Atlante

Barbara Onnis

Professoressa associata in Storia e istituzioni dell’Asia presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Cagliari, dove insegna International Politics of Asia e Contemporary China, e referente scientifico dell’Aula Confucio della medesima Università. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla strategia usata dalla Cina negli ultimi decenni per tentare di recuperare il terreno perduto nell’ambito delle relazioni internazionali durante il cosiddetto ‘secolo di vergogna e umiliazione’; all’elaborazione di un soft power con caratteristiche cinesi e la conseguente nascita di un “modello Cina”; al dibattito accademico e intellettuale relativo al ruolo che una Cina in crescita dovrebbe giocare sulla scena internazionale, con particolare riferimento alla continua valenza della tradizionale dottrina della non-interferenza e all’opportunità di adottare o meno un nuovo approccio più pro-attivo. È autrice di quattro monografie ‒ “Shanghai. Da concessione occidentale a metropoli asiatica del terzo millennio”; “La Cina nelle relazioni internazionali. Dalle guerre dell’oppio a oggi”; “La politica estera della RPC. Principi, politiche e obiettivi”; “Fino all’ultimo stato. La battaglia diplomatica tra Cina e Taiwan” (con F. Congiu) ‒ e di numerosi saggi, sia in lingua italiana sia in lingua inglese.

Pubblicazioni
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Il punto su Taiwan e la crisi nello Stretto

Nelle ultime settimane, la crescente tensione nello Stretto di Taiwan ha contribuito in un certo qual modo a “rubare la scena” al conflitto in Ucraina, quanto meno sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Il dossier “Taiwan” è stato infatti inserito (sia direttamente sia indirettamente) nelle principali agende degli innumerevoli incontri che si sono susseguiti, tanto a livello bilaterale quanto a livello multilaterale, sia in Cina che fuori dalla Cina: da Sánchez a Baerbock, passando per Macron e von der Leyen, dal vertice di Boao (la Davos asiatica) alla riunione dei ministri degli Esteri del G7 a Karuizawa, in Giappone. Se, da un lato, gli incontri con gli omologhi stranieri sono serviti alla Cina di Xi Jinping per tentare di ricucire i rapporti sempre più sfilacciati con alcuni dei Paesi che contano per Pechino, a partire da quelli europei, ma non solo, come ha dimostrato la visita del presidente brasiliano Lula che ha contribuito a rafforzare il fronte del Sud globale verso la costituzione di un nuovo ordine internazionale e la “de-dollarizzazione” del mondo, dall’altro hanno rappresentato l’occasione per confermare la validità del principio dell’“unica Cina”, quantomeno a livello teorico. Per la verità, su questo fronte, la Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha ottenuto una grande vittoria quando, lo scorso 25 marzo, la Repubblica dell’Honduras ha reciso formalmente i rapporti diplomatici con Taipei, dopo oltre 80 anni, e ha riconosciuto ufficialmente Pechino, riducendo ulteriormente il già limitato spazio diplomatico per la Repubblica di Cina (ROC), rimasta con soli 13 alleati, di cui solo due nell’area, considerata tradizionalmente il cortile di casa di Washington.

Al contempo, però, si è vista “costretta” ad incassare un crescente sostegno degli Stati Uniti (e del fronte democratico occidentale) a Taiwan, evidente oltre che nelle numerose prese di posizione da parte dei più, anche e soprattutto nella vendita di nuove armi sempre più avanzate all’isola, come i missili antinave Harpoon di fabbricazione Boeing che possono essere lanciati da terra, che potrebbero rivelarsi fondamentali per respingere un’eventuale invasione comunista dell’isola. Va detto che già in passato il governo di Taipei aveva acquistato missili analoghi per la propria flotta, ma la nuova versione è studiata per il lancio da piattaforma su terraferma, intesa dunque come arma antinvasione. Per non parlare del successo della visita informale effettuata dalla presidente taiwanese Tsai Ing-wen negli Stati Uniti, nei primi giorni di aprile, in occasione dei due scali tecnici a New York e Los Angeles, sulla via del Centro America, dove ha effettuato un’importante missione ufficiale volta a consolidare i rapporti con Guatemala e Belize, gli unici due Stati amici rimasti nell’area dopo lo strappo con Tegucigalpa. In uno degli scali, Tsai ha avuto modo di incontrare lo speaker della Camera Kevin McCarthy, sfidando gli avvertimenti di Pechino secondo cui gli Stati Uniti stavano “giocando con il fuoco”, il che ha dato l’occasione al governo comunista per avviare nuove imponenti esercitazioni militari, con manovre e simulazione di attacchi di precisione congiunti contro obiettivi chiave sull’isola e nelle acque circostanti, circondando letteralmente Taiwan.

