Atlante

Marcello Mocellin

Dopo la maturità scientifica ha proseguito il percorso formativo presso l’Università degli Studi di Trieste, dove ha conseguito la laurea triennale in Scienze politiche e dell’Amministrazione e successivamente quella magistrale in Diplomazia e Cooperazione internazionale. Attualmente frequenta il master in Corporate communication, Lobbying e Public affairs presso la 24ORE Business School. Si interessa di tematiche inerenti l’energia, la mobilità, le relazioni istituzionali e lobbying.

Pubblicazioni
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La Nuova Via della Seta al bivio

La forza della One Belt One Road Initiative (OBOR), il grande progetto di Pechino, finalizzato a costruire una cintura capace di congiungere est e ovest, sembra affievolirsi rispetto alle premesse di alcuni anni fa. Certamente il contesto internazionale ha pesantemente influito sul piano e sulla sua implementazione. In primis, il Covid, e la conseguente gestione della pandemia, hanno incrinato la narrazione, e la reputazione, che Pechino aveva costruito intorno a sé e agli occhi del mondo. Basti pensare alle conseguenze del lockdown sulle catene logistiche, il cui impatto è stato devastante. Inoltre, la posizione ambigua nei confronti dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina, rappresenta un forte freno a proseguire il progetto, quanto meno per i Paesi occidentali, la cui posizione sul conflitto, invece, risulta chiara e irremovibile.

La One Belt One Road Initiative o Belt and Road Initiative (BRI), la Nuova Via della Seta, si basa su un grande progetto infrastrutturale, da realizzare per mare e per terra, in grado di connettere la Cina con il resto dell’Asia, dell’Africa e soprattutto dell’Europa. Il progetto iniziale prevedeva investimenti per 1.000 miliardi di dollari in oltre 70 Paesi, rappresentando così il 30% del PIL mondiale, il 62% della popolazione e il 75% delle riserve energetiche. Appare chiaro che, dietro il grande progetto logistico e infrastrutturale si nasconde l’intenzione della Cina di espandere la propria area di influenza e di essere in grado di incrinare l’egemonia americana. Per realizzare il progetto, Pechino ha messo in piedi un ecosistema costituito da diversi strumenti finanziari, come, ad esempio, la Asian Infrastructure Investment Bank, necessari a realizzare gli investimenti programmati. Inoltre, la grande campagna mediatica messa in campo, trovando spesso cassa di risonanza nei media occidentali, ha contribuito a costruire un’idea positiva dell’iniziativa.

La grande liquidità generata nei decenni precedenti ha trovato così la via degli investimenti esteri, soprattutto in Africa, tra cui spicca l’infrastruttura portuale realizzata a Gibuti. Nonostante Pechino appaia quanto meno generosa nel concedere finanziamenti ai Paesi che ne fanno richiesta, la poca trasparenza che le accompagna rende queste operazioni finanziarie molto discutibili. I tassi di interesse applicati non sono noti, ma alcune ricerche stimano un range che si attesta al 5%, di molto superiore a quelli concessi dal Fondo monetario internazionale. La Cina ad oggi è il primo creditore dei Paesi in via di sviluppo. Inoltre, molti Stati che hanno contratto prestiti con controparti cinesi, a causa di fattori esogeni ed endogeni, hanno dovuto chiedere una rinegoziazione del debito, che però spesso assume il carattere di dilazione nel tempo più che di una vera e propria rimodulazione. Emblematico è il caso dell’autostrada realizzata dal governo montenegrino con fondi cinesi. Il rischio che alcuni Paesi si ritrovino nella trappola del debito appare quindi elevata.

Non avendo una posizione comune sul tema, gli Stati europei hanno inizialmente deciso di prendere strade diverse. Inoltre, le istituzioni europee non hanno fatto molto per creare le condizioni affinché fosse l’Europa, e non i singoli Stati, a discutere del progetto direttamente con Pechino. Nelle fasi iniziali, Francia, Germania e Italia avevano proposto un coordinamento finalizzato a regolamentare gli investimenti cinesi in Europa. Nel contesto europeo, Ungheria, Repubblica Ceca e Grecia sono stati i primi a migliorare e sviluppare relazioni bilaterali con la Cina. Tra gli investimenti, spicca l’acquisizione del controllo del porto del Pireo da parte di COSCO (China Ocean Shipping Company), il gigante cinese dello shipping, trasformando lo scalo greco in uno dei punti nevralgici dei traffici nel Mediterraneo.

Partendo da posizioni opposte, l’Italia è stato il primo Paese del G7 ad aderire formalmente all’iniziativa, firmando nel 2019 un memorandum of understanding. Rispetto ai tre Paesi precedentemente citati, l’ingresso ufficiale dell’Italia ha rappresentato un evento di notevole portata. Di base, il contenuto del memorandum non ha valore internazionale, poiché avrebbe dovuto essere integrato da accordi più specifici. Mirava a rafforzare la cooperazione bilaterale in alcune aree specifiche, tra cui trasporti, infrastrutture e sviluppo verde, dove una parte rilevante riguardava le infrastrutture portuali, in particolare Genova e Trieste, non contemplando però casi analoghi alla cessione del porto del Pireo per la natura giuridica degli scali italiani. Di contro, il memorandum ha avuto invece un forte richiamo politico e nella collocazione dell’Italia nei rapporti internazionali, evidenziando un certo grado di ambiguità. A distanza di 4 anni, i benefici economici derivanti dalla firma del memorandum sono stati minimi rispetto alle previsioni annunciate. L’export è passato dai 13 miliardi del 2019 ai 16,4 del 2022, a fronte però, nello stesso periodo, di un import cresciuto da 31 a 57 miliardi.

Il tema oggi è ritornato di attualità. Le posizioni del governo sono diametralmente opposte a quelle dell’esecutivo che lo aveva redatto, e l’evoluzione del contesto internazionale certamente non depone a favore della prosecuzione del piano. Il memorandum si rinnoverà in automatico nel 2024, a meno che il governo italiano non comunichi la volontà di recedere dall’accordo. La linea ufficiale ancora non è stata annunciata, ma alcune dichiarazioni espresse da membri autorevoli del governo e l’atteggiamento su alcuni dossier farebbero pensare ad un’uscita dall’accordo. Le conseguenze di tale decisione si possono solo ipotizzare, così come l’impatto che queste avrebbero sul sistema dell’export italiano.

 

Immagine: Navi e gru nel porto di Gibuti, Repubblica di Gibuti (20 aprile 2019). Crediti: Matyas Rehak / Shutterstock.com

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I nodi del futuro energetico dell’Europa

 

Dopo 15 mesi di guerra in Ucraina, il Vecchio Continente cerca di venir fuori dalla crisi energetica, che seppure meno accentuata rispetto a pochi mesi fa, continua ad essere centrale nel dibattito. Per un continente come quello europeo, storicamente importatore netto di energia, non è certo facile trovare una soluzione immediata, sostenibile e che sia economicamente e socialmente accettabile. Difatti la risposta dei singoli Paesi è stata frammentata, diversa sia nell’approccio che nelle soluzioni messe in campo. Ricordiamo bene come, poco meno di un anno fa, i Paesi europei erano alla ricerca, quasi spasmodica, di partner affidabili, in grado di fornire gas in quantità tali da colmare i mancati flussi provenienti da Mosca. Come rimedio, sono state istallate nuove infrastrutture dedicate al GNL (Gas Naturale Liquefatto), che fino a quel momento erano molto carenti in termini numerici, soprattutto in alcune aree del continente, che certamente hanno dato un aiuto prezioso nel riempimento degli stoccaggi. Ad esempio, la Germania, che fino allo scoppio del conflitto in Ucraina contava esclusivamente sui gasdotti, ad oggi è riuscita ad installare 3 impianti di rigassificazione in tempi molto rapidi, e altri ne arriveranno nei prossimi mesi.

Ma le ricadute economiche sono state ingenti. Ad oggi, il prezzo del gas di attesta attorno ai 30 euro al MW, molto lontano dai picchi registratisi lo scorso anno. Inoltre, temperature miti ed una riduzione quasi strutturale dei consumi hanno contribuito a far scendere i prezzi fino a raggiungere livelli più accettabili. Per i motivi sopracitati, il livello medio europeo di riempimento degli stoccaggi è di circa il 65%, un dato certamente positivo. Sarà da porre attenzione a come evolverà la curva dei prezzi quando i Paesi ricominceranno a riempire in modo massivo gli stoccaggi per centrare i target fissati nello scorso anno, ossia un range superiore al 90% da raggiungere tra ottobre e novembre. Oramai i flussi di gas provenienti dalla Russia e gestiti da Gazprom si attestano sui 40,3 milioni di metri cubi giornalieri, un segnale del fatto che Mosca sta perdendo la guerra del gas.

Sempre sul fronte dei combustibili fossili, le quotazioni del petrolio appaiono quantomeno stabili. Da diversi anni, le compagnie petrolifere europee e occidentali hanno ridotto gli investimenti nel settore, anche a causa di vincoli ambientali sempre più stringenti. Chi continua ad investire sono principalmente i Paesi mediorientali, che possono disporre di finanziamenti pressoché illimitati e grandi giacimenti. Il colosso Saudi Aramco conta di investire nell’anno in corso tra i 45 e i 50 miliardi di dollari, diversificando anche il portafoglio, specie nel settore della chimica. Il management ritiene che petrolio e gas rimarranno componenti critici del mix energetico globale per il prossimo futuro. Nel frattempo, Mosca ha trovato acquirenti diversi da quelli europei disposti a comprare il suo greggio, grazie anche ai forti sconti applicati. Ma lo stesso petrolio torna in Europa sotto forma di prodotti raffinati, soprattutto gasolio per i motori diesel, lavorato in buona percentuale nelle raffinerie indiane. Lo schema messo in atto è uno strumento utile ad aggirare le sanzioni sul greggio russo, ma qualora si decidesse di porre fine anche a queste dinamiche, certamente l’Europa si ritroverebbe nuovamente con la coperta corta, con il rischio indotto di aumentare le entrate nelle casse di Mosca.

Lo shock energetico ha avuto però anche effetti benefici, quale il traino degli investimenti in energie rinnovabili, generando così un’accelerazione importante del settore. Nel 2022, in Europa sono stati impiantati parchi eolici e fotovoltaici per una nuova capacità installata rispettivamente di circa 15 GW e 41 GW, e complessivamente hanno contribuito a risparmiare l’equivalente di 70 miliardi di metri cubi di gas per un controvalore di quasi 100 miliardi di dollari. Inoltre, per la prima volta, gli investimenti complessivi a livello globale sulle fonti rinnovabili hanno superato quelli sui combustibili fossili. A certificarlo è l’IEA (International Energy Agency), il cui direttore esecutivo Fatih Birol ha dichiarato che gli investimenti nelle green energy, nel 2023, saliranno a 1,7 trilioni di dollari, spinti soprattutto dal solare. Inoltre, è stato sottolineato che per ogni dollaro investito in combustibili fossili, 1,7 vanno alle fonti rinnovabili. Sono di grande aiuto alcuni piani d’investimento come l’Inflation  Reduction Act (IRA) americano e il pacchetto Fit for 55 europeo, ma la grande sfida sarà accompagnare i Stati emergenti verso una transizione energetica sostenibile, soprattutto dal punto di vista finanziario.

 

Il tema della transizione energetica pone però alcune questioni, tra cui la dipendenza dalla Cina. Quest’ultima ha raggiunto un primato di fatto incontrastato nella produzione di massa di moduli solari e turbine eoliche, grazie anche ad un controllo pressoché totale sulle filiere delle cosiddette terre rare. Le produzioni cinesi hanno permesso di abbattere i costi delle rinnovabili e renderle quindi sempre più accessibili. Ma l’accentramento delle catene produttive rischia di rivelarsi controproducente per alcuni Stati, soprattutto quelli europei, generando una migrazione di fatto da una dipendenza all’altra. Appare certamente positiva la volontà di riportare parte delle produzioni quanto più vicino ai centri di consumo, ma ciò potrebbe non bastare. Il rincaro dei materiali, la scarsa presenza di materiali critici e la complessità dei processi di riciclo, associati al ritardo tecnologico, sono aspetti rilevanti da considerare. Il direttore Birol, riconoscendone il ruolo dominante, ritiene che competere con la Cina a 360 gradi non rappresenti la risposta migliore e che sarebbe invece più auspicabile collaborare con Pechino e contestualmente individuare altre soluzioni alternative, migliorando il focus su alcune specifiche strategie.

Lo sviluppo delle rinnovabili pone ulteriori temi che meritano di essere considerati. In primis lo sviluppo capillare di tecnologie come il solare e l’eolico richiede un ammodernamento della rete di trasmissione elettrica. Ad esempio, in Italia la produzione di energia rinnovabile si concentra al Sud, mentre i consumi maggiori, sostenuti principalmente dai distretti industriali, si registrano nel Nord del Paese. Sviluppare le rinnovabili significa anche migliorare la resilienza del sistema nel suo complesso e la sua corretta funzionalità. L’intermittenza legata alla produzione di energia eolica o solare presuppone la presenza di sistemi alternativi, così come la predisposizione di sistemi di accumulo. A fattori di tipo tecnico, vanno aggiunti quelli inerenti gli iter autorizzativi, troppo spesso lenti e farraginosi, e l’Italia ne è un esempio. Infine, una pianificazione delle aree idonee potrebbe ridurre il fenomeno nimby.

 

In conclusione, centrale è anche il tema del nucleare, su cui però non c’è una totale convergenza. La Francia, che storicamente ha basato il suo approvvigionamento energetico su tale tecnologia, sta portando a termine il processo di nazionalizzazione del colosso energetico EDF, così come la costruzione di nuove centrali nucleari. Per creare consenso intorno al tema, è nata l’alleanza per il nucleare, un’organizzazione composta attualmente da nove Stati, il cui fine è promuovere la ricerca e l’innovazione, stabilendo regole di sicurezza uniformi. Se la Francia ha le idee ben chiare, non si può dire lo stesso degli altri due player principali a livello europeo, ossia Germania e Italia. Berlino aveva deciso di abbandonare il nucleare già da tempo, e con lo spegnimento delle ultime tre centrali, si va a chiudere un ciclo durato quasi 60 anni. Le contrapposizioni nel governo sul tema sono profonde e non si intravede un ripensamento sulla scelta effettuata. L’Italia, invece, aveva già rinunciato al nucleare, scelta confermata poi nel referendum del 2011. Nelle scorse settimane, il Parlamento ha approvato alcune mozioni sul tema, che però rimangono molto vaghe sui contenuti. Nonostante il governo abbia più volte ribadito la sua posizione favorevole ad un possibile ritorno al nucleare, pesa una forte contrarietà da parte dell’opinione pubblica, contrarietà ampliata anche dalla mancata realizzazione del deposito unico nazionale, di cui si è in attesa da anni.

 

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Immagine: Vista aerea di turbine eoliche al centro della Serra da Freita - Arouca Geopark, Portogallo. Crediti: LuisPinaPhotography / Shutterstock.com

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L’annus horribilis dell’energia

Il 2022 verrà ricordato come l’anno nero dell’energia. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, quello dell’energia è stato un tema centrale e probabilmente continuerà ad esserlo ancora per molto. Già sul finire del 2021, la presenza di alcuni fattori tecnici aveva messo l’energia in cima alle priorità degli analisti e dei policy maker. Elementi come la minor generazione elettrica nei parchi eolici del Nord Europa, la chiusura programmata di alcune centrali nucleari in Europa e i minori afflussi di gas naturale dalla Russia, associati alla ripartenza post-Covid che richiedeva nuovi stock di energia, rappresentavano un mix potenzialmente esplosivo. La guerra in Ucraina ha complicato ulteriormente la situazione. Dopo anni di relativa stabilità ed economicità delle forniture, l’Europa si è dimostrata fragile ed estremamente dipendente da Mosca per l’approvvigionamento energetico. Fino all’invasione dell’Ucraina, la Russia era il principale fornitore di gas naturale all’Europa, per circa il 40%, con percentuali superiori in Italia e Germania. Tale dipendenza si era andata strutturando nel tempo grazie ad un sistema di gasdotti che interconnetteva la Russia all’Europa attraversando l’Ucraina. Ma con la costruzione di Yamal, Nord Stream 1-2 e Turkish Stream, negli anni, Gazprom ha ridotto drasticamente il peso negoziale di Kiev nella partita del gas verso l’Europa. La conseguente decisione di affrancarsi nel più breve tempo possibile da tale dipendenza ha scatenato una corsa al rialzo dei prezzi, portando gli Stati europei ad agire in modo caotico e disunito. 

I Paesi baltici, insieme alla Polonia, hanno deciso di non rinnovare i contratti in scadenza con Gazprom, riuscendo a rendere operative infrastrutture alternative che consentissero loro nell’immediato di approvvigionarsi da altri fornitori. Spagna e Portogallo, poco interconnessi alla rete europea e beneficiando di una ridondanza di infrastrutture, sono riusciti, anche attraverso meccanismi correttivi del mercato, a contenere i costi per famiglie e imprese. La Francia, pur potendo contare su una forte generazione elettrica attraverso il nucleare, ha avuto diversi problemi legati ai cicli di riparazione di diverse centrali, il cui numero è andato crescendo per via di un difetto strutturale presente nei reattori più recenti.

Fino all’invasione, la Germania non aveva nessun terminal di rigassificazione perché basava il suo approvvigionamento su forniture tramite gasdotto. Ma il governo Scholz ha invertito questa tendenza, potendo contare da qui ai prossimi 2 anni su 6 terminali di rigassificazione. La situazione italiana era sensibilmente diversa da quella tedesca, in quanto il nostro paese poteva contare su altre infrastrutture e sui contratti già in essere con altri fornitori. Inoltre, alcuni Paesi, tra cui spiccano la Polonia e la Germania, hanno riattivato e spinto al massimo le centrali a carbone come alternativa a quelle a gas. Secondo le stime del think tank Bruegel, da novembre 2021 a dicembre 2022, gli stati europei hanno allocato circa 705,5 miliardi di euro per far fronte alla crisi energetica.

A fronte di una situazione caotica, le istituzioni europee hanno cercato di richiamare i Paesi ad una maggiore unità e compattezza, senza compromettere il supporto alla causa ucraina. La risposta della Commissione è arrivata attraverso RePowerEU, lo strumento che mira a rendere indipendente l’Europa dalle fonti energetiche russe ben prima del 2030, puntando su diversificazione, risparmio e incremento delle rinnovabili. Ma se per il petrolio è più facile trovare altri fornitori, questo non vale per il gas in quanto è un mercato più regionale, e in Europa è andato sviluppandosi più sui gasdotti che sui rigassificatori.

L’Europa ha così dovuto richiedere al mercato nuovi stock di GNL (Gas Naturale Liquefatto), principalmente americano e qatariota, ma anche russo, e contestualmente ampliato i contratti con fornitori alternativi come Algeria, Azerbaigian ed Egitto. Ma data la saturazione della capacità di liquefazione a livello globale e venute meno le forniture russe, a fronte di una domanda elevata, i prezzi hanno iniziato una corsa verso l’alto. Inoltre, terminata la stagione più fredda, i Paesi europei hanno continuato ad acquistare gas per riempire gli stoccaggi così da assicurarsi una situazione più stabile in inverno. Nel mentre, Mosca, beneficiando dei prezzi elevati delle commodities e a fronte di minori quantità vendute, nel 2022 ha incassato 330 mld di dollari dalla vendita di gas, petrolio e carbone.

Seppur presenti ma di modesta entità, la corsa al rialzo dei prezzi non è stata generata da fenomeni speculativi, ma è stata dettata dalla legge della domanda-offerta. Alcuni Stati, tra cui l’Italia, hanno spinto affinché si studiasse un meccanismo europeo che prevedesse un price cap da applicare al TTF, il principale indice del gas in Europa, così da contenere i costi. Rispetto all’embargo sul petrolio, il cui accordo è stato raggiunto a maggio, per il price cap sul gas ci sono voluti diversi mesi per arrivare ad un accordo. Tale dispositivo fissa un tetto a 180 euro al megawattora e scatterà solo in determinate condizioni, ma i prezzi del mercato attualmente si attestano attorno ai 60 euro al megawattora. Contestualmente, il 5 febbraio è entrato in vigore l’embargo sui prodotti petroliferi. In buona sostanza, l’insieme degli strumenti messi campo dall’Unione Europea mira a ridurre i guadagni di Mosca, che sono alla base del bilancio statale per un’economia ancora strettamente collegata agli idrocarburi come quella russa.

Grazie ad un inverno mite e un ridotto consumo, soprattutto industriale, il livello medio degli stoccaggi europei, pieni per circa l’80% della capacità totale, è ancora elevato. Il 2022 è stato peraltro un anno particolarmente rilevante per le tecnologie rinnovabili, che grazie all’installazione di nuovi impianti per 56 gigawatt sono riuscite a produrre il 22% dell’energia consumata in Europa, facendo risparmiare circa 70 miliardi di metri cubi di gas. Inoltre, la crisi energetica ha ridato vigore ai progetti di sviluppo delle risorse presenti nel Mediterraneo orientale. Questo offre ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo nuove opportunità di sviluppo, tra cui l’ambizione a diventare il nuovo hub energetico d’Europa. Per farlo è necessario investire in infrastrutture, nuovi gasdotti e terminal di rigassificazione, a cui dovrà seguire un adeguamento della rete di distribuzione. La sfida è stata lanciata, ma i Paesi del Nord Europa non stanno a guardare.   

