Calasso ha esposto per le biblioteche di carta. Dispongono i loro contenuti cosicché chi ascolta una certa canzone o guarda un certo film ne trova accanto un altro, che magari non conosceva prima, e che può di certo interessarlo.
A questo punto, qualsiasi tentativo di mettere ordine nella nostra libreria non può prescindere dal tenere in conto non solo i piani concreti delle mensole, quelli di rovere o di noce, ma soprattutto i piani virtuali, che influenzano e accompagnano quotidianamente le nostre letture, i nostri interessi. Facciamo un esempio, applicando e allargando la regola del buon vicino. Un ragazzo di sedici o diciassette anni si trova a guardare il terzo episodio della prima stagione delle Terrificanti avventure di Sabrina, serie TV prodotta da Netflix nel 2018: per tutta la puntata un gruppo di suoi coetanei rivendica strenuamente il diritto di leggere a scuola L’occhio più azzurro, tra i lavori più intensi di Toni Morrison, censurato per le sue scene di violenza. Ecco, in questo caso c’è sicuramente un rapporto di buon vicinato tra la serie TV e il libro. E il ragazzo, investito dall’inaspettato desiderio di leggere il primo romanzo della Morrison, nella sua ideale biblioteca sistemerà L’occhio più azzurro in modo da tutelare il ricordo di quella scoperta.
È questa la vera poikilía, lo spirito eterogeneo di cui si accennava sopra, che rinnova l’esigenza di trovare un ordine nuovo nelle nostre biblioteche. Che nel 2020 non possono non essere ibride e iper-reali, disposte allo stesso livello su mensole e su schermi.
Calasso racconta che Fritz Saxl, durante la sua prima visita alla biblioteca di Aby Warburg, rimase sconvolto quando si accorse che Warburg spostava ossessivamente i suoi libri, mosso di continuo da intuizioni che lo portavano a stravolgere le precedenti sistemazioni. «L’ordinamento di una biblioteca», chiosa l’autore, «non troverà mai ‒ anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento». Un organismo che, a quanto pare, è sempre più complesso di quanto immaginiamo.
Mentre converso con Giuseppe Laterza, da uno schermo all’altro dei nostri computer, tengo accanto a me un libro particolarmente voluminoso, una sorta di talismano più volte compulsato in questi ultimi mesi. Prima che le librerie chiudessero per il lockdown, è riuscito fortunatamente ad arrivare sugli scaffali. Si tratta della raccolta di saggi di Tony Judt, Quando i fatti (ci) cambiano. Saggi 1995-2010 (Laterza), che presenta un’appassionante lettura della Peste di Albert Camus, il capolavoro dello scrittore algerino che durante la pandemia siamo tornati più volte a leggere e a citare. Nella sua riflessione, Judt definisce l’eroismo dei personaggi di Camus come l’azione delle «persone comuni che fanno cose straordinarie per pura decenza». Mi viene spontaneo spostare questa definizione sul piano dell’editoria: sarà questa la missione dell’editoria post-Covid-19, una missione di eroismo culturale, fare libri straordinari per pura decenza? La parola “decenza”, in questo caso, ha molto a che fare con la parola onestà. «Per Laterza la missione non è di fare libri “straordinari”», mi risponde subito il suo editore, «ma libri che servono a tutti. Questa è la nostra “onestà” nei confronti dei tanti lettori che seguono la casa editrice da oltre un secolo». Una storia, quella di Laterza, che rintraccia le sue origini nel 1885 in un negozio di cartoleria e libri scolastici di Putignano, e velocemente cresce fino ad assumere la fisionomia e il carattere della casa editrice che oggi riconoscono tutti. Qual è il segreto, verrebbe da chiedersi. «Il mestiere dell’editore si nutre prima di tutto di curiosità: l’editore fa infatti mille cose, si interessa di tanti ambiti diversi ed entra in comunicazione con molteplici saperi. Nel mio caso, la passione per questo lavoro è di famiglia: il mio bisnonno, Giovanni Laterza, era figlio di un falegname, fratello di librai cartolai e tipografi…».
Quando è cominciata la quarantena Laterza è stata una delle prime realtà ad inaugurare, sui suoi canali di Instagram e di Facebook, un ricco ciclo di incontri chiamato Casa Laterza. Tra i tanti riferimenti, questo titolo ricorda anche un passaggio di una lettera di Leonardo Sciascia indirizzata a Vito Laterza, padre di Giuseppe: «I rapporti che io ritengo di avere con la Casa Laterza e con Lei sono diversi». Ecco, sicuramente le parole di Sciascia descrivono meglio di qualsiasi altro commento la serie di conversazioni che si sono succedute in questi mesi, e che ci hanno mostrato la grande comunità intellettuale che si raccoglie attorno a Laterza. «Una casa editrice come la nostra è sempre frutto di una comunità operosa, fatta prima di tutto dai suoi autori, poi dai lettori, poi da chi ci lavora, poi da tutti coloro che collaborano alla diffusione dei libri, dai giornalisti ai librai, agli insegnanti ai bibliotecari».
A questo punto della conversazione, desidero ritornare sul ruolo che una casa editrice deve assumere all’interno della nostra società. Ad esempio, mi viene in mente il bellissimo volumetto di Stefano Allievi, 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare). Libro piccolo, agile, a costo bassissimo, che Laterza ha donato a molte scuole perché i ragazzi potessero prendere coscienza di uno dei temi più complessi della nostra contemporaneità. Prima ho utilizzato il verbo “dovere”, ma forse è troppo assertivo. In realtà sono più dubbioso: una casa editrice riveste davvero un particolare ruolo sociale all’interno del nostro Paese? «Fin dall’inizio Laterza ha risposto all’obiettivo datole da Croce: quello cioè di formare la classe dirigente. Le leggo ciò che ha scritto Eugenio Garin: “Dopo il ’25, di fronte all’agonia di quell’Italia liberale che era la sua Italia, Croce, ancora una volta, attraverso la organizzazione di una casa editrice ormai di primo piano, incide di nuovo a fondo nella storia del proprio paese, esercitando una grande funzione “politica”. Attraverso la cooperazione di Giovanni Laterza, difende un patrimonio di cultura; conserva aperta una circolazione di idee; forma su una linea precisa un fronte di residenza intellettuale; offre alle scuole e agli educatori libri senza menzogne, seri, validi”».
Non abbiamo ancora tirato in ballo la domanda che molti si aspettano: come sarà il libro del domani?
Come dobbiamo immaginarlo? Sempre più virtuale e sempre meno legato alla fisicità della carta? Cambierà forma, direzione, prospettiva? «Il libro ha trovato una sua forma perfetta su carta ma ciò non toglie che un editore come Laterza possa raggiungere il suo scopo anche in altre forme. Nel nostro caso, ad esempio, da molti anni promuoviamo festival e lezioni di storia: i contenuti sono gli stessi dei libri, ma le forme e i linguaggi sono diversi. In questa fase certamente stiamo lavorando su linguaggi legati al web, ai nuovi media e alle nuove tecnologie».
Non ci resta che congedarci, adesso. Non prima però di aver posto un ultimo interrogativo sugli imminenti progetti di Laterza per fronteggiare il terribile periodo di crisi che stiamo attraversando. «Laterza ha tre progetti fondamentali per superare le difficoltà della pandemia: innovazione, innovazione, innovazione».
Intervista a Francesco Armato e Nicola Leo
Come suggerisce il marchio della casa editrice, per intercettare l’idea e l’utopia che hanno dato vita a il Palindromo bisogna procedere “a passo di gambero”. Non basta dire che è nata nel 2013. È necessario fare qualche passo indietro, di una dozzina d’anni, quando Francesco Armato e Nicola Leo si conoscono all’Università di Palermo per studiare Storia e decidono, poi, di trasferirsi a Roma per studiare Editoria alla Sapienza. «Partiamo da un dato incontrovertibile», dicono, «ci piace programmare, progettare».
Durante il periodo romano nasce la loro rivista on-line, il Palindromo. Storie al rovescio e di frontiera, una palestra intellettuale e nucleo primigenio della casa editrice che sarebbe stata avviata qualche anno dopo (obiettivo già allora dichiarato). Molti dei rapporti professionali di oggi affondano le radici in quell’esperienza: collaboratori e illustratori, amici e colleghi, sono gli stessi.
L’utopia che ha animato inizialmente il vostro progetto è cambiata o è rimasta invariata?
Non sarebbe corretto asserire che l’utopia che ci ospita sia la stessa di allora, diversa è oggi la consapevolezza del mestiere; fare i conti diventa col tempo sempre più importante e il lavoro intellettuale deve vivere in osmosi con i numeri. Ogni buona casa editrice può vivere e portare avanti con dignità il proprio ruolo culturale, ma anche politico e sociale, a patto di trovare il giusto equilibrio tra propulsione intellettuale ed economia aziendale. È un’attività imprenditoriale unica, potremmo dire un capitolo a sé stante nel grande registro che allinea i “produttori di beni”.
È più difficile, per un editore emergente del Sud, affermarsi nel mondo del libro, nel suo mercato?
Il Palindromo è entrato in scena con un mercato già in flessione, i tempi d’oro del libro erano un miraggio. È complicato costruire un progetto editoriale solido e riconoscibile, ma non ne faremmo una questione geografica. La Sicilia rappresenta per noi l’avamposto d’osservazione, il tessuto di relazioni che coltiviamo più agevolmente, ma non il mercato di riferimento. La categoria dei lettori è unica e accoglie tutti coloro che leggono l’italiano. La filiera professionale con cui lavoriamo e ci confrontiamo quotidianamente – oltre a molti autori, la gran parte degli illustratori e i tipografi – risiede in Sicilia, ma le librerie che accolgono i nostri libri sono sparse in tutta Italia.
Quali sono state, in questi anni, le reali difficoltà che avete incontrato?
Se proprio dovessimo individuare ed indicare un aspetto critico assai diffuso dalle nostre parti ci concentreremmo sulla diffidenza che incontra chi avvia attività “ambiziose” come la nostra. Il salto avviene con quello che definiremmo riconoscimento di rientro: articoli sulla stampa nazionale, posizioni di classifica conseguite da un libro, attestati di stima vergati da personaggi e intellettuali di fuori… A quel punto avviene l’agnizione di ritorno e si inizia a dare il giusto peso e a calibrare meglio i giudizi sugli intraprendenti conterranei. Fino ad allora (sono necessari anni), anche chi frequenta il tuo mondo tende a sottostimarti, a guardare all’attività con circospezione, chissà per quale ragione o convinzione. Ci sono poi quelli che adottano un mellifluo fare paterno e compassionevole: «sono giovani, mossi da sana follia, dei bravi ragazzi…» (ma questo rispecchia un più generale indirizzo del mondo delle lettere italiano, in cui si è “giovani” fino alla soglia dei cinquanta); e infine, i disillusi, gli altezzosi e gli invidiosi: una pletora di scettici che, dopotutto, ha alimentato le nostre aspirazioni. Per fortuna nelle librerie di Roma, Milano o Torino molte proposte del Palindromo hanno ricevuto immediate e calorose accoglienze, ottenendo grande visibilità, e senza che nessuno ci conoscesse o ci avesse “presentato” ai librai: più che i lettori, a funzionare diversamente è il mercato. Ma sarebbe ingeneroso generalizzare: in Sicilia, ad esempio, esistono una decina di libraie e librai straordinari che fanno egregiamente il proprio lavoro.