Vale la pena ricordare come, mentre Tsai Ing-wen era impegnata in quella che è stata ribattezzata la “diplomazia del transito”, volta a rafforzare la collaborazione a tutto campo con Washington, oltre che a sfruttare l’occasione per promuovere sul piano internazionale Taiwan come alleato e partner dei Paesi democratici, Ma Ying-jeou era impegnato in uno storico viaggio nella RPC, in assoluto la prima visita di un presidente o ex presidente della ROC nella Cina continentale dal 1949. Per quanto sia stato presentato come un viaggio personale e di stampo culturale (era accompagnato da una trentina di studenti), è innegabile che abbia avuto anche dei risvolti di natura politica, in considerazione della sua eredità politica. Non bisogna dimenticare, infatti, che è stata l’amministrazione nazionalista di Ma che ha avvicinato, sia pure temporaneamente, i destini delle due Cine, al punto che durante i suoi due mandati (2008-16) gli analisti preannunciavano un percorso comune tra le due sponde dello Stretto, all’interno di una cornice simile alla formula “un paese due sistemi”, in vigore nelle due ex colonie di Hong Kong e Macao. E sempre Ma si era fatto promotore di una “tregua diplomatica”, accettata da Pechino, che aveva visto le due parti collaborare nel bloccare la corsa al riconoscimento internazionale dei rispettivi governi, e incrementare notevolmente gli scambi bilaterali.

 

Come riportato da alcuni osservatori, le due visite hanno molto a che fare con le dinamiche politiche interne taiwanesi, soprattutto in vista delle prossime elezioni presidenziali, previste nel gennaio 2024, tanto più cruciali in considerazione della débâcle del Partito progressista democratico (DPP, Democratic Progressive Party) in occasione delle ultime elezioni locali dello scorso novembre – motivata per la verità più da tematiche locali che non dal “fattore Pechino” – che aveva portato la stessa Tsai a dimettersi dalla guida del Partito. Sebbene un effetto diretto tra la tornata elettorale locale e quella presidenziale non sia da ritenere scontato, come l’esperienza del 2020 insegna, non si può fare a meno di leggere le mosse delle due parti dello Stretto guardando all’immediato futuro.

Laddove Ma Ying-jeou, come si è accennato sopra, è da sempre uno strenuo sostenitore della necessità di creare legami più stretti con Pechino e vuole presentare il Partito nazionalista (GMD, Guomindang) come grande pacificatore contro le azioni del DPP di Tsai, a cui viene imputato «di aggravare le tensioni e di porre l’isola in pericolo»,  la presidente taiwanese ha invece deciso di sfruttare un viaggio già programmato in America Centrale per effettuare due scali statunitensi, aggirando momentaneamente e in maniera avveduta i rischi di una visita a Taiwan dello speaker McCarthy – ritenuta solo una «questione di tempismo» – memore della grande tensione derivata dalla visita della sua predecessora, lo scorso mese di agosto. Il successo di Tsai Ing-wen nell’ambito della sua “diplomazia del transito” è tangibile. Ha infatti raccolto un grande consenso politico in modo tendenzialmente bipartisan, ricevendo onorificenze di rito e plausi nelle sue richieste di aiuto determinate dalla necessità di difendere l’isola – di cui ormai l’élite statunitense sembra non avere più dubbi, al punto che in un’intervista concessa a Kevin Baron per Defense One lo scorso 31 marzo, Mark Milley, capo degli Stati Maggiori congiunti degli Stati Uniti, esortava «a muoversi il prima possibile per armare Taiwan in modo sufficiente da resistere a un’eventuale invasione e dunque scongiurarla». In questo senso, laddove il messaggio di Tsai – rivolto non solo ai suoi elettori ma anche alla comunità internazionale, soprattutto al blocco occidentale alleato di Washington, sempre più insofferente di fronte all’assertività e arroganza di Pechino – è riassumibile nel binomio democrazia/autocrazia, quello di Ma, racchiuso nel binomio pace/guerra, punta invece a stabilizzare la situazione nello Stretto, riappacificare gli animi, mantenendo lo status quo e strizzando l’occhio alla comunità affaristica (anche occidentale) che avrebbe solo da guadagnare. Non sono pochi gli analisti che si sono concentrati sugli effetti dirompenti che l’eventuale scoppio di un conflitto nello Stretto avrebbe nelle catene di approvvigionamento globali, con particolare riferimento all’industria dei semiconduttori.

