Atlante

Mara Morini

Professoressa associata di Scienza politica, insegna Politics of Eastern Europe, Politica comparata e Partiti, lobbies e gruppi di pressione presso il dipartimento di Scienze politiche e internazionali (DISPI) dell’Università di Genova. Autrice del libro “La Russia di Putin” (ed. il Mulino, 2020), è editorialista del quotidiano nazionale Domani e ha scritto numerosi saggi sul sistema politico russo. È stata Visiting Professor alla High School of Economics di Mosca e all’Accademia diplomatica del ministero degli Affari della Federazione russa.

Pubblicazioni
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Tra Russia e Corea del Nord, una sintonia che viene da lontano

 

La lunga visita ufficiale nell’estremo Oriente russo di Kim Jong-un è terminata con un «sentito ringraziamento» a Vladimir Putin, ma senza un accordo ufficiale firmato dalle due parti. Tuttavia, il bilancio di questo incontro sembra essere, almeno dal punto di vista delle rispettive propagande, positivo come le cene istituzionali, le visite, le riunioni ufficiali e i doni tra i due leader sembrano dimostrare. Accuratamente preparata all’insegna di una maestosa teatralità, volta a suggellare la «fratellanza» e la tradizione dell’amicizia tra la Russia e la Corea del Nord, Kim Jong-un ha invitato Putin a visitare la Corea del Nord «al momento più opportuno». Un invito che è stato accettato dal leader russo che ritiene di poter capitalizzare questo sodalizio sul piano interno, ma, soprattutto, nella sfida all’ordine internazionale a guida statunitense.

Per la Russia, infatti, la Corea del Nord può costituire una fonte importante di forniture di armi, necessarie per proseguire la strategia di «guerra di logoramento» contro l’Ucraina e i suoi alleati. Non si tratterebbe solamente di 10 milioni di proiettili di calibro 122 e 155 mm, ma, come afferma il politologo russo Yurij Baranchik nel suo canale Telegram, la Corea del Nord potrebbe fornire anche missili con una portata di oltre 400 km, più sofisticati degli HIMARS.

Posto che, secondo il quotidiano russo Kommersant’, dal 1° settembre la Cina cesserà di fornire alla Russia droni di peso pari o superiore a 4-7 kg con una capacità di volo superiore ai trenta minuti, sembra evidente la volontà del Cremlino di diversificare le fonti di approvvigionamento militare. D’altronde la Corea del Nord, a differenza della Cina, ha espresso «pieno e incondizionato sostegno» a favore della Russia nella «sacra lotta» per difendere i suoi interessi contro l’imperialismo occidentale. Non è la prima volta che vi è una sintonia d’intenti sulla politica internazionale tra la Russia e la Nord Corea. Nel 2001 Putin firmò la Dichiarazione di Mosca con l’allora leader Kim Jong-il che conteneva esplicite parole sulla volontà dei due Paesi di stabilire un «nuovo sistema mondiale» al fine di «preservare la stabilità globale».

Al contrario, il dittatore nordcoreano ha bisogno del sostegno del Cremlino nella tecnologia sottomarina e satellitare per consolidare il proprio programma nucleare e ottenere aiuti umanitari nella grave crisi agricola che sta colpendo il Paese negli ultimi anni. Questi interessi nordcoreani spiegherebbero la sorprendente dichiarazione di Kim Jong-un che la Russia è la «prima priorità» (non è, quindi, la Cina?) che cela, evidentemente, un cambiamento delle relazioni, intercorso negli ultimi anni, in seguito ad un rinnovato atteggiamento del Cremlino nei confronti delle sanzioni delle Nazioni Unite contro Pyŏngyang e indifferente alla questione della violazione dei diritti umani e della cooperazione con uno Stato canaglia. In realtà, nel primo vertice del 2019 Putin non era sembrato disponibile ad aiutare il leader nordcoreano per ottenere la liberazione delle sanzioni delle Nazioni Unite, ma la guerra in Ucraina ha inevitabilmente modificato la strategia del Cremlino.

La partnership militare e politica tra la Russia e la Corea del Nord non rispecchia quella più formale e forte dei tempi dell’URSS, ma non lascia certamente indifferenti i leader occidentali e la Cina. Il governo cinese si è limitato a dichiarare che questo incontro riguarda «i due paesi e le loro reciproche relazioni», mentre l’amministrazione presidenziale americana ha segnalato che eventuali accordi sullo scambio di armamenti e tecnologia militare violerebbero le direttive dell’ONU e, come tali, avrebbero conseguenze.

Etichettata come un “atto di disperazione” di Putin, che cerca alleati per uscire dall’isolamento, come sta facendo lo stesso Kim Jong-un, pare plausibile che il “nuovo livello” delle relazioni tra i due Paesi possa determinare diversi elementi di preoccupazione da Occidente a Oriente. Poco importa al Cremlino e a Pyŏngyang essere considerati Stati paria, criminali o canaglia in un mondo che sta cambiando e affrontando la crisi più profonda dalla Seconda guerra mondiale.

Gli interessi reciproci di sicurezza, in chiave antioccidentale e antimperialistica, e la loro strumentalizzazione a proprio vantaggio nella politica domestica della Russia e della Corea del Nord, hanno dato vita ad un nuovo elemento di tensione internazionale da non sottovalutare. In quest’ottica, sarà interessante monitorare come gli Stati Uniti sapranno sfruttare le perplessità cinesi su questa partnership per depotenziare la Russia sul piano militare e politico.

 

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Immagine: Da sinistra, Kim Jong-un e Vladimir Putin, Vladivostok, Russia (25 aprile 2019). Crediti: Kremlin.ru [CC BY 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

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Dietro la “marcia” di Prigožin verso Mosca: una chiave di lettura

 

La storia della Russia non si smentisce mai. Quando meno te l’aspetti, accadono avvenimenti drammatici ed epocali. In realtà, i diversi attacchi verbali del capo dei mercenari, Evgenij Prigožin, al ministro della Difesa, Sergej Šojgu, di questi mesi lasciavano intravedere la presenza di una prima e concreta crepa all’interno del Cremlino, ma non la modalità e il tempo della sua manifestazione pubblica. Ma procediamo con ordine.

Nato su iniziativa di Evgenij Prigožin e Dmitrij Utkin, il Gruppo Wagner è un’organizzazione paramilitare che ha consentito al presidente russo, Vladimir Putin, di operare in diversi contesti geopolitici senza un esplicito coinvolgimento della Russia. Dal Mozambico al Mali, dalla Siria all’Ucraina, l’azione dei mercenari si è sempre dimostrata molto efficace e risolutiva nei conflitti, mettendo spesso in ombra le capacità dell’esercito russo e della gerarchia militare.

Ma perché Prigožin ha organizzato la “marcia della giustizia” verso Mosca? Voleva innescare una guerra civile o un colpo di Stato?  

Le ipotesi più accreditate considerano due aspetti. Il primo riguarda il decreto presidenziale con il quale Putin ha sancito che entro il 1° luglio i mercenari saranno incorporati nell’esercito militare. Evidentemente, Prigožin non accetta di diventare un “subordinato” di Šojgu e del generale Gerasimov e ha deciso di anticipare le mosse. Il secondo considera le ambizioni personali e/o politiche di Prigožin. È plausibile ritenere che il capo della Wagner non sia stato soddisfatto delle promesse o delle offerte di Putin e abbia ritenuto di sfidare il Cremlino, pensando di non avere nulla da perdere. La minaccia di un colpo di Stato avrebbe potuto, infatti, bloccare l’attuazione del decreto o aumentare la posta in gioco per ottenere una maggiore ricompensa economica.