Il 2023 non sarà certo un anno facile e molto ancora deve esser fatto per mettere in sicurezza il sistema. Come sottolineato dall’IEA (International Energy Agency), le rinnovabili hanno trovato terreno fertile in questo contesto, ma burocrazia e supply chain rischiano di minare questo trend. Lo shock energetico si intreccia alla transizione energetica, ed è per questo che l’Europa deve trovare un equilibro tra sicurezza energetica e sostenibilità ambientale, garantendo un accesso all’energia sicuro, conveniente e per quantitativi abbondati.  

       

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Immagine: Tubi in acciaio in una raffineria di petrolio greggio. Crediti: Kodda / Shutterstock.com

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Il futuro del porto non è il porto

Intervista a Zeno D’Agostino*

Nel 2022 il porto di Trieste ha registrato una crescita importante, portando benefici al sistema portuale e al territorio. Le turbolenze geopolitiche e lo spettro della recessione rischiano di minare questo trend?

Premesso che le statistiche sono importanti, ma sono solo uno dei fattori che vengono presi in esame, ad oggi è necessario considerare due elementi: lo stato dell’economia e la trasformazione delle catene logistiche globali. Prima del Covid, le supply chain erano molto tirate, incentrate su un modello just in time che non prevedeva scorte. Di qui la necessità di accorciare le catene del valore ricollocando la produzione più vicino ai mercati di consumo. Inoltre, c’è stata una tendenza degli operatori ad accumulare scorte nei principali nodi globali in previsione di ulteriori shock. Ne deriva che la crescita dei volumi dei traffici era una diretta conseguenza della trasformazione della logistica su base globale. Ma sorge un problema, quello di scorte che il mercato non assorbe perché manca il consumo. Certamente il 2023 non avrà numeri entusiasmanti, ma nonostante alcuni fattori economici siano negativi, si aprono nuove opportunità. Per coglierle è necessario vederle e adeguarsi. Il porto di Trieste è andato strutturandosi non solo per essere un porto, ma anche un’area logistica, un punto franco che favorisca nuovi insediamenti produttivi. I dati potranno essere anche negativi, ma nel frattempo si sono create le condizioni per generare valore aggiunto e occupazione.

 

Due novità importanti: la creazione del primo corridoio doganale internazionale tra Trieste e l’Austria e il riconoscimento del punto franco per lo stabilimento di British American Tobacco. Si premiano così le tante iniziative atte a trasformare le attività portuali nello scalo giuliano. A che punto è lo sviluppo infrastrutturale del porto?

Grazie ai finanziamenti in corso e agli investimenti previsti dai concessionari, la capacità portuale verrà più che raddoppiata. Non vogliamo commettere l’errore di espanderci solo sul mare, ma intendiamo sviluppare tutto ciò che sta dietro il porto, specialmente per quel che riguarda l’infrastruttura ferroviaria. Inoltre, c’è un tema che non può essere ignorato, ossia il rapporto tra città e porto. I porti sono immersi in un contesto urbano, e il nostro obiettivo deve essere quello di creare valore e occupazione per la città. Le attività portuali saranno sempre più automatizzate e richiederanno meno forza lavoro. Quindi è necessario trovare altri contesti collegati alla realtà portuale dove impiegare la forza lavoro che una volta era attiva nelle classiche attività portuali. Da manager pubblico non devo solo guardare alla salute economica dell’ente, ma devo creare le condizioni affinché ci sia nuovo valore aggiunto e occupazione per il territorio. Come ripeto spesso, il futuro del porto non è il porto.

 

La recrudescenza del Covid in Cina rischia di rallentare le attività nei porti asiatici. Si sente parlare spesso di reshoring e nearshoring, ma non sono fenomeni immediatamente realizzabili. Avremo nuove ripercussioni in Europa?

C’è un altro tema da tenere in considerazione, il dual sourcing, dove per contenere gli shock non serve spostare l’intera produzione localizzata in Cina, ma basta frammentarla su vari siti produttivi a livello globale. In generale, l’elemento che emerge da questi fenomeni è che la Cina perde peso dal punto di vista manifatturiero, a cui segue una perdita in termini economici e geopolitici. Oggi la Cina è quella che è perché ha una capacità economica e di innovazione fortissima. Ma questi modelli non possono essere applicati su tutto, perché ci sono settori, come la produzione di celle solari, dove la Cina è essenzialmente un monopolista. Se vogliamo essere in grado di riallocare la produzione industriale dobbiamo essere capaci di aggredire quell’innovazione tecnologica. Da qui a 5-10 anni lo strapotere cinese può essere ridimensionato.

 

L’acquisto da parte di COSCO (China Ocean Shipping Company) del 24,9 % del terminal di Tollerot nel porto di Amburgo ha rimesso sotto i riflettori le attività cinesi nei porti europei. In Italia, Trieste e Genova erano i principali destinatari del Memorandum of understanding firmato nel 2019. Dopo un periodo di stop dettato dalla pandemia e dagli avvertimenti americani, assisteremo ad un nuovo assertivismo cinese in Europa?

C’è una variabile che è fondamentale, la guerra in Ucraina. Prima del conflitto, ognuno poteva ritenere lecito creare alleanze e partnership con Pechino sulla base di propri interessi e assunti. Ma il posizionamento della Cina rispetto al conflitto rende oggi difficile accettare che nuovi accordi o investimenti vengano posti in essere. A livello comunitario, Bruxelles ha già un meccanismo che prevede un’opinione sugli investimenti fatti da soggetti che sono emanazione pubblica di Paesi terzi. Ma l’intenzione della Commissione è quella di stabilire un meccanismo più stringente e coercitivo per riequilibrare tutti gli investimenti in settori sensibili da parte di soggetti terzi. Ho alcuni dubbi in merito a quest’ultimo dispositivo, ma è chiaro come la guerra abbia cambiato l’atteggiamento europeo nei confronti della Cina.

 

La nomina a presidente di ESPO (European Sea Ports Organisation), l’associazione europea dei porti, sposta il baricentro verso il Sud e il Mediterraneo. Cosa serve ai porti mediterranei per crescere e competere con il Nord Europa?

Dal punto di vista del mercato non manca nulla. Manca però la capacità politica, organizzativa e finanziaria che i porti del Nord Europa hanno acquisito e sviluppato nel corso degli anni. Inoltre, nel Nord Europa si è andato consolidando uno stretto legame tra l’ecosistema portuale e il mondo finanziario e bancario per nulla paragonabile a quello del Sud Europa. Ad esempio, Trieste ha invertito questo trend, riuscendo a costruire un rapporto forte e costruttivo con banche ed investitori istituzionali, privati e pubblici. Il tema è la capacità manageriale e il grado di innovazione raggiunto, data soprattutto da un aspetto dimensionale. Chi è più grande affronta temi più importanti di quelli dei più piccoli. Faccio un esempio. Il ruolo dei porti del Nord Europa nel settore energetico, così come per quanto riguarda la sostenibilità, ha raggiunto livelli di maturità e qualità altissima. Ne consegue che i porti del Sud devono iniziare a studiare e a capire come possono essere replicate nei rispettivi contesti le iniziative prese dagli scali del Nord.   

 

Due considerazioni. La presenza di grandi operatori del mercato rischia di depotenziare il ruolo delle autorità portuali? Inoltre, come vede la decisione della Commissione di assoggettare il settore del trasporto marittimo al regime degli ETS (Emission Trade System)?

I grandi operatori rischiano di depotenziare il ruolo degli Stati. È chiaro che è più semplice dialogare con poche realtà invece che con tante, dove è più facile incontrare potenziali punti deboli del sistema. Per governare questo sistema sono necessari poteri forti e competenze a livello centrale. A fronte della riduzione dei soggetti, il numero di porti rimane inalterato e quindi diventano relativamente più deboli. Serve qualcuno che studi e comprenda questi fenomeni, anche a livello europeo. Abbiamo assistito ad un aumento dei noli, ma nonostante ciò l’antitrust europeo non ha compreso il fenomeno. Non fa paura la concentrazione del mercato, è un fenomeno normale, ma è necessario organizzarsi. Le regole ci sono ed è chiaro che vadano aggiornate.

Sull’applicazione degli ETS c’è un problema relativo alla differenza di tassazione del 50% sulle linee tra porto extraeuropeo e porto europeo e del 100% tra porti europei, con un effetto distorsivo sui porti di transhipment europei. Va bene essere duri ma bisogna partire dal dialogo con le compagnie marittime. Una volta considerati i tempi e lo stato del naviglio, si deve lavorare in modo congiunto su quali progetti puntare e come implementarli. I temi sono tanti e vanno presidiati. Secondo me, bisogna strutturare meglio il lato pubblico se vogliamo affrontare certi fenomeni evolutivi. La questione è politica. Trieste ancora una volta dimostra che questo è possibile. La vera azione portata avanti in questi anni è stata l’aumento del peso della parte pubblica pur mantenendo un ambiente competitivo capace di attrarre investimenti privati. 

 

Si parla spesso di amarittimità, di sea blindness. Il nostro Paese continua a non voler intraprendere una seria riflessione sul mare e sul suo sviluppo. Trieste, invece, dimostra che pianificazione e progettualità pagano sul medio lungo termine. Lo scalo giuliano rappresenta una best practice o è un caso a sé stante?

Il contesto è in continua evoluzione e data l’imprevedibilità di ciò che accade è necessario un ruolo del pubblico più forte. Ma per esserlo bisogna essere più intelligenti. Trieste rimane una best practice che ha delle linee guida ben definite il cui scopo è creare un ecosistema, dove eco sta per economia, che è in grado di assorbire meglio gli shock globali. Bisogna saper studiare e capire questi fenomeni, e per farlo è necessaria un’intelligenza non banale.  

 

*Zeno D’Agostino è il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Orientale

 

Immagine: Panoramica del porto di Trieste. Crediti: bepsy / Shutterstock.com

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Unione Europea, dall’embargo sul petrolio al price cap sul gas

 

Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’Unione Europea (UE) ha cercato di far fronte all’annosa questione relativa alle forniture energetiche provenienti da Mosca. Se da un lato emergeva l’esigenza di ridurre, nel più breve tempo possibile, l’afflusso di valuta forte nelle casse del Cremlino, dall’altra risultava molto complicato trovare fornitori alternativi e con capacità tali da rimpiazzare i volumi provenienti dalla Federazione Russa. La dipendenza europea, soprattutto per il gas naturale, si è andata strutturando negli anni grazie al sistema infrastrutturale e all’economicità della materia prima. Ad esempio, nel 2021, l’Europa ha importato da Mosca gas naturale per circa 155 miliardi di metri cubi, coprendo quasi il 40% dei consumi totali.

Ancor prima dell’invasione, il settore energetico europeo registrava alcune criticità legate alla ripresa post-pandemica, ed attribuibili a fattori di tipo tecnico come la minor generazione eolica e lo stop di alcuni reattori nucleari. E da un piano puramente tecnico, i problemi hanno invaso anche la sfera economica, con picchi di prezzo mai registrati finora. Sin da subito, è apparso chiaro che staccarsi dal gas russo era molto più complicato rispetto al petrolio, poiché quest’ultimo viaggia principalmente via mare ed è stato semplice trovare altri fornitori.

Tutto ciò non vale per il gas, il cui mercato si struttura su scala regionale, e in particolare quello europeo si basa sull’approvvigionamento via gasdotto. La mancanza di un numero sufficiente di rigassificatori ha contribuito a rendere critica la situazione. Tali condizioni hanno permesso a Putin di colpire l’Europa nel punto più fragile, scommettendo sulle divisioni interne e su un ammorbidimento circa il sostegno offerto all’Ucraina. Inoltre, nonostante abbia ridotto drasticamente i flussi verso l’Europa, Mosca ha incassato di più, beneficiando dei prezzi elevati. Sebbene i flussi via gasdotto siano ai minimi, nei primi 10 mesi dell’anno, il gas naturale liquefatto (GNL) russo ha segnato un più 40% rispetto all’anno precedente, rappresentando una quota del 16% delle importazioni europee, circa 17,8 miliardi di metri cubi.

L’Unione Europea è arrivata a due soluzioni: porre un embargo sul petrolio e fissare un price cap sul gas. Ad oggi, gli esiti sono stati diversi. Dopo discussioni e veti incrociati, nel maggio scorso l’Unione Europea ha definito i criteri riguardanti l’embargo sul petrolio. Lo strumento vuole impedire che Mosca tragga un vantaggio economico dalla vendita di idrocarburi senza però intaccare l’offerta di petrolio a livello globale. L’embargo è entrato in vigore il 5 dicembre e riguarda le forniture via nave, ma esclude quelle operate tramite l’oleodotto Družba. Inoltre, viene inserito un cap di 60 dollari a barile esteso ai vettori. In pratica, impedisce alle navi che trasportano greggio russo di accedere alle coperture assicurative fornite dalle compagnie occidentali qualora il carico trasportato ecceda i 60 dollari. In merito a questo punto sono stati sollevati alcuni dubbi, soprattutto per quanto riguarda l’esatta definizione del prezzo del carico trasportato.

L’entrata in vigore dell’embargo europeo non sembra aver prodotto conseguenze sui mercati globali. Da registrare, invece, alcuni ingorghi all’ingresso del Bosforo, dove Ankara ha richiesto alle petroliere in transito di dimostrare il possesso delle coperture assicurative, necessarie per affrontare il transito degli stretti turchi in sicurezza. Mosca ha fatto sapere che non intende vendere il petrolio ai Paesi che aderiscono al price cap e che troverà acquirenti alternativi. Già da diversi mesi, infatti, la Russia vende il suo greggio in forte sconto a Paesi come l’India e la Cina, e molti sospettano che stia mettendo in piedi una flotta fantasma per commerciare il suo petrolio e, attraverso operazioni transhipment, aggirare le sanzioni. Inoltre, stando alle fonti di Bloomberg, Mosca vorrebbe inserire un price floor per prevenire un’eccessiva svalutazione.  

Ancor prima dell’entrata in vigore dell’embargo, molti Stati europei avevano ridotto le importazioni di greggio russo, ad eccezione dell’Italia e per ragioni legate principalmente alla raffineria Isab di Priolo. Dopo l’invasione, l’impianto, la cui proprietà è riconducibile a Lukoil, ha smesso di ricevere i finanziamenti dalle banche europee per l’acquisto di petrolio sui mercati internazionali, finendo per importare solo greggio russo. Ma con l’intervento del governo italiano, tale situazione sembrerebbe essere rientrata. Inoltre, in aggiunta all’embargo già in essere, a febbraio dovrebbe entrare in vigore un meccanismo simile che investirà i prodotti petroliferi.

Storia tutta diversa per il gas. I Paesi europei sono andati in ordine sparso, prevedendo modalità differenti per aiutare famiglie e imprese. Da settembre 2021 ad oggi, il think tank Bruegel stima che siano stati allocati circa 705,5 miliardi di euro per far fronte alla crisi energetica. Contestualmente, gli stoccaggi sono stati riempiti pagando un prezzo elevato e tutto dipenderà da come evolverà il periodo invernale. Ma i problemi relativi a quest’ultimi sono solo rinviati. Si vedrà nella prossima primavera quali saranno i livelli di riempimento e le relative condizioni del mercato.

Per quanto riguarda il price cap sul gas, l’Unione Europea ha raggiunto un accordo. La proposta iniziale della Commissione prevedeva un cap a 275 euro megawattora qualora il prezzo del gas superasse tale cifra per almeno due settimane, o se lo stesso prezzo risultasse superiore ai 58 euro riferito al GNL venduto nei mercati internazionali. Secondo gli esperti, un cap alto avrebbe messo al riparo i Paesi qualora fosse stato necessario acquistare ulteriori stock di gas, mantenendo così il mercato europeo ancora competitivo e attrattivo. Inoltre, la Banca centrale europea (BCE) nelle scorse settimane ha lanciato un monito sullo strumento, in quanto, qualora si verificassero alcune circostanze, potrebbe rappresentare un rischio per l’eurozona.

Poiché la proposta della Commissione è stata considerata da molti troppo elevata, la presidenza di turno ceca l’ha riformulata, riducendo il cap a 220 euro e accorciando da 15 a 5 giorni il tempo necessario a far scattare il meccanismo, con uno spread di 35 euro. Dopo la fumata nera della settimana precedente, nelle scorse ore è arrivata l’intesa finale, votata a maggioranza qualificata, nonostante la contrarietà dell’Ungheria e l’astensione di Austria e Paesi Bassi. L’accordo raggiunto prevede un price cap a 180 euro con un differenziale di 35 euro, e saranno necessari 3 giorni affinché il meccanismo scatti. Entrerà in vigore dal 15 febbraio e non sarà applicato alle transazioni over the counter.

Seppur positiva, la notizia non deve distrarre l’attenzione dei Paesi europei. Parecchio ancora dovrà essere fatto sia sulla riduzione della domanda che sull’incremento delle rinnovabili. Infine, venuto meno l’afflusso di gas russo, molto dipenderà da come l’Europa riuscirà a mettere in sicurezza il sistema di approvvigionamento del gas dagli altri fornitori.   

 

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Immagine: Il cantiere del gasdotto europeo EUGAL vicino a Wrangelsburg, Germania (16 febbraio 2019). Crediti: Stefan Dinse / Shutterstock.com

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Un passo in avanti verso la fusione nucleare

I risultati dell’esperimento conseguito presso il Lawrence Livermore National Laboratory segnano un passo importante nel cammino verso il raggiungimento della fusione nucleare. Lo sviluppo di tale tecnologia è in corso da decenni, ed ogni esperimento riuscito rappresenta uno step verso il raggiungimento del risultato finale. È un processo lungo e faticoso, frutto del duro lavoro di tante generazioni di scienziati che nel corso degli anni si sono passati il testimone.

Come tante innovazioni nel campo scientifico, anche questa nasce da scopi prettamente militari: durante gli anni Cinquanta del secolo scorso, gli scienziati cercavano di replicare un’esplosione termonucleare simile a quella prodotta dalla bomba ad idrogeno, ma senza l’innesco di un ordigno atomico. Lo stesso Lawrence Livermore National Laboratory è un laboratorio di ricerca del dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti che si occupa principalmente dello sviluppo di armi nucleari e delle relative applicazioni in campo militare, le cui ricerche sono state allargate anche in campo civile.

È bene fare una distinzione tra fusione e fissione nucleare. La fusione nucleare prevede la combinazione di due nuclei leggeri, come il deuterio e trizio, in un nucleo più pesante, l’elio. Per raggiungere la fusione, i nuclei devono avvicinarsi tra loro e per combattere la repulsione elettromagnetica è necessario impiegare temperature elevatissime. Tale reazione è alla base del funzionamento delle stelle, che permette la continua emissione di luce e ne impedisce il collasso. Invece, la fissione nucleare scinde, attraverso un bombardamento di neutroni, un nucleo atomico pesante, come quello dell’uranio o del torio, in due nuclei più leggeri, che, essendo entrambi positivi, si respingono. Oltre agli impieghi militari, tale processo viene impiegato nei comuni reattori nucleari, i quali sfruttano il calore sviluppato dalle reazioni di fissione per generare energia attraverso il vapore.

Il grande vantaggio della fusione rispetto alla fissione sta nella non produzione, o quanto meno limitata, di scorie radioattive. Inoltre, qualora si verificassero dei guasti, il reattore si spegnerebbe da solo perché per innescare la fusione occorre alimentarla. Quindi non sussiste il rischio di una reazione a catena. Nonostante i benefici teorici della fusione nucleare, il grande ostacolo da superare riguarda l’efficienza, in quanto fino adesso è stata impiegata più energia per mantenere il reattore acceso rispetto a quella prodotta dalla fusione.

 

Ad oggi, non esiste ancora una tipologia consolidata di reattore basato sulla fusione nucleare. Sono però in fase di sperimentazione due tecnologie, una a confinamento magnetico e una a confinamento inerziale. L’esperimento appena eseguito dal Lawrence Livermore National Laboratory ha impiegato il National Ignition Facility, una struttura di ricerca basata sulla fusione a confinamento inerziale. Per semplificare, la tecnologia utilizza 192 laser che colpiscono un cilindro, chiamato Hohlraum, al cui interno è presente una sfera, la cui grandezza è nell’ordine di alcuni millimetri, che contiene una miscela di isotopi dell’idrogeno, ossia deuterio e trizio. L’irraggiamento dei laser causa una compressione della sfera contenuta nel cilindro che successivamente scatena la fusione degli isotopi. All’interno del cilindro, durante la fusione, è stata registrata una temperatura attorno ai 3 milioni di gradi. Tutto il processo si verifica in un tempo molto piccolo, siamo nell’ordine dei miliardesimi di secondo.

Il risultato dell’esperimento segna una svolta perché l’energia prodotta dalla fusione è stata per la prima volta superiore a quella impiegata. A fronte di un input pari a 2,05 megajoule, sono stati prodotti 3,15 megajoule, producendo quindi un net energy gain, ossia un guadagno netto di energia. Ma per alimentare i laser, ne sono stati impiegati 300 megajoule. Ciò è dovuto sia alla bassa efficienza dei laser che al potere di assorbimento e riemissione di radiazione del cilindro. L’esperimento è certamente un passo in avanti importantissimo, ma dimostra che siamo ancora agli inizi sullo sviluppo della fusione nucleare. È bene sottolineare che lo scopo dell’esperimento non è mai stato la produzione di energia quanto migliorare le competenze e gli studi per le applicazioni in campo militare. Bisognerà ancora attendere le pubblicazioni scientifiche in merito all’esperimento per capire la vera portata dell’evento.