In Sicilia, a Palermo, siete promotori di letture pubbliche, di festival letterari. Anche in questi mesi di lockdown, avete dato vita a una rassegna di letture sui social. All’interno di una comunità, quale pensate debba essere il ruolo sociale di una casa editrice?
Qualsiasi attività, iniziativa o produzione di carattere culturale ha delle implicazioni sociali. È bene però distinguere chi lavora ogni giorno in questo settore, quindi gli operatori culturali di mestiere, e chi invece porta avanti questo impegno come attività collaterale, un passatempo insomma. Il discrimine vero sta proprio qui, tutti possono promuovere “cultura” con ruoli ed esiti sociali diversi, ed è importante che lo spettro di chi si adopera in tal senso sia il più ampio possibile. Tuttavia, lavorando nell’universo-libro ci si accorge presto dello scarto enorme che intercorre tra chi dell’editoria ne fa una professione e chi un hobby (per non parlare della piaga degli editori a pagamento che sarebbe bene definire pubblicatori a pagamento, in modo da marcare la giusta differenza). Banalmente potremmo divertirci a proporre un parallelo sportivo: i professionisti di uno sport si allenano ogni giorno per offrire una prestazione significativa durante una gara o una partita, ma tutti possono pagare una palestra o l’affitto di un campetto per allenarsi o giocare con gli amici. Una cosa è lo sport praticato dai professionisti, ben altro l’attività sportiva amatoriale. L’editoria è cosa molto diversa dall’offrire la possibilità, facendo pagare gli autori, di “stampare libri”.
Spesso i titoli delle vostre collane sono dei palindromi. Come dialogano titoli delle collane e i testi in catalogo?
E la mafia sai fa male è un palindromo talmente evocativo che presto è stato scelto come nome di collana. Aggiunge contenuti militanti, impegno civile, storia politica al nostro catalogo, più orientato con consapevolezza alla letteratura. C’è, poi, I tre sedili deserti che segue, anche grazie alla supervisione di Giuseppe Aguanno, una nostra inclinazione e intercetta una fascia di pubblico composta da appassionati del genere fantastico; si tratta di operazioni di recupero, classici del genere rispolverati, romanzi mai tradotti o addirittura inediti, il tutto accompagnato da corposi apparati critici.
I titoli delle altre collane non compongono palindromi, ma sono comunque molto suggestivi: Kalispéra, ad esempio, o Le città di carta. Di cosa si occupano?
Le città di carta è il nostro primo progetto editoriale, quello a cui siamo più affezionati. La collana è diretta da Salvatore Ferlita e Fabio La Mantia e gli autori dei libri, per lo più critici letterari, elaborano ricognizioni e percorsi a partire dall’indissolubile nesso che unisce letteratura e città; si tratta di vere e proprie mappature letterarie (ogni volume ha una mappa letteraria in allegato). La narrativa, invece, è raccolta in Kalispéra; la sezione [DOC] accoglie alcune riscoperte che ci hanno dato notevoli gratificazioni e confessiamo che ci emoziona associare il “marchio del gambero” ad autori come Nino Savarese, Giuseppe Antonio Borgese e Carlo Collodi (di cui abbiamo portato per la prima volta in libreria la stesura originale di Pinocchio). Operazioni molto apprezzate dalla critica nazionale.
All’inizio pubblicavate più narrativa, molti esordienti, cosa vi ha portato a cambiare direzione?
Contiamo di ristabilire il giusto spazio per la narrativa contemporanea, è d’altronde uno degli aspetti più affascinanti del nostro lavoro: dare voce a nuovi autori. Questi anni ci hanno però dimostrato – per tornare alla logica dei numeri – che un editore “indipendente” viene più facilmente premiato dai lettori per progetti editoriali ritenuti originali e validi più che per il lancio di un autore o di un romanzo, seppur di qualità. In buona sostanza uno scrittore di narrativa ancora poco noto, pubblicato da una piccola casa editrice, non riesce a ottenere una ribalta adeguata o comunque all’altezza degli sforzi che il progetto richiede.
Cos’è che va storto? C’è un motivo, una colpa da attribuire a un particolare tratto della filiera del libro?
Probabilmente dovremo crescere ancora per competere sull’agguerrito fronte delle nuove proposte di narrativa, ma è giusto attribuire una quota di responsabilità ai diversi attori, un concorso di colpe: promotori e distributori dovrebbero riconoscere e incentivare il lavoro delle case editrici indipendenti che generano lettori e rianimano il mercato, distinguendoli da coloro i quali aggiungono solo carta e confusione; gli editori avrebbero il dovere deontologico di immettere più qualità tra gli scaffali, selezionando e filtrando in modo più accurato i testi che pervengono a centinaia nelle redazioni, aiutando indirettamente l’intera filiera a decongestionare l’ipertrofia che la soffoca e a sgonfiare la bolla finanziaria che regge il mercato dell’editoria; e infine sarebbe opportuno che i librai distinguessero la loro offerta, premiando in visibilità l’editoria di qualità, a prescindere dal brand stampato in copertina. Oggi solo chi si applica, indaga e osa (un pizzico) riesce a rintracciare la qualità.
La casa editrice ancora non ha un catalogo digitale. State pensando di crearlo? Cosa pensate degli ebook?
Non abbiamo alcuna preclusione, pensiamo nel medio periodo a una produzione parallela digitale, che riguardi soprattutto alcune collane, per esempio le riscoperte di cui parlavamo poco fa, o ancora la collana Officina Elicona dedicata a studi accademici. Dunque, per il Palindromo, almeno in una prima fase sperimentale, potrebbe rivelarsi interessante accostare l’immissione digitale di alcuni testi alla tradizionale pubblicazione cartacea; ma per altre collane restiamo convinti che una casa editrice come la nostra debba insistere a lavorare su carta. D’altronde siamo palindromi, quindi procediamo per natura al rovescio…
Quali sono i vostri progetti per reagire al terribile momento di crisi che stiamo attraversando?
Guardiamo con fiducia all’estate. In questi giorni abbiamo mandato in stampa due novità (slittate di un paio di mesi rispetto al programma), si tratta di due libri importanti: Genova di carta. Guida letteraria della città di Alessandro Ferraro, nuovo fondamentale tassello per Le città di carta e Bestiario contemporaneo di Sicilia di Rosario Battiato e Chiara Nott, il resoconto fantastico della traslazione in bestie di personaggi tipici che affollano i paesaggi urbani isolani. Per noi la cura migliore in tempi di crisi resta quella prescritta da Gesualdo Bufalino: «libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri». Perché il libro è sempre il rimedio.
Intervista a Fausta Orecchio
Prima di essere una delle più amate realtà editoriali per bambini e ragazzi, Orecchio acerbo era uno studio grafico. «Lavoravamo molto nel campo editoriale», ci racconta Fausta Orecchio, «avevamo degli interlocutori che erano per noi una fonte di ricchezza continua». A un certo punto, però, i rapporti cominciarono a chiudersi, soprattutto a causa dell’ingresso degli uffici marketing all’interno delle case editrici. «Una volta, di una copertina che avevamo fatto, l’editore ci disse: troppo bella, non funziona per il mercato».
Allora hanno voluto provare loro a immaginare i libri, le copertine, la carta. «Abbiamo cominciato con un libro soltanto. All’inizio non era così importante per noi la letteratura per bambini; era più importante continuare a fare il nostro lavoro come volevamo farlo. Però molto rapidamente ci siamo resi conto delle responsabilità che ti assumi nel fare dei libri per i più piccoli. Ed è così che la nostra attenzione s’è molto concentrata sul mondo dell’infanzia». Orecchio Acerbo è nata nel 2001; da diciannove anni Fausta Orecchio ne è editore e direttore editoriale.
Sul vostro sito, nel divertente “bugiardino” che racconta chi siete, che libri fate, alla voce Categoria c’è scritto: «Libri per ragazzi che non recano danno agli adulti / libri per adulti che non recano danno ai ragazzi». C’è differenza tra la letteratura per gli adulti e quella per i più piccoli?
Se si parla di bambini molto piccoli, credo di sì. Ma da una certa età in poi, questa differenza non ha più molto senso. La nostra è stata, fin dall’inizio, un’idea di condivisione, tra adulti e bambini, per avvicinare questi due pianeti così diversi. Vediamo la lettura come uno scambio, un ponte.
In questo scambio, in che modo interagiscono le illustrazioni dei vostri libri?
Noi facciamo soltanto libri illustrati, tutti i nostri libri, nessuno escluso, hanno immagini, e sono immagini che raccontano tanto quanto il testo. Di nuovo ci troviamo di fronte a due mondi, il mondo delle immagini e il mondo delle parole, e lì si situa il lavoro del grafico, che prova a far dialogare nel migliore dei modi le due realtà. A questo facciamo davvero molta attenzione. Le immagini leggono tra le righe del testo, aggiungono sempre qualcosa alla narrazione.
Una domanda che tengo molto a farle: chi legge da piccolo, sarà un adulto migliore?
Chi è lettore, chi è diventato lettore, non lo è perché ha letto dei libri fin da quando era molto piccolo. Lo è perché a un certo punto della sua vita ha fatto una scoperta che lo ha cambiato, grazie a un libro che gli è capitato tra le mani: è una fortuna enorme. E chi non ha questa fortuna, è un po’ come se gli mancasse un braccio. È una fortuna e una fatica. Perché leggere è anche una fatica, un allenamento. Però è un modo di immaginare i pensieri degli altri, di esplorare universi. Scoprire la bellezza, attraverso i libri, secondo me è davvero importante. Questo sì, per diventare civili. Perché scoprire la bellezza ‒ questo è bello, questo non lo è ‒ significa avere la possibilità di spegnere quello che non lo è. Se non si ha questa possibilità, probabilmente ci si rassegna più facilmente.
Abbiamo accennato prima all’importanza delle illustrazioni, che di continuo dialogano con il testo. Sarebbe possibile trasferire tutto ciò su un e-book?
No, credo che nel nostro caso non abbia alcun senso. Abbiamo sempre lavorato sul libro come oggetto, come oggetto da tenere tra le mani: sentire il profumo della carta, guardare i colori. Ha senso, forse, pensare delle presentazioni dei libri ‒ approfondite; non veloci, di appena cinque minuti ‒ per mezzo del web. Ho visto delle cose molto interessanti, fatte attraverso queste nuove piattaforme. E penso che possano essere utili; poi, per me, è importante il rapporto che si crea direttamente in libreria, tra il libraio e i lettori, piccoli e grandi. È essenziale tenere i libri in mano. Per quanto riguarda i libri digitali: non credo che per noi ci sia un futuro in questo senso. Non ci interesserebbe, ecco.
In che modo vi approcciate, allora, alla realtà virtuale? Negli ultimi mesi avete tenuto sulla vostra pagina Facebook una sorta di diario, “Leggere e riflettere ai tempi del Coronavirus”. Il web è una possibilità per reagire alla crisi?