Più difficile è considerare ‒ almeno che Prigožin non sia veramente un ingenuo ‒ la volontà di dar vita veramente ad una sostituzione violenta del capo del Cremlino senza aver prima verificato il sostegno dell’esercito e dell’apparato di sicurezza. È estremamente difficile, per chiunque voglia intraprendere un’azione del genere, avere successo senza l’appoggio di queste due fazioni. Forse Prigožin si aspettava defezioni dei militari e il sostegno del “giardino d’oro” di Putin in assenza dei quali ha cambiato strategia, adducendo la volontà di non «spargere sangue russo» nel territorio. 

E in questa fase è spuntato un personaggio che sembrava nelle settimane scorse avere gravi problemi di salute e che, invece, ha dimostrato di trasformarsi da junior partner di Putin un attore politico di pari dignità: il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko. Quest’ultimo, che conosce Prigožin da oltre vent’anni, ha negoziato con il “traditore della Patria” (nel discorso alla nazione Putin ha parlato di traditori senza menzionare il nome di Prigožin) per bloccare una situazione che, agli occhi del mondo, il Cremlino sembrava non riuscire a risolvere.

 

Non sono ancora del tutto noti ‒ e forse mai lo saranno ‒ i punti del compromesso, ma è lecito chiedersi quali siano gli scenari interni e internazionali post-24 giugno. Sul fronte militare, sarà interessante capire come la riorganizzazione dell’esercito russo con l’inclusione dei mercenari riuscirà a resistere all’offensiva ucraina e, quindi, ad evitare un’ulteriore débâcle a vantaggio dell’Ucraina. Sul piano politico, in russo, si usano due termini che bene si associano agli eventi delle scorse ore: maskirovka [1] e razborka. La prima parola indica la “messinscena” o “inganno” per far credere ad un avversario politico di essere in una situazione di difficoltà e debolezza con l’obiettivo di far abbassare la guardia. Razborka è, invece, il termine con cui si fa riferimento ad uno “scontro tra gang”.

Ripercorrendo la storia della Russia postcomunista e della “verticale del potere” introdotta da Putin, la sfida tra le fazioni del Cremlino sembrerebbe la chiave di lettura più verosimile. Nessun colpo di Stato o guerra civile, ma una resa dei conti, lanciata da un outsider della politica, sebbene molto legato al capo del Cremlino, che potrebbe essere svincolata da ambizioni politiche quali la candidatura alle elezioni presidenziali del marzo 2024 o alla nascita di un nuovo partito politico, capace di incanalare le istanze ultranazionaliste ed estremiste. Le “ambizioni personali” di Prigožin potrebbero essere semplicemente correlate alla volontà di aumentare il proprio capitale (già consistente come oligarca) per uscire “pacificamente” di scena. Forse siamo all’inizio della fine dell’era putiniana, ma Putin potrà sempre ricordare ai russi, durante la prossima campagna elettorale, che ancora una volta ha salvato la patria.

 

[1] Roger Beaumont, Maskirovka: Soviet Camouflage, Concealment and Deception, College Station, Texas, Texas A&M University Press, Center for Strategic Technology, Texas Engineering Experiment Station, 1982

 

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Immagine: Da sinistra, Aleksandr Lukašenko e Vladimir Putin (26 settembre 2022). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

 

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Controffensiva iniziata; quale vittoria?

 

Come hanno affermato le autorità russe, la controffensiva ucraina è ormai iniziata. La conferma è arrivata anche dal presidente ucraino Zelenskij:  «Si stanno svolgendo azioni offensive e difensive, ma su a che punto sono, non entrerò nei dettagli. Presto tutti sentiranno i risultati. Siamo tutti ottimisti. Ditelo a Putin». Analisti politici ed esperti di strategia militare convengono sul fatto che si tratta di una controffensiva “estiva” alla quale potrebbe seguire una controffensiva “invernale” russa. 

Come è già successo nei mesi passati, stiamo assistendo alla diffusione di dati contradditori sulle rispettive perdite dell’esercito: gli ucraini stimano che siano stati uccisi 1.010 soldati russi in ventiquattro ore, mentre il ministro della Difesa russo, Sergej Šojgu, parla di 3.715 perdite ucraine. Sono cifre da menzionare e trattare con cautela perché nascondono non solo le rispettive propagande, ma anche calcoli politici.

Da un lato, il morale dei russi sembra migliorato e più determinato rispetto al passato, ma bisognerà attendere le prossime settimane per capire se si manterrà nel tempo. Inoltre, paiono più efficienti sia il coordinamento delle azioni militari sia la potenza aerea di Mosca. Lo stallo dei mesi scorsi, dovuto essenzialmente alle condizioni meteorologiche invernali, ha evidentemente costituito un’opportunità di riorganizzazione per l’esercito russo. Dall’altro lato, la narrazione di Zelenskij unisce ottimismo, speranza, ma anche realismo, perché le autorità militari ucraine sono consapevoli che la controffensiva estiva è solo all’inizio e bisognerà valutare “passo dopo passo” le mosse da fare: sarebbe imprudente parlare di una facile vittoria. Il timore dell’amministrazione presidenziale di Zelenskij è, infatti, che la percezione di una difficoltà di riconquista territoriale possa allentare l’invio delle armi occidentali, nonostante l’ultimo stanziamento americano pari a 2,1 miliardi di dollari.

Il presidente Vladimir Putin ha riconosciuto che l’Ucraina ha ancora «un significativo potenziale offensivo», ma nella sua tradizionale narrazione volta a sottolineare le capacità della “superpotenza” russa, ha voluto precisare che «le truppe ucraine non hanno raggiunto i loro obiettivi in nessun settore». Putin ha, inoltre, aggiunto: «Presumo che la leadership militare russa stia valutando la situazione in via di sviluppo e agirà sulla base di questa realtà nel pianificare le nostre azioni per il futuro».  Come aveva già fatto durante la pandemia, questa frase rivela la strategia cautelare di Putin di deresponsabilizzarsi dal comando qualora ci fossero seri problemi per l’esercito russo sul terreno militare. In sintesi, “cautela” è la parola d’ordine di questa prima fase della controffensiva per entrambi i presidenti, mentre nell’analisi, nei discorsi politici e nella pubblicistica occidentale si parla di una “vittoria” dell’Ucraina, indispensabile per non destabilizzare l’Europa e il sistema di sicurezza internazionale.

Tuttavia, le legittime aspettative occidentali di un imminente esito favorevole sul terreno militare per l’Ucraina rischiano di essere un’arma a doppio taglio: diversi sono, infatti, i segnali politici e militari che indicano un prolungamento della guerra. In questa fase, né Putin né Zelenskij hanno convenienza a trattare perché la Russia dovrebbe cedere i territori del Donbass e discutere l’annessione della Crimea del 2014 ‒ aspetti che Putin non contempla perché significherebbe la crisi della “verticale del potere” – e l’Ucraina dovrebbe rinunciare alla sua integrità territoriale e sovranità.