Affiche tale tecnologia venga impiegata anche per scopi civili, quali la produzione di energia, il sistema deve ampliare la sua efficienza. Inoltre, essendo stato pensato per scopi militari, necessita anche di tutte quelle tecnologie che siano in grado di asportare il calore e trasformarlo successivamente in energia. In pratica, manca tutto ciò che è necessario affinché la tecnologia divenga scalabile. Ad esempio, il trizio non si trova in natura ed è estremamente costoso.

Su tutt’altri binari si muove invece la fusione a confinamento magnetico.  In questo campo, il progetto più avanzato è l’ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor). Il sito sperimentale si trova in Francia, a Cadarache, ed è stato messo in piedi da un consorzio internazionale composto da Unione Europea, Russia, Cina, Giappone, Stati Uniti d’America, India, Corea del Sud. Lo scopo del progetto è quello di dimostrare scientificamente e tecnologicamente che è possibile generare energia elettrica in modo vantaggioso. Inoltre, è stato progettato per produrre 10 volte l’energia utilizzata per innescare la fusione. L’ITER si basa su un reattore, il tokamak, la cui forma ricorda una ciambella, in grado di generare un campo magnetico capace di intrappolare e confinare nelle proprie spire il plasma mantenendolo lontano dalle pareti di contenimento. All’interno del reattore, il plasma viene riscaldato oltre i 100 milioni di gradi, mentre i magneti che lo controlleranno opereranno ad una temperatura di meno 269 gradi. Se gli obiettivi preposti dal progetto verranno raggiunti, in base agli step previsti, dal 2060 in poi dovrebbe iniziare la costruzione di reattori commerciali su larga scala.

Come detto, la scoperta è un passo notevole, e sicuramente favorirà maggiori investimenti in tal senso. Ma ad oggi è oggettivamente difficile stimare tempistiche certe entro le quali vedremo realizzati impianti dedicati alla produzione di energia partendo dalla fusione nucleare.

 

Immagine: Le particelle ad alta energia fluiscono attraverso un dispositivo a forma di tokamak o ciambella. Rendering 3d. Crediti: dani3315 / Shutterstock.com

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Gruppi di autoconsumo e comunità energetiche rinnovabili in Italia. Un approfondimento

 

Il grande vantaggio offerto dalle tecnologie rinnovabili, soprattutto quella solare, risiede nella possibilità di produrre energia in modo autonomo e diffuso per essere successivamente sfruttata o reimmessa nella rete elettrica. Lo sviluppo tecnologico ha permesso all’industria solare di produrre celle fotovoltaiche più efficienti e durevoli nel tempo, di dimensioni contenute e con la possibilità di essere collegate a sistemi di accumulo che consentono di immagazzinare l’energia prodotta in eccesso. L’abbattimento dei costi e la presenza di incentivi ha reso il solare accessibile, consentendo a cittadini e imprese di installare impianti fotovoltaici sui tetti, garantendo benefici in termini economici e ambientali. Inoltre, lo sfruttamento dei lastricati solari contribuisce a ridurre il consumo di suolo, risolvendo un vulnus non indifferente. La nuova tendenza non si limita alla sola produzione di energia in modo autonomo, ma si estende alla sua condivisione. Nascono così le comunità energetiche rinnovabili (CER). È un processo che inverte i ruoli e che vede come protagonisti i cittadini, le imprese e le comunità locali, interpretando la transizione energetica da un’ottica bottom-up. Il classico consumatore di energia, quindi, si trasforma in prosumer, ovvero capace non solo di utilizzare, ma anche di produrre energia sfruttando solo fonti rinnovabili, come eolico, solare, geotermico, idroelettrico, biomasse e biogas. Seppure gruppi di autoconsumo e comunità energetiche rinnovabili concorrano entrambi a produrre energia in modo autonomo e sostenibile, quest’ultime hanno alla base determinate finalità sociali. Le CER si prefiggono 3 obiettivi: contrastare la povertà energetica, incentivare l’autonomia energetica e accelerare la transizione energetica. Inoltre, i vantaggi economici derivanti dall’autoconsumo, come il risparmio in bolletta e le agevolazioni fiscali, rappresentano una spinta allo sviluppo delle CER, soprattutto alla luce dell’attuale contesto energetico.

 

Dal punto di vista normativo, le comunità energetiche rinnovabili sono state istituite dalla direttiva UE RED II (Renewable Energy Directive II) con lo scopo di promuovere l’uso di energia prodotta da fonti rinnovabili, prevedendo anche un sistema di incentivi finanziari. Inoltre, la direttiva istituisce una serie di diritti in capo ai cittadini finalizzati alla costituzione e adesione ad una comunità energetica. La normativa UE è stata successivamente recepita in Italia attraverso il decreto Milleproroghe n° 162/2019, che, insieme ai relativi provvedimenti attuativi, definisce i ruoli e le modalità di costituzione delle comunità energetiche rinnovabili. Infine, l’Arera stabilisce le regole e gli incentivi, mentre le applicazioni tecniche sono definite nel dettaglio dal GSE (Gestore dei Servizi Energetici). Per il nostro Paese le CER rappresentano un’opportunità da cogliere al volo, soprattutto per i piccoli centri abitati. La produzione in loco e la successiva condivisione posssono diventare un ottimo strumento di coesione e sviluppo del territorio. A tal proposito, alle comunità energetiche sono stati destinati 2,2 miliardi di euro dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), allo scopo di raggiungere, entro il 2026, 2,5 GW di energie rinnovabili nei Comuni con una popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.

 

Dal punto di vista tecnico, esistono alcune differenze tra i gruppi di autoconsumo e le comunità energetiche rinnovabili. Per costituire un gruppo di autoconsumo è necessario che almeno due soggetti sottoscrivano un accordo privato e che gli impianti e le utenze di consumo siano collocati all’interno dello stesso edificio.  Inoltre, chi partecipa all’accordo, deve soddisfare alcuni requisiti come la titolarità dei punti di connessione presenti nell’edificio e non svolgere come attività professionale principale la produzione e lo scambio dell’energia elettrica. Rispetto ai gruppi di autoconsumo, le CER sono un soggetto giuridico, si basano sulla partecipazione aperta e volontaria, devono essere proprietarie degli impianti e si devono dotare di uno statuto. Elementi essenziali dell’atto costitutivo sono: l’oggetto sociale, ovvero fornire benefici di tipo ambientale, economico e sociale, specificare chi sono gli azionisti e i membri della comunità, sottolineare l’autonomia della comunità e la sua aperta e volontaria partecipazione, individuare un soggetto delegato responsabile del riparto dell’energia prodotta e, infine, definire i requisiti dei soggetti, produttori e clienti finali della comunità.

Le comunità energetiche rinnovabili sono già diventate realtà. Alcune sono state ideate durante la fase più acuta della pandemia, come quella di Magliano Alpi, la prima CER realizzata in Italia, nata in collaborazione con il Politecnico di Torino. Ne sono seguite tante altre, come la CER nata a San Giovanni a Teduccio, quartiere di Napoli, dove la comunità nasce per contrastare la povertà energetica nel territorio. Nonostante le best practice non manchino, a causa di lungaggini burocratiche e mancanza degli incentivi, molte comunità energetiche sono ferme. Nel recente report di Legambiente, su 100 comunità energetiche mappate sul territorio nazionale, solo 16 sono arrivate a conclusione dell’intero iter. A tal proposito, il governo è pronto a colmare le lacune registrate attraverso il varo di un decreto attuativo, che offrirà un quadro definitivo sulle CER.  

Se realizzati, i gruppi di autoconsumo e le comunità energetiche rinnovabili renderanno i cittadini e le comunità locali protagonisti della transizione energetica, mirando ad un uso ottimale dell’energia e vicini alle tematiche ambientali.

 

Immagine: Edifici abitativi con pannelli solari sul tetto per la produzione di energia alternativa, Grugliasco, Torino (novembre 2021). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

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Terre rare e non solo. I rischi della supply chain sulla transizione energetica

 

Gli eventi recenti, dalla pandemia alla guerra, passando per la crisi energetica, rappresentano un’occasione irripetibile per lo sviluppo delle energie rinnovabili. Attraverso la realizzazione di nuovi impianti e il processo di repowering (ripotenziamento), spinti dal continuo progresso tecnologico, il solare e l’eolico contribuiranno in maniera sempre più preponderante nei mix energetici dei Paesi. Oltre ai benefici dovuti al minor impatto ambientale, le rinnovabili rappresentano un driver di sviluppo economico non indifferente e porteranno ingenti investimenti con notevoli ricadute occupazionali. Appare evidente però che la transizione energetica diventa più concreta in tutti quei Paesi le cui economie sono ad un livello avanzato e l’alto tasso tecnologico permetterà lo switch in pochi anni. È utile sottolineare questa disparità per ricordare però che le conseguenze del cambiamento climatico non sono localizzate in alcuni contesti ma sono fenomeni globali.

I piani di sviluppo sono stati ampiamente presentati e, nonostante gli obiettivi prefissati siano raggiungibili nel medio-lungo termine, i rischi non mancano. Un’incognita rilevante riguarda le catene di approvvigionamento delle materie prime e di tutte quelle tecnologie necessarie alla realizzazione degli impianti. Negli anni la supply chain (catena cliente-fornitore) delle rinnovabili è andata costruendosi su base globale, permettendo un sostanziale abbattimento dei costi. Ma ciò le rende vulnerabili a fenomeni esogeni e difficilmente controllabili come pandemie e conflitti economico-militari.

 

Un problema rilevante riguarda le cosiddette terre rare, indispensabili per la realizzazione delle componenti presenti in turbine eoliche, pannelli solari e sistemi di accumulo. Sono 17 elementi chimici presenti nella tavola periodica le cui proprietà magnetiche e conduttive le rendono perfette per l’industria tecnologica. Sono definite tali perché, a fronte di un notevole impatto ambientale, la loro estrazione comporta processi molto complessi e costosi, che producono enormi quantitativi di scarti. Inoltre, capita spesso che le condizioni minime di sicurezza della forza lavoro impiegata vengano completamente ignorate. A ciò si aggiungono pratiche protezionistiche applicate dai Paesi produttori le quali possono arrecare squilibri nelle fasi di approvvigionamento nelle catene globali. Data l’importanza che rivestono, il controllo e la gestione di queste risorse diventa di fondamentale importanza per i governi di tutto il mondo. 

La loro distribuzione non è uniforme, ma si concentrano in alcune aree specifiche del pianeta. Ad esempio, la Cina controlla il 37% delle riserve mondiali, seguita da Brasile, Vietnam e Russia, ma le troviamo anche negli Stati Uniti, in Cile, Sudafrica, India, Malesia e Australia. Da diversi anni, le aziende cinesi hanno ottenuto concessioni minerarie fuori confine, specialmente in Africa e, grazie ai bassi costi di manodopera e al sostegno di Pechino, la Cina è diventata il principale player al mondo nel campo delle terre rare. L’Europa, invece, ne possiede una parte residuale e i limiti stringenti sulle attività minerarie ostacolano o rendono antieconomico lo sviluppo, portando il vecchio continente in una posizione di estrema dipendenza dalle importazioni estere. Il riciclo potrebbe essere una soluzione, ma a parità di tecnologie attualmente possedute, le percentuali di recupero sono ancora molto basse. Inoltre, la miniaturizzazione della componentistica rende il processo molto complicato.

 

Il rischio di una supply crunch non si limita, però, all’approvvigionamento delle terre rare, ma si estende anche nella produzione delle celle solari e delle turbine eoliche. La Cina detiene la produzione mondiale del polisilicio, circa l’80% del totale, necessario alla costruzione delle celle fotovoltaiche. Spinta da piani energetici ambiziosi, negli ultimi dieci anni, Pechino ha investito circa 50 miliardi dollari nella sua industria solare, il che ha permesso alla Cina di diventare il leader mondiale del settore. La maggior parte della produzione è localizzata nella provincia dello Xinjiang, dove diversi report internazionali hanno accertato la violazione di diritti umani ad opera delle autorità governative cinesi, specialmente nei confronti degli uiguri. Situazione analoga si registra nel comparto eolico, dove, osservando la classifica dei primi 10 produttori mondiali di turbine, 6 sono cinesi. Ciò ha indubbiamente contribuito ad abbassare i costi, ma ha esposto i Paesi, soprattutto quelli occidentali, ad una pericolosa dipendenza dall’industria cinese. La concentrazione delle filiere produttive in Cina però è stata anche in parte avallata dai processi di delocalizzazione avviati nei decenni da parte delle multinazionali, e non solo. Il trasferimento di know-how e competenze ha permesso all’industria cinese di accorciare i tempi di sviluppo e assumere una posizione dominate nel mercato globale.

La forte dipendenza da un solo fornitore può essere aggirata tramite il reshoring e la creazione/diversificazione di supply chain più corte e resilienti, ma ciò comporta tempi e modalità non imminenti. Per quando riguarda il fotovoltaico, nello Special Report on Solar PV Global Supply Chains, l’IEA sostiene che la rimodulazione delle supply chain potrà attirare investimenti per 120 miliardi di dollari entro il 2030 e creare 1300 nuovi posti di lavoro per ogni gigawatt di capacità produttiva. Inoltre, risulta necessario il supporto delle politiche governative atte a definire ed implementare catene più sicure ed efficienti. L’IEA propone una road map composta da 5 punti d’intervento: diversificare la produzione e l’approvvigionamento delle materie prime, ridurre i rischi legati agli investimenti, garantire la sostenibilità sociale ed ambientale della produzione, continuare a promuovere l’innovazione e sviluppare i processi di riciclo.

In tal senso, si registrano le prime iniziative, soprattutto in Europa, dove la Commissione europea ha da poco varato la Solar Photovoltaic Industry Alliance, il cui scopo è accelerare lo sviluppo del solare e incrementare la catena del valore dell’industria fotovoltaica europea. Attraverso tale strumento, l’Unione Europea punta ad installare nuovi impianti per una potenza di 320 gigawatt entro il 2025 e altrettanti 600 gigawatt entro il 2030. Già nel 2020, la Commissione aveva presentato un piano per quanto riguarda le terre rare, promuovendo una diversificazione degli approvvigionamenti e migliorando i processi di recupero. Sul lato industriale, fin da ora si registrano le prime iniziative che vedono l’Italia tra i protagonisti. La danese Vestas ha comunicato che intende realizzare negli stabilimenti di Taranto la pala eolica più lunga al mondo, la V236, pensata per le installazioni offshore. Mentre in Sicilia, la 3Sun di Enel Green Power ambisce a diventare la prima gigafactory d’Europa, con l’obiettivo ambizioso di produrre dal 2024 almeno 10.000 pannelli al giorno per una capacità produttiva di 3GW.

 

Immagine: Turbine eoliche e pannelli solari in provincia di Agrigento. Crediti: Angelo Giampiccolo / Shutterstock.com

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Tra rischi e opportunità, l’Italia nel contesto mediterraneo

 

Il rapporto che insiste tra il nostro Paese e il Mare Mediterraneo è antico e profondo, ed affonda le sue radici nella storia. L’esperienza vissuta dalle Repubbliche marinare, Genova e Venezia su tutte, ha rappresentato un unicum difficilmente replicabile nella storia del Mediterraneo, sia in chiave economica che diplomatica e militare. In termini prettamente geografici, l’Italia si trova esattamente al centro del bacino del Mediterraneo, dividendo il mare in due parti ben distinte di cui la penisola costituisce un vero e proprio spartiacque. Ma sarebbe un errore considerare solo l’aspetto geografico come unico elemento determinante a definire i rapporti di forza nell’area.

Il Mare Mediterraneo è uno scenario molto complesso e policentrico, dove si è sempre contraddistinto un certo attivismo dei Paesi rivieraschi e non solo. È importante ricordare che in natura, così come in politica e nel campo economico, i vuoti non rimangono tali ma vengono prontamente colmati. Ne è un esempio il comportamento assertivo intrapreso da alcuni Stati, in particolar modo Russia, Turchia e Cina, al quale ha contribuito il disinteresse statunitense per l’area. Nonostante la modesta estensione, il Mare Mediterraneo è strategicamente importante sia per i traffici commerciali globali che lo attraversano, circa il 30% del totale, che per le risorse energetiche presenti nei suoi fondali. Inoltre, il bacino è attraversato da infrastrutture strategiche come gasdotti e cavi sottomarini.

La guerra in Ucraina ha spostato il focus sul fianco est dell’Europa, ma questo non deve distogliere l’attenzione da ciò che si verifica quotidianamente nel Mediterraneo. Per questo, anche alla luce dell’attuale contesto, il nostro Paese è chiamato ad affrontare una profonda e seria riflessione sul suo ruolo nel Mediterraneo. Le chiavi di lettura sono diverse e molteplici, ed implicano fattori che vanno dalla politica all’aspetto militare, passando per gli ambiti sociale ed economico.

Il cluster marittimo è di notevole importanza per l’Italia. Il mare permette alle merci di transitare nel nostro Paese, dove il 60% dell’import e il 55% dell’export prende la via dei porti, e l’intero settore contribuisce a creare il 2% del PIL nazionale, con un moltiplicatore del reddito di 2,28. Inoltre, siamo tra le marinerie più numerose e importanti al mondo, specialmente nel traffico ro-ro. Nonostante i numeri dimostrino l’importanza del mare per il contesto economico nazionale, il settore, oltre ad incontrare diversi ostacoli burocratici, non è stato in cima alle priorità del decisore pubblico. A questo si aggiunge la mancanza di una visione strategica e di lungo periodo sul mare e sulla marittimità del Paese. Per queste ragioni, gli addetti ai lavori parlano di sea-blindness, un fenomeno che comporta un grado importante di cecità verso tutto ciò che riguarda il contesto marittimo, dallo sviluppo infrastrutturale alla componente militare. Di fatto, negli anni, l’Italia si è trasformata in un Paese a-marittimo, incapace di mettere a frutto i suoi 8000 km di coste.

Una strategia mediterranea del Paese passa necessariamente da una ridefinizione del sistema portuale. L’attiguità dei porti ai centri abitati ha impedito in parte l’ampliamento delle infrastrutture, così come la mancata costruzione di adeguati corridoi logistici per connettere le banchine verso l’esterno. Inoltre, un numero elevato di porti, non coordinati tra loro, ha reso il sistema poco competitivo a livello internazionale, annullando il vantaggio strategico dato dalla posizione geografica del nostro Paese nel Mediterraneo. Il d. lgs. 169 del 2016 ha riorganizzato il settore partendo proprio dalla riforma delle autorità portuali e seguendo l’ottica della semplificazione e di un maggior coordinamento del sistema su base nazionale. Attualmente, è diventata oggetto di discussione la natura giuridica delle autorità che consentirebbe a queste ultime margini di manovra importarti nello sviluppo dei sistemi portuali, ma non è ancora chiaro quale sia lo strumento migliore da adottare.

Data la loro importanza strategica, i porti sono destinatari dei fondi erogati dal PNRR, circa 4 miliardi, dove gli obiettivi stabiliscono l’aumento della capacità portuale, l’adeguamento infrastrutturale e la trasformazione in ‘green ports’ attraverso l’elettrificazione delle banchine. Se Genova e Trieste sono porti proiettati verso l’Europa, gli scali del Sud possono giocare un ruolo come piattaforma del Mediterraneo, dove molte delle loro potenzialità sono ancora inespresse. Inoltre, le ZES, le zone economiche speciali, una volta messe in connessione con i porti, possono diventare un driver per lo sviluppo del Sud d’Italia.

 

Nonostante le conseguenze dirompenti, la pandemia e la crisi energetica offrono opportunità interessanti al sistema portuale italiano. Da un lato, si assiste al fenomeno, seppur ancora iniziale, dell’accorciamento delle catene logistiche e del conseguente utilizzo di navi più piccole, a cui si associa il ricollocamento delle attività produttive in località più vicine ai mercati di destinazione. Dall’altro, vi è la necessità di trasformare i porti in hub energetici, capaci sia di ricevere che di produrre autonomamente energia. In questo caso, la posizione geografica del nostro Paese rappresenta un aiuto non indifferente, anche perché esistono infrastrutture già operative che lo collegano direttamente alla sponda meridionale del Mediterraneo. Inoltre, la sfida lanciata da alcuni Stati nordafricani circa lo sviluppo di tecnologie rinnovabili e alternative in campo energetico può diventare uno spazio interessante su cui cooperare e stringere partnership strategiche sul lungo periodo. 

Il Mediterraneo è un mare piccolo su cui si affacciano molti Paesi, i quali spesso ne rivendicano una parte. Si tratta delle ZEE, zone economiche esclusive, ossia un’estensione delle acque su cui uno Stato può far valere la propria sovranità fino ad un massimo di 200 miglia nautiche a partire dalla linea di costa. Sono state istituite dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay nel 1982, e consentono agli Stati di sfruttare le risorse in esse presenti. Con notevole ritardo rispetto agli altri Paesi, l’Italia ha istituito la propria ZEE solo nel giugno del 2021 con la legge n. 91 a cui seguirà la sua definizione tramite accordi successivi. Se con i Paesi dell’Adriatico non esistono divergenze nel definire le proprie acque di competenza, problemi emergono soprattutto con la Libia e l’Algeria. Quest’ultima, nel 2018, ha istituito, attraverso un atto unilaterale, la propria ZEE, i cui limiti lambiscono i confini delle acque territoriali italiane ad ovest della Sardegna. Seppur ancora non delineata, la ZEE italiana andrebbe a sovrapporsi con quella algerina. Non si tratta di rivendicazioni territoriali fini a sé stesse, quanto di ottenere nuovi spazi dove esercitare la propria giurisdizione così da consentire uno sfruttamento delle risorse presenti. L’istituzione della ZEE italiana solleva un’altra questione ad essa relativa, ovvero il suo pattugliamento da parte della Marina Militare.