Questo uso della pagina Facebook è assolutamente temporaneo, un modo per creare una relazione con chi ci segue, per offrire qualcosa ai bambini. È stata un’occasione per continuare a far vivere i nostri libri in un altro modo, al di fuori della libreria. Per il resto stiamo reagendo, come molti. Stiamo resistendo. Siamo abituati a resistere, devo dire. Ci pensavo in questi giorni: Fausta, non farti atterrare, quante volte è capitato di cadere per poi rendersi conto che si è in grado di rialzarsi? A noi è capitato tante volte. Questa è l’unica cosa che possiamo fare, resistere il più possibile.
Ora che le librerie sono state riaperte, come si riparte? Cambierà il modo di fare editoria?
In questi giorni ce lo chiediamo spesso. E ci ripetiamo che dopo questa crisi bisognerà fare ancora più attenzione di prima ai libri che si pubblicano. Fare libri ancora più belli, ancora più pensati, farne di meno, ma farne meglio. Noi abbiamo resistito in tante situazioni, puntando sempre sulla qualità di quello che facevamo. Credo che sia questa la nostra possibilità di sopravvivenza.
In libreria sono già arrivati i vostri nuovi libri?
Siamo ritornati in libreria il 21 maggio. Erano libri che dovevano uscire prima del lockdown, sono semplicemente slittati in avanti. Tra questi c’è Aspettando Walt, un volume molto carino, soprattutto perché in questo periodo non abbiamo fatto altro che aspettare. La storia è questa: due bambini, che sono chiusi in casa, stanno aspettando che arrivi il loro amico immaginario. Loro lo sanno che quando arriva, ci si diverte moltissimo: succedono cose meravigliose quando c’è Walt. Solo che Walt non arriva e nel frattempo, immaginando come sarebbe stato bello stare con lui, costruiscono un mondo fantastico. Sembra strano perché era un libro già programmato ... Noi programmiamo i libri con almeno un anno di anticipo, perché c’è una lavorazione molto lunga. In realtà gli ultimi libri che sono usciti sono I raffreddori e Non-Stop, in cui si parla di una post-apocalisse. È come se uno l’avesse saputo, e invece ovviamente non è così.
Un’ultima curiosità. Vi siete posti il problema di come racconterete ai bambini un’emergenza così complessa e difficile come il Coronavirus?
I più piccoli le capiscono istintivamente, le emergenze, anche meglio di noi. Si creano delle risorse e sono in grado di mettere in atto delle strategie molto più rapidamente di quanto sanno fare gli adulti. Forse più che raccontare a loro l’emergenza, bisognerebbe farsela raccontare da loro. Sarebbe sicuramente più interessante, potremmo imparare noi qualcosa.
Intervista ad Andrea Gentile
«In un Paese nel quale l’analfabetismo è tuttora una piaga visibile e amaramente scontata da troppi, può apparire utopistico lo sforzo che Il Saggiatore si propone, di adeguare gradatamente la nostra cultura a quelle più avanzate». Dalle parole del Catalogo autunno-primavera 1958-1959 lo sforzo utopistico del Saggiatore ha attraversato sessant’anni di storia italiana, continuando a testimoniare, libro dopo libro, il suo manifesto illuminista. Questa settimana ne parliamo con Andrea Gentile, che nel 2014 è diventato direttore editoriale della casa editrice milanese.
Andrea, in che modo sopravvive l’iniziale carattere illuminista del Saggiatore? Col passare degli anni, quello sforzo utopistico ha dovuto cambiare indirizzo, rivolgersi ad altre esigenze, a nuove istanze?
Le ambizioni di Alberto Mondadori, alla data della fondazione, erano molto alte: tra le altre, quella di sprovincializzare e laicizzare la cultura italiana. Il tutto portando avanti l’idea di un catalogo molto identitario, sia dal punto di vista della proposta culturale che da quello fisico, materico. Nel corso dei decenni – a differenza di altri editori nati in quel periodo, che al netto di alcuni cambiamenti hanno deciso di emanare un’aura più o meno simile a quella della fondazione, ad esempio Adelphi – questa identità però ha avuto molti cambi di rotta, per innumerevoli ragioni storiche. Basti pensare – oltre alle fasi successive alla morte di Alberto, nel 1976 – al periodo in cui la casa editrice fu di proprietà della Mondadori. L’acquisizione della casa editrice a opera di Luca Formenton negli anni Novanta permise di riconnettersi almeno in parte alle ambizioni originali, all’interno di un contesto editoriale, quello degli anni Novanta, molto vivace e che tendeva alla logica del “gruppo editoriale”: diversi marchi confluirono infatti dentro il Gruppo Saggiatore (si pensi a Pratiche o a Tropea, poi a Isbn).
E oggi?
Gli ultimi anni sono stati anni in cui – a chiusura del gruppo – ci siamo focalizzati sull’identità del Saggiatore, identità che di fatto ha cambiato completamente pelle. Chiuse tutte le collane, chiusi anche i tascabili, abbiamo fatto nascere intere aree della casa editrice che prima erano assenti, o che procedevano per linee separate: la narrativa, italiana e straniera, solo per fare un esempio, è pienamente interconnessa al resto del catalogo. Su questo fronte, possiamo dire che per rifondare un’identità siamo partiti proprio dal passato. Tra le tante domande c’erano: come valorizzare il nostro catalogo e come farlo rivivere in un unico immaginario, insieme alle nuove pubblicazioni? Come fare, anche, a creare un nuovo catalogo, fatto di libri duraturi, a lunga o lunghissima scadenza? Per creare una nuova identità, devi tagliare i ponti con il passato. Per farlo, perdona la tautologia, non puoi tagliare i ponti con il passato. Su questo fronte, il Saggiatore storico è stato una guida fondamentale: un conto è ristrutturare una casa abbattendo tutto e ricostruendola, un conto è ristrutturarla valorizzando la sua storia. Solo uno scriteriato getta colate di resina su un affresco antico. L’affresco va ristrutturato e valorizzato però, altrimenti è solo vecchio e t’intristisce. Ricostruire partendo dalla propria storia è senz’altro più faticoso, perché corri molti rischi, per esempio quello di non farti capire. Togliere la polvere non basta, devi anche abbattere le pareti, fare un lucernario, cambiare l’illuminazione. Dovrà emergere un’atmosfera nuova, ma che è connessa a quella storica. È molto faticoso, ma credo sia la scelta più saggia, e la sfida più bella.
Una scelta difficile quella di chiudere tutte le collane. Cosa vi ha portato a questa rivoluzione?
Abbiamo immaginato il catalogo come un unico grande testo. Pubblicare tutto in un’unica collana, La Cultura, ha molti vantaggi e alcuni svantaggi: le collane aiutano i librai a posizionare i libri, per dirne solo uno. Eppure ci sembrava necessario proprio per il processo di rifondazione di cui parlavo. C’è poi un’altra sfumatura, che non è la ragione principe di questa scelta, ma collaterale, e ci tengo a esplicitarla. All’interno delle organizzazioni è plausibile che nascano territori privati, impulsi di “proprietà”. “Questa è la mia collana!”, “questo è un mio progetto!”. Talvolta è sacrosanto, talvolta è molto rischioso. Il catalogo di una casa editrice deve essere concepito da tutti su tutti gli aspetti, al di là delle proprie competenze. Se l’idea è quella di costruire un progetto di lunga durata, è fondamentale l’appartenenza: se io ho appartenenza, che so, solo per la collana di economia perché mi occupo di quella e mi disinteresso del resto della casa editrice, non sto facendo bene il mio lavoro. Naturalmente dipende molto dalle dimensioni della casa editrice e questo discorso va rimodulato a seconda delle organizzazioni. Ma una casa editrice è fatta di persone, e se c’è l’appartenenza si può costruire qualcosa di lunga durata. È quello che accade con tutte le squadre.
Sarei curioso di chiederle che legame c’è tra questa unica collana e la nuova forma-libro che avete immaginato
Sul fronte della forma libro, invece, bisognava far confluire una necessità di selezione editoriale in una necessità materica. In grande sintesi, abbiamo fatto confluire dentro una grafica che è mutata nel tempo i libri del catalogo, cercando di rinnovarli; libri “paradigmatici”, che affrontano un tema di petto (penso per esempio a L’algoritmo e l’oracolo di Alessandro Vespignani); libri “testimonianze”, dove grandi artisti parlano del proprio lavoro (da David Lynch a David Bowie); “grandi opere” (le lettere e i saggi di Joyce o le interviste di Burroughs); una saggistica a bassa foliazione ma lunga durata; e una narrativa, sia italiana sia straniera, compresa una narrative non fiction, molto identitaria, calcolata al millimetro. Abbiamo dato in questi anni, e continueremo a farlo, molta attenzione all’unitarietà dell’estetica e all’oggetto fisico. Stiamo lavorando molto, per esempio, su delle copertine “interattive”. La copertina diventa un’altra cosa rispetto a quando il lettore ha acquistato il libro, proprio grazie all’interazione del lettore. Insomma: il libro come esperienza “manuale”, prima di tutto.
Pensate al libro come esperienza manuale, ma non avete trascurato quella virtuale, l’e-book. In che modo il Saggiatore pensa il libro digitale: come solo simulacro virtuale di un libro di carta o come realtà autonoma e separata?
Abbiamo fatto molti studi in passato e molte analisi, e concordo con la risposta data da Elisabetta Sgarbi la settimana scorsa. Al massimo, è da auspicare che l’e-book diventi qualcosa di autonomo dalla riproposizione del libro cartaceo in altra forma. Ciò non toglie che un editore, come qualsiasi imprenditore, non deve sottovalutare nulla: facciamo attenzione agli e-book ogni giorno e non solo alla loro produzione, anche a come comunicarli, come raccontarli ai lettori.
Parlare di e-book ci dà modo di parlare della vostra campagna di solidarietà durante l’emergenza Covid-19. Avete donato più di venti titoli del vostro catalogo, creando un’apposita finestra sul vostro sito. Oltre alla grande prova di vicinanza, è stato anche un modo per riaffermare una funzione sociale dell’editoria? Un modo per evidenziarne il ruolo, in un momento in cui la realtà culturale viene quasi del tutto ignorata?
Ci interroghiamo da tempo su che cos’è il nostro lavoro e come diventerà. Donare quei titoli è un atto non solo legato alla sfera comunicativa, ma proprio progettuale. Un editore è un agente culturale. Deve poter parlare con tutti. Poco importa che venga fatto su schermo o meno. La funzione sociale di cui parla è decisiva: il libro, in questo Paese, è sparito da decenni su qualsiasi fronte governativo e sociale, è assente da qualunque discorso. È singolare. Pensare che esista solo il libro come unico custode di arricchimento dell’essere umano è folle. Che un Paese però possa dimenticarselo del tutto è nefasto. Circa il nostro modo di pensare l’editoria in digitale, invece, non è cambiato molto. Abbiamo dato in questi anni molta attenzione a questo aspetto. Non esiste un’identità editoriale, una commerciale, una social, una di comunicazione: ne esiste una unica, che va rimodellata momento per momento. Un testo continuamente in divenire. Il progetto I giorni alla finestra ha visto la partecipazione di circa 1.000 persone: ne è emerso un romanzo polifonico, un coro italiano che va oltre l’attualità.
Una volta superata l’emergenza, qual è il rischio narrativo, e qual è il rischio editoriale, da evitare? Mi spiego meglio: quali saranno le propensioni narrative e quelle editoriali a cui si andrà facilmente incontro e di cui bisognerebbe prendere coscienza già da ora per scongiurarle?