Questa controffensiva difficilmente produrrà un esito definitivo sul campo nel breve periodo. È bene, quindi, non illudersi troppo onde evitare di distogliere l’attenzione delle opinioni pubbliche dalla guerra e produrre un effetto di “stanchezza” al sostegno della “causa ucraina”, anche in vista delle prossime elezioni europee. Forse è anche prematuro, come ha scritto Samuel Charap su Foreign Affairs, parlare di una «guerra impossibile da vincere», ma, al momento, l’unica certezza è che «l’alone di sofferenza» del popolo ucraino continuerà ancora a lungo. E su questo tema è necessario che le leadership occidentali comincino a riflettere seriamente in termini non solo umanitari, ma, soprattutto, politici: fino a che punto l’Unione Europea, il Regno Unito e, soprattutto, gli Stati Uniti potranno garantire una continuità nell’assistenza militare all’Ucraina?

La risposta a questa domanda richiede una strategia e una visione di ampia prospettiva su come affrontare la sfida all’ordine internazionale a guida statunitense e al sistema globale perché nulla sarà come prima.

 

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Immagine: Militari ucraini praticano tattiche di assalto in un campo di addestramento prima della controffensiva durante la guerra russo-ucraina, Ucraina (22 marzo 2023). Crediti: Shutterstock

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L’amaro 9 maggio del Cremlino

Diverse analisi sulla parata del 9 maggio a Mosca e sul discorso del presidente Putin condividono quanto questa celebrazione, così importante per le famiglie russe che ricordano i loro cari caduti durante la Seconda guerra mondiale, sia stata “in tono minore”. La cancellazione della marcia del Reggimento immortale, anche in altre 21 regioni per motivi di sicurezza, la sfilata di un solo carro armato T-34 di fabbricazione sovietica, il discorso del presidente e la durata della parata, più brevi rispetto al passato, sono chiari indizi di una difficoltà oggettiva del Cremlino dopo 14 mesi di guerra in Ucraina. In particolare, il discorso del presidente ripresenta diversi passaggi della narrazione dell’anno precedente: «L’Occidente provoca conflitti e golpe, distrugge i valori tradizionali per continuare a dettare le proprie regole di un sistema che depreda e violenta». E ancora: «Kiev è ostaggio di un colpo di Stato e moneta di scambio nelle mani dell’Occidente». Putin non esita ad usare il termine “guerra” per sottolineare che la Russia ha dovuto reagire preventivamente all’imminente attacco del mondo occidentale e sottolinea quanto l’operato e il sacrificio dei soldati coinvolti nella cosiddetta “operazione militare speciale” siano indispensabili per la salvezza della patria. È una “guerra santa” per il presidente russo: non solo per la difesa della civiltà russa, ma anche per il cambiamento epocale dell’ordine internazionale a cui stiamo assistendo.

 

Alla celebrazione hanno partecipato i capi di Stato delle repubbliche asiatiche centrali, della Bielorussia e il capo di governo armeno, dando un segnale alla Russia di condivisione dei Paesi postsovietici sul significato profondo di questo evento mentre in Ucraina la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accoglieva «con favore la decisione del presidente Volodomyr Zelensky di celebrare il 9 maggio la Festa dell’Europa».  Una decisione, non solo fortemente simbolica, ma che ribadisce il totale distacco del Paese ucraino dalla Russia di Putin e la ferma volontà di non essere più ritenuta dal Cremlino come parte della propria sfera d’influenza.

Basta questa situazione politica per comprendere che il 9 maggio 2023 costituisce una data significativa nella storia politica putiniana.

A rendere ulteriormente amaro al Cremlino il calice della celebrazione della vittoria sul nazismo è stata la pubblicazione di un video di 27 minuti del capo della milizia privata Wagner, Evgenij Prigožin, che ha lanciato, ancora una volta, un’invettiva nei confronti dell’apparato burocratico e del ministro della Difesa Sergej Šojgu che non rispetterebbe gli ordini di Putin. La retorica putiniana della vittoria (pobeda) è stata sfidata dalle dure parole di Prigožin: la controffensiva dell’Ucraina «sarà sul terreno, non in televisione» dove la propaganda «fa vedere al nonnetto felice che tutto va bene» mentre i soldati muoiono. E ancora, «la festa del 9 maggio, è la vittoria dei nonni e, invece, di “cazzeggiare” (letterale, ndr) sulla Piazza Rossa, bisogna andare a meritare di poter festeggiare tale vittoria».

Tuttavia, c’è una frase di Prigožin che ha suscitato l’interesse degli analisti: «Supponiamo che ci sia un vecchietto felice che guarda in tv la produzione di proiettili e munizioni, e mettiamo il caso che queste munizioni invece di arrivare ai soldati vengono messe nei magazzini, e supponiamo che intanto i soldati muoiano. Non è che questo vecchietto felice sia, in realtà, un coglione (letterale, ndr)?» [1]. A quale vecchietto Prigožin si riferisce? Il ministro della Difesa? Il generale Gerasimov? O, addirittura, il capo del Cremlino? Dal tipo di risposta, possiamo comprendere fino a che punto le fibrillazioni di questi mesi tra le fazioni del Cremlino si possano tradurre in una nuova rivoluzione dall’alto, in uno scontro al vertice che potrebbe mettere seriamente in difficoltà il presidente Putin e la stabilità politica del Paese. Sinora le dichiarazioni di Prigožin erano considerate parte di un gioco delle parti nel quale il presidente russo si pone come il deus ex machina che approfitta delle divisioni interne per rimanere al potere e cercare, al contempo, di ottenere il massimo risultato sul campo militare dalla competizione tra l’esercito e la struttura paramilitare Wagner.

Questa interpretazione dei fatti richiede ulteriori verifiche e approfondimenti. Da un lato, è vero che le dichiarazioni di Prigožin non sono trasmesse in televisione e, quindi, l’effetto è inesistente sull’opinione pubblica, dall’altro lato, questi video circolano nei canali Telegram e YouTube, utilizzati da molti russi, generando dubbi sulla veridicità dell’andamento della guerra in Ucraina. In entrambi i casi, pare che il Cremlino abbia già predisposto un documento inviato ai media e intercettato dall’organizzazione indipendente Meduza nel quale si esplicita: «Se l’avanzata ucraina non avrà successo si potrà dire che le forze russe hanno respinto abilmente un attacco potente e il valore di quella vittoria crescerà in modo esponenziale. Se, invece, l’Ucraina grazie alle armi americane ed europee avrà successo e conquisterà territori, la loro perdita si spiegherà diversamente. Tutto l’Occidente ha concentrato enormi sforzi contro di noi, ma i suoi successi sono molto modesti, e l’esercito russo ha retto con dignità».