Appare quindi evidente come la componente militare tiene assieme i diversi segmenti che delineano una strategia marittima, consentendo un approccio olistico all’argomento. Risulta quindi fondamentale il ruolo della Marina Militare nel contesto mediterraneo, sia in termini di sicurezza che di cooperazione. La definizione del concetto di Mediterraneo allargato va proprio in questa direzione, dove l’area d’interesse non si limita al Mare Nostrum, ma si estende dal Golfo di Guinea a ovest fino al Golfo di Aden e il Mar Arabico ad est. Oltre a rappresentare le due vie d’accesso al Mediterraneo, sono luoghi di alto interesse per il nostro Paese sotto il profilo economico ed energetico. Le operazioni Mare Aperto e il controllo delle infrastrutture energetiche diventano estremamente importanti per la sicurezza del Paese e per la stabilità dell’area.  In questo contesto si presenta la Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo emanata dal ministero della Difesa il cui scopo è delineare alcune linee programmatiche e d’intervento nell’area. Appare chiaro che tale strategia necessita di un forte supporto logistico in termini di uomini e mezzi. Da anni la Marina Militare è impegnata nel rinnovamento del suo strumento navale, e l’arrivo in servizio di Nave Trieste e della nuova classe di pattugliatori va in questa direzione. Inoltre, la collaborazione tra la Marina Militare e Fincantieri è uno strumento utile ad implementare la nostra naval diplomacy.

L’Italia non solo deve guardare all’Europa e alle sue istituzioni, ma deve fare altrettanto verso il suo mare. Ed è qui che ritorna utile l’insegnamento che la Serenissima ci lascia in eredità. Lo Stato da Mar messo in piedi dalla Repubblica di Venezia partì costruendo la supremazia in quella che venne definita la pianura liquida, l’Adriatico, e si consolidò basando il suo successo sulle colonie, sulla flotta commerciale/militare e sulla fitta rete di diplomatici presenti nei principali porti del Mediterraneo. Parafrasando in chiave moderna il lascito della Serenissima, il nostro Paese deve tornare a guardare il mare con una prospettiva diversa. 

 

Bibliografia

Egidio Ivetic, Il Mediterraneo e l’Italia. Dal mare nostrum alla centralità comprimaria, Rubettino, 2022

 

Immagine: Veduta aerea del porto di Gioia Tauro, Reggio di Calabria (31 agosto 2022). Crediti: Naeblys / Shutterstock.com

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Il puzzle energetico

I problemi energetici europei appaiono sempre più difficili e le soluzioni finora proposte risultano essere poco efficaci per contrastare la crisi in corso. I numeri dimostrano che, nonostante il grande sforzo per affrancarsi da Mosca, le forniture russe sono ancora fondamentali per molti Paesi europei. Nel Vecchio continente, circa i ¾ dell’energia elettrica vengono ancora prodotti bruciando combustibili fossili. Inoltre, la riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo degli idrocarburi presenti nel sottosuolo europeo ha accentuato la dipendenza del continente dalle fonti estere, rendendo il sistema energetico più vulnerabile. I prezzi elevati dell’energia alimentano l’inflazione, nell’area euro attestata attorno all’8%, e lo spettro reale di una recessione imminente preoccupa i mercati.

Il prezzo del gas è nuovamente esploso, facendo registrare un nuovo record per il TTF (Title Transfer Facility), il principale indice per il mercato spot europeo, che nei giorni scorsi ha raggiunto i 180 euro al MWh. La causa principale è il calo drastico dei flussi da parte di Gazprom verso l’Europa, ed ha portato il gasdotto Nord Stream (NS) 1 ad essere impiegato per circa il 40% della sua capacità di trasporto. Contestualmente si sono registrate delle riduzioni sulla direttrice che passa attraverso l’Ucraina.  Gazprom ha fatto sapere che il taglio alle esportazioni di gas è di natura tecnica, per NS1 dovuta alla manutenzione della stazione di compressione di Portovaya, ritardata dalle sanzioni occidentali. Questo dimostra ancora una volta come l’industria petrolifera russa sia fortemente dipendente dalla componentistica occidentale. La situazione è peggiorata con la chiusura totale di NS1. Il gasdotto è fermo dall’11 luglio, e lo stop dovrebbe durare 10 giorni, ma molti temono che sarà più lungo del previsto. Con una nota, la società controllata dal Cremino ha comunicato che potrebbe non essere in grado di mantenere in funzione il gasdotto, paventando la chiusura imminente delle forniture. Intervistato dal Corriere, Sergei Vakulenko, uno dei massimi esperti del settore energetico russo, ha affermato che Putin non avrà remore nell’utilizzare il gas come arma di ricatto con il fine di dividere i Paesi europei, impegnati a riempire gli stoccaggi e raggiungere il target del 90%.

Avere gli stoccaggi pieni per gli Stati rappresenta un’assicurazione contro eventuali tagli invernali, ma il loro riempimento sta diventando più difficile dell’ipotizzato. Come visto precedentemente, Mosca ha il coltello dalla parte del manico, e sa che può mettere in seria difficoltà i Paesi europei. A giugno, Gazprom ha mandato circa il 75% in meno del gas pattuito rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Ma a seguito dei prezzi elevati, Mosca incassa molto di più, e di riflesso può continuare a finanziare la guerra in Ucraina.

Nonostante la diversificazione dei fornitori, i problemi permangono. La Norvegia ha annunciato tagli rispetto all’approvvigionamento verso l’Europa a seguito delle forti proteste sindacali dei lavoratori del comparto oil & gas, che chiedono retribuzioni più altre. Inoltre, l’Algeria vuole sfruttare l’alta volatilità del prezzo della commodity, per guadagnare di più dalla vendita del proprio gas. La disponibilità della materia prima e gli alti prezzi provocano effetti a cascata sugli operatori, alle prese con la scelta di destinare o meno agli stoccaggi una parte del gas acquistato. Temono che in futuro un prezzo di vendita minore rispetto a quello d’acquisto renda lo stoccaggio, e i relativi costi, economicamente svantaggioso rispetto all’acquisto di gas quando il mercato lo richiede.

Italia e Germania, Paesi maggiormente coinvolti dall’importazione di gas russo, stanno adottando i propri piani per far fronte a quella che ancora non è un’emergenza, ma che ben presto potrebbe diventare tale. In generale, l’Italia, avendo un paniere più diversificato, è in una situazione migliore rispetto alla Germania. Nel frattempo, il governo italiano ha chiesto a SNAM di raggiungere più in fretta gli obiettivi mensili e ha messo sul tavolo 4 mld per aiutare gli operatori a stoccare il gas quando il prezzo è elevato. Inoltre, SNAM ha annunciato pochi giorni fa l’acquisto di una seconda nave rigassificatrice, che diverrà però operativa non prima del 2024. Sulla soluzione delle navi pende però la spada di Damocle della contrarietà delle comunità locali dei luoghi dove verranno collocate.

La situazione in Germania è più critica. Lo stop di Nord Stream 1 ha spinto il governo di Olaf Scholz a varare un nuovo piano che prevede una linea di credito di 15 mld per agevolare lo stoccaggio, incentivi al risparmio ed un ritorno al carbone per la produzione di energia elettrica. Obiettivo del governo è arrivare ad un livello di riempimento delle riserve nazionali di gas pari all’80% nel mese di ottobre e raggiungere il 90% entro novembre. Nel frattempo sono iniziati i lavori per due rigassificatori galleggianti, la cui capacita è stimata intorno ai 13 mld e che dovrebbero entrare in funzione entro il 2023. Nonostante le misure varate, la situazione è resa critica da Uniper, primo fornitore di gas in Germania, che dipende in toto dalla fornitura di Gazprom. Da molti è stata subito considerata “too big to fail” ed evocando una Lehman Brother 2 ha costretto il governo a studiare un piano di salvataggio.

Come visto, la risposta dei Paesi europei è ancora troppo frammentaria, e l’auspicio di una maggiore cooperazione energetica rimane solo un’idea. Il price cap non piace a tutti, e nonostante lo sforzo compiuto da Italia e Francia, è ancora forte la resistenza dei Paesi falchi, tra cui si colloca anche la Germania. Inoltre, nonostante lo strumento sia stato oggetto di discussione in seno al vertice G7, l’ambito ristretto di Stati di cui l’organizzazione si compone non riesce ad essere incisivo come dovrebbe. Infine, non è ancora ben chiaro il funzionamento del price cap, in particolare se vada applicato al consumo o al prezzo di importazione. Il primo si tradurrebbe in un sostegno a famiglie e imprese, operando uno sconto o un rimborso. Il secondo prevedrebbe un tetto al prezzo d’acquisto del gas, ma non al GNL (Gas Naturale Liquefatto) in quanto legato ad un mercato più liquido e ad acquirenti disposti a pagare di più per averlo.

L’ago della bilancia è la guerra in Ucraina. Se Putin sarà in difficoltà, non esiterà a utilizzare la leva energetica per minare la precaria unità europea. Il tempo diventa variabile fondamentale. Prima gli europei riusciranno a riempire gli stoccaggi, pagando anche un prezzo elevato, prima potranno affrancarsi dalla minaccia energetica. Sarà il tempo a decidere. 

 

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Immagine: Un gasdotto in inverno. Crediti: fotokaleinar / Shutterstock.com

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Il vento della Barcolana

Ogni seconda domenica di ottobre a Trieste si celebra la Barcolana, un vero e proprio rito pagano della vela. Nella città giuliana accorrono decine di migliaia di velisti, curiosi ed appassionati per poter assistere e partecipare alla regata più grande del mondo. Nata nel 1969 come una regata di fine stagione, la Coppa d’Autunno è diventata negli anni un evento di caratura internazionale. Tutto nasce nella Società velica di Barcola e Grignano, un piccolo circolo velico situato nel quartiere triestino di Barcola. La prima edizione vide 51 iscritti e molto probabilmente nessuno di loro si sarebbe aspettato che, nel 2018, sarebbero diventati 2689, tra cui, seppur non partecipante, l’Amerigo Vespucci. Non esiste altro evento sportivo al mondo dove, professionisti e amatori, famiglie e amici, si ritrovano a competere gli uni al fianco agli altri. È questo il grande spirito della Barcolana.

Nel Golfo di Trieste, tra scafi d’epoca e moderne imbarcazioni, migliaia di vele dipingono il mare, offrendo agli spettatori, assiepati dal Carso alle rive, un panorama imperdibile. Nella città della bora non può che essere il vento il grande protagonista della regata, alternando edizioni ventose ad altrettante in bonaccia. La Barcolana non è solo una regata, è una emanazione della città. Lo scrittore triestino Paolo Rumiz l’ha definita «un gigantesco evento collettivo in cui la città si riconosce».

 

Trieste ha un rapporto speciale con il suo mare, ne ha forgiato la storia e l’identità. Ed è per questo che, a differenza di altri luoghi, la vela in città è considerata uno sport popolare, che negli anni ha regalato diverse generazioni di velisti vincenti, merito anche dei numerosi circoli presenti in città. Mauro Pelaschier, classe 1949, svariate medaglie al collo, volto simpatico che nasconde tanta esperienza, è il velista triestino per antonomasia. Nelle acque di Newport, al timone di Azzurra, la prima sfida italiana all’America’s Cup, ha fatto conoscere la vela al grande pubblico. E poi Vasco Vascotto, Lorenzo Bressani, Stefano Spangaro, i fratelli Furio e Gabriele Benussi e tanti altri. Per merito di sua maestà la bora, i triestini sono diventati presenza fissa nei migliori equipaggi al mondo.

Ferma restando la centralità della manifestazione sportiva, la Barcolana di oggi è molto diversa dalla prima edizione. Negli anni si è andato costruendo un format vincente, realizzato allargando molto il suo raggio d’azione e fatto di numerosi eventi in mare ed altrettanti a terra, che hanno contributo ad allungare la durata della manifestazione. Se nel 1969 l’evento era limitato esclusivamente nella seconda domenica di ottobre, oggi ha una durata di circa 10 giorni, con notevoli ricadute sul territorio. In occasione della 50a edizione, la Società velica di Barcola e Grignano ha commissionato uno studio al professor Guido Guerzoni dell’Università Bocconi, partner di B2G Strategy, per quantificare il ritorno economico dell’evento. Dallo studio emerge che la Barcolana genera un ritorno economico per la città stimato in 71,5 milioni di euro, a cui si devono sommare 26,5 milioni di euro in termini di copertura mediatica e ritorno d’immagine per Trieste e per il Friuli Venezia Giulia. Inoltre, a fronte di un investimento di 340 mila euro a carico degli enti locali, il ritorno è stato di 6 milioni di euro.

Dal mare alla città, passando per la società civile, la Barcolana negli anni si è fatta portatrice di istanze diverse. L’inclusione delle periferie con progetti ad esse dedicate, il gender equality, la sostenibilità ambientale, sono solo alcuni dei temi che ogni anno ricorrono nella manifestazione, trovando sempre più spazio. È arrivato alla seconda edizione il Barcolana Sea Summit, un evento di 3 giorni in cui istituzioni, comunità scientifica e mondo economico si confrontano sui temi legati al mare, dallo stato di salute alle prospettive economiche di sviluppo. L’evento di quest’anno anticipa gli Stati generali dello Sviluppo sostenibile dell’Alto Adriatico e dell’Europa Centrale, promossi dalla Regione Friuli Venezia Giulia, il cui obiettivo è rafforzare la cooperazione tra i Paesi che si affacciano sull’Adriatico. 

Il percorso di sviluppo intrapreso dalla Barcolana può essere considerato a tutti gli effetti una best practice, come sottolineato nello studio di Guido Guerzoni. Il lavoro di valorizzazione dell’evento passa anche dalla sua internazionalizzazione. Da diversi anni, grazie alla collaborazione di partner storici come Illy e Generali insieme al sostegno delle varie sedi di rappresentanza italiana all’estero, viene organizzato un tour di presentazioni nelle capitali europee. Sono momenti che, oltre a presentare l’evento sportivo in sé, rappresentano un ottimo strumento per valorizzare il territorio e creano nuovi canali di dialogo con istituzioni e mondo economico. La Barcolana diventa così un valido strumento di culture diplomacy.

Mentre in città si respira un’aria festosa e goliardica, i giorni che precedono la regata sono densi di ansie ed attese. I favoriti provano il percorso, mettono a segno la barca, studiano il meteo e gli avversari, con il sogno di entrare festanti nel bacino di San Giusto e raccogliere l’abbraccio del pubblico. Nel mentre, la grande comunità dei velisti giunge in città da ogni angolo del Mediterraneo, pronta ad imbarcare amici e sconosciuti, fare cambusa e immergersi nell’atmosfera che la città le ha preparato. Questa è l’essenza della Barcolana.

 

Immagine: Più di 2000 barche a vela partecipano alla 51a edizione della Barcolana nel Golfo di Trieste (15 ottobre 2019). Crediti: Filippo Ferraro / Shutterstock.com

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Rifiuti a Roma, un problema ancora da risolvere

 

«La spazzatura è diventata il metro per misurare il declino della città». Sono queste le parole di Jason Horowitz, autore dell’articolo pubblicato sul New York Times, usate per descrivere lo stato di abbandono in cui versa la Capitale. Roma vive, e subisce, da anni una gestione pessima del ciclo dei rifiuti, un sistema in perenne emergenza da cui sembra difficile uscire e che negli anni ha fatto i conti con innumerevoli scandali e inchieste giudiziarie. Con i dovuti distinguo, poche differenze emergono tra il centro e la periferia, dove non è difficile imbattersi in cestini ricolmi di rifiuti e a cumuli di spazzatura abbandonati vicino ai cassonetti. Alcune delle responsabilità ricadono evidentemente su una parte dei cittadini, privi di senso civico, turisti inclusi, ma questo non può nascondere le gravi falle del sistema. 

AMA, l’azienda municipalizzata che si occupa della gestione dei rifiuti, presenta numerose inefficienze, possiede un parco mezzi vetusto ed è tra le realtà industriali con il più alto tasso di assenteismo in Italia. Negli anni, una parte importante del ciclo dei rifiuti è stata appaltata a società o consorzi privati, proprietari degli impianti di trattamento dei rifiuti presenti nella Capitale, facendo lievitare i costi ed alimentando sprechi. La città registra un livello della raccolta differenziata tra i più bassi d’Italia, il 46% contro una media nazionale del 61,3%, e produce giornalmente circa 2.600 tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Numerosi sono stati gli incidenti registratisi negli impianti, specialmente nei TMB (Trattamento Meccanico-Biologico), ultimo in ordine cronologico l’incendio verificatosi nel sito di Malagrotta. A causa dell’inadeguatezza degli impianti esistenti, il 30% dei rifiuti della Capitale viene conferito in discarica, a cui si deve sommare una parte consistente che viene spedita in altre regioni d’Italia o all’estero, per un costo di circa 170 milioni di euro all’anno. Buona parte dei rifiuti spediti fuori città viene incenerito, e la produzione di energia elettrica e la relativa commercializzazione rappresentano un doppio guadagno per chi acquista l’immondizia della Capitale. Tutto questo comporta un aumento delle spese di gestione che gravano sul contribuente, motivo per cui a Roma si registra una tariffa della TARI (Tassa sui Rifiuti) più alta rispetto alla media nazionale.

A fronte di un quadro allarmante, l’amministrazione capitolina ha annunciato la volontà di costruire un termovalorizzatore, che, associato alla realizzazione di altri impianti come biodigestori e centri per la selezione della raccolta differenziata, si pensa possa mettere fine al problema atavico della gestione dei rifiuti nella Capitale. La realizzazione del termovalorizzatore ricadrebbe nelle competenze attribuite alla Regione Lazio, ma data l’urgenza il governo ha deciso di affidare tali compiti al sindaco Roberto Gualtieri, già commissario per il Giubileo del 2025. Inoltre, il piano regionale dei rifiuti del Lazio non prevede la costruzione di nuovi impianti come i termovalorizzatori. Il Comune ha già scelto la sede dove verrà realizzato l’impianto, ovvero nell’area industriale di Santa Palomba; sarà progettato per gestire tra le 400 e le 600 tonnellate di rifiuti al giorno, soddisferà il fabbisogno elettrico di circa 150 mila famiglie e avrà un costo previsto di 600-700 milioni di euro. Nonostante la decisione sia stata accolta da molti come un cambio di passo importante nel modus operandi capitolino, ha ricevuto la contrarietà di partiti e comitati dei cittadini, conviti che la soluzione migliore sia quella di potenziare il sistema della raccolta differenziata. Il problema si pone però sulla gestione degli scarti, che impone due strade: l’incenerimento o il conferimento in discarica. Anche se quest’ultima soluzione dovrebbe essere impiegata in maniera residuale, rappresenta ancora la via principale al problema rifiuti, specialmente nel centro e Sud Italia, dove, per mancanza di impianti, si raggiunge una percentuale che oscilla tra il 20-30%.

Ad oggi in Italia sono attivi 37 impianti che inceneriscono rifiuti urbani, di cui 26 situati nel Nord Italia, e che complessivamente trattano 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti, producendo 2,2 milioni di MWh di energia, sia elettrica che termica. In Europa la situazione è ben diversa, Germania e Francia hanno rispettivamente 96 e 126 impianti. A fronte degli impegni presi in sede europea, l’Italia dovrà ridurre il ricorso alla discarica, ma per farlo dovrà accelerare sulla costruzione di nuovi impianti, specialmente nel centro e Sud Italia.

È bene sottolineare come una discarica inquini 8 volte di più rispetto ad un termovalorizzatore, e per questa tipologia di impianti esistono limiti stringenti sulle emissioni. Realizzato dal Politecnico di Milano e da quello di Torino insieme alle università di Trento e di Roma Tor Vergata per conto di Utilitalia, il Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani dimostra scientificamente che gli impianti di nuova generazione, ben progettati e correttamente gestiti, non rappresentano un rischio per la salute dei cittadini. I dati emersi dallo studio dimostrano come le emissioni degli inceneritori siano minime rispetto alle combustioni commerciali e residenziali. Spesso si fa riferimento al moderno impianto di Copenaghen o di Parigi, ma non mancano le best practice anche nel nostro Paese. Ad esempio, l’impianto di Torino ha tre linee di combustione indipendenti, può operare in due assetti (elettrico e cogenerativo) e il recupero energetico dei rifiuti consente di risparmiare 80 mila tonnellate equivalenti di petrolio.

Il Comune di Roma ha già attivato le procedure necessarie alla costruzione del nuovo impianto. Ad oggi, è in corso la VAS (Valutazione Ambientale Strategia) riguardante il nuovo piano rifiuti della Capitale, ed entro la fine dell’anno verrà presentata la manifestazione d’interesse per la costruzione dell’impianto.

Un Paese che ama definirsi a vocazione turistica dovrebbe avere una spinta in più nell’affrontare e risolvere con determinazione la questione dei rifiuti nella sua Capitale. Il nuovo piano del Comune, se attuato, potrà portare certamente beneficio anche se, è bene esserne consapevoli, questo non sarà immediato.