 

Ancora una volta Taiwan si conferma, dunque, come una delle carte strategiche da giocare nel processo di radicalizzazione del conflitto tra Pechino e Washington. Ma l’esito in questo caso rischia di nuocere indistintamente agli uni e agli altri, alla luce della crucialità rivestita da entrambe le Cine. Questo emerge chiaramente nella difficoltà, da parte degli stessi Stati Uniti, di adottare misure che potrebbero rappresentare una sorta di “strada senza ritorno”, per non interrompere del tutto il dialogo con Pechino. Andrebbe interpretato in questo senso il discorso pronunciato qualche giorno fa da Janet Yellen, segretaria al Tesoro americano, in visita alla School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, quando ha parlato della necessità di una relazione economica «costruttiva» e «sana» tra Stati Uniti e Cina, in cui le due nazioni possano lavorare insieme per affrontare le sfide globali nonostante i loro contrastanti interessi di sicurezza nazionale e di espansionismo economico.

 

Immagine: Mappa di Taiwan. Crediti: hyotographics / Shutterstock.com

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Cosa ci dice delle scelte di Pechino la visita di Xi Jinping a Mosca

 

Nella scelta di Xi Jinping di andare a Mosca all’indomani della sua riconferma per uno storico terzo mandato nelle cariche apicali della Repubblica Popolare Cinese (RPC) – segretario generale del Partito comunista, presidente della Commissione militare centrale, presidente della RPC – e di incontrare il suo omologo russo per la quarantesima volta dalla sua ascesa al potere (l’ottava in Russia) e la prima dallo scoppio della guerra, sembra intravedersi, da un lato, un chiaro e inequivocabile segnale di sostegno nei confronti del «caro amico» e, dall’altro, un altrettanto chiaro messaggio rivolto alla comunità occidentale, Stati Uniti in testa, ossia che gli sforzi per isolare Mosca sono sostanzialmente falliti. Per questo il presidente cinese avrà soppesato attentamente rischi e benefici, e certamente i secondi gli saranno risultati ben maggiori dei primi.

Eppure, accettando l’invito rivoltogli da Vladimir Putin in occasione del loro incontro virtuale svoltosi lo scorso 15 dicembre, e riconfermandolo a poche ore dal mandato di arresto internazionale spiccato nei confronti del presidente russo – accusato di crimini di guerra per la deportazione illegale di bambini ucraini – da parte della Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja, Xi si è accollato un grande rischio. Rischio non solo per l’immagine del Paese, che tenta “disperatamente” di uscire dalla lunga serie (oramai) di anni horribiles che si susseguono dal 2019, accreditandosi quale mediatore credibile per porre fine alla guerra (o alla wenti 问题 per usare il termine utilizzato nel position paper in 12 punti pubblicato lo scorso 24 febbraio, in occasione del primo anniversario dello scoppio della crisi ucraina), ma anche per la propria immagine di leader tra i più potenti dai tempi di Mao Zedong, che si è impegnato a far vivere al popolo cinese il “sogno” (meng 梦) di ringiovanimento nazionale – il più grande sogno del popolo cinese (zhongguo meng 中国梦) dall’inizio dei tempi moderni – che porta con sé il concetto di “rinascita” (fuxing 复兴), di ritorno alla gloria passata, da intendersi prima dell’avvento dell’imperialismo occidentale e dell’avvio del famigerato “secolo di umiliazione” (bainian chiru 百年耻辱). Ma la scelta era fatta e, senza ombra di dubbio, Xi avrà ben pensato di sfruttare questa ennesima occasione guardando ai propri interessi (forte anche del recente successo della mediazione in Medio Oriente, che ha portato alla ripresa delle relazioni formali tra Arabia Saudita e Iran). Davanti ai ripetuti moniti statunitensi rivolti non solo a Pechino, ma anche a Kiev e al suo presidente – che, a differenza della comunità occidentale, ha mostrato un minimo di interesse verso la proposta di Pechino del 24 febbraio, e probabilmente osserva con occhi diversi il bilaterale di Mosca, con l’auspicio che Xi Jinping tenga fede all’impegno di chiamare Zelenskij al termine della sua visita in Russia (come riportato dal Wall Street Journal lo scorso 13 marzo) – la Cina di Xi non ha esitato a esortare i giudici della Corte penale internazionale a non applicare «due pesi e due misure», dopo il mandato di arresto internazionale spiccato nei confronti del presidente russo. Stando a quanto dichiarato dal portavoce del ministero degli Affari esteri Wang Wenbin, a ridosso dell’inizio della visita in Russia di Xi Jinping, «la Corte Penale Internazionale deve adottare una posizione obiettiva e imparziale, rispettare l’immunità dei capi di Stato ed evitare la politicizzazione e la politica dei doppi standard». Ma è stato lo stesso Xi, in occasione dell’incontro informale con il presidente russo a poche ore dal suo arrivo a Mosca a dichiarare come i due Paesi abbiano gli «stessi obiettivi» o «condividano obiettivi simili» che, come specificato da Putin, «hanno molto a che fare con il rafforzamento dei principi fondamentali dell’ordine globale e del multipolarismo».