Su entrambi i fronti, quello letterario e quello editoriale, il rischio è quello di credere al presente. Il presente, è ovvio, non è statico. Piombiamo nello sconforto per un mal di testa, come fosse infinito. Ma non c’è nulla di infinito. È molto dolce, questo, ed è terribile. Per questo il presente è un grande nemico. Non fai in tempo a concepirlo che già fugge via. Sul fronte più strettamente editoriale, c’è un tema enorme da affrontare. Questo lavoro – salvo che per alcuni editori, che hanno per loro natura un pubblico diverso – parla principalmente ai cosiddetti “lettori forti”. Bisogna continuare a pubblicare libri per loro. Le difficoltà economiche di questo momento potrebbero portare la tentazione di semplificare ulteriormente i contenuti. Sarebbe bello se questo creasse più lettori. Ma gli ultimi sessant’anni ci dimostrano che non è così. Quindi è sicuramente un rischio da evitare. Naturalmente senza snobismo. Ogni editore ha un suo lettore ideale in mente. Mi auguro che questa pandemia non faccia smarrire questo dialogo.
È difficile parlare di futuro oggi: la crisi economica e il senso della catastrofe ce lo impediscono. Eppure sono giorni che mi ritorna in mente un famoso sottotitolo di un libro di Franco Fortini, «per un buon uso delle rovine». Sarà questo uno degli aspetti dell’editoria di domani? Un’editoria che si proporrà di esserci e di continuare a raccontare il mondo «per un buon uso delle rovine»?
Il buon uso delle rovine per l’editoria ha, per quel che credo, una strada possibile. Un editore che diventa editore di contenuti e non di soli libri. Ma questo è solo uno slogan o, al massimo, una suggestione. Prima c’è una fantasia, poi un’idea, poi un progetto, poi la realizzazione. Se ti fermi allo stadio uno, o due, non basta. Il punto è lo sguardo laterale. Vedere qualcosa di nuovo in ciò che ci è familiare. Studio e immagino questo futuro da tempo e credo di avere in mente un possibile modello economico e produttivo per realizzarlo. Spero sia possibile presto.
Inizia oggi il nostro viaggio nel mondo dell’editoria italiana, ricostruito attraverso le voci degli editori, grandi, medi, piccoli, dal Nord al Sud dell’Italia. Con l’intento non di compilare un’indagine metodica e rigorosa, ma di raccogliere le esperienze e le prospettive di chi ogni giorno progetta gli spazi culturali per il Paese del domani. Per ripartire proprio dalla cultura.
Intervista a Elisabetta Sgarbi
Per secoli, racconta Plutarco nelle Vite parallele, gli Ateniesi conservarono con grande cura una nave appartenuta a Teseo, leggendario re della città. Periodicamente sostituivano le parti di legno consunte con altre nuove, indistinguibili dalle precedenti.
Se dopo molti anni sia rimasta la stessa nave o se invece sia diventata qualcos’altro, è un argomento che continua a interessare i filosofi. E non solo. Perché il cosiddetto paradosso della nave di Teseo, in realtà, ci restituisce anche un’immagine su cui si fonda il mondo dell’editoria: le grandi storie, ciò che chiamiamo letteratura, possono sopravvivere soltanto se riescono a trovare forme nuove, ad assumere nuove sembianze. Il racconto resta lo stesso, ma la fisionomia del libro deve necessariamente mutare per affrontare il presente.
Non è un caso, allora, che Umberto Eco abbia voluto chiamare così, La nave di Teseo, la casa editrice nata nel 2015 e di cui oggi Elisabetta Sgarbi è direttore generale e direttore editoriale. Una realtà che negli ultimi tempi ha acquisito Baldini & Castoldi, Oblomov Edizioni, La Tartaruga e la rivista Linus.
Dopo due mesi molto difficili per l’intera filiera del libro, vorrei cominciare chiedendole come sarà possibile rimettersi in piedi. Un’emergenza epocale come quella che abbiamo attraversato cambierà il modo di fare editoria?
Il mercato, nelle prime 16 settimane 2020 di fronte alle prime 16 settimane 2019, registra un -17,78%, che vuol dire 60 milioni di euro in meno di venduto (Dati rilevati da GFK che è la società più puntuale ed estesa nelle rilevazioni). Questo dato, -17,5% (dato destinato a peggiorare finché non ci sarà una vera ripresa) non è mai stato riscontrato nella storia dell’editoria, che gridava alla crisi quando registrava il -1%. Inoltre, questo -17,5% di venduto delle librerie significa, a cascata, un numero ancora più grande per il fatturato degli editori. Dunque siamo di fronte a una situazione di grande incertezza, essendo, questo, un evento mai visto in precedenza, non abbiamo esempi su cui regolarci. Quindi nessuno sa quale scenario ci aspetta e non è facile capire cosa e come cambiare. Il primo comandamento sarà esistere.
Durante il lockdown tutte le sue realtà editoriali hanno donato e-book, programmato letture e presentazioni on-line. È stata inaugurata una nuova collana digitale a bassissimo prezzo. Sono testimonianze di solidarietà, certo. Ma è solo questo? Non è anche un modo per riaffermare una certa funzione sociale dell’editoria?
I libri sono beni essenziali. Siamo fatti di libri, come siamo fatti di proteine. Quello che siamo, la nostra memoria, la nostra capacità di muoverci nel mondo, di interpretarlo poggia sui libri. È così anche per chi non ha mai letto un libro in vita sua. Quello che sa, lo sa perché lo ha appreso dai libri. Un libro non necessariamente deve stare su carta, non deve essere rilegato. La storia ci insegna che il libro ha maturato supporti via via diversi. L’e-book è uno di questi ed è stato naturale, per gli editori, buttarvisi, inaugurare collane, lanciare libri. La nave di Teseo ha lanciato, prima in e-book, l’autobiografia di Woody Allen: mai era stato fatto per un libro tanto atteso. Ma gli editori sono imprenditori curiosi e coraggiosi.
Infatti ero molto interessato a domandarle del caso Allen. In America Hachette ha deciso di non pubblicare più l’autobiografia del regista, A proposito di niente. Come legge la vicenda americana? Quali responsabilità culturali si assume una casa editrice decidendo di pubblicare un libro che altrove è stato censurato?
So per esperienza che lavorare in un grande gruppo, come è Hachette, non è facile perché bisogna tenere conto di tante cose. Hachette si è trovata in una situazione difficile, una rivolta di altri autori e di una parte di opinione pubblica e ha preferito sacrificare un genio come Allen e perdere molti soldi. Certamente, io mi sarei battuta per la pubblicazione. E, se non ci fossi riuscita, mi sarei dimessa, perché semplicemente sarei stata incompatibile con quel sistema. Per fortuna, in Italia, l’accoglienza è straordinaria.
Abbiamo brevemente accennato alla nuova collana, Gli Squali. Che in Italia è una delle poche collane virtuali in cui gli e-book non sono trattati semplicemente come simulacri digitali di libri già esistenti: sono corpi autonomi con un fil rouge che li unisce. Mi chiedo: bisogna vederli come figli dell’emergenza o comporranno una collana organica nel vostro catalogo, con una sua programmazione e sue particolarità editoriali?
Nasce nell’emergenza, ma l’emergenza non è il luogo della sola sperimentazione. È il momento in cui si mette a frutto il bagaglio di conoscenze ed esperienze. Negli Squali c’è la storia di una vita, un rapporto pluridecennale con autori straordinari e i loro agenti letterari cui ho chiesto di pubblicare questi racconti in questo frangente. Basta scorrere l’elenco: i premi Pulitzer Richard Powers e Michael Cunningham, il premio Goncourt Tahar Ben Jelloun, Petros Markaris, Valeria Parrella e molti altri. Dunque penso che sia qualcosa che dovrà rimanere anche dopo l’emergenza. Anche per la validità del progetto grafico, disegnato da due giganti come Pierluigi Cerri e Andrea Puppa.
Una domanda più generale: lei cosa pensa del ruolo degli e-book nell’editoria del futuro? Riusciremo a fare a meno della carta?
Non penso che si potrà fare a meno del libro cartaceo. Come scriveva Eco in Non sperate di liberarvi dei libri, il libro come lo abbiamo conosciuto è una forma perfetta, come il cucchiaio e la forchetta. Difficile migliorarlo. È stato ed è il più efficace congegno inventato dall’uomo per trasmettere il patrimonio di conoscenze. Ma “credo” che sia così. Non ne sono certa. Nessuno vieta che l’e-book possa in futuro prendere il sopravvento: la sostanza del libro, però, non cambierebbe. Da tempo auspico che l’e-book diventi qualcosa di autonomo dalla sola riproposizione del libro cartaceo in altra forma, quale è adesso. Forse questa emergenza ci insegnerà qualcosa.
Ha ricordato Umberto Eco. Mentre parlava, mi veniva in mente un suo celebre saggio, La memoria vegetale. Il progressivo uso degli e-book non rischia di compromettere la nostra “memoria vegetale”, ovvero quella memoria legata alla fisicità dei libri?
Non credo. Eco menzionava, in quel libro, oltre alla memoria vegetale, cioè i libri, anche la memoria minerale, che precede il libro a stampa e anche il libro cartaceo. Eco cita, ad esempio, i rendiconti delle entrate e uscite dai magazzini redatte sulle tavole di argilla per i Sumeri, la prima forma di libro dell’umanità. Ora, le tavolette di argilla richiamano, idealmente, le tavolette di silicio dei nostri tablet. Magari l’e-book è un ritorno al passato, una rinascita della memoria minerale. Entrambe le memorie, quella vegetale e quella minerale, sono, per Eco, potenziamenti della memoria biologica, la capacità di ogni singolo individuo.
Qual è l’idea che quotidianamente la appassiona al suo mestiere di editore? E tra gli editori del Novecento a quale personalità, a quale lezione si sente maggiormente legata?
La possibilità che ogni libro nuovo possa essere protagonista di una piccola, grande, pacifica rivoluzione e cambiare il destino dell’editore, e dei lettori. Ce ne sono molti. Ma in questo momento voglio ricordare Jean-Claude Fasquelle e Nicky Fasquelle. Il Coronavirus ha portato via Nicky, grande lettrice e editore del Magazine Littéraire, prima lettrice del Nome della rosa in Francia, che lo suggerì a suo marito, Jean-Claude Fasquelle, straordinario editore e presidente e proprietario della Grasset & Fasquelle. Ora Jean-Claude è solo, senza Nicky, e sta combattendo con questo virus. Ho tanto desiderio di abbracciarlo. Senza di loro La nave di Teseo non ci sarebbe stata.
Una donna esce dal supermercato: tra le mani ha le buste della spesa; una sciarpa avvolta con cura attorno al viso le fa da mascherina. È strano, quando attraversa le porte automatiche, non comincia a camminare sul marciapiede. Preferisce proseguire sulla strada, occupando la corsia preferenziale degli autobus, come se volesse tenersi distante non soltanto dai passanti occasionali, ma persino dalle mura della città, cosparse chissà da quale invisibile morbo. Come se l’infezione fosse sempre in agguato, dietro l’angolo di un palazzo, all’incrocio di due vie.