 

[1] Tradotto dal canale Telegram

 

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Immagine: Vladimir Putin saluta durante la parata del Giorno della vittoria nella Piazza Rossa, Mosca, Russia (9 maggio 2022). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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La Russia in guerra, tra sanzioni e resilienza economica

 

La questione dell’efficacia delle sanzioni applicate alla Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 continua a suscitare un acceso e polarizzato dibattito pubblico. Da un lato, gli scettici evidenziano il fallimento dei diversi pacchetti di sanzioni adottati dall’Unione Europea (UE) nella capacità di generare una profonda crisi economica o una ribellione degli oligarchi nei confronti del presidente Vladimir Putin. Dall’altro, i sostenitori ritengono che questo strumento economico di natura restrittiva possa generare una reazione del popolo russo contro il Cremlino e determinare non solo un tracollo economico, bensì un cambiamento di regime (regime change). Questo obiettivo sarebbe anche facilitato dal congelamento delle riserve in valuta della banca centrale russa all’estero e dall’esclusione delle principali banche russe dal sistema SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication) che provocherebbero una svalutazione del rublo e l’aumento dell’inflazione con conseguenze dirette sui prezzi e sulle pensioni.

Indubbiamente, le sanzioni contro la Russia costituiscono le più severe misure punitive della storia mondiale, seguite da quelle a Iran, Siria e Corea del Nord, e un primo atto concreto in politica estera per disapprovare, denunciare, contrastare azioni ritenute illecite, illegali e contro i principi del diritto internazionale.

Le sanzioni sono state, infatti, un segnale importante di coesione interna dell’UE e di una solidità dell’alleanza euro-atlantica nel condannare le azioni russe. La governatrice della Banca centrale russa, El′vira Nabiullina, ha riconosciuto che le sanzioni hanno avuto un effetto immediato sul mercato finanziario e solamente nel medio-lungo periodo inizieranno ad incidere sull’economia. Ed è proprio questo il punto dirimente. Se si rivolge ad un’economista la domanda “funzionano le sanzioni contro la Russia?”, la risposta è tendenzialmente positiva se si considerano gli effetti sul mercato finanziario, bancario e su alcuni settori produttivi come i trasporti (l’Aeroflot è costretta ad inviare i propri aerei per manutenzione all’Iran), le infrastrutture e quello tecnologico.

A questo fanno da contraltare però altri tratti dell’economia russa. Come ha affermato il portavoce presidenziale, Dmitrij Peskov, «la questione del default economico sarebbe artificiale perché la Russia dispone di tutte le risorse necessarie per ripagare il proprio debito», ha riserve esenti da sanzioni e può contare su un sistema di «mercato parallelo» attraverso il quale dalla Turchia, dalla Cina, dall’India e da altri Paesi arrivano i prodotti necessari per sostenere il settore commerciale e tecnologico russo.

 

La risposta, peraltro, non può essere altrettanto positiva/ottimista se si prendono in considerazione gli effetti politici e sociali delle sanzioni. Già dalle prime sanzioni dell’UE del 2014 contro l’annessione illegale della Crimea alla Federazione Russa, la potente macchina propagandistica ha presentato la situazione come un ulteriore attacco dell’Occidente al popolo russo ovvero una «guerra delle sanzioni» paragonata ad un atto di aggressione internazionale, che «dà alla Russia il diritto alla difesa individuale e collettiva».

I livelli di preoccupazione della popolazione, rilevati dall’istituto di ricerca, Levada Center, circa l’impatto delle sanzioni sono ad oggi piuttosto simili a quelli del 2018, quasi ad indicare una radicata abitudine del cittadino medio a reagire e a sopravvivere ai tentativi destabilizzanti, secondo la propaganda del Cremlino, degli USA e dell’UE nei confronti della Russia. Paradossalmente dal 2014 ad oggi le sanzioni sono state un boomerang perché gli effetti hanno rafforzato il governo e il presidente, i livelli di nazionalismo e patriottismo, favorito la crescita dell’economia illegale.

Se si allontanano, quindi, scenari da regime change, è la situazione economica che rimane al centro della discussione. Abbiamo visto che in altri contesti come Cuba, Iran e Corea del Nord le sanzioni non hanno funzionato come ci si aspettava e il caso russo non sembra discostarsi da questo trend. Non solo enti russi, ma anche il Fondo monetario internazionale (FMI) ha rivisto in rialzo le stime di crescita dell’economia russa per il 2023 e il 2024, confermando quanto sia necessario approfondire le dinamiche della particolare resilienza economica (ekonomicheskaya ustoychivost′), legata non solo alle risorse energetiche e ai fondi di emergenza, bensì ad un sistema di de-dollarizzazione e di scambi commerciali in valuta rublo-yuan che sembrano costituire una formula vincente per allontanare lo spettro del tracollo economico. Una situazione congegnata non solo dalla Banca centrale russa, ma anche attribuibile ad un gruppo di giovani tecnocrati che hanno studiato e lavorato all’estero a cui Vladimir Putin si è rivolto per bypassare gli effetti delle sanzioni.

Al di là delle legittime opinioni sulla validità delle sanzioni, come dimostra il Global Sanctions Data Base il fattore temporale costituisce l’unica risposta concreta e ponderata ai detrattori di questo strumento che da solo, comunque, pare non essere sufficiente per destabilizzare i regimi non democratici o porre fine alle guerre.

 

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Immagine: Persone camminano in strada in un clima primaverile, Mosca, Russia (7 aprile 2023). Crediti: YuryKara / Shutterstock.com

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Coesione patriottica e consenso verso le istituzioni nella Russia in guerra

 

La percezione del conflitto con l’Ucraina all’interno della Russia sembra delineare un quadro piuttosto consolidato del diffuso sentimento patriottico e del consenso dell’opinione pubblica nei confronti delle principali istituzioni statali, dell’esercito, dei partiti e del presidente Vladimir Putin[1].

Come rileva Denis Volkov, il direttore del Levada Center (istituto di ricerca inserito nella lista degli agenti stranieri)[2], alla base di questo sostegno sociale vi è la convinzione che il conflitto è contro l’Occidente: la Russia deve difendere la popolazione russofona nel Donbass, i confini federali e opporsi agli “estranei”, siano essi nazionalisti ucraini o membri della NATO. Da guerra preventiva/difensiva del territorio e delle minoranze russofone, appartenenti al “mondo russo” (Russkij Mir) nell’Ucraina, il conflitto ha assunto, nel tempo, anche una connotazione esistenziale che rivendica il diritto di difendere le proprie identità e cultura a qualsiasi costo. Nella classica dicotomia schmittiana – “amico/nemico” ‒ per la quale anche i prodotti alimentari sono definiti, in gergo russo, come provenienti da “paesi amici o nemici”, la narrazione del Cremlino è riuscita a unire il popolo russo contro un avversario comune e, come affermano gli intervistati, sarebbe «antipatriottico non sostenere il presidente o i nostri ragazzi in questa situazione»[3]. È un trend che, in quest’ultimo anno, conferma il sostanziale appoggio (attorno al 45%[4]) alla cosiddetta “operazione militare speciale” da parte della popolazione più matura, maggiormente prevenuta nei confronti dell’Occidente, e dagli impiegati statali che «associano il loro benessere allo stato e al potere» e vivono principalmente al di fuori delle grandi città.