 

Immagine: Cassonetti traboccanti e sacchi della spazzatura sul bordo di una strada a Roma (16 luglio 2022). Crediti: Henk Vrieselaar / Shutterstock.com

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I tanti fronti della crisi energetica

La crisi energetica non sembra trovare una via d’uscita. Il continente europeo è alle prese con una sfida ardua, difficilmente risolvibile nell’immediato, e che con l’arrivo dell’inverno rischia di complicarsi. A seguito dello stallo nel conflitto ucraino, Mosca sta facendo leva sul gas per mettere in difficoltà i Paesi europei, impegnati nella costante ricerca di nuovi partner energetici. Putin, consapevole della fragilità europea e della mancanza di una linea comune tra gli Stati, fa leva sulla vecchia logica del divide et impera, e non manca di sottolineare in modo propagandistico come le sanzioni facciano male anche a chi le commina. Inoltre, desta preoccupazione la decisone presa da OPEC Plus di tagliare la produzione di petrolio di circa 100.000 barili al giorno. Ad oggi, il gasdotto Nord Stream (NS) 1 è fermo e il lieve aumento dei flussi attraverso la direttrice ucraina non basta a soddisfare la fame energetica degli europei. Il Cremlino attribuisce la causa dello stop di NS1 alle sanzioni, ma le aziende occidentali interessate alla manutenzione dell’infrastruttura smentiscono le accuse. In una nota, Siemens ha fatto sapere che il guasto segnalato da Gazprom nella stazione di compressione di Portovaya non è tale da impedire il normale funzionamento dell’infrastruttura.

I minori flussi di gas russo verso l’Europa hanno ridotto notevolmente l’offerta della commodity nel mercato continentale, provocando un continuo rialzo dei prezzi. Inoltre, per limiti tecnici, gli altri fornitori come Qatar e Algeria sono al massimo della loro capacità di esportazione. Questi sono solo alcuni dei motivi per cui il TTF (Title Transfer Facility), il maggiore indice che regola le contrattazioni del gas naturale in Europa, registra ogni giorno massimi storici. È importante sottolineare come l’elevato costo del gas produca effetti negativi su quello dell’energia elettrica, in quanto quest’ultimo viene calcolato sulla base del prezzo della commodity. A fronte di flussi minimi, circa il 60% in meno rispetto al 2021, Mosca incassa molto di più rispetto agli anni precedenti. Secondo le stime di Russia Fossil Tracker, dall’invasione dell’Ucraina ad oggi, Mosca ha incassato dalla vendita di idrocarburi 165 miliardi di euro, di cui 87 miliardi dall’Unione Europea.

I Paesi europei ad oggi sono riusciti a ridurre la dipendenza da Mosca grazie ai nuovi accordi siglati con Algeria, Egitto, Qatar e USA. Il livello di riempimento degli stoccaggi è in linea con i target prefissati da REPowerEU e sono già iniziate le procedure per permettere l’entrata in funzione dei nuovi impianti di rigassificazione. Ma nonostante lo sforzo compiuto, esiste una quota di gas russo che è tecnicamente insostituibile, se non nel medio-lungo periodo. A tal proposito, già nel luglio scorso, Fatih Birol, direttore esecutivo dell’International Energy Agency, aveva messo in guardia gli Stati europei da una probabile interruzione del gas russo, auspicando una riduzione dei consumi. A livello europeo non c’è stata una convergenza sugli strumenti da mettere in campo, almeno fino ad oggi. Nei mesi scorsi si è discusso molto del price cap e sulle modalità di realizzazione di tale strumento, ma la contrarietà di alcuni Stati come Olanda e Germania ne ha ritardato lo studio. Nel frattempo diverse misure sono state messe in campo dai singoli Paesi membri. La via più immediata è stata l’erogazione di sostegni economici a famiglie e imprese finalizzati a calmierare il prezzo delle bollette energetiche, con un esborso non indifferente per le finanze statali. Il governo italiano ha messo sul tavolo circa 50 miliardi di euro, mentre Berlino è pronta a varare un nuovo pacchetto di aiuti per 65 miliardi di euro, che porta il totale a 95 miliardi. Spagna e Portogallo hanno deciso di introdurre un tetto nazionale, ma è stato possibile realizzarlo perché i rispettivi sistemi energetici sono poco integrati rispetto ad altri Paesi. Difficoltà invece si registrano sulla tassazione degli extraprofitti delle imprese e degli operatori energetici.

La chiusura a tempo indeterminato di NS1, seguita da un probabile arresto totale dei flussi del gas russo, e i prezzi elevati hanno cambiato le carte in tavola. Il think tank Bruegel suggerisce un approccio europeo per rispondere in modo coordinato alla crisi energetica basato su 4 punti: flessibilità sul lato dell’offerta, impegno a ridurre la domanda, mantenimento dei mercati energetici e dei flussi transfrontalieri e compensazioni per le realtà più vulnerabili. Secondo Massimo Nicolazzi, esperto del settore energetico, la vera risposta al ricatto russo consiste in un piano di razionamenti e riduzione dei consumi. La road map europea sembra essere tracciata. Il 9 settembre si riuniranno i ministri dell’Energia dell’Unione Europea che dovranno discutere dei seguenti argomenti: price cap, sostegni alle imprese più esposte e disaccoppiamento dell’energia elettrica dal gas. Nel frattempo si registra un ritorno in auge dell’asse franco-tedesco basato su un principio di solidarietà energetica tra i due Paesi: Berlino fornirà energia elettrica a Parigi in cambio di gas. I fatti dimostrano come uno Stato da solo non può farcela. È tempo che l’Europa dimostri la sua maturità.

 

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Immagine: Il gasdotto Gazelle, parte del Nord Stream. Crediti: Kletr / Shutterstock.com

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Una legge per salvare il mare

Dopo 4 anni di lavori, il Parlamento italiano ha finalmente approvato la “legge SalvaMare”, contenete le disposizioni per il recupero dei rifiuti in mare, nelle acque interne e per la promozione dell’economia circolare. La legge rappresenta un passo importante verso la tutela e la salvaguardia dell’habitat marino, sempre più minacciato dalla crescente presenza di rifiuti. Si stima che ogni anno nel mondo vengano riversate in mare quasi 300 mln di tonnellate di plastica, rappresentando circa l’80% del marine litter, le cui conseguenze stanno alterando in modo irreversibile l’ecosistema marino. Per marine litter si intente qualsiasi oggetto industriale che successivamente è stato scartato, eliminato o abbandonato in ambiente marino e costiero. Rispetto ad altri habitat, il mare lo conosciamo poco dal punto di vista scientifico poiché solo il 20% è stato osservato, esplorato e studiato. È importante ricordare come il mare sia essenziale per la vita umana, non solo perché fornisce sostentamento alimentare ed economico, ma perché produce più del 50% dell’ossigeno e assorbe circa il 30% della CO2 emessa nell’atmosfera.

Il fenomeno del marine litter non riguarda solo gli oceani, ma interessa anche il Mare Mediterraneo, dove ogni anno vengono riversate circa 230 mila tonnellate di plastica. Inoltre, l’alta concentrazione di microplastiche, alimentata da un ridotto ricircolo delle masse d’acqua che ne facilita l’accumulo, sta trasformando il Mediterraneo in uno dei mari più inquinati al mondo, provocando danni irreparabili alla straordinaria biodiversità del Mare Nostrum. Fenomeni come l’ancoraggio selvaggio, la pesca a strascico e altre attività antropiche influiscono negativamente sulle praterie sommerse, essenziali per la produzione di ossigeno e la cattura della CO2. Le praterie sono composte essenzialmente da posidonia oceanica, un organismo essenziale per l’ecosistema del Mediterraneo, sottolineato anche dalla direttiva UE Habitat 92/43, perché adempie a diversi compiti: produce ossigeno, offre riparo e funge da area di riproduzione per molte specie ittiche ed infine previene l’erosione costiera. In Italia si stima che oltre il 30% delle praterie sia andato perduto, e il trend per i prossimi anni è destinato a peggiorare.

Nel nostro Paese le iniziative a contrasto del marine litter sono una realtà ben consolidata già da alcuni anni ma, senza un chiaro quadro normativo, rischiavano di rimanere azioni isolate. La legge appena approvata corregge un vulnus legislativo squisitamente italiano, un unicum a livello europeo. Prima della SalvaMare, i pescatori che durante le loro attività raccoglievano in modo accidentale i rifiuti, e successivamente li conferivano a terra, rischiavano di essere denunciati penalmente per traffico illecito di rifiuti. Inoltre, essendo considerati quest’ultimi come rifiuti speciali, i costi dello smaltimento ricadevano in capo al comandante dell’imbarcazione. I pescatori, principali fruitori del mare e consapevoli delle conseguenze legate alla presenza di rifiuti sulle loro attività, erano impossibilitati a offrire un aiuto concreto per contrastare il fenomeno.

La SalvaMare supera questo vulnus, introducendo le definizioni di rifiuti accidentalmente pescati (RAP), quelli recuperati durante le attività di pesca, e di rifiuti volontariamente raccolti (RVR), attraverso appositi sistemi di cattura. I RAP vengono equiparati ai rifiuti prodotti dalle navi, come previsto dalla direttiva europea 2019/883, relativa agli impianti portuali di raccolta per il conferimento dei rifiuti delle navi. Inoltre, diventa gratuito lo smaltimento, da effettuare presso gli appositi impianti portuali di raccolta, e ove non disponibili, presso i centri gestiti dai Comuni. A fronte dell’impegno assunto da pescatori e imprenditori ittici, si prevede la creazione di un sistema di incentivi e riconoscimenti ambientali per il lavoro svolto. La legge dedica anche spazio alla gestione delle biomasse vegetali rinvenute sui litorali, utili a ripristinare le aree danneggiate sia in mare che lungo la costa. Inoltre, conferisce ai Comuni, agli enti gestori delle aree marine protette e alle associazioni ambientaliste la possibilità di attivare nei territori campagne di pulizia.

Oltre a rivedere la normativa sullo smaltimento dei rifiuti, la SalvaMare vuole promuovere, attraverso il supporto del ministero dell’Istruzione, lo sviluppo di un’educazione ambientale nelle scuole, attraverso attività di sensibilizzazione sui temi ambientali e la diffusione delle corrette pratiche sul conferimento e recupero dei rifiuti. Tale disposizione rientra nel solco tracciato dalla modifica costituzionale dello scorso febbraio che introduce, tra i principi fondamentali, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. La SalvaMare diventa un ottimo veicolo attraverso il quale sviluppare una vera economia circolare.

La SalvaMare trae spunto da alcune iniziative attivate sul territorio nazionale che si sono rivelate essere delle vere e proprie best practice, senza le quali difficilmente la legge avrebbe visto la luce. Un valido esempio è stato Arcipelago Pulito, iniziativa promossa nel 2018 da Regione Toscana, Legambiente e Unicoop Firenze,  che, grazie all’aiuto offerto dai pescatori locali, ha permesso di raccogliere 18 quintali di rifiuti che successivamente sono stati riciclati e trasformati in nuovi oggetti. Gli ottimi risultati raggiunti dal progetto hanno trasformato Arcipelago Pulito in una best practice meritevole di essere presentata alle istituzioni europee. Infine, è stato determinante il sostegno offerto da tutti gli stakeholder del mare, dalle associazioni di categoria come Federpesca, Confitarma e Assoporti, alle associazioni ambientaliste come Marevivo e Legambiente. 

La SalvaMare rappresenta un ottimo passo in avanti per contrastare il fenomeno del marine litter, ma non ci si deve fermare qui. Il mare è uno spazio condiviso e serve la reale collaborazione di tutti, istituzioni, imprese e società civile per ottenere un cambiamento tangibile. 

 

Crediti immagine: Canetti / Shutterstock.com

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Mediterraneo, un mare di gas

La ricerca di fonti alternative a quelle russe sta rivitalizzando l’interesse verso le risorse energetiche nascoste nei fondali del Mediterraneo orientale. Con il supporto tecnico delle majors, negli anni precedenti, l’area è stata oggetto di diverse attività di ricerca da parte dei Paesi rivieraschi, suscitando però non poche problematiche, soprattutto dal punto di vista geopolitico. I primi giacimenti ad essere scoperti furono quelli di Tamar e Leviatano nelle acque israeliane, seguiti da Zohr nell’area di competenza egiziana, nonché il più grande sito mai scoperto nel Mediterraneo, ed infine Calipso e Afrodite nelle acque cipriote. Inoltre, la US Geological Survey stima che nel Mar di Levante insistano riserve di gas per un totale di 286.2 trilioni di piedi cubici. 

Per sfruttare parte delle risorse già accertate, nasce il progetto EastMed, un gasdotto sottomarino di circa 2000 km, in grado di collegare i giacimenti Leviatano e Afrodite con l’Europa, attraversando Cipro, Creta e terminando in Grecia. Successivamente, attraverso l’IGI Poseidon, il gas potrà essere convogliato verso l’Italia. Il progetto, portato avanti da una joint venture formata da Edison e DEPA, e sostenuto politicamente da Israele, Cipro e Grecia, ha un costo di circa 6 mld di euro, e nel 2014, la Commissione europea lo definì un progetto di interesse comune. Inoltre, l’infrastruttura venne inizialmente sostenuta dall’amministrazione americana in quanto avrebbe ridotto la dipendenza europea dal gas russo.

La presenza di quantità rilevanti di idrocarburi, unita a un disinteressamento statunitense nell’area, ha riacceso fenomeni di cooperazione-competizione tra gli Stati rivieraschi, interessati allo sfruttamento economico di tali risorse. La conseguenza è stata la ridefinizione di alcune alleanze strategiche tra i Paesi, che hanno contribuito a ridisegnare gli equilibri in questa parte del Mediterraneo. Ne è un esempio l’East Mediterranean Gas Forum, nato ufficialmente nel 2020, e che vede al suo interno Cipro, Egitto, Grecia, Israele, Giordania, Autorità nazionale palestinese, Italia e Francia. Considerato da molti come una sorta di OPEC del gas nel Mediterraneo, l’obiettivo primario dell’organizzazione è quello di creare una piattaforma comune per lo sviluppo energetico condiviso, rafforzando la cooperazione tra gli Stati e coordinando le attività con le imprese private. La Turchia di fatto è esclusa da questo consesso, così come dal gasdotto EastMed, ma ciò non ha impedito ad Ankara lo sviluppo della sua politica marittima, ambendo anch’essa a sfruttare le risorse energetiche presenti.

Erdoğan ha fatto sua la dottrina Mavi Vatan (Patria Blu) elaborata dall’ammiraglio Cem Gürdeniz nel 2006, il cui obiettivo è ritagliare un ruolo di primissimo piano per la Turchia nello scacchiere del Mediterraneo. Tale dottrina si muove su due binari: il riammodernamento della marina e la ridefinizione delle aree marittime. Per questo motivo, Cipro è diventato il pivot su cui si muovono le strategie turche, dove l’esercito occupa dal 1974 la parte nord dell’isola, rivendicandone l’autonomia da Nicosia. Ankara usa la marina per portare avanti la ricerca degli idrocarburi, e non rinuncia a mostrare i muscoli quando altri soggetti interferiscono con le sue attività, come accaduto nel 2018 con la nave Saipem 12000 mentre operava nelle acque di Cipro. Inoltre, la Turchia punta a diventare un hub energetico nel Mediterraneo, potendo contare anche sulle risorse del Mar Nero, come il giacimento di Sakarya, riducendo così la sua dipendenza energetica da Mosca.

Ankara, non riconoscendo l’attuale ripartizione del Mediterraneo orientale, nel 2019 ha firmato un accordo con la Libia, in cambio di un supporto militare al governo di Tripoli, per la ridefinizione delle zone economiche esclusive (ZEE). Queste ultime prevedono l’estensione della giurisdizione dello Stato fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base, consentendo lo sfruttamento delle risorse presenti al loro interno. Qualora le ZEE non vengano definite, il limite delle acque dove uno Stato può esercitare la propria giurisdizione coincide con la piattaforma continentale. La mossa turca ha avuto delle conseguenze, in quanto altri attori, come Grecia, Italia e Egitto hanno firmato ulteriori accordi per definire i propri confini marittimi. Ma la mancata definizione dei confini marittimi e la sovrapposizione delle aree di interesse aumentano il rischio di incidenti, così come avvenuto nell’agosto del 2020, quando una fregata greca si è scontrata con una turca. La questione si complica in quanto entrambi i Paesi sono membri della NATO.

Dopo l’iniziale sostegno al progetto EastMed, gli Stati Uniti hanno fatto un passo indietro, sia per gli alti costi di realizzazione che per l’impatto ambientale che la realizzazione dell’opera comporterebbe. Tale disinteressamento si può spiegare anche come una concessione fatta ad Ankara, evitando che ulteriori contrasti potessero emergere in seno ai Paesi NATO, specialmente tra Francia, Grecia, Italia e Turchia. Inoltre, parte della strategia americana nell’area è indirizzata verso le connessioni elettriche lungo la direttrice nord-sud del Mediterraneo. Nonostante il mancato sostegno americano, Israele, Cipro e Grecia hanno firmato nel 2019 un accordo intergovernativo per portare avanti lo sviluppo energetico in modo condiviso. A lato di questo accordo, Egitto e Grecia hanno dato vita ad un MoU (Memorandum of Understanding) per lo sviluppo comune di infrastrutture energetiche.

La guerra in Ucraina ha rimescolato nuovamente le carte. Durante il recente incontro con i ministri degli Esteri cipriota, greco e israeliano, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ridato chance alla realizzazione di EastMed. Ma i dubbi sulla fattibilità del gasdotto restano. I costi per la costruzione sono elevati, dovuti anche a difficoltà tecniche come la notevole profondità in alcuni passaggi del tracciato, a fronte di una capacità di trasporto limitata, circa 10 mld di m³. Seppur attualmente i prezzi del gas sono tali da giustificare un investimento simile, sul lungo periodo l’infrastruttura rischia di trasformarsi in un asset inutile e costoso. Inoltre, bisogna sempre considerare la situazione geopolitica determinata dalla diversa postura della Turchia rispetto al progetto.

Ma EastMed non è l’unica soluzione. Esiste la possibilità di collegare, tramite gasdotto, i giacimenti già operativi agli impianti di liquefazione egiziani, così da inviare il gas via nave in Europa, rendendo in tal modo più liquido il mercato, con costi e tempi di realizzazione inferiori a EastMed. La presenza di idrocarburi e il relativo sfruttamento rappresentano una via di sviluppo per i Paesi dell’area, alcuni dei quali devono affrontare un trend demografico in crescista a cui seguirà un conseguente aumento del consumo interno delle risorse. Molto dipenderà dalle strategie e dalle capacità di ogni singolo Paese di portare avanti i propri piani di sviluppo. Infine, rimane centrale l’aspetto legato alla definizione più o meno puntuale delle rispettive aree di competenza, tali da mitigare il rischio di nuovi problemi geopolitici.   

 

Immagine: Piattaforma petrolifera e del gas, Cipro. Crediti: Andriy Markov / Shutterstock.com

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Tra Covid e guerra, le difficoltà del trasporto marittimo globale

 

Il lockdown a Shanghai e il successivo ingorgo navale registratosi nel porto hanno riacceso i riflettori sul trasporto marittimo e sulle catene logistiche. Il trasporto navale è di estrema importanza per il commercio globale poiché quasi il 90% delle merci viene spedito via mare.

Shanghai è il primo scalo al mondo per volumi di merci movimentate, il che lo rende un hub strategico per il commercio. Inoltre, se si osserva la top ten dei porti a livello mondiale, ad esclusione di Rotterdam, figurano solo terminal situati nel Sud-Est asiatico, di cui sei sono cinesi. La predominanza di tali scali è data dal fatto che questa determinata area geografica è diventata negli anni la fabbrica del mondo, cosa che ha concorso a strutturare le principali rotte navali, che hanno permesso alle merci prodotte in questa zona di accedere ai mercati più redditizi. Infatti, i volumi movimentati nella via euroasiatica e transpacifica vedono una prevalenza dei prodotti asiatici rispetto a quelli europei o americani.

Il rallentamento delle attività portuali a Shanghai è figlio della strategia zero Covid attuata dalle autorità cinesi, la quale prevede screening di massa e lockdown molto rigidi. La scarsa efficacia del vaccino Sinovax contro le varianti del Covid-19 è tra le cause principali che hanno portato la Cina ad attuare tale strategia. Non è bastato isolare i lavoratori, creando delle vere e proprie bolle all’interno del porto. Mancano gli operatori e il flusso di camion non è sufficiente a soddisfare le attività delle banchine. La mancanza di personale si registra anche a bordo delle navi. La maggior parte degli equipaggi sono composti da personale proveniente dal Sud-Est asiatico, dove il tasso di vaccinazione è molto basso, provocando un mancato ricambio, seguito da un aumento del periodo trascorso in mare rispetto ai termini contrattuali previsti.

Le problematiche esposte comportano un dispendio di tempo importante, 12 giorni contro una media di 5, che si traduce in un successivo aumento dei costi, di per se già elevati per le conseguenze dovute alle pandemia. Per esempio, confrontando i dati del 2021 con quelli del 2019, si può notare un exploit dei prezzi relativi ai container, dai 1.421 ai 7.556 dollari, ed una dilatazione dei tempi medi di consegna, da 39 a 68 giorni. Alcuni effetti si vedono già, dove porti europei come Rotterdam ed Amburgo iniziano ad essere congestionati, ma per avere un quadro chiaro della situazione bisogna ancora attendere.