Osservando quella donna scegliere il rischio della strada piuttosto che quello dei passanti e delle mura, è stato inevitabile pensare ad alcuni versi di una poesia di Franco Fortini, La città nemica:
Quando ripeto le strade
Che mi videro confidente,
Strade e mura della città nemica
E il sole si distrugge
Lungo le torri della città nemica
Verso la notte d’ansia
Sembra quasi di stare di fronte a un paradosso: la stessa geografia - umana e architettonica - che fino a qualche settimana fa era per tutti prossima, «confidente», che ha custodito la storia, i ricordi, le passioni di un’intera comunità, oggi viene avvertita come minaccia, «nemica» dice di continuo Fortini, uno spazio ostile pronto a fare del male. Anche se è difficile trovare una risposta, è comunque lecito chiedersi come e perché succede questa trasformazione.
Fortini pare suggerire che dipenda dal sentimento d’impotenza che ciascuno avverte su di sé durante e dopo una catastrofe. Un sentimento che si mostra sui volti come una sorta di «morte seconda», la morte di chi non sa come reagire, di chi ha paura e diffida dell’altro. E la diffidenza verso l’altro che ci viene incontro si estende fino a comprendere gli spazi che ci circondano. Non importa se la minaccia è passata, all’infuori di sé tutto è ancora in guerra. Così infatti prosegue il suo testo:
Quando nei volti vili della città nemica
Leggo la morte seconda,
E tutto, anche ricordare, è invano
E «Tu chi sei?», mi dicono, «Tutto è inutile sempre»,
Tutte le pietre della città nemica,
Le pietre e il popolo della città nemica
È facile scambiare questi versi per una fotografia del presente, schiacciato psicologicamente dall’emergenza del Coronavirus. Forse perché molto spesso, per giustificare i sacrifici fatti negli ultimi mesi, giornali e televisioni hanno parlato del «nostro dopoguerra»; La città nemica, in effetti, inaugura la stagione poetica del secondo dopoguerra italiano: si potrebbe dire che un’inconsapevole immedesimazione la rende di certo attuale. Eppure, nello stesso anno in cui Einaudi la pubblica all’interno della prima raccolta di versi di Fortini, Foglio di via (1946), il poeta Paul Éluard scrive una poesia che appare come il suo esatto contrario: lo scenario è identico, anche il generale clima di rassegnazione e paura è lo stesso. Ma Éluard aggiunge un elemento che stravolge tutto, e quell’elemento è la speranza. Il testo infatti si intitola La potenza della speranza e basta leggere alcuni estratti per accorgersene:
Tuttavia il mio cuore, vuoto, non si ferma mai,
Malgrado il dolore mai il mio cuore si smarrisce
e soprattutto:
Non abbiate pietà, se avete scelto
D’esser limitati e di stare senza giustizia:
Verrà il giorno che sarò
Tra i costruttori di un vivente edificio,
La folla immensa in cui l’uomo è un amico.
Anche in questo caso c’è uno spazio architettonico («un vivente edificio») che coincide e assimila uno spazio umano («la folla immensa»), ma stavolta l’ostilità è cessata del tutto, si è estinto l’ultimo fuoco della guerra psicologica contro gli altri, si pensa alla ricostruzione, alla speranza dettata dal verbo futuro («verrà un giorno che sarò»).
Éluard è una figura cara a Fortini. Che recepisce il suo magistero in modo dialettico, problematico. Il tema della speranza, ad esempio, per influenza diretta o indiretta, comincia presto a far parte dell’orizzonte poetico di Fortini, ma non è percepito come una semplice fiducia nell’avvenire, un’infondata retorica del domani. Per l’autore della Città nemica la speranza è una misura di distanza: è la capacità di allontanarsi un attimo dal presente, dall’infamia del tempo e degli uomini, e riuscire a guardare in alto: «[...] Molto meglio essere travolti/ da una speranza come una cupola», scrive in Editto contro i cantastorie.
È affascinante questa similitudine che lega la speranza alla forma della cupola, che subito innesca nell’immaginario comune il ricordo del Pantheon o della Camera degli Sposi di Mantegna, dove il soffitto sembra essere aperto sul cielo. Una cupola è sempre distante dal suo osservatore, e deve sempre essere osservata dal basso verso l’alto, come qualcosa a cui si ascende. Ecco, per Fortini coltivare la speranza significa prendere coscienza della distanza verticale tra l’uomo e ciò che lo sovrasta. Tra l’ostilità del presente e il riscatto del futuro, tra il destino individuale e i destini generali. Di cui tutti siamo responsabili.
In questa prospettiva, la distanza, e quindi la speranza, non è una separazione da qualcuno o da qualcosa, ma una compresenza. Di vittorie e sconfitte, di errori e soluzioni.
Non ti dico speranza. Ma è speranza.
Questa parola che ti porgo è niente,
la sperde il giorno e me con essa. E niente
ci consola di essere sostanza
delle cose sperate. In queste lente
sere di fumo e calce la città
che mi porta s’intorbida nei viali
sui battistrada di autotreni, muore
fra ponti di bitume, fari, scorie.
Qui sarò stato io vivo; e ai generali
destini che mi struggono, l’errore
che fu mio, e il mio vero, resterà.
Piccola bibliografia:
Franco Fortini, Tutte le poesie, Mondadori, 2014
Paul Éluard, Ultime poesie d’amore, trad. V. Accame, Passigli Editori, 1996
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Un inventore di barzellette, tale Guido Battaglia, si aggira per le strade di una città ammorbata da una misteriosa epidemia. È la voce narrante dell’ultimo romanzo di Fulvio Abbate, La peste nuova (La nave di Teseo), che prova a registrare le storture e i paradossi di un tempo sospeso, un tempo di crisi, in cui ogni volto che osserva, ogni luogo che attraversa sembra assumere un aspetto inerme e sconfitto. E mentre continua a girovagare senza meta, matura una riflessione molto scomoda in queste circostanze: «Chiunque, poco importa se donna o uomo, di solito, in momenti simili, riesce a immaginare l’impegno straordinario di medici, rianimatori, tecnici di laboratorio, infermieri [...]. Ma non esisteva nessuno, in città, che sapesse spiegarsi che bisogno vi fosse di professionisti come me».
Il pensiero di Battaglia suscita diversi interrogativi: durante una pandemia, che ruolo hanno gli scrittori, qual è l’utilità di un intellettuale? Sebbene sia difficile ammetterlo, la percezione inconfessabile è che, al di fuori dell’eroismo del personale medico, il resto della società venga considerato dalle istituzioni del tutto accessorio, inutile. È bene che rimanga a casa, che dia il minor fastidio possibile, aspettando che il peggio passi. Anche se non si sa quando effettivamente passerà. E nel frattempo, che fare? Nel frattempo bisogna resistere, provando a reinventare gli spazi che l’emergenza ha negato a tutti. Perché ‒ è questo il punto ‒ è sempre una questione di spazi, come insegna suo malgrado Covid-19, di quelle aree, reali e irreali, che ciascuno occupa per stare al mondo, per sopravvivere.
In questi mesi di quarantena, ad esempio, l’editoria italiana è riuscita a reinventare molti spazi. Nonostante la sua dichiarata inutilità, si è misurata in prove di solidarietà e di invenzione che hanno scongiurato la solitudine e lo sconforto delle lente ore del lockdown. Una testimonianza di vicinanza, certo, ma anche della necessità di riaffermare la propria funzione sociale.
Si potrebbe cominciare citando l’iniziativa del Saggiatore che in queste settimane ha donato venti titoli tra le sue recentissime pubblicazioni, aprendo sul suo sito una finestra da cui era possibile scaricarne i formati digitali. E ancora continuano, un nuovo libro ogni due giorni. Per il mondo della scuola, d’altra parte, Treccani Scuola ha messo a disposizione gratuitamente tutti i contenuti e i materiali della sua piattaforma on-line, perché le difficoltà della didattica a distanza potessero almeno essere attenuate grazie ad approfondimenti nuovi.
Ma è sul piano della creatività editoriale che si è assistito a un’incredibile, seppur piccola, rivoluzione. Sono nate ben due collane virtuali ‒ Gli Squali della Nave di Teseo e Microgrammi di Adelphi ‒ che per la prima volta hanno proposto gli e-books non come semplici simulacri dei libri di carta, ma li hanno pensati come dei veri e propri corpi autonomi. Con la giusta curatela, cercando di trasferire loro quella che Ungaretti chiamava «anima di libro». Tra questi è possibile leggere racconti di Naipaul e di Emmanuel Carrère, di Tahar Ben Jelloun e di Richard Powers. Che non sono soltanto banali diversivi, generi d’intrattenimento marginali; sono occasioni per occupare in profondità lo spazio in cui ciascuno desidera vivere, sono possibilità di sentirsi parte di sentimenti universali. Uno spazio che nessuna epidemia può negare, limitare o sospendere. Sentimenti che nessun distanziamento sociale può ridurre.
«La cultura», diceva Elio Vittorini, «non è una professione per pochi: è una condizione per tutti, e completa l’esistenza dell’uomo». Allora, finché ci saranno imprenditori della cultura pronti a sostenere che ogni crisi ‒ una peste nuova, o qualche altro cataclisma ‒ porta con sé una necessaria rivoluzione degli spazi e delle forme, il ruolo degli scrittori e degli intellettuali sarà sempre garantito. Perché per tutti è una condizione irrinunciabile.
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«Tu sai qual è l’aspettativa di vita di un tedesco, di un francese, e qual è l’aspettativa di vita di uno scandinavo, di uno svedese, di un danese? E sai qual è invece l’aspettativa di vita di un cileno?». Alla fine di una lunga intervista, Salvador Allende decide di ribaltare i ruoli, osserva il suo intervistatore, il filosofo Régis Debray, e attende una risposta. In realtà, non è il solo ad attenderla, nella sala ci sono anche le sue guardie personali. E tra queste c’è Luis Sepúlveda, che molti anni dopo ricostruirà quel dialogo in Vivere per qualcosa (Guanda, 2017).
Allende è stato eletto presidente del Cile da poco più di sei mesi e la sua rivoluzione socialista incontra già diversi ostacoli. Durante la loro conversazione Debray non gli ha risparmiato critiche, eppure adesso non sa cosa rispondere. «Noi cileni», Allende spezza il silenzio, «abbiamo una speranza di vita di cinquantadue anni. Noi stiamo facendo questa rivoluzione per poter vivere sessantotto, settant’anni, come i francesi, come i tedeschi, come gli scandinavi. L’obiettivo di questo processo rivoluzionario è vivere a lungo, ma anche vivere in una condizione che è lo stato naturale dell’uomo, e che si chiama felicità». È il marzo del 1971, Sepúlveda ha ventun anni ed è la prima volta che comincia a pensare alla possibilità di essere felice non semplicemente come singolo individuo, ma come parte di una collettività, di una comunità felice.