 

L’atteggiamento della popolazione russa nei confronti della situazione economica costituisce un altro elemento significativo per la comprensione di questa coesione attorno alla figura del presidente Putin. Rispetto ai primi mesi dell’inizio della guerra e all’avvio della mobilitazione parziale del settembre 2022, che avevano generato una forte preoccupazione nei cittadini e il ritiro di ingenti somme di contanti e valuta estera dalle banche, la stabilizzazione economica dei mesi successivi ha cambiato positivamente lo stato d’animo delle persone. Gli interventi della Banca centrale, fondamentali per scongiurare una crisi bancaria e un tracollo economico, uniti all’aumento delle pensioni, degli stipendi dei dipendenti pubblici e ai sostegni economici ai poveri e ai coscritti, hanno determinato un maggiore ottimismo sulla reale capacità di tenuta del sistema economico russo. All’insegna del “il peggio è stato superato”, una maggiore tranquillità economica ha fatto, per il momento, dimenticare i momenti di “panico” del 2022 in una popolazione che si è, comunque, abituata alle sanzioni e ai repentini aumenti e cali dei prezzi, dovuti ancora agli effetti della fase pandemica del biennio precedente.

Questa coesione identitaria del popolo russo sembra aver prodotto effetti anche sul grado di fiducia nei confronti dei principali leader russi. In quest’ultimo anno sono, infatti, aumentate le percentuali di gradimento non solo del presidente Putin, ma, anche della cosiddetta “trojka”: il capo del governo Michail Mišustin, il ministro della difesa Sergej Šojgu e il ministro degli esteri Sergej Lavrov. E, sempre, in base ai dati del Levada Center, anche altri politici quali il portavoce della Duma, Vjačeslav Volodin, e l’ex presidente, Dmitrij Medvedev, hanno rafforzato la propria posizione in virtù delle loro aspre dichiarazioni sulla guerra, espresse nei canali Telegram[5].

Tra coloro che non sono ancora riusciti ad ottenere un buon apprezzamento nei campioni intervistati ritroviamo il “padre del popolo” ovvero il governatore della Cecenia, Ramzan Kadyrov, e il capo dei mercenari del gruppo Wagner, Evgenij Prigožin. Il primo è riconosciuto come il leader della Repubblica cecena, ma il ruolo del suo esercito in Ucraina pare che abbia generato un positivo atteggiamento dei russi verso i ceceni, in generale. Il secondo ha, invece, ottenuto una maggiore popolarità nei sondaggi solo alla fine del 2022 con un atteggiamento generalmente positivo dei russi nei confronti dell’uso di mercenari.

Tuttavia, le recenti esternazioni di Prigožin contro il ministro della Difesa russo Šojgu sembrano aver attirato l’attenzione dei media e degli analisti, soprattutto occidentali, sui primi segnali di una fibrillazione tra le varie fazioni politiche del Cremlino. Sia che si tratti di un mero scontro politico per ottenere una maggiore visibilità o peso politico, sia che si tratti di un’ambizione personale di Prigožin in vista delle elezioni presidenziali del marzo 2024, lo scontro aperto con Šojgu, uno degli esponenti più importanti della “verticale del potere” e amico del presidente Putin, è il segnale di una lotta di potere che, per la prima volta, ha oltrepassato le mura del Cremlino. Non è un caso, infatti, che la figura di Prigožin sia stata prontamente “bandita” dai media russi.

 

[1] https://www.levada.ru/2023/02/01/odobrenie-institutov-rejtingi-politikov-i-partij-yanvar-2023-goda/

[2] https://www.forbes.ru/mneniya/485310-god-specoperacii-k-cemu-prislo-rossijskoe-obsestvo

[3] https://www.levada.ru/2023/02/10/otsenki-sotsialnogo-samochuvstviya-v-yanvare-2023-goda/

[4] https://www.levada.ru/2023/02/02/konflikt-s-ukrainoj-otsenki-yanvarya-2023-goda/

[5] https://www.levada.ru/2023/02/01/odobrenie-institutov-rejtingi-politikov-i-partij-yanvar-2023-goda/

 

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Immagine: Passanti sulla Piazza Rossa e, sullo sfondo, la cattedrale di S. Basilio, Mosca, Russia (ottobre 2022). Crediti: Oleg Elkov / Shutterstock.com

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Come la guerra ha cambiato la percezione di Mosca

 

Nel primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, la battaglia sul campo continua, nell’attesa di una probabile controffensiva dell’esercito russo mirante a recuperare quella parte dei territori a loro volta riconquistati poche settimane fa dalle forze ucraine. La cosiddetta “operazione militare speciale”, voluta dal presidente Vladimir Putin, ha, sin da subito, fornito un’immagine di totale inadeguatezza strategica e militare dell’esercito russo. Gli errori dell’intelligence di Mosca, la netta sottovalutazione delle reazioni dell’opinione pubblica ucraina e del suo governo, uniti ad alti livelli di corruzione dell’apparato militare russo, hanno contribuito a mettere in dubbio le capacità e la credibilità della macchina militare russa. L’avanzata delle truppe russe in Ucraina ha subito infatti alcune battute d’arresto e avuto altissimi costi umani, economici e militari. Solamente in seguito ad alcuni avvicendamenti ai vertici dell’esercito federale e all’intervento dei mercenari del Gruppo Wagner e dei soldati ceceni guidati dal “padre del popolo”, Ramzan Kadyrov, la situazione è cambiata favorevolmente per la Russia di Putin, anche se è ancora presto per parlare di vittoria per una delle due parti in conflitto.

Il peso delle sanzioni economiche, d’altro canto, ha avuto effetti a livello finanziario e in alcuni settori industriali, ma la ricerca costante del governo russo di mercati alternativi a quello occidentale sembra trovare nella Cina e nell’India un supporto tale da consentire di adeguare l’intero sistema produttivo nazionale allo sforzo bellico: la produzione di armamenti e il mantenimento dell’esercito sono, infatti, le priorità assolute di uno Stato in economia di guerra.

Anche in conseguenza di quanto sopra detto, la guerra in Ucraina non ha ridimensionato le ambizioni internazionali della Russia in diversi contesti geopolitici dove, a partire dal 2014, Mosca ha fornito in maniera diretta o indiretta “pacchetti di sicurezza” in contesti quali la Siria, la Repubblica Centrafricana, la Libia, il Sudan, il Mozambico, il Ciad e il Mali, dimostrando il suo peso sul piano internazionale e consolidando la propria proiezione esterna. Da allora, la politica revisionista della Russia di Putin ha posto al centro dei propri obiettivi di politica internazionale non solo la questione della difesa e sicurezza del proprio territorio, ma anche una vera e propria sfida all’ordine liberale a guida statunitense. Pur essendo una potenza in declino demografico ed economico, la Russia rivendica il diritto di difendere i valori tradizionali della patria, dell’ordine e della famiglia che l’Occidente non sarebbe in grado di tutelare. Nel perseguire questo obiettivo Mosca ha scelto una postura aggressiva, di cui si erano già intraviste alcune azioni in Georgia (2008), in Crimea e nel Donbass (2014).