I problemi relativi al porto di Shanghai si sommano con quelli derivanti dalla guerra. L’Ucraina è un Paese importante in quanto esportatore di materie prime, semilavorati e componentistica per auto. L’invasione russa ha di fatto bloccato l’export, poiché i suoi porti principali, Odessa e Mariupol′, sono andati distrutti o sono stati resi inaccessibili dalla presenza di mine subacquee. I rischi per la navigazione hanno allontanato diversi operatori, i quali hanno rinunciato ad operare anche in Russia per il timore di finire vittima delle sanzioni. Le rotte che partono dal Mar Nero sono fondamentali per Ucraina e Russia, in quanto via di comunicazione diretta per la vendita dei propri prodotti. Ad esempio, quasi il 60% del grano ucraino viene trasportato via mare, mentre per quanto riguarda la Russia, parliamo del 65% dell’export totale e del 38% del petrolio venduto all’estero. Inoltre, le ripercussioni della guerra rischiano di intaccare l’operatività degli scali di altri Paesi rivieraschi come Costanza e Varna.

La situazione del Mar Nero ha contribuito ad aumentare i premi assicurativi per le società che ancora ci navigano. La situazione si complica per la presenza di mine vaganti, causata dalla rottura degli ormeggi, alcune delle quali trovate in corrispondenza del Bosforo dalla Marina turca. Se tali dispositivi venissero rinvenuti all’interno del canale, le conseguenze per la navigazione sarebbero pesanti. Ritornano, quindi, d’attualità i problemi relativi ai colli di bottiglia, tipici del traffico marittimo. Nel caso del Bosforo, la Turchia, tramite la Convenzione di Montreux, ne ha il completo controllo, consentendo la libera circolazione al traffico commerciale e riservandosi di chiudere gli stretti in caso di guerra. Oltre al Bosforo, altri punti sensibili sono gli stretti di Malacca, Hormuz, Bab al-Mandab ed infine i canali di Panamá e Suez. Lo sviluppo di navi container sempre più grandi ha spinto le autorità dei Paesi su cui ricade il controllo dei canali ad adeguamenti strutturali tali da permettere il transito delle megaship. Ma gli eventi recenti riguardanti la nave Ever Given nel Canale di Suez hanno dimostrato la vulnerabilità di queste importanti vie di comunicazione.

Al di là delle difficoltà riscontrate dal settore, il commercio marittimo offre ottime prospettive di sviluppo ai Paesi che vogliono investire nelle proprie infrastrutture portuali e logistiche. Dopo anni di immobilismo, l’Italia sta riscoprendo pian piano l’importanza dei suoi porti, giustificata soprattutto dalla posizione geografica del nostro Paese nel Mediterraneo. Trieste, Genova e il rinnovato interesse per Taranto e Gioia Tauro sono un ottimo segnale, ma molto deve essere ancora fatto, soprattutto dal punto di vista dei collegamenti intermodali. Il PNRR ha delineato alcune chiavi di sviluppo, ma è necessario che la politica nazionale e locale comprenda la centralità del mare per lo sviluppo del Paese.

Gli eventi recenti stanno portando significative trasformazioni nella logistica a livello mondiale, dove i grandi player del mercato fanno riferimento sostanzialmente a tre grandi alleanze: 2M Alliance, Ocean Alliance e The Alliance. Questi agglomerati non si limitano solo a fornire le navi per il trasporto delle merci, ma hanno iniziato a operare anche a terra, aggiungendo nuovi servizi, come ad esempio la gestione dei terminal e la consegna al destinatario finale. Inoltre, l’interruzione delle catene logistiche sta rimodulando il commercio mondiale, registrando una tendenza verso una maggiore regionalizzazione, segnando un ritorno all’accumulo di scorte strategiche. Le sfide per il settore sono molteplici, tra cui la sostenibilità ambientale, dove sta diventando una priorità l’utilizzo di carburanti meno inquinanti. Di qui la necessità di investire anche nelle infrastrutture portuali, puntando molto sull’elettrificazione delle banchine e trasformando i porti in hub energetici.

 

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Immagine: Navi al largo del porto di Shanghai, Mar Giallo, Cina. Crediti: Igor Grochev / Shutterstock.com

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Le incognite del GNL

Il protrarsi della guerra in Ucraina e la difficoltà nel trovare una soluzione che ponga fine alle ostilità stanno rendendo sempre più difficile e complicata da gestire la dipendenza energetica europea nei confronti della Russia. Alcuni giorni fa, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione per imporre un embargo totale verso le risorse energetiche russe, trovando, però, la diffidenza delle cancellerie europee.

Tramite REPowerEu, la Commissione europea  ha dato molta rilevanza all’aumento delle importazioni di GNL (Gas Naturale Liquefatto), soprattutto di provenienza statunitense, con l’obiettivo di calmierare la dipendenza da Mosca. Il GNL è gas naturale reso liquido attraverso un processo di condensazione, che permette di ridurne drasticamente il volume, così da essere trasportato via nave in notevoli quantità. Ha assunto negli anni un ruolo importante nel processo di decarbonizzazione del settore dei trasporti, soprattutto per quanto riguarda quello navale e il trasporto su gomma.

Il soccorso da parte dell’amministrazione americana ai partner europei si è manifestato tramite un accordo per portare più GNL nel vecchio continente, fissando la quota di 50 mld di m³, da raggiungere entro il 2030. Tale accordo impegna l’Europa sul medio-lungo periodo per due motivazioni: evitare che gli Stati europei ricadano tra le braccia di Mosca e permettere di ripagare gli investimenti nella produzione e nella costruzione degli impianti.

Dopo gli USA, l’Europa si è rivolta al Qatar, secondo produttore al mondo di GNL. Oltre agli Stati Uniti e il Qatar, l’Australia è il terzo Paese per capacità produttive, il cui mercato di riferimento è però principalmente il Sud-Est asiatico. Potendo sfruttare direttamente le risorse della penisola di Jamal, anche la Russia rappresenta un player nel mercato del GNL, seppur in maniera poco rilevante.

Oltre agli Stati sopracitati, le cancellerie europee sono alla continua ricerca di nuovi partner alternativi alla Russia. L’Algeria, ad esempio, è uno dei Paesi con la più grande riserva di gas di scisto al mondo, ma il comparto petrolifero nazionale soffre il mancato sviluppo ed adeguamento infrastrutturale, necessario a produrre più gas da destinare all’export. A pesare è l’incertezza politica che aleggia sul Paese, che potrebbe portare a considerare l’Algeria un fornitore non del tutto affidabile. Non solo. Diversi Stati africani ricchi di gas naturale, tra cui spicca l’Egitto, stanno rafforzando in Europa le partnership energetiche, mirate soprattutto allo sviluppo infrastrutturale.

Nonostante gli sforzi della Commissione, alcuni problemi strutturali impediscono lo sviluppo di tale strategia in tempi brevi. La notevole differenza di prezzo rispetto al gas russo, inoltre, rende il ricorso al GNL particolarmente oneroso. L’attuale produzione mondiale di GNL, infatti, non è tale da sostituire il gas russo, anche perché gli impianti dove viene liquefatto il gas lavorano già a pieno regime. Per il Financial Times, il GNL confluito in Europa non proviene da un aumento della produzione quanto da un re-indirizzamento delle metaniere dal Sud-Est asiatico al vecchio continente.

Il maggior guadagno dato dalla vendita sul mercato europeo compensa eventuali penali per la mancata consegna dei carichi verso i mercati a cui era stato originariamente destinato. Attualmente navigano nel mondo 642 navi metaniere, e lo sviluppo del GNL porta ogni anno alla costruzione di nuove unità. Alla luce dei limiti strutturale presenti, Stati Uniti e Qatar stanno lavorando per espandere la propria capacità di liquefazione, portando avanti rispettivamente lo sviluppo dei siti di Calcasieu Pass e di North Field.

I problemi tecnici, però, non si fermano ai Paesi produttori. Un altro collo di bottiglia è rappresentato dalla disfunzionalità della capacità di rigassificazione europea, dove gli Stati del bacino del Mediterraneo sono più avvantaggiati rispetto a quelli del Nord Europa. Sebbene la Spagna sia il Paese con la capacità di rigassificazione più alta, la sua rete è mal collegata con il network delle pipeline europee. Inoltre, il ricorso massiccio al GNL potrebbe essere controproducente per tutti quei Paesi che non possiedono tali strutture, e soprattutto per gli Stati dell’Europa centrale che non possiedono uno sbocco sul mare che consenta loro la costruzione di un terminale.

Avendo puntato molto sul sistema di Nord Stream, e sul gas russo, la Germania ad oggi non possiede nessun terminal di rigassificazione. Per questo motivo il governo Scholz è corso ai ripari, annunciando l’intenzione di opzionare quattro rigassificatori galleggianti (FSRU, Floating Storage and Regasification Units). Rispetto alla strategia tedesca, la Lituania, dopo l’annessione della Crimea, ha deciso di staccarsi dal gas russo costruendo un rigassificatore, che non solo le ha permesso di diventare indipendente da Mosca, ma che può anche soddisfare parte delle richieste degli Stati confinati, come Lettonia e Polonia. Quest’ultima possiede già un rigassificatore operativo da alcuni anni e il governo polacco ha annunciato la volontà di realizzarne un altro.

Attualmente in Italia sono presenti tre rigassificatori, situati a Panigaglia (La Spezia), Livorno e Porto Viro (Rovigo), la cui capacità è di circa 16 mld di m³. La crisi energetica in atto ha ridato attualità i progetti riguardanti la costruzione di due terminal di rigassificazione, rispettivamente a Porto Empedocle (Agrigento) e Gioia Tauro (Reggio Calabria). Contestualmente, il governo è intenzionato a ricorrere ai rigassificatori galleggianti, che consentirebbero un risparmio in termini di tempo rispetto alla realizzazione di un impianto sulla costa. Alla luce della situazione attuale, il nostro Paese paga la scelta di non aver potato avanti con determinazione la costruzione di alcuni rigassificatori, tra cui spicca il progetto di British Gas nel porto di Brindisi.

I limiti tecnici rendono il GNL un’alternativa costosa e non facilmente realizzabile in tempi brevi. Di qui la scelta degli Stati europei, anche grazie ad un certo attivismo italiano, di implementare parallelamente le partnership con i Paesi verso cui esistono già infrastrutture in funzione, aumentandone i flussi. L’incognita resta sulle quantità aggiuntive che tali Paesi sono in grado di garantire e i relativi tempi di implementazione. C’è, infine, da chiedersi se ulteriori massacri perpetrati dall’esercito russo ai danni del popolo ucraino spingeranno gli Stati europei a considerare inevitabile l’embargo, con tutti i danni collaterali che una sua eventuale realizzazione comporterebbe. 

 

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Immagine: La LNG tanker Arctic princess nel Mar Baltico, Klaipeda, Lituania (16 maggio 2017). Crediti: Vytautas Kielaitis / Shutterstock.com

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Il costo della dipendenza energetica

La concatenazione di alcuni eventi rappresenta la causa principale dell’attuale esplosione dei prezzi legati alle commodity, i cui effetti stanno minando settori importanti dell’economia globale. Energia e materie prime spaventano quotidianamente i mercati, obbligando i governi e le istituzioni economiche mondiali a porre un argine per mitigarne gli effetti. A fronte di una disponibilità limitata, la ripresa post-pandemia ha comportato un aumento della domanda energetica da parte delle imprese, provocando un costante incremento dei prezzi.

In Europa hanno influito fattori di carattere tecnico come lo stop ad alcuni reattori nucleari ed una minore generazione elettrica nei parchi eolici offshore del Nord Europa. Pur rappresentando una parte minoritaria del consumo totale, la produzione europea di gas naturale ha registrato un calo dovuto sia al progressivo esaurimento del giacimento di Groningen in Olanda, che da una minore estrazione nei siti del Mare del Nord. Inoltre, dall’estate del 2021, la Russia, principale fornitore di gas naturale per l’Europa, ha ridotto i flussi verso ovest. Il motivo di tale scelta risiede nella mancata autorizzazione del gasdotto Nord Stream (NS) 2, osteggiato da alcuni Paesi europei, sostenuti dagli USA, ma proposto dal Cremlino come la migliore soluzione al problema energetico.

Secondo le stime dell’italiana ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente), il prezzo del gas in Europa nel 2021 è cresciuto del 500%, passando dai 21 ai 120 euro a MWh. Conseguentemente, l’utilizzo del gas naturale come fonte primaria ha generato un aumento del prezzo dell’energia elettrica. Ad esempio, in Europa il 22% dell’elettricità viene prodotta bruciando gas, percentuale che diventa notevolmente più alta in Italia. La generazione elettrica attraverso fonti fossili è strettamente collegata con l’ETS (Emission Trading System), ovvero le quote di emissione di CO2. Questi certificati sono stati pensati per incentivare la transizione verso fonti energetiche più sostenibili, vengono scambiati su mercati a loro dedicati, e il loro numero si riduce negli anni aumentandone il valore.

La brutale invasione russa ai danni dell’Ucraina è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, dimostrando come gli eventi geopolitici condizionino fortemente il mercato. Con NS2 bloccato e il gasdotto Yamal-Europe a mezzo servizio, l’Ucraina rimane la direttrice principale del gas russo verso ovest.

Per comprendere come vengono determinati i prezzi del gas, è necessario fare alcune premesse. Il petrolio ha una contrattazione globale che si basa su due indici: il WTI (West Texas intermediate) e il Brent, rispettivamente riferiti alle produzioni americana ed europea. Diverso è invece per quel che riguarda il gas naturale, il cui mercato è tendenzialmente regionale data la sua difficoltà nel traporto. Nonostante il GNL (Gas Naturale Liquefatto) si stia diffondendo, il mercato europeo si basa principalmente su infrastrutture rigide come i gasdotti, che legano produttore e consumatore in modo quasi indissolubile.

Rispetto al contesto europeo, in Nord America è molto diffuso lo shale gas ottenuto tramite fratturazione idraulica, il che ha permesso agli Stati Uniti di rendersi energeticamente indipendenti a tal punto da diventare esportatori. Questo consente di avere un prezzo della commodity relativamente contenuta rispetto all’Europa. Le quotazioni del gas americano sono decise attraverso l’Henry Hub, il mercato più liquido ed importante al mondo.

Il declino della produzione europea e le ataviche problematiche dei Paesi nordafricani hanno spinto diversi Stati europei a rivolgersi sempre di più alle immense riserve russe. Gazprom gode di fatto di una posizione dominante nel mercato europeo, coprendo circa il 50% del totale, grazie anche al sistema infrastrutturale appositamente costruito durante il periodo sovietico per convogliare il gas russo verso ovest.

Il prezzo del gas è correlato alla tipologia dei contratti posti in essere tra i Paesi produttori e quelli consumatori. Esistono due strumenti di compravendita: i take or pay e i contratti spot.  I primi sono accordi di lungo periodo, dove il Paese importatore si impegna a pagare il volume concordato con il produttore ad un prezzo indicizzato all’andamento del petrolio, anche se i consumi sono inferiori a quelli pattuiti. La durata di tale accordo consente di ripagare negli anni l’investimento relativo all’infrastruttura e rendere affidabile il fornitore. Inversamente, i contratti spot hanno durata breve e i prezzi si determinano in base alla dinamica della domanda-offerta del gas naturale, e quindi slegati dall’andamento del greggio. Tale strumento viene contrattato negli hub, ossia i punti di snodo delle pipeline, ma possono essere anche virtuali. La riduzione dei consumi europei di gas e lo sviluppo del GNL hanno portato negli anni a fare sempre più ricorso ai contratti spot perché ritenuti più convenienti, portando anche alla rinegoziazione dei contratti take or pay. Almeno fino ad oggi.

Il principale hub dove vengono stabiliti i prezzi del gas in Europa è il TTF (Title Transfer Facility o Dutch TTF gas), con sede in Olanda, centrale per il mercato continentale. Tale piattaforma permette la compravendita di gas naturale all’ingrosso e vi partecipano i principali produttori, fornitori e trader del mercato. Il calcolo avviene su base mensile facendo una media delle quotazioni giornaliere, al quale poi i vari operatori applicheranno un certo margine quando il gas verrà immesso nel mercato destinato a famiglie e imprese. Al pari del TTF, anche il nostro Paese possiede il proprio hub, ossia il PSV (Punto di Scambio Virtuale), gestito da SNAM. Nonostante esista il PSV, il prezzo del gas indicizzato in Italia fa ancora riferimento al TTF, in quanto mercato molto più ampio, strutturato e liquido. Per tutti i contratti indicizzati a TTF, o PSV, abbiamo un prezzo spot, dove la consegna della commodity avviene nell’immediato.

In condizioni normali, il mercato del gas risente della stagionalità, comportando un aumento nei periodi invernali, compensato da una riduzione nei mesi estivi. Ma per le ragioni elencate precedentemente, i prezzi stanno subendo un’impennata la cui fine non è facilmente determinabile. Pesa l’errore fatto in passato da parte dell’Europa di voler indicizzare ai prezzi spot una parte consistente delle forniture di Gazprom. Nel 2020, erano stati indicizzati circa il 57% dei contratti in essere con il gigante di Stato russo. Appare chiaro come il mercato del gas naturale, assieme a quello elettrico e dell’ETS, sia altamente collegato con il mondo finanziario e non impermeabile ai movimenti speculativi. Nonostante a marzo Gazprom abbia pompato quantità maggiori di gas rispetto ai mesi precedenti, i mercati rimangono instabili, e su questi pende la spada di Damocle rappresentata da ulteriori sanzioni. A causa dello shock energetico, la BCE ha accertato una riduzione dello 0,5% della crescita del PIL europeo.

Per tamponare l’emorragia, l’Unione Europea è corsa ai ripari, varando REPowerEU, il piano che consentirà all’Europa di affrancarsi dal gas russo. Si punta ad una maggiore diversificazione delle fonti, ad aumentare le forniture di GNL e, infine, a incentivare il biometano e l’idrogeno. Il piano è certamente ambizioso, ma la realtà è ben diversa. Ricorrere nell’immediato al GNL per sostituire parte del gas russo è economicamente insostenibile e la produzione mondiale di GNL attualmente non è tale da compensare le richieste europee. Per dare un ordine di grandezza, il GNL costa 5 volte il gas russo. Inoltre, la capacità di rigassificazione europea, seppur sostanziosa, non è integrata con il sistema di pipeline esistenti. Alcune fratture sono già emerse, dove i Paesi mediterranei spingono per inserire nella proposta un tetto ai prezzi del gas, che vede la contrapposizione dei Paesi del Nord. Inoltre, i prezzi potrebbero rimanere molto alti se venisse applicata la proposta di raggiungere il 90% di riempimento degli stoccaggi europei.

In attesa di una decisione unanime a livello europeo, gli Stati si stanno muovendo in ordine sparso. L’Italia ha rafforzato le partnership preesistenti, e ne sta intavolando altre, ma non è ancora chiaro quando tali accordi verranno implementati e, soprattutto, quanto gas garantiranno. La recentissima scoperta di un giacimento in Algeria, lo sfruttamento di Zohr e il ritorno in auge del progetto Est Med, potrebbero trasformare il nostro Paese nell’hub energetico per l’Europa. C’è da chiedersi, infine, quanto (e se) l’Europa sarà disposta a pagare per affrancarsi dal gas russo.

 

Fonti 

IEA (International Energy Agency):

https://www.iea.org/fuels-and-technologies/electricity

 

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale):

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/europa-economia-di-guerra-34191

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/russia-ucraina-gas-chi-rischia-di-piu-33064

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/transizione-green-ostaggio-di-guerra-34182

https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ispitel-speciale-russia-ucraina-alla-ricerca-del-gas-perduto-34234

 

StartMag:

https://www.startmag.it/energia/prezzo-gas-europa-amsterdam/

https://www.startmag.it/energia/quote-co2-prezzo-energia-elettrica-bollette/

 

 

https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/qanda_22_1512

https://luce-gas.it/guida/mercato/psv

https://luce-gas.it/guida/mercato/ttf-gas

https://www.reuters.com/business/energy/us-lng-exporters-emerge-big-winners-europe-natgas-crisis-2022-03-09/

https://www.reuters.com/business/energy/europe-faces-struggle-escape-russian-gas-this-year-2022-03-17/

https://www.ft.com/content/75ae0968-c95d-4c1f-b86d-161759c1cae6

https://www.washingtonpost.com/politics/europe-faces-pressure-to-join-boycott-of-russian-oil-and-gas/2022/03/09/2776179c-9fc1-11ec-9438-255709b6cddc_story.html

 

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Immagine: Tubi con il logo di Gazprom predisposti per il trascinamento e la posa durante la costruzione di un tunnel sotto il canale Saimaa per il gasdotto Nord Stream, Regione di Leningrado, Russia (11ottobre 2012). Crediti: Alexander Chizhenok / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Il_sistema_energetico_italiano.html

Il sistema energetico italiano di fronte alla guerra in Ucraina

 

L’invasione dell’Ucraina ha peggiorato la crisi energetica europea, colpendo maggiormente quei Paesi che basano il loro mix energetico sul gas naturale e che dipendono fortemente dagli approvvigionamenti esteri. La sicurezza energetica di tali Paesi è messa a dura prova, e i governi sono chiamati ad affrontare una radicale revisione della propria politica energetica. Quando si parla di sicurezza energetica si deve intendere la capacità di uno Stato di accedere a forniture affidabili pagando un prezzo ragionevole. Tale concetto si fonda su due elementi: la reliability e l’affordability. Per reliability si intende l’affidabilità nell’approvvigionamento delle materie prime, mentre con affordability si fa riferimento alla garanzia che i prezzi degli idrocarburi non subiscano variazioni improvvise ed eccessive. I due elementi sono connessi ad altrettante tipologie di rischi: uno tecnico, legato all’infrastruttura di trasporto (vedasi i gasdotti), ed uno politico, determinato da instabilità. Le vicende ucraine ne fanno un caso esemplare.