Una semplice utopia giovanile, si potrebbe pensare. O peggio, un sogno a portata di mano a cui legare i propri ideali progressisti e sbarazzarsene presto al sorgere delle prime difficoltà. E certo non sono poche le difficoltà che l’autore delle Rose di Atacama si trova ad affrontare: sopravvive al golpe guidato da Pinochet, sopporta le torture subite in galera, tollera il dolore dell’esilio. Nonostante tutto, nemmeno per un momento si oscura in lui l’idea che la felicità sia il primo diritto inalienabile per ogni società civile, la condizione irrinunciabile che ci spinge a resistere. «Per questo scrivo», confessa Sepúlveda, «per la necessità di resistere davanti all’impero dell’unidimensionalità, della negazione dei valori che hanno umanizzato la vita e che si chiamano fraternità, solidarietà, senso di giustizia» (Storie ribelli, Guanda, 2017).
Da un certo punto in avanti, gli obiettivi che perseguiva Allende diventano il luogo in cui la natura del suo impegno politico coincide con il suo progetto di scrittura: se il suo impegno politico aspira a individuare e definire tutto ciò che si frappone tra noi e il nostro diritto ad essere felici; la scrittura, allora, deve essere l’azione capace di rimuovere qualsiasi impedimento.
Scrivendo, Sepúlveda riesce a cambiare il mondo. A renderlo un posto meno ostile. Lo fa soprattutto grazie all’esercizio delle favole e alla magia che esercitano sui più piccoli. Ha ragione Fabio Stassi quando dice che il primo personaggio di romanzo in cui capita di imbattersi condiziona la nostra vita così tanto che si finisce persino per assomigliargli. Pensiamo ora a tutte quelle generazioni di ragazzi che hanno incontrato come primo personaggio di romanzo il gatto Zorba della Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (Salani, 1996): oggi avranno tutte le sue qualità, saranno quindi altruisti, compassionevoli, leali, coraggiosi. Sarà indubbiamente merito di Luis Sepúlveda ‒ e della sua ostinata convinzione che la letteratura possiede la forza di modificare il presente ‒ se domani, svegliandoci, ci accorgeremo di abitare una realtà migliore. Più felice, appunto.
È difficile abituarsi a parlare di lui con i tempi del passato. Potremmo dire che è nato a Ovalle, in Cile, nel 1949, ed è morto ieri, 16 aprile, a Oviedo, nell’ospedale dell’Università Centrale delle Asturie, dove era stato ricoverato a fine febbraio dopo per aver contratto il Coronavirus. Il 4 ottobre avrebbe compiuto settantuno anni.
Tra le valigie sistemate sul portabagagli dello scompartimento, per tutta la notte si sente un sommesso mugolare. È il gemito di un uomo, quello che si sente, legato e imbavagliato, vittima di un gruppo di ragazzi di una società sportiva in trasferta. Il treno e i suoi passeggeri continuano indifferenti il loro viaggio; come rumore bianco, il lamento del povero malcapitato e le risate dei suoi assalitori.
Valerio Magrelli riporta questa scena di sopruso nel libro La vicevita. E confessa che il suo è un racconto diretto, lui è uno dei ragazzi che hanno partecipato a quello scherzo crudele, finendo quasi per soffocare un proprio coetaneo. Quando ricostruisce la vicenda, ne parla in termini di contagio: dice di essere stato vittima del «bacillo della sopraffazione», ma l’infezione sul suo percorso di vita «funzionò come una specie di vaccino», maturando indignazione verso qualsiasi forma futura di ingiustizia. Eppure, nella circostanza in cui si trovava, era necessario presenziare a quel rito barbaro se non voleva ritorsioni per sé stesso. Non contava la pietà che poteva nutrire nei confronti dello sventurato né tantomeno il suo desiderio di liberarlo, perché «non è possibile salvare il capro espiatorio; lo si può solamente sostituire».
In questo modo Magrelli codifica la perenne necessità ‒ individuale e collettiva ‒ di trovare e perseguire nuovi capri espiatori, nuove vittime sacrificali o potenziali nemici, che si adattino, di volta in volta, alle esigenze del momento. Ma perché ne sentiamo così tanto il bisogno?
Certo, è sotto gli occhi di tutti che il focus mediatico e l’attenzione domestica che prima investivano i migranti, oggi si indirizzano fisiologicamente sul Coronavirus. Cambia l’oggetto d’interesse quotidiano, da visibile diventa invisibile, ma non cambia per nulla la nostra abitudine di trasformarlo in nemico. È stato Giuseppe Conte a definire Covid-19 «il nemico invisibile e insidioso che entra nelle nostre case»; Giulio Gallera ha parlato di «bomba atomica»; Nello Musumeci ha detto esplicitamente che «siamo in guerra».
Designare un avversario ci fa sentire uniti nella battaglia che dobbiamo affrontare; ci rende fieri dei confini della nostra identità, orgogliosi di non essere l’altro. E se negli ultimi anni abbiamo riscontrato un calo di patriottismo, è senza dubbio colpa della mancanza di feroci rivali. Nel suo saggio Costruire il nemico, Umberto Eco sosteneva ironicamente che «una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant’anni, è stata proprio di non aver avuto veri nemici». Che sia allora il Coronavirus l’antagonista di cui sentivamo l’urgenza?
Per rispondere è necessario fare una doverosa precisazione. I capri espiatori che ci costruiamo non sono mai nostri nemici. Sono persone, fenomeni ambientali o sociali che vestiamo di tutto punto perché vengano visti come tali, e perché sia più facile, di conseguenza, condannarli e sacrificarli per i nostri interessi.
Il Covid-19, quindi, non è un nemico invisibile, una bomba atomica o una guerra. È un virus, privo di coscienza o di propositi omicidi, capace (suo malgrado, se così si può dire) di provocare serie patologie nei soggetti che lo contraggono. E nelle ultime settimane è stato assunto come pericoloso agnello sacrificale.
È interessante, però, sottolineare che era già in uso nel XIV secolo la pratica di evitare il nome effettivo della malattia, e della pestilenza in particolare, e di rimpiazzarlo con termini pensati per allontanare il male da sé e dalle proprie responsabilità. René Girard nei suoi studi lo indica come «capro espiatorio linguistico»: all’interno dei testi medievali, ad esempio Le jugement dou roy de Behaingne di Guillaume de Machaut, la peste non viene quasi mai chiamata peste, nel peggiore dei casi si utilizza un’espressione più tecnica, epidemia («epydimie»); è una forma di reticenza culturale che a quanto pare arriva fino ai nostri giorni.
Della pericolosità del capro espiatorio linguistico possiamo prendere coscienza grazie a una foto che Jabin Botsford ha scattato alle pagine di un recente discorso di Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti ha cancellato con una decisa linea nera la parola «corona» e al di sopra della linea ha scritto «chinese». Così nel suo intervento il Coronavirus si è trasformato nel virus cinese. Assimilando capziosamente una malattia con un gruppo etnico, che a questo punto per il popolo americano rappresenterà nei mesi avvenire la prima, vera minaccia da offrire in sacrificio.
Questo processo di assimilazione ne ricorda molto un altro, che stavolta risale alla Francia del 1321. Dall’affascinante lavoro di Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, apprendiamo che i lebbrosi accusati di avvelenare i pozzi e spargere il morbo della pestilenza venivano subito associati agli ebrei e ai musulmani. Gli untori, nella storia della cultura occidentale, vengono sempre scelti ai margini della società che li attacca, sono i più deboli, non hanno voce. Era naturale che fosse un collegamento del tutto infondato, un modo che alcune città, come Carcassonne, avevano escogitato per «liberarsi dal monopolio del credito esercitato dagli ebrei» e «amministrare le ricche rendite dei lebbrosari», ma tutti ci credettero comunque.
E dopo quasi settecento anni corriamo il rischio ‒ o forse sentiamo la necessità ‒ di crederci ancora.
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«Che oggi sia per tutti noi come la domenica del pianto», con queste parole papa Francesco ha chiuso l’omelia del 29 marzo nella cappella di S. Marta. Dopo aver ascoltato il brano del Vangelo di Giovanni sul pianto di Gesù dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro, il pontefice si è chiesto: «Oggi, davanti a un mondo che soffre tanto, a tanta gente che soffre le conseguenze di questa pandemia, io mi domando: sono capace di piangere, come sicuramente lo avrebbe fatto Gesù e lo fa adesso Gesù?».
La domanda che ha rivolto a sé stesso colpisce e interessa un uditorio molto vasto, composto da credenti e non credenti. Persone che nelle ultime settimane non sono riuscite a trattenere le lacrime, vedendo le foto delle salme portate via da Bergamo con i camion militari o ascoltando in televisione l’aumento quotidiano del numero di morti per Coronavirus.
L’interrogativo del papa senza dubbio innesca una rapida immedesimazione tra il pianto di Cristo e il nostro pianto, anche se in realtà questa coincidenza non è così immediata. Perché il dio cristiano dovrebbe piangere l’amico morto, se già sa che poco dopo risusciterà per sua stessa volontà? E ancora: perché il dio cristiano dovrebbe piangere un morto, se la sua religione professa il raggiungimento della vera felicità solo dopo la fine della vita terrena?
Per ragioni politiche e religiose, i Padri della Chiesa hanno sempre vietato ai cristiani la possibilità di piangere i propri morti e di affliggersi nel lutto. Il divieto religioso si fonda su un principio di fede e di coerenza: secondo Cipriano, l’uomo che crede che il momento del trapasso sia l’occasione per liberarsi dai mali del mondo, con la promessa di pace perpetua e resurrezione dello spirito, non può certo addolorarsi per chi lo ha soltanto anticipato di qualche tempo nel viaggio ultraterreno.
Il presupposto politico, invece, è chiarito molto bene nel nuovo saggio della storica Sarah Rey, Le lacrime di Roma. Il potere del pianto nel mondo antico: i comportamenti e le pratiche del cristianesimo sono tutte costruite in antitesi ai comportamenti e alle pratiche dei romani pagani. Nel rito funebre i romani si strappavano le vesti e si disperavano per giorni? Al contrario, i cristiani manifestano un contenimento e un decoro imperturbabile. Quando muore sua madre Monica, Agostino non versa nemmeno una lacrima.
Ritorniamo, allora, al nostro quesito. Come si spiega Gesù che si commuove per Lazzaro?
«È un’astuzia», scrive Sarah Rey ricostruendo le argomentazioni di Giovanni Crisostomo, «per far comprendere che Dio si è fatto uomo: il miracolo della Resurrezione si avvicina, e Lazzaro ne è il fortunato beneficiario». È vero che il figlio di Dio piange, ma non lo fa indirizzandosi a Lazzaro. Non si affligge per la dipartita dell’amico, ma per la mortalità della condizione umana. Il suo non è un pianto privato, ma un pianto universale.
Nel mondo romano, d’altro canto, una divinità che si presta alla commozione è un sicuro presagio di sventura collettiva. Se le statue che la raffigurano ‒ il principale medium per intercedere con la realtà terrena ‒ cominciano a lacrimare, significa che qualcosa è andato storto nel rapporto con gli uomini. Come nel 181 a.C., nella città di Lanuvium: prima dello scoppio di una terribile epidemia, Tito Livio racconta che la statua di Giunone Salvatrice fu rigata da un fiume di lacrime. Per scongiurare il nefasto prodigio con suppliche e preghiere, venne mobilitato addirittura un gruppo di matrone, nella veste di interlocutrici privilegiate della dea. A questo proposito Rey scrive: «Quando i romani tremano davanti alle statue in lacrime, perdono ogni pretesa di serietà e di autocontrollo. La loro emozione tradisce un dubbio, crea una breccia nella quale si riversa ogni riflessione sul destino di Roma e sull’amministrazione della cosa pubblica». Risulta facile capire adesso perché all’interno del contesto cristiano fenomeni simili vengano interpretati nel modo opposto. Ancora oggi.