Nonostante questi precedenti, l’aggressione russa del 2022 in Ucraina sembra aver colto di sorpresa soprattutto l’Unione Europea (UE) che aveva, nel frattempo, accentuato la sua dipendenza energetica dal colosso russo Gazprom. Dal 24 febbraio dell’anno scorso, l’UE ha reagito con fermezza e coesione alla nuova realtà della guerra attraverso una serie di pacchetti di sanzioni, la chiusura dello spazio aereo, l’embargo alle importazioni via mare del petrolio russo e misure finanziarie ed economiche volte a marginalizzare la Russia dal mercato europeo. Ma se la guerra ha cambiato l’atteggiamento dell’Europa verso Mosca, ha modificato anche la percezione della Russia all’estero. Come hanno rilevato diversi istituti demoscopici europei, in diversi Paesi del continente l’opinione pubblica esprime in larga maggioranza un atteggiamento ostile verso la Russia. Tra questi in primis la Polonia, le democrazie scandinave, l’Inghilterra e il Belgio, mentre la Bulgaria, l’Ungheria, la Grecia e la Slovacchia sono più critiche sulla questione del sostegno militare all’Ucraina e delle sanzioni contro la Russia. Al netto delle diverse reazioni di alcuni Paesi nei confronti di Mosca per motivi di origine storica, culturale ed economica, l’attacco russo in Ucraina ha suscitato una profonda indignazione della comunità internazionale e sentimenti di astio, emersi anche nei post e negli hashtag dei diversi social media. Questa avversione non è diretta solamente contro il capo del Cremlino, ma anche verso il popolo russo, nonostante manifestazioni di protesta contro l’intervento militare si siano svolte in diverse parti della Russia. Questo sentimento comune antirusso ha colpito anche la cultura russa attraverso l’attuazione in Europa di misure di boicottaggio e di canceling nei confronti di alcuni suoi illustri esponenti.

Tuttavia, il Cremlino non sembra preoccuparsi troppo del danno d’immagine subito in Occidente, sia perché è ormai orientato verso un’Eurasia con cui condivide maggiormente valori e obiettivi, sia perché tutto preso dalla sua sfida più grande: evitare ad ogni costo di vedere l’Ucraina uscire dalla propria sfera d’influenza.

 

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Immagine: Vladimir Putin brinda con i soldati russi dopo averli premiati con la medaglia della stella d’oro alla vigilia della Giornata degli eroi della patria al Cremlino, Mosca, Russia (8 dicembre 2022). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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Come leggere i cambiamenti dei vertici militari russi

 

Dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina si sono spesso diffuse notizie di presunti conflitti all’interno della ristretta cerchia di potere del presidente Vladimir Putin. Dalle ipotesi di un colpo di Stato (rivoluzione dall’alto) allo scenario di una mobilitazione di massa (rivoluzione dal basso), non sono mancate analisi, volte ad annunciare un imminente crollo della Russia. Queste supposizioni hanno un comune indizio: i numerosi avvicendamenti nella gerarchia militare e politica del Cremlino.

L’esempio più eclatante è la recente nomina del capo di Stato Maggiore delle forze armate, Valerij Gerasimov, a comando delle forze militari russe in Ucraina, subentrato al generale Sergej Surovikin, accusato da alcune forze ultranazionaliste di essere il responsabile della ritirata russa a Cherson.  Retrocesso Surovikin al ruolo di vicecomandante di Gerasimov, è stato, invece, recuperato il generale Aleksandr Lapin a capo delle forze armate russe di terra nonostante le critiche per la gestione del comando militare a Lyman del governatore ceceno Ramzan Kadyrov e di Evgenij Prigožin, capo del gruppo Wagner (il nome è stato attribuito dall’oligarca e militare Dmitrij Utkin, appassionato del compositore tedesco e del presunto carattere virile delle sue opere).

In dieci mesi sono stati cambiati sei generali sul campo militare, ma questo nuovo assetto di comando militare russo non ha solamente lo scopo di «organizzare una migliore interazione tra le varie truppe al fronte»: è il risultato di una logica politica interna all’assetto della «verticale del potere» di Putin.

Un tratto distintivo dello stile di leadership di Putin è, infatti, approfittare degli scontri tra le fazioni di diverso orientamento politico (liberale, riformista, nazionalista, comunista ecc.) per rimanere saldamente al comando, elargendo benefici, premi e onorificenze per rafforzare la lealtà nei suoi confronti. In questa prospettiva, le sostituzioni al vertice possono essere interpretate come un chiaro segnale del presidente russo ai “falchi” Prigožin e Kadyrov che non hanno lesinato duri attacchi all’esercito. Il presidente Putin, in qualità di capo delle forze armate, non può permettersi di avvantaggiare forze esterne, come i mercenari del gruppo Wagner o l’esercito privato di Kadyrov, a danno dell’apparato militare russo, che è indispensabile per la sua sopravvivenza politica, più di quanto possa essere la componente dei siloviki (agenti dell’apparato di sicurezza FSB, Federal Security Service).

Le nomine di Lapin e Gerasimov, e il cambio di ruolo di Surovikin sono la dimostrazione che il presidente russo sostiene il vertice militare per ridimensionare qualsiasi velleità o rivendicazione politica dei ceceni e dei mercenari ed evitare la concentrazione di potere in un’unica fazione. Il principio del divide et impera ha sempre contraddistinto la gestione e il controllo dei gruppi politici di Putin in questi vent’anni. In questo caso, una riorganizzazione qualitativa e quantitativa delle forze armate dello Stato, anche attraverso una mobilitazione parziale che è ancora in atto, unita ad una maggiore cooperazione con il gruppo Wagner e l’esercito ceceno costituiscono per Putin l’opportunità di ribaltare la situazione di questi ultimi mesi: dalle sconfitte militari ad una vittoriosa controffensiva militare russa in Ucraina nelle prossime settimane. La propaganda del Cremlino sta, infatti, diffondendo il messaggio di una Russia in guerra con la NATO nell’opinione pubblica e predispone un sistema antiaereo Pantsir sull’edificio del ministero della Difesa e in altri punti strategici della città per rafforzare l’idea di una Russia minacciata dall’Occidente.

Le numerose defezioni ed epurazioni avvenute tra le file dell’intelligence russa o degli oligarchi dall’inizio della guerra non rappresentano necessariamente un indebolimento della struttura di potere, quanto la volontà di trovare un capro espiatorio (i “moscerini” di cui parlava Putin nel discorso del 17 marzo 2022) per il fallimento della fase iniziale della cosiddetta “operazione militare speciale” e di rafforzare la coesione dei fedelissimi.

La guerra ha evidenziato, per la prima volta da quando Putin è al potere, che la compattezza della verticale del potere mostra le prime crepe, anche pubblicamente, ma è, comunque, all’inizio di un processo che potrebbe richiedere ancora tempo prima di sfaldarsi. È probabile che l’esito della prossima controffensiva russa consentirà di avere un quadro più chiaro della stabilità e della sopravvivenza politica del presidente Putin: una vittoria potrebbe rafforzarlo anche in vista delle elezioni regionali del 2023 e presidenziali del 2024, ma una sconfitta potrebbe accelerare la frammentazione dell’élite al potere.