Con questa visita, che contribuirà certamente a rafforzare l’“asse” Pechino-Mosca e ad approfondire al contempo quella divisione tra democrazie e autoritarismi che secondo alcuni ci riporta a un clima di rinnovata guerra fredda, sia pure con tutti i distinguo, la Cina di Xi sembra aver compiuto la sua scelta di campo, in una sorta di “yibian dao 2.0” – la politica del “pendere da un lato” (verso Mosca) adottata da Mao negli anni Cinquanta. Ora come allora, infatti, per quanto la Cina voglia giocare un ruolo più indipendente sulla scena internazionale –  tenendo il piede in due staffe, nel tentativo di non alienarsi le simpatie dei Paesi occidentali (in primis l’Unione Europea, ma anche gli Stati Uniti), di cui il Paese ha un vitale bisogno per continuare la sua marcia verso la modernizzazione e la realizzazione del “sogno”, e rischiare al contempo di pagare per le azioni improvvide del suo “alleato” – non può fare a meno di allinearsi alle sue scelte, in quanto torna utile per quello che è l’“obiettivo degli obiettivi”, ossia la costituzione di un nuovo ordine internazionale che sia multipolare, perché, come ha ribadito in un tweet Hua Chunying, altra portavoce del ministero degli Esteri cinese «nessun paese è superiore agli altri, nessun modello di governo è universale e nessun singolo paese dovrebbe dettare l’ordine internazionale».

E più la Cina di Xi si sente messa con le spalle al muro dalla volontà di Washington di contrastarne l’ascesa come superpotenza globale, più si rafforza la sua determinazione nella promozione di un nuovo ordine che abbia Pechino al centro, sfruttando la crescente disillusione nei confronti degli Stati Uniti (e in parte dell’Europa), presentando al Sud globale una valida alternativa a quella che viene percepita sempre più come una sempre meno sostenibile egemonia occidentale. Un’alternativa che, come ribadito in più occasioni, ha l’ardire di promuovere gli interessi di tutti.

Vale la pena riportare un breve stralcio del lungo editoriale firmato dal presidente cinese e pubblicato sul quotidiano russo Rossiyskaya Gazeta e sul sito web dell’agenzia di stampa ufficiale RIA Novosti a poche ore dall’avvio della sua visita di Stato a Mosca, nel quale rimanda a tutte le iniziative approntate da Pechino negli ultimi anni – dalla Belt and Road, all’Iniziativa per lo sviluppo globale, all’Iniziativa per la sicurezza globale e alla recentissima Iniziativa per la civiltà globale (quanqiu wenming changyi 全球文明倡议), presentata solo qualche giorno fa come «un altro regalo della Cina al mondo» e intesa a promuovere il dialogo, l’inclusività, il rispetto reciproco e il mutuo apprendimento in seno alla comunità internazionale – che, a detta di Xi, hanno «arricchito la nostra visione di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità e hanno fornito percorsi pratici per raggiungerla. Sono parte della risposta della Cina ai cambiamenti del mondo, dei nostri tempi e della traiettoria storica».

Naturalmente, solo il tempo dirà se e come la Cina di Xi sarà davvero in grado di promuovere praticamente un nuovo ordine internazionale “democratico” e un nuovo tipo di relazioni con il Sud globale – stante la profonda asimmetria di potere – o se, come sostengono i suoi detrattori, sia tutto un bluff, destinato a rimanere nei manuali di storia come mera azione propagandistica, ad esclusivo vantaggio del governo comunista e del suo leader.  