Gli dèi dell’antica Roma, però, al tempo delle epidemie e delle calamità naturali, sapevano anche ridere e apprezzare l’arguzia dei loro devoti. Lo testimonia efficacemente il recente lavoro di Maurizio Bettini contenuto in Ridere degli dèi, ridere con gli dèi che riporta un divertentissimo aneddoto legato a Numa Pompilio, il secondo re romano.
Sulla città si abbatte una tempesta di fulmini, ancora una volta il popolo è affranto, terrorizzato dall’oscuro futuro che scorge su di sé. Numa riesce a stabilire un contatto diretto con Giove e subito gli chiede come poter espiare la folgore. Ne nasce questo dialogo, che leggiamo nella versione dei Fasti di Ovidio:
«“Taglia una testa [caput]” disse Giove; “Obbediremo”, rispose il re, “verrà tagliata una cipolla [caepam] cavata dal mio orto”. Ma Giove aggiunse: “Una testa d’uomo [hominis]”; ma Numa: “Avrai i suoi capelli [capillos]”. Il padre degli dei chiede allora un’anima [anima]; a lui però Numa risponde: “Di un pesce [piscis]”. Giove rise e disse: “La saetta della folgore la espierai dunque al tuo modo, o uomo non indegno di interloquire con gli dei”».
Dunque per i romani, pure nei momenti più difficili, è possibile ridere con gli dei senza essere sacrileghi. Anzi, la risata costituisce un canale di interlocuzione pari a quello delle lacrime.
Nei Vangeli Gesù non ride mai apertamente. E come abbiamo visto, nemmeno è possibile sostenere che pianga per qualcuno in particolare. Piangere come Cristo vuole dire, a questo punto, avere il coraggio di compiere un atto universale, avere la capacità di emergere dal dolore intimo e partecipare al dolore comune. Per chi ne è capace.
Bibliografia
Maurizio Bettini, Massimo Raveri, Francesco Remotti, Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, il Mulino, 2020, pp. 248
Sarah Rey, Le lacrime di Roma. Il potere del pianto nel mondo antico, Einaudi, 2020, pp. 164
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«Tienimi forte il braccio che non ci perdiamo nel bosco». Quando Nikiforos Vrettakos rivolge alla nipotina di appena due anni questa preoccupata raccomandazione, si trovano entrambi in Sicilia, immersi in un bosco palermitano, all’inizio degli anni Settanta. Gli occhi di Alessandra gli dicono «sorgerà il sole»; lui riesce soltanto a pensare «tienimi forte».
Dopo il colpo di Stato del 1967 che consegna la Grecia al regime militare dei colonnelli, Vrettakos decide per sé l’esilio volontario. Prima in Svizzera, a Trogen, e successivamente in Italia, a Palermo, ospite del grecista Bruno Lavagnini che lo coinvolge attivamente nella redazione del primo, e più accurato Dizionario greco moderno-italiano.
Ma la revisione delle schede del dizionario non è l’unica attività che lo tiene impegnato: nel capoluogo siciliano ritrova la forza per cominciare di nuovo a scrivere poesie. Al di là dell’Egeo, insieme a Seferis, Ritsos ed Elitis, è universalmente riconosciuto come uno dei maggiori poeti del Novecento: i suoi versi hanno sempre provato a restituire dignità e spessore alla parola pace, vocabolo troppo spesso smarrito in un Paese come il suo, vinto da continue dittature e guerre insensate. Pace si intitola una sua breve poesia del 1958:
È come un rametto di mandorlo in un bicchiere
nel mio cuore l’amore. Vi cade il sole
e si colma d’uccelli.
L’usignolo più bravo dice il tuo nome.
(in Poeti greci del Novecento, trad. F.M. Pontani)
È facile immaginare perché abbia ricominciato a scrivere solo dopo essere arrivato in Sicilia. L’isola gli ricorda la sua terra, la luce e il sole della Laconia, dove è nato nel 1912; passeggiando tra i vicoli palermitani, gli sembra di percepire la stessa idea di umanità che c’era in Grecia e che è stato costretto ad abbandonare.
Per Vrettakos la poesia è materia. Ed è fede e fiducia. Se però desideriamo capire le ragioni di queste asserzioni, dobbiamo tornare indietro, all’escursione che intraprende con la sua nipotina.
Una volta che Alessandra è partita, comincia a cercare le sue orme sui sentieri percorsi, ritrova persino l’acacia con cui aveva cominciato ad articolare «mozze, tenere paroline». E fa tutto ciò mosso da una chiarissima epifania:
Perché il sole è sorto, come aveva detto,
e la poesia ha bisogno di cose.
Ha bisogno di verità terrena
per diventare cosa celeste,
tempo autonomo.
(in 12 Poesie siciliane, trad. V. Rotolo)
La sua poesia poggia sulla concreta e solida materia delle cose, in alcuni testi arriva addirittura a definirsi «muratore», perché il suo poetare è animato dall’intento di costruire un edificio stabile a cui potersi affidare, in cui riuscire a riporre finalmente la propria fede. Ricorda molto l’immagine che Wisława Szymborska dava della poesia, «l’àncora d’un corrimano»: un oggetto, fermo e sicuro, a cui aggrapparsi. Per reggersi, e proseguire la strada. Nella poesia La casa Vrettakos scrive:
Tutto quanto mi fu dato qua, con gli occhi,
le orecchie e le altre mie antenne
l’ho raccolto e mi son fatto muratore.
Perché potessi contenere il mondo. Costruire
una casa dentro tutte le case.
(in L’Aureo Cocchio, trad. V. Rotolo)
È lecito, adesso, chiedersi verso chi o verso cosa provasse questo sentimento di fede. Qual è, insomma, “la calce” che ha ispirato in lui il desiderio di modellare le strutture che per tutta la vita ha messo in piedi. A una risposta è possibile pervenire scomodando un assunto formulato dal filosofo Ludwig Wittgenstein. L’autore del Tractatus logico-philosophicus sostiene che i limiti del nostro linguaggio corrispondono ai limiti del nostro mondo, mettendo così al centro di tutte le questioni del pensiero occidentale il problema del linguaggio. Vrettakos formula il medesimo assunto, solo che sostituisce il problema del linguaggio con quello dell’amore: i limiti della nostra capacità di amare corrispondono ai limiti del nostro mondo. In quest’ottica l’amore non ha una dimensione esclusivamente “sentimentale”, ma presenta una vera e propria qualità “spaziale”, come possiamo leggere nell’Elegia sulla tomba d’un piccolo combattente:
E vedemmo che il mondo è più grande
e divenne più grande per contenervi l’amore.
(in Nikiforos Vrettakos, trad. V. Rotolo)
Finita la dittatura della Giunta, negli ultimi anni ritorna in patria e si ritira a Plumitsa, ai piedi del monte Taigeto, dove seguiterà a scrivere finché «il sole» ‒ lui stesso appunta ‒ a prenderlo «manderà un cocchio aureo con un auriga ritto, vestito tutto di bianco». A chi ha la fortuna di interrogarlo direttamente sulla sua visione dell’esistenza umana, ogni volta ripete che la sua “materia di fede”, il suo unico dogma, si sintetizza nell’equivalenza «amo, dunque sono». L’amore, una salvifica ossessione. In questo modo, d’altronde, termina uno dei suoi componimenti più intensi, Lamento dell’ucciso:
Ma ditemi,
ditemi: se senza amore
io non potevo vivere,
che dovevo fare?
(in Poeti greci del Novecento, trad. F.M. Pontani)
Gli anni che si addensano e le decadi che si chiudono non bastano per definire i confini identitari tra una generazione e l’altra. A solcarli sono libri, canzoni, film, cartoni animati, una stagione di stragi, di droghe, di malapolitica. Nel 1983, ad esempio, era stato Sergio Caputo, cantando Un sabato italiano, a dirci che s’era concluso finalmente il tempo degli anni di piombo e del terrorismo brigatista e lo aveva fatto con un ritornello di soli due versi: «e sembra un sabato qualunque un sabato italiano / il peggio sembra essere passato». E negli ultimi anni, allo stesso modo, a tracciare quei solchi, a intraprendere una vera e propria missione di carotaggio, sono stati i graphic novel di tre fumettisti capaci di restituire una sintesi di parola e d’immagine al sentimento del tempo che hanno attraversato. Pensiamo in particolare a LMVDM. La mia vita disegnata male di Gipi, a Macerie Prime di Zerocalcare e a Cheese di Zuzu.
Se pensiamo a questi tre lavori è perché ognuno di loro potrebbe essere letto come una sorta di lettera indirizzata alla propria generazione. Per Gipi è quella di chi ha vissuto l’adolescenza tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta; per Zerocalcare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. Sono figli o nipoti di chi ha combattuto la Seconda guerra mondiale. Ricordano i comizi di Enrico Berlinguer o le prime apparizioni di Silvio Berlusconi. Hanno maturato una forte coscienza civile assistendo a Mani pulite, sopravvivendo al G8 di Genova. C’è chi è morto per un’overdose e chi è stato ucciso a coltellate da un neofascista. C’è poi chi se l’è cavata.
Per Zuzu è diverso. È nata nel 1996 e in Cheese racconta la fine dell’adolescenza per quei ragazzi, come lei, che sono nati tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro. Che conservano del XX secolo poche e distratte memorie, ma che nemmeno sono identificabili con i cosiddetti post-millenials dal momento che all’età di otto, nove, dieci anni i telefoni che avevano per le mani non erano gli smartphone che conosciamo oggi. È tardiva la loro familiarità con un certo tipo di tecnologia. Ecco perché ci troviamo di fronte a una generazione ibrida, lontana da qualsiasi catastrofe storica e composta idealmente da una classe di eterni bravi ragazzi: quelli da cui non ci immaginiamo possa esplodere un nuovo Sessantotto, quelli che sono entrati a scuola a sei anni e ne usciranno a ventisei con laurea dottorato e master, quelli che non hanno motivo di temere per il proprio futuro.
Eppure è a questo punto che tutto si ribalta. I protagonisti di Cheese ‒ Zuzu, Dario e Riccardo ‒ mostrano come tutte le paure che prima nascevano e vivevano nella società (la paura della guerra, del terrorismo, di un irreversibile vuoto politico), ora invece nascono e si confinano all’interno della persona. Sono angosce che si somatizzano e che danno luogo a un malessere, a un senso di vergogna verso sé stessi e specialmente verso il proprio corpo. Uno spleen tanto impercettibile quanto profondo, che si trasforma in rifiuto di sé, anoressia, insicurezza sessuale. E dello stigma di quest’epoca Zuzu, Dario e Riccardo sono coscienti. Nel capitolo Dario vince una scommessa, Zuzu sfonda il portone di casa del ragazzo per cui ha una cotta ed entrando nell’ascensore del palazzo scrive sopra il vetro con il rossetto: «Sono infelice. Sono responsabile». Una citazione da Vivre sa vie di Jean-Luc Godard, che denuncia il senso del dovere, la responsabilità di una generazione che si fa carico silenziosamente anche del male che si porta addosso. Un interrogativo sotterraneo nel libro spinge a chiedersi se sia ancora possibile potersene liberare.