 

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Immagine: Vladimir Putin parla durante la cerimonia della firma con i leader separatisti sull’annessione di quattro regioni ucraine al Gran Palazzo del Cremlino, Mosca, in Russia (30 settembre 2022). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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Una finestra per la diplomazia, tra Cherson, Bali e la Polonia

 

La “ritirata strategica” da Cherson, così è stata presentata all’opinione pubblica russa dal ministro della Difesa, Sergej Šojgu, ha determinato un significativo punto di svolta del conflitto in Ucraina dal 24 febbraio scorso. Unico capoluogo della regione occupato e prima importante città conquistata a marzo dai russi, Cherson rappresenta non solo un importante sbocco per il trasporto del grano, ma, soprattutto, una via di accesso diretta alla Crimea. Si tratta, quindi, per il consigliere alla Sicurezza americano, Jack Sullivan, di uno «straordinario successo» che, secondo l’intelligence britannica, imprime un grave «danno reputazionale» per la Russia che dimostra le oggettive difficoltà delle forze russe sul piano militare. La vittoria militare a Cherson segnala un rafforzamento della posizione ucraina nel conflitto che ha galvanizzato gli animi dei soldati, dei civili e della classe politica a tal punto da intravedere «l’inizio della fine della guerra». Il presidente Volodymyr Zelenskij è determinato nel proseguire le operazioni militari al fine di «liberare tutti i territori» (compresa la Crimea), anche se ha dato un segnale di apertura con un «decalogo della pace» proposto al G20 di Bali. La disfatta russa a Cherson apre, infatti, la prima concreta finestra di opportunità per una soluzione diplomatica della guerra russo-ucraina. Il timore principale del presidente Joe Biden è che la strategia difensiva delle truppe russe, che stanno scavando trincee per difendere i territori occupati nei mesi invernali, comporti una “guerra di posizione”, come nella Prima guerra mondiale, che determinerà il prolungamento dello sforzo bellico con elevati costi e perdite umane e materiali. E, in effetti, dopo il fallimento della “guerra lampo” secondo gli analisti internazionali, la “guerra di logoramento” rappresenta la strategia alternativa del Cremlino che mira anche all’indebolimento della coesione politica e sociale interna all’Unione Europea. Un prolungamento del conflitto potrebbe creare un disallineamento di alcuni Paesi europei sul sostegno militare a Kiev, preoccupati per le scorte energetiche del prossimo anno e le conseguenze della crisi economica.

In Russia il silenzio del presidente Vladimir Putin, che in base alla Costituzione è il capo delle forze armate, sul ritiro delle truppe russe, potrebbe celare, da un lato, sul piano mediatico la deresponsabilizzazione del Cremlino della decisione, attribuita al generale Sergej Surovikin; dall’altro lato, una strategia difensiva, volta a concentrarsi sul mantenimento dei territori di Donetsk e Luhansk, continuando ad attaccare infrastrutture per spingere gli ucraini alla resa, addestrando altre unità militari e reperendo armi per avanzare la controffensiva russa dopo la fine del “generale inverno”.

 

Al di là delle rispettive strategie militari dell’Ucraina e della Russia che, per motivazioni diverse, non possono permettersi la sconfitta militare, il G20 di Bali ha costituito la prima e importante occasione per la ripresa di un dialogo tra gli USA e la Cina. I presidenti Biden e Xi Jinping hanno specificato che la linea rossa dell’uso dell’arma nucleare non può essere oltrepassata: a loro l’arduo compito di intercedere con Zelenskij e Putin per un cessate il fuoco. Una missione che pare, al momento, impossibile a causa di un massiccio attacco con droni e missili russi contro le infrastrutture ucraine, ma, soprattutto, dopo la notizia di un missile russo che ha provocato la morte di due persone nel villaggio polacco di Przewodów. Il presidente Zelenskij ha ribadito che la Russia di Putin mira ad attaccare la sicurezza collettiva e bisogna immediatamente agire per fermarla. Solo dopo le dichiarazioni di segno de-escalatorio del presidente Biden e del suo omologo polacco, Andrzej Duda, si è appreso che non è stato un “attacco deliberato” russo. Frammenti di un missile aereo S-300, utilizzato dall’Ucraina, sarebbero ricaduti nel territorio polacco a causa di un malfunzionamento, ancora da verificare. Tuttavia, questo drammatico episodio ci ha dimostrato che la prudenza degli Stati Uniti (apprezzata pubblicamente dal Cremlino) è stata indispensabile per evitare lo scontro NATO-Russia, anche attraverso il ridimensionamento dei legittimi timori ucraini, e, come ci insegna la storia, quanto una causa occasionale possa tramutarsi in una tragedia mondiale.

 

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Immagine: I soldati russi mobilitati vengono addestrati al combattimento presso un campo di addestramento, Tatarstan, Russia (10 ottobre 2022). Crediti: Kosmogenez / Shutterstock.com

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Il rischio di escalation nucleare nel conflitto russo-ucraino. Quali implicazioni?

 

Sono passati otto mesi dall’invasione russa dell’Ucraina e la guerra si sta avviando verso una nuova fase di escalation che desta una forte preoccupazione nell’opinione pubblica mondiale. Dopo l’ultimo discorso del presidente russo, Vladimir Putin, l’opzione di una minaccia nucleare, sino a qualche mese fa considerata impensabile, non può essere semplicemente archiviata come l’ennesimo bluff del Cremlino. La controffensiva ucraina delle ultime settimane ha indebolito politicamente e militarmente il presidente russo a tal punto da anticipare la decisione di annettere alcune regioni dell’Ucraina meridionale alla Federazione Russa attraverso consultazioni referendarie che violano il diritto internazionale. Con questa mossa il presidente Putin è nelle condizioni di applicare i principi salienti della dottrina militare che prevede, in caso di “minaccia esistenziale”, la possibilità di ricorrere all’uso di un’arma non convenzionale per difendere la sicurezza del territorio federale.

Dopo l’attacco al ponte sullo Stretto di Kerč´, ‒ un’infrastruttura strategica e simbolica che ha “riunificato” la Crimea con la “madrepatria” Russia nel 2018 ‒, il presidente Putin ha affermato che si è trattato «di un attacco terroristico ucraino, volto a distruggere le infrastrutture civili critiche della Federazione Russa». Per placare le critiche degli ultranazionalisti e dei “falchi” del Cremlino, che da settimane si lamentano pubblicamente del pessimo andamento del conflitto militare, ed evitare crepe profonde nella “verticale del potere” del sistema politico, il presidente russo deve necessariamente attuare decisioni «dure, immediate e proporzionali agli attacchi ucraini».

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Tuttavia, è giusto escludere, al momento, l’eventualità di un ricorso ad un’arma tattica nucleare. In primo luogo, Putin è consapevole che una decisione di questo tipo potrebbe ulteriormente incrinare quel patto sociale che è stato costruito e consolidato negli anni con il popolo russo. Dall’annuncio della “mobilitazione parziale” l’istituto di ricerca indipendente, Levada Center, ha rilevato, infatti, una diminuzione di sette punti percentuali del consenso nei confronti del presidente Putin, attestandosi al 77%. Una fiducia ancora ampia che potrebbe, tuttavia, vacillare anche in quel settore della popolazione ormai direttamente coinvolto nel reclutamento dei riservisti.

In secondo luogo, l’arsenale militare russo è ancora in grado di ricorrere ad armi convenzionali capaci di distruggere obiettivi strategici come infrastrutture, centrali termoelettriche e nodi logistici ucraini e, al contempo, destabilizzare psicologicamente la popolazione ucraina sino alla resa. I recenti attacchi missilistici russi nella parte settentrionale dell’Ucraina consentono di fare alcune ipotesi che confermano quanto l’opzione nucleare sia, in realtà, l’ultima ratio regum per evitare una sconfitta politica e militare russa. Da un lato, il Cremlino intende distogliere l’attenzione delle forze militari ucraine dalla controffensiva nel Sud-Est del Paese per limitare i danni di una disfatta sul campo nei territori occupati e, dall’altro, questi attacchi indicano che sinora il presidente Putin ha deliberatamente evitato di colpire obiettivi strategici in Ucraina, pur avendo a disposizione missili Kalibr, S-300 e Tornado.