 

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Immagine: Da sinistra,  Vladimir Putin e Xi Jinping durante una cerimonia di benvenuto al vertice BRICS di Brasilia, Brasile (14 novembre 2019). Crediti: Salma Bashir Motiwala / Shutterstock.com

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Come leggere i 12 punti della “posizione” di Pechino sulla guerra in Ucraina

 

Alla fine, dopo tante speculazioni, il 24 febbraio 2023 nel sito del ministero degli Esteri cinese è stato pubblicato un documento specificamente dedicato alla crisi ucraina: non una “proposta di pace” (heping jihua 和平计划), come in tanti avevano anticipato nei giorni precedenti, sulla scia delle dichiarazioni di Wang Yi, in occasione del suo tour europeo e della tappa a Mosca, di rientro in Cina, quanto piuttosto un “position paper” (lichang wenjian 立场文件), che racchiude in una serie di punti (12) la posizione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) di fronte a quella che viene “liquidata” come una wenti 问题 (questione, problema) – ma non solo – avanzando al contempo delle proposte per una sua possibile soluzione. Si tratta, infatti, di una summa della visione della Cina di Xi Jinping dell’evolversi del sistema internazionale a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina e contiene dei riferimenti non solo alla guerra – che Pechino potrebbe “sfruttare” per confermare la sua postura di potenza responsabile (in particolare i punti dal quinto al nono e l’ultimo, dedicati alla questione umanitaria, allo scambio dei prigionieri, alla inammissibilità dell’uso di armi nucleari, al rispetto dell’accordo sul trasporto del grano attraverso il Mar Nero, all’intenzione di svolgere un ruolo costruttivo nella ricostruzione postbellica) –, ma anche ad altre questioni “annose” che attengono agli equilibri internazionali e che la Cina vorrebbe scardinare. Queste vanno dall’abbandono della “mentalità da guerra fredda”, all’unilateralismo, all’egemonia e al continuo utilizzo di “doppi standard”, solo per citarne alcuni. Per chi si occupa di Cina, si tratta di aspetti abbastanza risaputi, sia perché rappresentano i pilastri della politica estera cinese, racchiusi nei “cinque principi della coesistenza pacifica” (heping gongchu wu xiang yuanze 和平共处五项原则) e ribaditi nei cosiddetti “Core interests” (hexin liyi 核心利益) – è il caso, per esempio, del principio del “rispetto reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità” (huxiang zunzhong zhuquan he lingtu wancheng 互相尊重主权和领土完整) che viene ribadito nel primo punto del documento –, sia perché sono state a lungo ripetute a mo’ di mantra.

 

L’aspetto più interessante del documento risiede, forse, nella volontà di Pechino di ergersi a mediatore nella guerra, “dispensando” consigli a trecentosessanta gradi, pur rimanendo ferma nella sua postura di “neutralità pro-russa”, come rivela la decisione di astenersi dall’ultima risoluzione (non vincolante) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scorso 23 febbraio, che chiedeva la fine delle ostilità in Ucraina e il ritiro immediato delle forze russe, «per una pace giusta e duratura». Così, nel primo punto, mentre viene sottolineata la necessità di rispettare la sovranità e l’integrità territoriale di tutti i Paesi, nessuno escluso, in considerazione del fatto che “tutti i paesi sono uguali, indipendentemente dalle loro dimensioni, forza o ricchezza” (è il concetto di “democratizzazione delle relazioni internazionali” che Pechino va ripetendo da diversi lustri), al contempo viene indicata la necessità di «un’applicazione identica e uniforme del diritto internazionale» e il rifiuto dell’uso di doppi standard. Nel secondo punto Pechino chiede, invece, di «abbandonare la mentalità della guerra fredda» e sottolinea che la sicurezza regionale «non possa essere garantita rafforzando ed espandendo i blocchi militari», ma tenendo «in debita considerazione i legittimi interessi e le preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi». È questo il concetto di “sicurezza indivisibile”, un concetto certamente non nuovo, essendo incluso negli accordi di Helsinki del 1975, e caro sia a Mosca sia a Pechino. Questo concetto è, infatti, alla base della cosiddetta Iniziativa di sicurezza globale (quanqiu anquan changyi 全球安全倡议), lanciata lo scorso aprile da Xi Jinping, in occasione del Boao Forum for Asia (la Davos asiatica), per la costituzione di un ordine internazionale alternativo a quello istituito a Bretton Woods al termine del secondo conflitto mondiale e guidato dagli Stati Uniti d’America. A esso è dedicato il “concept paper” pubblicato da Pechino la scorsa settimana (quanqiu anquan changyi gainian wenjian 全球安全倡议概念文件), contestualmente al position paper sull’Ucraina, che vuole essere il “piano” del governo cinese volto a garantire la sicurezza globale «davanti alle molteplici sfide e ai rischi rari» che la comunità internazionale si trova da affrontare (guoji shehui zheng jingli hanjian de duochong fengxian tiaozhan国际社会正经历罕见的多重风险挑战).