Il sistema energetico italiano è basato sul gas naturale, impiegato principalmente nel riscaldamento e nella produzione di energia elettrica, coprendo circa il 48% del mix energetico. In meno di vent’anni, la produzione nazionale è passata dai 20 mld di m³ registrati nel 1994 agli attuali 3-4 mld. Pertanto, la produzione nazionale riesce a soddisfare solo il 5-6% dei consumi totali, mentre la restante parte viene compensata dalle importazioni, per un totale complessivo che nel 2021 ammonta a 76.1 mld di m³.

Fino a poche settimane fa, la Russia copriva circa il 40% del fabbisogno di gas naturale italiano. A seguito dell’invasione dell’Ucraina e della seguente decisione di affrancarsi dal gas russo, il ministro Cingolani ha annunciato che serviranno dai 24 ai 30 mesi per diventare indipendenti da tale fornitore. Contestualmente, Eni ha preparato il terreno affinché il governo italiano possa accedere a forniture extra da parte degli altri fornitori. Dopo l’Algeria e il Qatar, il ministro Di Maio si è recato in Congo e in Angola, accompagnato dall’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi.

In anticipo rispetto ai parametri UE, l’Italia si è impegnata entro il 2025 a smantellare o convertire in centrali a gas gli attuali 7 impianti a carbone ancora in funzione. Da notare che le centrali a gas servono a sostenere i picchi energetici e a compensare l’incostanza delle fonti rinnovabili, il cui sviluppo porterà nel tempo ad un utilizzo sempre meno frequente di questi impianti.

Per mettere in sicurezza il sistema, una soluzione prospettata sarebbe quella di aumentare la produzione nazionale e destinarne una quota per quelle imprese che utilizzano il gas naturale per alimentare i propri cicli produttivi. Poche settimane fa il Governo ha pubblicato il Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI), il documento che disciplina le aree idonee all’estrazione di idrocarburi, andando in controtendenza rispetto alla moratoria del 2019 che di fatto bloccava le nuove concessioni. Si stima che le risorse ammonterebbero tra i 70-90 mld di m³, distribuiti principalmente tra il Mar Adriatico e il Canale di Sicilia. Eni, che produce buona parte del gas estratto in Italia, sarebbe pronta ad implementare la produzione grazie agli asset già presenti e ai nuovi giacimenti ancora inutilizzati. I tempi di realizzazione non certo brevi e la netta opposizione dell’opinione pubblica e delle amministrazioni locali, tuttavia, rendono difficilmente percorribile questa soluzione.

Una valida alternativa all’aumento delle estrazioni nazionali potrebbe essere lo sviluppo del biometano il cui mercato è ancora limitato ma con ottime prospettive di crescita. Il biometano viene prodotto sfruttando gli scarti agricoli o la frazione organica dei rifiuti solidi urbani (FORSU), il che lo rende una fonte rinnovabile e quindi più vantaggioso rispetto al gas naturale estratto dal sottosuolo. Inoltre, può sfruttare le pipeline e i sistemi di stoccaggio esistenti senza alcun tipo di modifica. Attualmente in Italia esistono una trentina di siti produttivi che immettono biometano nella rete nazionale, e molti degli impianti che oggi producono biogas potrebbero essere convertiti. Il potenziale di crescita è tale che il Consorzio italiano biogas stima una produzione di circa 8.5 mld di m³ raggiungibile tramite la riconversione. I grandi player del gas naturale come SNAM hanno inserito tale tecnologia nei propri piani strategici, in quanto strumento utile nel processo di decarbonizzazione, specie nel settore dei trasporti.

L’altra grande componente del mix energetico italiano è rappresentata dalle rinnovabili la cui crescita è stata costante negli anni e si spera avranno un ruolo sempre maggiore grazie allo sviluppo di nuove tecnologie. Proprio in tale ottica, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) ha stabilito alcuni target, come ad esempio l’installazione di tecnologie rinnovabili per una potenza stimata in 7-8 GW annui fino al 2030. Rispetto ai programmi, nel 2021 sono stati messi a dimora impianti per poco meno di 1 GW di potenza installata.

Il 41% dell’energia rinnovabile in Italia è prodotta attraverso l’idroelettrico, chiamato anche il carbone bianco, che può contare su 4.300 impianti a fronte di una produzione annua di 46 TW. Ma c’è un problema. Buona parte degli impianti sono vecchi e necessitano di investimenti per essere riammodernati, il che non solo li renderebbe più efficienti, ma ne aumenterebbe la capacità produttiva.

Nel 2020 sono stati installati circa   nuovi parchi solari per una potenza installata di circa 750 MW, molti dei quali con una potenza non superiore ai 20 KW. Ad oggi, il fotovoltaico ha una potenza installata di circa  , prodotta, per ovvie ragioni, principalmente nel Sud del Paese. Nonostante il PNIEC abbia posto come obiettivo il raggiungimento dei 52 GW di potenza installata entro il 2030, pesa l’incognita degli iter autorizzativi, specie quelli riguardanti i grandi parchi. Un altro problema riguarda il consumo di suolo, visto e considerato che il 41% degli impianti fotovoltaici presenti in Italia sono poggiati sul terreno. Per quel che riguarda l’eolico, la parte onshore può contare su 5.645 impianti a fronte di una potenza installata di 10 GW, incrementabile grazie al repowering.

L’eolico ha alcuni vantaggi tecnici rispetto al solare, è meno intermittente e può essere installato in mare. Pochi giorni fa è stata completata l’istallazione della prima delle 10 pale eoliche che comporranno il primo parco eolico offshore italiano e nel Mediterraneo, il cui iter autorizzativo è iniziato nel 2008. Il governo si è impegnato con le istituzioni europee ad installare parchi offshore entro il 2030 per 1 GW di potenza. Le nuove tecnologie permettono di installare le turbine anche su piattaforme galleggianti ancorate al fondale, consentendo la creazione di impianti lontano dalla costa dove il vento è più costante. Ma il costo di realizzazione raddoppia rispetto a quelle poggiate sul fondale tramite piloni e triplica rispetto a quelle onshore.

In Europa sono già attivi 116 parchi ed attualmente è in fase di realizzazione Hornsea 2, il più grande parco offshore al mondo. Diversi progetti sono stati presentati o sono in fase autorizzativa, come quello di Odra, finalizzato all’installazione di 90 turbine galleggianti di fronte alle coste del Salento e capace di produrre 4 TWh ogni anno.

La transizione energetica è un processo necessario e ambizioso che deve, però, fare i conti con alcune criticità. Per Paesi come l’Italia, il disimpegno dal gas naturale in tempi brevi è irrealistico e l’inserimento di tale combustibile nella tassonomia verde della Commissione europea in parte ne conferma questa condizione. Inoltre, la Commissione europea ha varato RePower Eu, il piano per affrontare la crisi energetica e la necessità di rendere il continente indipendente dalle fonti russe. Oltre alla diversificazione degli approvvigionamenti, la Commissione punta a costruire un sistema di stoccaggio e di acquisto comune del gas naturale, incentivando anche lo sviluppo del biometano.

Il sostegno statale ad imprese e famiglie è utile nel breve termine, ma diventa economicamente insostenibile sul lungo periodo. Il decisore politico è chiamato ad una riflessione sull’attuale politica energetica e domandarsi quali siano gli strumenti migliori per permettere un approvvigionamento energetico al sistema Paese più sicuro ed efficiente. Il nucleare è tornato ad essere argomento di dibattito politico, ma un ritorno a tale tecnologia contrasta con alcune decisioni prese nel passato, potenzialmente rivedibili, e con l’incapacità di un Paese che è ancora alle prese con la costruzione del deposito nazionale delle scorie nucleari. I target che l’Italia si è imposta di raggiungere grazie alle rinnovabili è altamente sfidante, ma pone anche un problema in termini di fattibilità. Molti impianti sono già vecchi ancor prima di essere realizzati perché l’iter autorizzativo è stato troppo lungo (mediamente ci si impiega dai 5 ai 7 anni) costringendo ad una riprogettazione che sottrae ulteriormente tempo. E quando la burocrazia arriva a fatica al traguardo, il fronte del no è pronto ad alzare le barricate. La transizione richiede uno stato efficiente che sia all’altezza delle aspettative, altrimenti i piani ambiziosi crolleranno come castelli di carta.

 

Immagine: Paesaggio con un parco eolico nella provincia di Trapani. Crediti: Fotokon / Shutterstock.com

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Fermo il gasdotto Yamal-Europe. Quali implicazioni?

Il conflitto ucraino e la forte dipendenza dalle commodity russe stanno spingendo i Paesi europei a rimodellare i propri sistemi energetici. Non è una sfida semplice, occorrerà del tempo prima che gli strumenti messi in campo diano gli effetti sperati. Ad oggi è impensabile, ed oltremodo impossibile, rinunciare alle forniture di Gazprom. Di qui la scelta, per il momento, da parte delle istituzioni europee di non inserire Gazprombank nella lista degli istituti tagliati fuori dal sistema dei pagamenti internazionali, consentendo agli Stati europei di pagare regolarmente le forniture. Come sottolinea Massimo Nicolazzi, esperto del settore energetico, i gasdotti sono forme di unioni quasi inscindibili tra giacimenti e Paesi di destinazione. 

Se l’approvvigionamento attraverso l’Ucraina appare stabile, non si può dire lo stesso per quel che riguarda la Bielorussia. L’agenzia tedesca Gascade ha notato una riduzione del flusso attraverso il gasdotto Yamal-Europe, per poi interrompersi il 3 febbraio scorso. Già a dicembre lungo la stessa direttrice si erano registrate notevoli interruzioni, portando la sezione tedesco-polacca del gasdotto ad operare in reverse flow. Il gasdotto ha una capacità di trasporto di 33 mld di m e copre una quota di circa il 10% dell’export di gas russo verso l’Europa, alimentando i fabbisogni energetici di Polonia e Germania.

Lo Yamal-Europe fu il primo gasdotto costruito in epoca postsovietica da Gazprom, e rappresentava parte della nuova strategia energetica russa, improntata sulla diversificazione delle rotte alternative all’Ucraina. L’infrastruttura fu costruita per collegare i giacimenti siberiani con la Germania, mercato di riferimento, attraversando la Bielorussia e la Polonia. Il progetto fu siglato nel 1993, tramite un accordo intergovernativo tra Bielorussia, Russia e Polonia, e la sua costruzione iniziò nel 1994. Inoltre, il gasdotto fu definito un’infrastruttura prioritaria dall’Unione Europea, che la inserì nel Trans-European Networks Programme. Oltre a bypassare l’Ucraina, il gasdotto venne realizzato per altri due scopi: rompere il monopolio di Rhurgas in Germania a favore di Wintershall e destinare gli extra volumi ai Paesi europei.

L’interruzione attuale dei flussi attraverso il gasdotto Yamal-Europe ha un precedente. Nel 2004, a seguito della disputa del gas tra la Bielorussia e Gazprom, per fare pressione su Mosca, Minsk chiuse i rubinetti. Seppur breve, il blocco fu la prima interruzione nella storia trentennale dell’export russo, mettendo nuovamente sotto la lente d’ingrandimento il problema dei Paesi di transito. Contestualmente, le vicende legate allo Yamal-Europe accelerarono i negoziati con i tedeschi per la costruzione di North Stream (NS) 1. Nonostante gli accordi prevedessero tempi più rapidi, Gazprom riuscì a strappare il controllo di Beltransgaz, gestore delle pipeline bielorusse, solo nel 2012.

I problemi relativi al gasdotto Yamal hanno spinto Germania e Polonia a intraprendere scelte strategiche differenti, e l’invasione dell’Ucraina ne ha accelerato i tempi di esecuzione. Il governo tedesco negli anni ha avuto un canale di dialogo privilegiato nei confronti di Mosca, questione diversa per quello polacco, le cui posizioni sono nettamente opposte. Forte del sostegno statunitense, Varsavia ha osteggiato a lungo la scelta di Berlino di raddoppiare NS, paventando il rischio di una maggiore influenza russa nell’area e l’impossibilità di attuare il reverse flow verso l’Ucraina. Davanti al blocco di NS2 e la conseguente volontà di affrancarsi dal gas russo, il governo di Olaf Scholz ha annunciato la costruzione di due terminali GNL (Gas Naturale Liquefatto) e l’aumento della capacità di stoccaggio nazionale.

Il mix energetico polacco si basa ancora molto sul carbone, e la transizione energetica pone come imperativo l’utilizzo di fonti più sostenibili come il gas naturale. A livello europeo, Varsavia è il settimo consumatore di gas naturale russo, nonché il principale importatore dell’Europa centrale. Con l’obiettivo di diversificare il proprio approvvigionamento energetico, nella scorsa estate, la Polonia ha dichiarato di non voler rinnovare il contratto con Gazprom, firmato nel 1996 a fronte di una fornitura di 10 mld di m³ annui. Abbandonata la strada dello shale gas perché ritenuto troppo costoso ed inquinante, la società statale PGNiG ha puntato tutto sul GNL e su nuove infrastrutture per affrancarsi dalle forniture di Gazprom. Nel 2019 lo Stato polacco ha firmato un accordo con gli Stati Uniti e l’Ucraina per la fornitura di gas naturale liquefatto. Inoltre, la Polonia sta portando avanti la costruzione di due nuovi gasdotti, il Baltic Pipe e il Gas Interconnection Poland–Lithuania (GIPL), entrambi sostenuti dalle istituzioni europee. 

Nel 2021, la vendita di idrocarburi ha garantito circa 235 mld alle casse di Mosca e, ad oggi, Gazprom pompa giornalmente verso l’Europa gas naturale per un valore stimato in circa 450-500 mln di dollari. Il rischio di un embargo sul gas russo dipende da come evolverà il conflitto, ma nel frattempo gli Stati europei continuano a sfruttare al massimo i contratti a lungo termine con Gazprom. Il blackout è evidente dove, nonostante le sanzioni, l’Europa continua a finanziare il bilancio della Federazione Russa, e di riflesso i piani militari di Putin. Con lo stop del gasdotto Yamal, il focus si sposta sulle infrastrutture ucraine, rese vulnerabili da probabili attacchi militari. Inoltre, il ministero dell’Energia ucraino ha imposto restrizioni all’export di gas dal Paese per il timore di rimanere privo di fonti energetiche, alla luce anche delle recenti conquiste da parte dell’esercito russo delle centrali nucleari. Pochi giorni fa l’International Energy Agency ha emesso un vademecum di dieci punti che se implementati permetterebbero agli Stati di affrancarsi dal gas russo. I Paesi europei hanno già fatto le prime mosse, ma sarebbe auspicabile un coordinamento a livello europeo per evitare che situazioni simili si ripresentino nei prossimi anni.

 

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Immagine: Gasdotti diretti in Europa dal giacimento di gas di Bovanenkovo, Russia (15 maggio 2019). Crediti: Gregory Stein / Shutterstock.com

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Il fronte degli oligarchi

Gli effetti della brutale aggressione ai danni dell’Ucraina hanno aperto una frattura, seppur ancora ridotta, nella cerchia ristretta di Vladimir Putin. Impossibilitati nel rispondere con le armi, Stati Uniti ed Europa, hanno messo in campo un corposo pacchetto di sanzioni il cui obiettivo è azzoppare l’economia russa, costringendo Putin a far tacere i cannoni. Parte degli obiettivi di tali strumenti sono le ricchezze sparse in giro per il mondo appartenenti ad un nutrito gruppo di oligarchi russi, alcuni di loro molto vicini agli ambienti presidenziali.

E proprio gli oligarchi, radicano le loro origini all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, quando, Boris El′cin, promosse lo strumento delle privatizzazioni per ricostruire la fragile economia postsovietica. Il compito fu affidato ad Anatolij Čubajs e Vladimir Potanin, membri di spicco della “Famiglia”, rispettivamente promotori dei voucher e dei loans for shares. Tali strumenti consentirono a esponenti politici, economisti e dirigenti vicini a El′cin, di impadronirsi dei gioielli dello Stato a prezzi stracciati. Il settore oil & gas divenne quello più ambito perché garantiva ingenti guadagni in valuta estera in quanto proiettato verso l’export.

Boris Beresovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Vladimir Potanin, Mikhail Fridman, Pyotr Aven e Alexander Smolensky furono definiti i “Magnifici Sette”. Beresovsky possedeva il canale televisivo più importante, Channel One, mentre insieme a Roman Abramovič, detto anche “l’oligarca invisibile”, fondò Sibneft. Khodorkovsky fondò la prima banca privata dell’URSS, Menatep, per poi acquisire, attraverso il sistema dei voucher, Yukos, uno dei big player del petrolio russo. A questi si aggiunse Vagit Alekperov, fondatore e presidente di LukOil. Gli oligarchi fondarono banche, acquistarono media e giornali, costituirono gruppi finanziari così grandi al punto da possedere il potere sostanziale della Federazione Russa. Senza il loro supporto, la rielezione di El′cin, nel ’96, non sarebbe stata possibile.

La crisi economica del ’98 e l’avvento di Putin invertirono gli equilibri, modificando il rapporto tra il Cremlino e gli oligarchi. I robben barons appoggiarono il nuovo corso, commettendo l’errore di considerare Putin malleabile, vista anche la poca notorietà di cui godeva. Ma ben presto il presidente si schierò contro di loro e, accusandoli di aver depredato il Paese, li sostituì con personaggi appartenenti alla sua cerchia ristretta: il Kremlin Clans, costituito dai siloviki e dai pietroburghesi.  Alcuni come Alekperov, Potain e Mordashev, pur di tutelare le proprie rendite, si adeguarono ai Diktat presidenziali. Altri ne pagarono le conseguenze. La vittima eccellente fu Khodorkovsky, il quale perse Yukos e finì in prigione. Gusinsky e Berezosvky, invece, scapparono all’estero.

Putin ha consentito agli oligarchi di portare avanti il proprio business a patto che loro non interferissero con la sfera politica. In un’intervista rilasciata al New York Times, l’ex primo ministro russo Michail Kasyanov sottolineò come le parti in tale rapporto fossero altamente interdipendenti: nessuno poteva fare a meno dell’altro. Almeno fino al presente. Buona parte degli oligarchi più facoltosi oggi vive al di fuori dei confini russi e ciò li espone maggiormente al meccanismo delle sanzioni.

L’invasione dell’Ucraina ha colpito negativamente i patrimoni personali, con Forbes che stima una perdita di circa 128 mld di dollari. Per citarne alcuni, Alekperov, Mordashov e Potanin hanno perso rispettivamente 4,2, 4,2 e 3 mld di dollari da quando Putin ha deciso di invadere l’Ucraina. Ci sono circa 680 russi colpiti dalle sanzioni che prevedono il congelamento dei beni e il divieto di ingresso nei Paesi dell’Unione Europea (UE), tra cui spiccano i manager delle grandi corporation statali dell’oil & gas come Igor Sechin (Rosneft) e Nikolai Tokarev (Transneft). La prima conseguenza delle sanzioni è stata la fuga di diversi panfili dal Mediterraneo verso luoghi più sicuri ove gli effetti delle sanzioni si annullano.

Mossi da interessi economici personali, alcuni oligarchi hanno manifestato pubblicamente la loro contrarietà alla guerra senza però schierarsi apertamente contro Putin. Mikhail Fridman di Alfa Bank è stato tra i primi a esprimersi contro la guerra, sottolineando in un’intervista al Financial Times l’inutilità dello scontro come soluzione al problema, specialmente quando sono coinvolte due nazioni amiche unite da centinaia di anni di storia comune. Dopo di lui, si sono espressi, sulla stessa linea, oligarchi del calibro di Oleg Deripaska, Alexei Mordashov e Oleg Tinkov. Intervistato da Repubblica, Mikhail Khodorkovsky, ex oligarca e dissidente, ha evidenziato il ruolo dell’Europa nelle vicende ucraine, invitando gli Stati a fornire supporto militare e lodando le coraggiose manifestazioni di dissenso in Russia.

Storicamente russofobo, il governo inglese ha dichiarato “guerra” agli oligarchi russi, i quali, negli anni, hanno trovato nella capitale un luogo sicuro dove gestire i propri affari. Nel 2008 fu inserita la possibilità per gli stranieri di ottenere un visto regolare a fronte di un investimento minimo di 2 mln di sterline nel Paese, consentendo a circa 700 cittadini russi di stabilirsi nel Regno Unito. L’obiettivo del governo di Boris Johnson è smascherare la proprietà effettiva di un immenso patrimonio immobiliare nascosto dietro società offshore, il cui valore stimato si aggira attorno ai 170 mld di sterline, proponendo l’istituzione di un registro ufficiale. Roman Abramovič, l’oligarca più famoso della City, ha lasciato negli scorsi giorni la gestione del Chelsea, primo passo verso la vendita del club annunciata ieri dallo stesso Abramovič, il quale è stato invitato dal governo ucraino al tavolo delle trattative vista la sua influenza su Mosca.

Il dissenso è stato manifestato anche dai figli di diversi oligarchi attraverso i social network, tra cui spiccano la figlia di Abramovič e del portavoce di Putin, Dmitrij Peskov. La possibilità che tale frattura si allarghi è concreta, con tanto che dipenderà dall’evoluzione del conflitto. C’è da chiedersi se un reale affrancamento degli oligarchi da Putin sia possibile e su come questo potrà influire sulle mosse future del presidente.

 

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Immagine: Mikhail Fridman (19 ottobre 2017). Crediti: Krysja / Shutterstock

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Tra Russia e Ucraina, il Grande gioco dei gasdotti

L’aspetto energetico è da sempre presente nelle relazioni tra Federazione Russa e Ucraina, e le recenti tensioni tra i due Paesi sono una delle cause principali del repentino aumento dei prezzi del gas naturale. Kiev è stata per decenni la rotta principale del gas russo verso l’Europa, condizione venuta meno con la costruzione di nuove infrastrutture come Nord Stream 1.