Le varie sostituzioni ai vertici militari, la “mobilitazione parziale” e i raid di questi giorni dimostrano che il presidente Putin ha ceduto alle pressanti richieste delle fazioni più radicali. Si tratta, per la prima volta da quando Putin è al potere, di un forte segnale di debolezza politica che deve affrontare velocemente per soffocare i pettegolezzi e i tentativi di una potenziale sostituzione alla presidenza russa. Anche per questo motivo, Putin ha richiesto e ottenuto dal presidente Aleksandr Lukašenko l’intervento diretto dell’esercito bielorusso nel conflitto «per prevenire un imminente attacco ucraino contro Minsk» con il rischio di un’estensione del conflitto a livello regionale.

Nelle prossime settimane la stagione del fango (rasputica) potrebbe rallentare le offensive armate, come i precedenti storici delle invasioni mongola, napoleonica e tedesca testimoniano, e determinare una situazione di stallo del conflitto. Tuttavia, l’unica concreta opportunità di bloccare l’utilizzo di missili tattici nucleari in futuro risiederà nella disponibilità del presidente americano, Joe Biden, di incontrare il suo omologo russo al G20 di Indonesia. Si tratterebbe di un gesto distensivo ad elevato significato politico e simbolico per attivare un negoziato che potrebbe indurre l’Orso ferito ad uscire dalla gabbia. Se, inoltre, in quella sede ci fosse anche un confronto, con o senza intermediari, con il presidente ucraino, Zelenskij, l’opzione nucleare si allontanerebbe ancora di più. Non solo dal dibattito pubblico, ma, molto più importante, dalla mente di uno zar che non ha assolutamente intenzione di bleffare pur di salvarsi e scongiurare il crollo della Russia postcomunista.

 

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Immagine: Vladimir Putin (16 giugno 2022). Crediti: Alexey Smyshlyaev / Shutterstock.com

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Una nuova fase della guerra. Ragioni e conseguenze del discorso di Putin

 

Dopo sette mesi dall’inizio del conflitto in Ucraina, il discorso pronunciato dal presidente Vladimir Putin determina una nuova fase della guerra, un’escalation che non lascia intravedere soluzioni immediate e concrete. In seguito alla controffensiva ucraina nel Nord-Est del Paese, cha ha sancito una prima sconfitta militare e il ritiro parziale delle truppe russe, “il partito della guerra”, costituito dalle fazioni politiche più nazionaliste e radicali, ha criticato pubblicamente la gestione presidenziale del conflitto e, insoddisfatto dell’andamento negativo della cosiddetta “operazione militare speciale”, ha chiesto un’azione decisiva sul piano militare. Per la prima volta nella sua lunga carriera al potere, il presidente Putin si è trovato politicamente in difficoltà sia all’interno del “giardino d’oro” del Cremlino (le élite) sia all’esterno della Federazione Russa in seguito alle perplessità/contrarietà sul conflitto, espresse anche dai presidenti cinese e indiano al summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai.

L’unica alternativa di Putin per uscire dall’angolo era passare all’attacco ovvero rilanciare la sfida all’Ucraina e all’Occidente. Dopo aver atteso l’esito delle elezioni locali che hanno riconfermato il consenso al partito del potere, Russia unita, il Cremlino ha attuato una serie di passaggi propedeutici all’annuncio della mobilitazione parziale, come era già avvenuto per l’inizio delle ostilità lo scorso 24 febbraio. In primo luogo, sono stati implementati alcuni emendamenti legislativi, volti a disciplinare, anche sul piano del codice penale, i concetti di “legge marziale”, “mobilitazione” e “tempo di guerra”. In secondo luogo, sono state indette le consultazioni referendarie dal 23 al 27 settembre nelle autoproclamate repubbliche autonome del Donbass  ‒ Donetsk e Lugansk ‒, e negli oblast′ (regioni) di Cherson e Zaporižžja. Conseguentemente, Putin si è rivolto alla nazione, ribadendo la necessità di garantire la sicurezza del Paese contro gli attacchi, non solo dell’Ucraina, ma, soprattutto, della NATO. Pur non avendo mai pronunciato il termine “guerra”, il presidente russo ha intrapreso una scelta che incide negativamente sull’opinione pubblica del Paese. Per limitare forme di diserzione e proteste, il ministro della Difesa, Sergej Šojgu, ha elencato i criteri di reclutamento: 300.000 riservisti «con esperienza di combattimento, secondo le specializzazioni militari richieste dai comandi delle forze armate» e l’esclusione di alcune categorie: in sostanza, solo l’1% dei 25 milioni di uomini che potrebbero prestare servizio. Tuttavia, questo annuncio ha determinato manifestazioni di protesta (le forze speciali hanno fermato 1386 persone in 38 città), prenotazioni di voli verso l’estero e code automobilistiche alle frontiere. 

 

In questa drammatica situazione, due sono le domande più ricorrenti nel dibattito pubblico internazionale. Quali sono le implicazioni politiche e militari delle annessioni dei territori ucraini alla Russia? Possiamo veramente ritenere che Putin stia bleffando quando minaccia di ricorrere all’uso di armi nucleari? Il presidente Putin ha accelerato la data della “scontata” annessione, prima di tutto, per consolidare le aree già “conquistate” e, in un secondo momento, per applicare la dottrina militare e l’art. 87, comma 2 della Costituzione che sancisce l’introduzione della “legge marziale” in caso di «aggressione contro la Federazione Russa o minaccia diretta di aggressione». Dinanzi, quindi, ad un attacco dell’esercito ucraino o «minaccia esistenziale», il Cremlino è, quindi, nelle potenziali condizioni di agire con modalità diverse rispetto a quelle sinora mostrate sul campo. Certamente, il fattore temporale costituisce una variabile determinante nella nuova strategia del Cremlino che punta, in attesa dell’arrivo nei prossimi mesi dei riservisti in Ucraina, a colpire infrastrutture e servizi per mettere in estrema difficoltà la popolazione durante l’inverno e ottenerne la resa incondizionata. E in attesa di verificare la reazione dell’Occidente, diviso tra coloro che mirano al crollo politico ed economico della Russia e difendono l’integrità territoriale ucraina e quelli che auspicano una soluzione negoziale per la fine del conflitto, Putin dovrà gestire questa nuova situazione, controbilanciando le tensioni interne con quelle internazionali. Si sostiene che, razionalmente, il presidente Putin non abbia alcuna convenienza a utilizzare missili nucleari. In teoria è possibile, e non solo auspicabile, ma la “personalità autoritaria”, l’orso ferito nell’orgoglio e non solo sul campo, può essere molto pericoloso. È opportuno, quindi, non prendere decisioni impulsive, ma tentare ancora la via del negoziato. Un “congelamento” del conflitto nei prossimi mesi e una situazione sotto controllo nella politica domestica potrebbe indurre il presidente Putin a ritenersi politicamente più forte e, quindi, in condizione di accettare un dialogo. 

 

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Immagine: Vladimir Putin (marzo 2022). Crediti:  Shag 7799 / Shutterstock.com