 

Come era prevedibile, al di là dell’apprezzamento generale per la mossa di Pechino, che rappresenta innegabilmente un primo segnale della presa d’atto della necessità di fare la propria parte per la risoluzione della crisi, come si confà ad una grande potenza responsabile, e definita non a caso dal portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Français Stéphane Dujarric de la Rivière  un «contributo importante» (yi xiang zhongyao gongxian一项重要贡献), con riferimento soprattutto ai punti relativi all’opposizione all’uso o alla minaccia dell’uso di armi nucleari (punti 7-8) – come riportato dal quotidiano portavoce del Partitoi contenuti del documento non sembra siano stati sufficienti per convincere gli scettici, tutt’altro. Sono stati in particolare gli Stati Uniti ad esprimere la reazione più dura. In una intervista alla CNN, subito dopo la pubblicazione del documento, il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan ha respinto gran parte del contenuto della proposta, dicendo che avrebbe potuto fermarsi «al punto uno».

Vale la pena soffermarsi su alcuni degli aspetti ritenuti maggiormente critici e che rischiano di rendere il documento lettera morta. In primis, il continuo rifiuto di Pechino di condannare la guerra di invasione (e addirittura di definirla come tale); in secondo luogo, l’utilizzo di un linguaggio politico neutro, soprattutto nel terzo punto, dedicato alla «cessazione delle ostilità», dove si sottolinea come «i conflitti e le guerre non giovino a nessuno» e pertanto tutte le parti dovrebbero mantenere la moderazione, non aggiungere benzina sul fuoco e prevenire un’ulteriore escalation, lanciando un forte appello affinché si favorisca la ripresa del dialogo diretto tra la Russia e l’Ucraina. Questo punto, in particolare, sembra mettere i due Paesi sullo stesso piano, dimenticando il fatto che uno è l’aggressore e l’altro è l’aggredito, che l’uno ha violato i principi base del diritto internazionale e fatto carta straccia della Carta dell’ONU, che nel sopracitato concept paper dedicato all’Iniziativa di sicurezza globale, è inserito tra i “concetti e i principi fondamentali” (hexin linian yu yuanze 核心理念与原则) del nuovo ordine di cui Pechino auspica la costituzione. Infine, le persistenti contraddizioni insite nella postura mantenuta dalla Cina fin dal principio: laddove rivendica la propria neutralità nella guerra, avvalla al contempo la posizione di Mosca sui motivi scatenanti della stessa, ossia il tentativo di espansione della NATO verso est, confermando quella che viene vista sempre più come una “neutralità filo-russa” e che, a questo punto della guerra, è ritenuta sempre meno sostenibile. È oltremodo sempre più evidente come il tentativo di tenere il “piede in due staffe”, continuando a garantire un sostegno politico-ideologico alla Russia di Putin, da un lato, e cercando di convincere il mondo occidentale di essere un mediatore indipendente e affidabile, dall’altro, non stia producendo i suoi frutti... quanto meno per ora.

 

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Immagine: Xi Jinping (5 luglio 2017). Crediti: 360b / Shutterstock.com

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La missione diplomatica di Wang Yi in Europa. Un commento

 

Quella appena trascorsa è stata una settimana particolarmente impegnativa per il consigliere di Stato della Repubblica Popolare Cinese, Wang Yi, direttore della Commissione per gli Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese, che lo ha visto coinvolto in un “mini” tour europeo che ha toccato Parigi, Roma, Monaco – dove ha preso parte alla cinquantanovesima edizione della Conferenza sulla sicurezza (17-19 febbraio) e ha incontrato, a margine, il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, e il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken – e Budapest, con un duplice obiettivo. Da un lato, tentare di ricucire i rapporti con alcuni dei Paesi europei che “contano” nell’ottica di Pechino e che possono intercedere con Bruxelles per la ripresa del dialogo, il ripristino delle relazioni commerciali e il rilancio della Belt and Road Initiative, in un momento di rinnovata recrudescenza delle tensioni e scambio di accuse con Washington legati al sorvolo (e abbattimento) di alcuni palloni aerostatici cinesi nei cieli americani nelle scorse settimane, e nonostante l’ammissione del presidente Biden, secondo la quale gli Stati Uniti non avrebbero alcuna indicazione che i tre oggetti abbattuti negli scorsi giorni fossero legati al programma di palloni spia cinesi, laddove probabilmente «si trattava di strumenti scientifici di entità private»; dall’altro ri-proporsi nella veste di grande potenza responsabile che intende contribuire alla governance globale, a partire dalla risoluzione della crisi ucraina.