L’Ucraina ha ereditato parte del sistema sovietico, gestendo i tratti terminali dei gasdotti Brotherhood, Progress e Soyuz che trasportano il gas naturale rispettivamente dai giacimenti di Urengoj, Jamburg e Oremburg. Il sistema di pipeline ucraino ha una capacità di trasporto di circa 143 mld di m³ e dal suo snodo in prossimità del confine slovacco partono le diramazioni che portano il gas russo verso  l’Europa occidentale.

Negli anni Novanta, il legame energetico si è trasformato in una disputa i cui effetti sono in parte la causa dei rapporti deteriorati tra i due Paesi. Mosca garantiva enormi quantità di gas naturale ad un prezzo estremamente favorevole, ma Kiev spesso non era in grado di pagare le forniture. Inoltre, i prelievi ucraini dai gasdotti erano superiori rispetto alle quote pattuite. A causa della fragilità del sistema economico, il problema dei mancati pagamenti divenne ben presto strutturale. I debiti contratti spingevano Gazprom a ridurre i volumi di gas destinati all’ex Repubblica sovietica, e contemporaneamente il Cremlino faceva pressioni su Kiev per ottenere concessioni politiche e militari. Seppur con alcuni distinguo, la questione era analoga in Bielorussia. I rapporti precipitarono in due occasioni, nel 2006 e nel 2009, arrivando alle cosiddette “guerre del gas” e comportando l’interruzione dei flussi energetici verso l’Europa.

Per ridurre il potere di ricatto ucraino, Gazprom ha rivisto la sua strategia diversificando le rotte dei gasdotti. È in quest’ottica che si spiegano la costruzione di nuove infrastrutture quali lo Yamal-Europe in Bielorussia, il Nord Stream 1 (NS1) nel Baltico e il TurkStream (o Turkish Stream) in Turchia. South Stream rappresentava l’alter ego meridionale di NS1, incontrando però alcuni ostacoli rappresentati dall’avversione della Commissione europea e dalla presenza di un progetto simile sponsorizzato dagli americani, il Nabucco. La realizzazione dell’infrastruttura venne meno quando Mosca decise di annettere la Crimea nel 2014, ma fu successivamente sostituita da TurkStream.

Contestualmente, Gazprom tentò di ottenere il controllo delle società nazionali che gestivano la rete di gasdotti così da evitare che la presenza di colli di bottiglia impedissero il normale flusso di gas verso l’Europa. La strategia pagò in Bielorussia, dove Gazprom acquisì definitivamente Beltransgaz nel 2012, mentre Naftogaz è rimasta tutt’ora sotto il controllo del governo ucraino.

La vera svolta arriva con la messa in funzione nel 2011 di Nord Stream 1, la prima infrastruttura energetica in grado di collegare direttamente la Russia con il mercato europeo, bypassando i vecchi territori appartenuti all’Unione Sovietica e al Patto di Varsavia. La realizzazione del gasdotto è indice di un altro aspetto, le profonde relazioni commerciali e diplomatiche tra Mosca e Berlino. L’energia è sempre stata l’elemento principale su cui tale relazione si è costruita, a partire dal 1981, quando Sojusgasexport e la Repubblica Federale di Germania (RFG) firmarono il “contratto del secolo”.  

Attualmente la Germania si ritrova in una posizione ambigua e complicata. Sulla sua testa pende la spada di Damocle rappresentata dal Nord Stream 2 (NS2), recentemente ultimato ma non ancora approvato e così diventato un caso geopolitico. Dalla sua progettazione ad oggi, il gasdotto è stato fortemente osteggiato dagli Stati Uniti, il principale sostenitore delle posizioni polacche e degli Stati russofobi dell’Europa centrale. La pressione americana ha fatto sì che la burocrazia europea ne impedisse la messa in funzione. Sebbene il cancelliere Scholz sia stato molto cauto finora, i recenti sviluppi lo hanno costretto a fermare il processo autorizzativo del NS2. Inoltre, desta un certo imbarazzo l’atteggiamento tenuto dall’ex cancelliere Gerhard Schröder per i ruoli ricoperti in Gazprom e Rosneft.

La storia recente ci offre un precedente simile alla vicenda di NS2. Negli anni Ottanta l’embargo americano, frutto delle vicende polacche, interessò diverse aziende europee che stavano aiutando i sovietici a costruire il Brotherhood. Rispetto alle posizioni espresse dai governi italiani e francesi, la RFG ignorò l’embargo poiché il coinvolgimento delle imprese tedesche nell’infrastruttura era tale che un disimpegno sarebbe stato controproducente.

Su indicazione del Cremlino, Gazprom ha tagliato in modo costante le forniture di gas verso l’Europa attraverso la direttrice ucraina, mantenendo però stabile il flusso di NS1 e sottolineando l’importanza di NS2 per gli europei. Se fosse tagliata fuori, l’Ucraina non solo non avrebbe più il gas ma perderebbe circa il 7% delle entrate statali generate dal transito. Inoltre, le alte quotazioni del gas consentono a Gazprom di mantenere quasi inalterati i profitti, concedendo nelle mani di Mosca alcuni piccoli vantaggi. La dipendenza energetica europea dal gas russo è un fatto strutturale e non modificabile nel breve termine, seppur il GNL (Gas Naturale Liquefatto) rappresenti un’alternativa valida. Ma lo è anche per Mosca, il cui bilancio statale è sostenuto principalmente dalle attività legate agli idrocarburi. Gli sviluppi delle vicende ucraine determineranno l’andamento futuro di tale interdipendenza.

 

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Immagine: Gasdotto sul fiume Dnestr, regione di Ternopil, Ucraina occidentale. Crediti: Pitroviz / Shutterstock.com

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Il mare di Trieste

Esistono pochi luoghi al mondo dove il mare assume una rilevanza tale come a Trieste. È un legame antico, quello tra il mare e il capoluogo giuliano, che affonda le radici nella storia della città e di essa ha contribuito a trasformarne la più intima essenza. Il mare lambisce i suoi palazzi fino quasi a sfiorarli, e dietro la loro austera architettura, si nascondo i fasti di un passato che ha dovuto fare i conti con alcune pagine buie e travagliate della storia, ma che hanno reso la città un luogo cosmopolita e dinamico. La prossimità del confine accentua questa condizione e fa di Trieste un luogo privilegiato dove osservare parte dei cambiamenti che coinvolgono, ogni giorno, il continente europeo.

Trieste è una delle patrie della vela mondiale e il suo golfo è un vero e proprio stadio naturale. Da Mauro Pelaschier a Vasco Vascotto, generazioni di triestini sono diventati grandi velisti sotto l’occhio vigile di sua maestà la bora. In un piccolo circolo velico di Barcola nell’ottobre del ’69 nacque la Coppa d’Autunno, che negli anni avvenire sarebbe divenuta una delle regate più famose al mondo, la Barcolana, attirando velisti da ogni angolo del pianeta. Oggi è diventato un evento a 360 gradi con notevoli ricadute economiche sulla città, ma l’aspetto sportivo rimane comunque l’elemento principale. La regata è veicolo di iniziative importanti, tra cui il Barcolana Sea Summit, un momento per discutere del mare, sia in chiave ambientale che economica. Non è casuale, infatti, la scelta degli organizzatori di creare un evento simile a Trieste, nella cornice del Porto Vecchio.

Il porto di Trieste ha una storia antica, nasce nel 1717 durante il periodo asburgico e due anni dopo gli venne conferita la denominazione di Porto Franco. Lo scalo fu oggetto di una crescita costante nel tempo, accelerata anche dall’apertura del Canale di Suez nel 1869, che contribuì a trasformare Trieste in uno snodo nevralgico a livello europeo. Nate negli anni Trenta dell’Ottocento, le Assicurazioni Generali sono uno straordinario esempio della grande capacità di un porto di attrarre ricchezza e opportunità.

Rispetto ad altri porti mediterranei, Trieste poteva contare già nell’Ottocento su una fitta rete ferroviaria che collegava lo scalo direttamente con Vienna, e di riflesso con le grandi capitali dell’Europa centrale. L’iniziale infrastruttura del Porto Vecchio, situato a ridosso dell’attuale stazione ferroviaria, venne ampliata con la costruzione del Porto Nuovo, terminato negli anni Venti del Novecento. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Allegato VIII del Trattato di pace di Parigi del 1947 istituì, a sottolineare la vocazione dello scalo, il Porto Franco Internazionale di Trieste, titolo che fu poi riconfermato con il Memorandum di Londra nel 1954, anno in cui Trieste ritornò italiana.

Dopo decenni di stallo il porto di Trieste è ritornato oggi ad essere un asset strategico per il nostro Paese. Forte della sua storia, il porto di Trieste gode di alcune caratteristiche che ne fanno un unicum a livello nazionale. Ha, infatti, un pescaggio rilevante, che permette l’attracco delle grandi navi portacontainer, possiede un sistema ferroviario altamente integrato con le banchine, il traffico merci è gestito tramite un sistema digitale al 100% ed il suo bacino di utenza è tendenzialmente europeo, dato che solo il 10% delle merci è destinato al mercato italiano. Non da ultimo, la congeniale posizione geografica della città di Trieste, nelle rotte di transito da e per l’Asia, permette un risparmio valutabile in circa 4/5 giorni di navigazione, rispetto ai porti del Nord Europa.

Queste caratteristiche conferiscono allo scalo giuliano una valenza europea ed internazionale. Ancora, la presenza di 1,8 mln di m² di zone franche rappresenta una grande attrattività per le imprese italiane ed internazionali che decidono di investire negli spazi adiacenti al porto. Negli ultimi anni, Trieste ha scalato le classifiche dei porti italiani per le merci movimentate, di cui quasi il 50% su rotaia. La presenza, poi, del terminale dell’oleodotto TAL (Transalpine Pipeline), il quale sostiene il 40% del fabbisogno tedesco e quasi il 100% della Baviera e del Baden-Württemberg, di fatto i cuori pulsanti dell’economia tedesca ed europea, fa di Trieste il primo porto per il petrolio nel Mediterraneo. È bene ancora sottolineare come l’area portuale triestina insista, perfettamente integrata, nella rete di trasporto trans-europea TEN-T (Trans-European Networks - Transport) e come questa rappresenti uno snodo importante nel corridoio Mediterraneo in quello Adriatico-Baltico.

La nuova vita del porto triestino è frutto della programmazione e della visione di lungo periodo di una presidenza lungimirante accompagnata da uno staff estremamente preparato e competente, capace di scindere la gestione dello scalo da altre logiche politiche. La chiave di volta è stata “rivitalizzare” le opere già presenti ammodernandole e rendendole fruibili. Ha contribuito, in tal senso, il decreto attuativo del 2017, che ha conferito al presidente dell’Autorità portuale la facoltà di manipolare e trasformare i punti franchi del porto, distribuendoli sul territorio della provincia di Trieste. Queste condizioni favorevoli hanno generato un forte interesse da parte di alcuni grandi gruppi internazionali come British American Tobacco e Mitsubishi Electric, che hanno scelto Trieste come hub logistico e come luogo ideale dove sviluppare nuovi business. Un’ulteriore conseguenza positiva dello sviluppo del porto è stata, quindi, la ricaduta in termini occupazionali sulla città.

Trieste si trova al centro di una ritrovata competizione con altre realtà del Nord Adriatico, tra cui spicca il vicino porto di Capodistria. Nel 2021, lo scalo sloveno ha raggiunto la cifra record di 996mila TEU movimentati grazie allo sviluppo delle infrastrutture, e attraverso il raddoppio della linea Capodistria-Divaccia, potrà migliorare il sistema ferroviario del porto. Entrambi i porti fanno parte della NAPA, la North Adriatic Port Association, che assieme a Venezia e Rijeka, mirano ad uno “sviluppo coordinato di infrastrutture marittime, stradali, ferroviarie e tecnologiche”.

Nel 2019 l’Italia fu il primo Paese del G7 a firmare un Memorandum of Understanding (MoU) con la Cina per quanto riguarda la Belt and Road Initiative (BRI), suscitando le preoccupazioni delle istituzioni europee e degli Stati Uniti. I porti maggiormente interessati dall’accordo erano Genova e Trieste, i quali avrebbero dovuto collaborare con la China Communications Construction Company, uno dei principali player interessati nell’implementazione della BRI. Nonostante il clamore suscitato, gli accordi avevano una natura molto generica ed è bene ricordare che i porti italiani non possono essere ceduti ma dati in concessione in quanto asset strategici per il nostro Paese. Nel caso di Trieste, la perdita potenziale derivata dal MoU è stata compensata dall’accordo con l’Hamburger Hafen und Logistik AG (HHLA) per la concessione della nuova piattaforma logistica.

Nel dicembre scorso, l’Autorità portuale, ha varato il nuovo Piano operativo triennale, il quale prevede investimenti per circa 415 mln di euro, che verranno utilizzati per lo sviluppo infrastrutturale dello scalo, come ad esempio l’elettrificazione delle banchine e la possibilità di produrre energia autonomamente attraverso fonti rinnovabili. Il mantra del presidente Zeno D’Agostino è forte e chiaro: «Il futuro del porto non è il porto». Uno degli obiettivi è quello di coinvolgere Trieste e i suoi centri di ricerca, quali la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e l’ICTP (International Centre for Theoretical Physics), riconosciuti come eccellenze a livello mondiale.

Negli ultimi decenni il nostro Paese ha assunto un atteggiamento rinunciatario verso una politica marittima attiva nel Mediterraneo nonostante molti degli armatori a livello mondiale continuino, fieramente, a battere il tricolore a poppa. I porti sono l’elemento chiave per restituire una coscienza marittima all’Italia e in tale percorso, Trieste, non può che avere una grande voce in capitolo.

Alla città della Bora non resta che augurare buon vento.

 

Immagine: Nave portacontainer ormeggiata nel porto di Trieste (6 marzo 2020). Crediti: Simona Dibitonto / Shutterstock.com

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L’energia che verrà

La grande sfida del 2022 sarà l’energia. Gli eventi legati alla pandemia hanno dominato la scena mediatica e politica degli ultimi due anni, sottraendo spazio a tante questioni importanti, alcune delle quali rimaste irrisolte. La crisi energetica in corso rischia di interrompere una crescita economica ancora fragile, in modo particolare per Paesi come l’Italia, dove la forte dipendenza energetica da fonti estere mette a rischio il sistema produttivo nazionale.

Le grandi imprese energetiche hanno varato piani industriali molto ambiziosi sul lungo periodo, iniziando una transizione, che nei prossimi decenni le vedrà affrancarsi prima dal petrolio e poi dal gas naturale. L’oggetto del desiderio sembra essere l’idrogeno, dove progetti e risorse per una sua implementazione non mancano. Lo sviluppo tecnologico spinge le fonti rinnovabili verso un notevole sviluppo, ma esse non sono ancora in grado di sostenere la fame energetica degli Stati. Devono, inoltre, fare i conti con alcune problematiche, quali il consumo di suolo e l’onnipresente sindrome NIMBY (Not In My Back Yard).

La ripresa economica richiede molta energia, e da qui si spiegano le scelte di alcuni Paesi di riattivare le centrali a carbone per far fronte ai fabbisogni nazionali. Tra le fonti fossili, il carbone è quella più inquinante, ma rimane altamente competitiva per il prezzo e per l’abbondanza. I costi legati all’energia sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi cinque mesi, e le motivazioni di questi incrementi sono tutt’altro che banali. In primis, l’allentamento delle restrizioni dovute alla pandemia e la conseguente ripresa economica hanno richiesto quantitativi energetici sempre maggiori. In Europa hanno pesato anche alcune situazioni come lo stop di alcune centrali nucleari e la bassa generazione energetica dei parchi eolici nei Paesi del Nord.

L’exploit maggiore lo ha subito il gas naturale, che nonostante appartenga alla famiglia delle fonti fossili, sarà il carburante che consentirà agli Stati di intraprendere la transizione verso un mondo senza emissioni. La Commissione europea ha inserito il gas naturale nella propria tassonomia verde, alimentando le proteste degli ambientalisti che non accettano tale riconoscimento. Il mercato del gas naturale tende ad assumere una dimensione regionale per via dell’infrastruttura attraverso la quale viene convogliato, i gasdotti. Ad esempio, il mercato europeo è fortemente dipendente dalle risorse russe ed in parte da quelle nordafricane, mentre quello nordamericano si basa tutto sullo shale gas.

Per l’Europa, la dipendenza dal gas russo è quasi naturale: è il fornitore più vicino, affidabile, economico e ha un’infrastruttura già interconnessa con quella europea. La presenza di colli di bottiglia ha, però, attenuato i suddetti vantaggi; esiste una certa ambiguità a livello europeo nei confronti di Mosca: se da un lato grandi Paesi come l’Italia, la Francia, ma soprattutto la Germania sono disposti a dialogare con Mosca, dall’altro un nutrito gruppo di Stati, quali quelli del Baltico e la Polonia, sono pronti a osteggiare la Federazione, con il benestare statunitense. L’irrisolta questione ucraina e le crescenti tensioni sul confine bielorusso hanno irrigidito le posizioni in campo, e hanno influito in un certo qual modo nel processo autorizzativo di Nord Stream 2. Nonostante la contrarietà americana e di alcuni Paesi europei, Polonia in testa, il nuovo gasdotto è stato completato ed una volta entrato in funzione andrà a raddoppiare la capacità della struttura già esistente, raggiungendo una capacità di trasporto di circa 110 miliardi di m³.

Il sistema di Nord Stream rappresenta la prima pipeline che bypassa i territori che in passato appartenevano all’Unione Sovietica e collega direttamente la Russia alla Germania, trasformando quest’ultima nel principale hub del gas nell’Unione Europea (EU). Gli oppositori sottolineano come l’opera aumenti il rischio di una maggiore dipendenza europea dal gas russo, e quindi dalle scelte di Putin, e che privi soprattutto l’Ucraina di un gettito fiscale generato dal transito, di fondamentale importanza per la fragile economia nazionale. Da settembre il gigante di stato russo Gazprom non ha risposto alle richieste europee di aumentare le forniture di gas naturale a fronte di una crescita dei consumi. La situazione è resa ancor più grave dalla recente interruzione dei flussi di gas russo verso l’Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europe. La naturale conseguenza è stata l’aumento dei prezzi che hanno portato le quotazioni dell’oro blu alle stelle.

L’atteggiamento russo certamente è stato una conseguenza della mancata autorizzazione di Nord Stream 2, ma risponde anche ad alcune logiche interne. Prima di pompare maggiori quantità di gas verso l’Europa, Gazprom ha dovuto provvedere a riempire i depositi per far fronte ai fabbisogni nazionali. Le frizioni all’interno del nuovo governo tedesco guidato dal cancelliere Scholz non impediranno la messa in funzione del gasdotto, che ottimisticamente avverrà nella primavera prossima. Sarebbe sciocco e antieconomico, soprattutto per la Germania, non approvare un’infrastruttura già completata e costata diversi miliardi.

L’Europa paga la mancanza di una politica energetica comune ma soprattutto la decisione di acquistare il gas naturale tramite contratti spot e non attraverso accordi a lungo termine. L’aumento delle quotazioni ha creato un’opportunità per il gas made in Usa. Fino a pochi mesi fa, le metaniere statunitensi preferivano far rotta sul mercato asiatico perché le quotazioni erano le più elevate, ma l’exploit in Europa ha invertito la tendenza. Diverse metaniere di proprietà della Cheniere, la principale produttrice di GNL (Gas Naturale Liquefatto) negli Stati Uniti, hanno fatto rotta verso i rigassificatori europei. Come detto precedentemente, lo shale gas ha reso gli americani indipendenti a tal punto da poterlo anche esportare. Ma la tecnica per ottenere il gas non convenzionale, ovvero il fracking, è estremamente costosa e ha un notevole impatto sull’ambiente e sulla salute.

La transizione energetica richiederà molta energia e l’affrancamento immediato dagli idrocarburi come il gas naturale può rappresentare un rischio non calcolato per il processo che gli Stati europei intendono intraprendere. Negli ultimi decenni gli investimenti nel settore oil & gas sono calati e con essi le produzioni nazionali. Prendendo in esame l’Italia, la produzione di gas è passata dai 20 miliardi di m³ del 2000 ai 4,5 di oggi. Esistono delle riserve accertate che potrebbero contribuire a ridurre in parte la dipendenza dalle fonti estere e, soprattutto, sarebbero utili a calmierare i costi, ma l’ostacolo di una legislazione più stringente e la contrarietà diffusa nell’opinione pubblica rendono questi progetti difficili da implementare. Nonostante l’opera sia stata osteggiata da più parti, il TAP (Trans Adriatic Pipeline) ha consentito al nostro Paese di attenuare l’impennata dei prezzi del gas per circa il 10%.

La crisi energetica non è passeggera e molto probabilmente produrrà i suoi effetti per buona parte del 2022. I sussidi non bastano, sono strumenti temporanei e non possono essere utilizzati all’infinto. Sarà compito degli Stati trovare soluzioni valide per sostenere le proprie economie nella difficile ripresa post-pandemia.

 

Immagine: Il Trans-Alaska Pipeline, Brooks Range settentrionale, Alaska (20 giugno 2007).  Crediti: U.S. Geological Survey [CC0 1.0 Universal (CC0 1.0) Public Domain Dedication], attraverso www.flickr.com