Forse, come nelle foto, ogni cosa dipende da come si pronuncia il fantomatico “cheese”. Per rintracciare una via di fuga da quel gorgo dell’animo apparentemente ineludibile, ciò che conta davvero è la posa che si assume nello stare al mondo, è il “cheese” che si traduce in un netto sì alla vita. Alla fine, quel “cheese” di Zuzu ricorda molto lo “sfrush” di LMVDM di Gipi: l’unica parola di una nuova lingua, a cui si possono assegnare tutti i significati, soggetta soltanto al sentimento di chi trova il coraggio di dirla. Non basta altro, allora, che spogliarsi, guardare davanti a sé e provare ad articolare la formula d’evasione che Zuzu ha svelato.
Zuzu, Cheese, Coconino Press, 2019, pp. 180
Che la poesia possa stravolgere la storia, che possa trattenere il corso degli eventi e restituire al passato un movimento e un ritmo del tutto nuovi, non sembra altro che una disorientante utopia. Anche se, in verità, questo ascendente della poesia sulla storia si riassume soltanto in una questione di tempo, anzi di tempi. Come scrive il poeta Titos Patrikios in uno dei pensieri raccolti nel suo zibaldone, La tentazione della nostalgia (2015): «In poesia prevale il tempo presente del poeta, anche quando risale al tempo passato. Nella storia prevale il tempo passato a cui si riferisce lo storico, anche quando esso si prolunga fino al tempo presente».
Un assunto, quello di Patrikios, che si innerva idealmente nell’opera di Antonia Capria e in particolare nella sua silloge Il teatro delle Clarisse (2017), la raccolta di poesie composte dal 1980 al 2008. I testi dell’autrice nicoterese, infatti, diventano la traduzione in versi di una realtà terragna ancora pura, inalterata, che riverbera nel tempo presente una stagione non corrotta dalla contemporaneità.
«Oh, bella estate
popolata di astri
tra il Sagittario e la Vergine,
piena di notti azzurre
al di là del Carro,
sento i dolci canti dei contadini,
e profondi passi di noi
come radici».
(da Son finiti i dolci canti, p. 56)
Ma questa incontaminata realtà, che cerca di sopravvivere ricostruendosi di continuo sopra i versi, finisce sempre per svelare la sua natura di ricordo e per lasciare spazio al sentimento di un secolo e di una terra vinti e rassegnati, venati di paure. Cionondimeno Capria, che si confessa ai lettori «prigioniera» delle sue memorie, ci affida le sue consapevolezze ultime con l’amore che ogni prigioniero riserva al proprio aguzzino.
«Il fuoco arde
nei boschi del mio pensiero,
il gelso diventa infinito,
ma sulle strade
non passano più
le donne di campagna
ad annunziar la primavera.
Passa la morte
Dell’uomo del Sud
e la sua fine
nell’incendio di questa estate».
(da Son finiti i dolci canti, p. 56)
La morte dell’uomo del Sud è una chiara conseguenza del desiderio di fuggire lontano dalla morte stessa: solo partendo, imbarcandosi per mete né sperate né sognate, si può continuare a credere che il paese che si abbandona possieda ancora un’opportunità di resistere. Perché leggenda vuole che prima o poi si farà ritorno e il ritorno segnerà il riscatto e la fine del bisogno di andare via. Intanto, però, mutano i corpi, lungo il viaggio cambiano i volti in una definitiva trasformazione antropologica: si diventa emigranti. In Codice siciliano (1957) Stefano D’Arrigo a proposito del verbo emigrare scriveva: «Gli altri migravano: per mari / celesti, supini, su navi solari / migravano nella eternità. / I siciliani emigrano invece». E Antonia Capria ritorna sulla differenza che distingue il migrare dall’emigrare, aggravando sulla prima vocale di emigrare tutto il dolore e la fatica delle rotte intraprese.
«Mi è rimasto il molo
con le ombre stupite,
con le ancore abbassate
e il tuo viso di emigrante
smarrito.
Il mare era immenso.
La gente si specchiava
nei secchi dei pesci.
Noi due aspettavamo
di salpare
per tenderci le mani»
(da Il tuo viso di emigrante, p.8)
Ed è come se la pena e l’afflizione del viaggio incrinassero completamente la percezione di alcuni ricorrenti e scontati attributi poetici, ad esempio l’aggettivo «immenso» legato al mare. L’immaginario comune vorrebbe che venisse associato alla visione di un’interminabile distesa d’acqua calma, colorata dalle tinte calde del tramonto. Ma la poesia di Capria sfata questi sterili esotismi e riporta l’immensità del mare attraversato dagli emigranti all’idea di un deserto incommensurabile, talmente vasto da incutere su chi naviga il terrore del continuo spaesamento. Il mare, a sua volta, diventa una nemesi per l’uomo del Sud, assume le sembianze di una dea che vuole vendicarsi di una sorta di peccato originario.
«Il mare travolge,
lo sento parlare,
urlare, rinchiudersi
nell’onda alta
come un nemico.
[...]
Non ho paura
dei paesi
sulle colline
ma del mare sì».
(da I paesi, pp. 24-25)
D’altro canto, per non lasciare l’impressione che Il teatro delle Clarisse dia del presente un’esclusiva proiezione cupa e irredimibile, è necessario che Patrikios termini la riflessione sul rapporto fra poesia e storia che ha dato l’abbrivio a questa breve escursione letteraria. Queste sono le sue parole: «Il tempo della poesia è regolato dalla memoria mobile. Il tempo della storia è determinato dalla memoria stabilizzata». La storia è una serrata sequenza di eventi apparentemente immutabili e determinati, perché già accaduti è lecito pensare che non possano essere fermati. Ma l’uomo ha a disposizione «una memoria mobile», che è il tempo della poesia, una forza perturbante capace di stravolgere la storia, di trattenere il corso degli eventi e di restituire al passato un movimento e un ritmo nuovi. E la poesia di Antonia Capria, di questa «memoria mobile», è l’incontrovertibile manifestazione: il Sud ha sofferto e più volte è stato sul punto di morire, ma finché esisterà la poesia avrà la forza di rinnovare le sue utopie e la perseveranza di frenare persino la storia:
«Dicevo… dicevo all’universo:
non torni il giorno,
non torni il domani.
Restino le stelle
sulla nostra vita».
(da Stanotte, p. 100)
«caro Nanni, ritorno da Bologna:/ ti scrivo qui, dall’autostrada, in fretta...». Comincia così una delle ultime poesie di Edoardo Sanguineti, Epistolina per N.B. (7 maggio 2010), indirizzata al compagno di strada Nanni Balestrini. Insieme avevano innescato la neoavanguardia letteraria del Gruppo 63, traducendo nella sovversione del linguaggio poetico il proposito politico di sovvertire la società che abitavano; avevano attraversato la caduta del Muro di Berlino e il tracollo delle ideologie che avevano animato i loro trent’anni; e pervicacemente continuavano a rinnovare il loro impegno civile e artistico in tempi di continue recessioni, quando Sanguineti, spettatore della crisi del 2010, scrive a Balestrini:
«[...] e un mondo è morto - e soldati
per le strade del mondo: e non si arriva
per me, al 2012: e vicina,
più vicina, è la fine: e la deriva
è completa: ma ciao - viva la Cina»
(da Varie ed eventuali, 2010)
D’altronde sono versi che rivolge a un «poeta della fine»: Balestrini è la voce che chiude la sua Poesia italiana del Novecento (1970) nonché lo stesso Novecento letterario. E in particolare le luci delle avanguardie del XX secolo vengono spente per paradosso con l’esperimento della poesia elettronica, Tape Mark. Scritta nel 1961 con un calcolatore IBM 7070, il testo combina tre brani desunti da Diario di Hiroshima di Michihito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao te King di Laotse.
«La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole io contemplo il loro ritorno,
finché non mosse le dita lentamente e mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte alla loro radice e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare»
(da Come si agisce, 1961-1963)
Questa strofa può essere attribuita all’invenzione di una macchina? Sicuramente no. Come sostenne Umberto Eco, in un articolo per L’Espresso dal titolo Poeti a macchina (26 maggio 1985), se Balestrini non fosse stato un maestro del collage poetico e se non avesse scelto dei brani capaci di sopportare le diverse combinazioni, il risultato sarebbe stato illeggibile. Benché ordinata da un computer, la poesia resta del poeta che non manca mai di intervenire sul montaggio realizzato.
L’idea di montaggio, in effetti, è stata il motivo conduttore dell’intera produzione dell’autore di Come si agisce, che attinge le parole dei suoi scritti da frasi fatte, da formule del parlato riprese dai quotidiani o da registrazioni, che talvolta danno luogo a inattese epifanie. Come si sottolineava prima, però, non si limita ad essere un semplice assemblaggio di espressioni: tutti gli elementi vengono rielaborati, armonizzati sonoramente fra di loro e disposti spesso secondo motivi di contrasto.
«Li incontri ogni giorno, guardano
rapati a zero dal ponte
si vedevano tutte le montagne
il mondo cadere a pezzi
mettendoci dentro un dito
girando su se stesso e lo ritirano»
(da Corpi in moto e corpi in equilibrio, 1958-1963)
Per questo suo cruento rapporto con il linguaggio Angelo Guglielmi nel suo ultimo libro, Sfido a riconoscermi (2019), definisce Balestrini un «terrorista linguistico», spinto da intenti omicidi contro la realtà quotidiana. Che mette in atto attaccando la lingua, che altro non è che la dimensione attraverso cui si rivela la realtà. Del resto Balestrini ha sempre dichiarato la natura oppositiva della sua poetica, come è possibile leggere nel suo testo programmatico Linguaggio e opposizione (1961): «Una poesia dunque come opposizione. Opposizione al dogma e al conformismo che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzare i passi. Oggi più che mai questa è la ragione dello scrivere poesia».
Ma tutto ciò che nasce sull’onda dell’opposizione fatica a mantenere consistenza nel tempo. Infatti i tentativi del Gruppo 63, e delle varie sue evoluzioni, di ricreare le arti, di affiancare le rivoluzioni politiche e culturali sono rimasti esperimenti affascinanti, una splendida teoresi e nient’altro. In ragione di ciò Balestrini non è stato «l’autore dell’inizio» del nuovo modo di vedere la realtà, ma «il poeta della fine» che chiude la realtà per come è stata, che traccia il contorno di un secolo con le utopie e le disillusioni che lo hanno sorretto. Il mondo di cui Sanguineti gli scriveva era il loro mondo. Un mondo sordo, che adesso bisogna che ricominci tutto daccapo:
«se vi siete pentiti del 63 o del 68
se avete pensato che il capitalismo è una figata
che la poesia è la parola innamorata
che la rivoluzione cambia il mondo solo in peggio
e altre insostenibili leggerezze del vostro essere
questo non è l’anno del terrore nessuno pensa
di tagliarvi la testa o la mano per queste inezie
son cazzi vostri giù le mani e niente paura
perché adesso c’è ben altro da fare
adesso che la gran cuccagna è terminata
perché non c’è più niente da saccheggiare
adesso che bisogna ricominciare tutto da capo»
(da Le avventure della signorina Richmond, 1974-1999)