E proprio in occasione della Conferenza sulla sicurezza di Monaco (prevalentemente focalizzata sulla guerra in Ucraina), Wang Yi ha annunciato che il presidente Xi Jinping avrebbe presto presentato una «proposta di pace» per la risoluzione del conflitto, esortando espressamente i leader europei presenti «a salire a bordo e a smarcarsi dagli USA». «Dobbiamo pensare con calma, soprattutto i nostri amici in Europa, agli sforzi che dovrebbero essere fatti per fermare la guerra; al quadro da delineare per portare una pace duratura in Europa; al ruolo che dovrebbe svolgere l’Europa per manifestare la sua autonomia strategica». Al contempo, ha lanciato un attacco diretto alla reazione pressoché «isterica» ​​di Washington davanti ai palloni cinesi sopra lo spazio aereo americano, descrivendo gli Stati Uniti come guerrafondai. Analogamente, laddove l’incontro con Blinken si è svolto all’insegna della tensione, con pesanti ammonimenti da parte USA soprattutto con riferimento al presunto imminente invio di «aiuti letali» a Mosca da parte di Pechino, quello con Borrell è risultato più disteso sia nei toni sia nei contenuti. In effetti, sebbene Bruxelles non abbia rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale sull’incontro, i tweet pubblicati dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza lasciano intravedere un comune accordo relativamente alla «necessità di impegnarsi su questioni di interesse comune, comprese quelle su cui non siamo d’accordo».

 

Ciò detto, rimane l’annoso problema legato all’incapacità dell’Unione Europea (UE) di parlare con una sola voce e di esprimersi all’unisono. Così, laddove Borrell ha ribadito che l’UE è impegnata nel rispetto della politica di una sola Cina, riconosce il governo della Repubblica Popolare Cinese quale legittimo governo di tutta la Cina, sostiene la Cina nella salvaguardia della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale, da più parti è stata sollevata la questione di Taiwan, dopo le parole espresse del segretario generale della NATO,  Jens Stoltenberg, nel saluto inaugurale alla Conferenza di Monaco, secondo le quali «quello che sta accadendo oggi in Europa potrebbe accadere domani in Asia». In particolare, nel momento in cui Wolfgang Ischinger (ex ambasciatore tedesco negli Stati Uniti e presidente della Conferenza sulla sicurezza di Monaco dal 2008 al 2022) ha chiesto a Wang Yi se potesse dare rassicurazioni alla platea sul fatto che non fosse imminente un attacco a Taiwan, egli ha risposto seraficamente di poter «assicurare a questa platea che Taiwan è parte del territorio cinese. Non è mai stato uno Stato autonomo e non lo sarà neanche in  futuro. Non è la Cina a voler cambiare questo status quo, ma forze separatiste a Taiwan. Noi dobbiamo impegnarci contro il separatismo». Con un riferimento all’Ucraina, ha poi aggiunto che Pechino «ripete quanto sia importante mantenere l’integrità e la sovranità territoriale», specificando che «questo deve valere anche per la Cina» e condannando i doppi standard.

 

Di fronte alla complessità dei problemi che la guerra in Ucraina sta sollevando, e di cui si fatica a intravedere una fine in tempi brevi, la missione di Wang Yi in Europa e la presenza alla Conferenza di pace di Monaco è stata innegabilmente di cruciale rilevanza, sebbene le sue esternazioni siano apparse a tratti ripetitive e inconcludenti. Analogamente la presunta «proposta di pace» del presidente Xi è stata accolta dai più con inevitabile scetticismo, sebbene in tanti vi abbiano visto un primo segnale di riconoscimento, da parte di Pechino, di come la guerra non possa essere considerata esclusivamente un affare europeo. In questo senso vi è chi, come il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha definito «positivo» anche il solo fatto che sia stata menzionata un’«iniziativa» cinese per la pace. Viceversa, come c’era da aspettarsi, l’idea è stata accolta con particolare diffidenza da Washington. A Monaco, la vicepresidente Kamala Harris ha replicato che «gli Stati Uniti sono preoccupati dal fatto che Pechino abbia approfondito le sue relazioni con Mosca dall’inizio della guerra», aggiungendo che qualsiasi mossa della Cina «per fornire un sostegno letale alla Russia non farebbe altro che premiare l’aggressione, continuare a uccidere e minare ulteriormente un ordine basato sulle regole». Dello stesso avviso anche la presidente della Commissione Difesa tedesca Agnes-Marie Strack-Zimmermann, secondo la quale l’annuncio cinese appare come «una storia per distrarre da quello che accade nel mare indocinese», a Hong Kong come a Taiwan.

Insomma, per valutare gli esiti della missione di Wang Yi bisognerà quantomeno attendere l’evolversi degli eventi nel breve, brevissimo periodo. Da una parte, la tappa moscovita del ministro degli Esteri cinese di rientro in patria (e dopo essersi fermato a Budapest, per omaggiare il grande amico europeo Viktor Orbán), nella giornata di ieri che, secondo alcuni, punterebbe proprio a rafforzare la posizione della Cina quale potenza mediatrice del conflitto; dall’altra il discorso di Xi Jinping in occasione del primo anniversario dell’invasione russa, il prossimo 24 febbraio, nel corso del quale, dovrebbe esplicitare i contenuti della proposta di pace alla quale ha fatto riferimento Wang Yi nel suo discorso a Monaco.

 

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Immagine: Wang Yi (24 settembre 2022). Crediti: lev radin / Shutterstock.com

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Un modello di sviluppo più verde per la Cina

La questione ambientale costituisce innegabilmente uno dei maggiori capitoli dell’agenda politica della Repubblica Popolare Cinese, per via delle sue vaste ripercussioni sia a livello domestico sia a livello internazionale. Dal 2007 la Cina ha superato gli Stati Uniti quale principale emettitore di CO2, attirandosi una crescente ostilità da parte della comunità internazionale, con grave detrimento della propria immagine e del proprio soft power. Ma Pechino ha sottoscritto tutti i maggiori accordi internazionali sull’ambiente e, dopo il recente ritiro statunitense dall’accordo di Parigi, ha assunto di buon grado il ruolo di capofila nella lotta ai cambiamenti climatici, volendo presentarsi sulla scena internazionale come un attore affidabile e responsabile anche in materia ambientale. La leadership cinese vede, infatti, negli impegni assunti a Parigi e ribaditi a Bonn agli inizi di novembre, uno strumento per rendere più sostenibile il proprio modello economico e puntare su innovazione e ricerca.

In effetti, già a partire dal 2013 è iniziata una lenta ma costante riduzione della dipendenza dal carbone, laddove sono aumentati gli investimenti in energie rinnovabili, con l’obiettivo di aumentare del 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2030, con particolare riferimento ai settori eolico e solare, aumentando al contempo anche i posti di lavoro. Basti pensare che il 40% dei lavoratori nel settore delle rinnovabili, a livello mondiale, è cinese.

La Cina si è attivata da tempo per l’introduzione di politiche nazionali per la salvaguardia ambientale, in considerazione della sua stretta correlazione con il fenomeno della corruzione e ancor più con la problematica legata alla salute dei cittadini e dunque con la stabilità sociale. L’emergere della questione ambientale va fatta risalire all’avvio della politica di “riforma e apertura” (gaige kaifang zhengce), a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che ha sancito il passaggio da economia pianificata a economia di mercato e ha garantito al Paese una formidabile crescita economica che prosegue ancora oggi, sia pure con ritmi meno sostenuti. Si potrebbe dire che essa sia figlia del miracolo cinese.

È innegabile, infatti, che la rapida crescita economica, al di là dei suoi effetti benefici sulle condizioni di vita della popolazione in generale, abbia avuto delle forti ripercussioni sull’ecosistema del Paese, per via dell’intenso sfruttamento delle risorse naturali e della crescita delle produzioni industriali maggiormente inquinanti e a forte consumo energetico. L’accelerazione dei processi di industrializzazione e urbanizzazione, l’eccessiva dipendenza dal carbone quale fonte di energia fossile predominante, l’elevato livello di intensità energetica dell’industria manifatturiera, oltre all’applicazione poco rigorosa della normativa inerente la produzione ambientale  ̶  prodotta fin dagli anni Settanta  ̶  possono essere annoverati tra le ragioni principali del preoccupante livello di inquinamento che colpisce indistintamente aria, acqua e sottosuolo. Non a caso, esso rientra tra le cause principali dei cosiddetti “incidenti di massa” (qunti xing shijian) che scuotono il Paese fin dai primi anni Novanta e che grazie alla diffusione di internet sono diventati strumenti efficaci per esprimere la rabbia dei cittadini. Il motivo non è difficile da comprendere, visto e considerato che quella del degrado ambientale è una problematica che riguarda tutti, più o meno indistintamente.

Diversi studi scientifici rivelano che la qualità dell’aria tossica in Cina è responsabile di oltre un milione di morti ogni anno e di un terzo dei decessi nelle città principali, al pari del fumo. I livelli di concentrazione di polveri sottili (PM2,5) – causa principale di malattie respiratorie, cardiovascolari e di tumori ai polmoni – sono costantemente più elevati di almeno 5 volte rispetto ai limiti fissati dall’OMS, con casi critici che hanno visto superare il limite anche di 100 volte, come accaduto nel dicembre del 2016 a Shijiazhuang, capoluogo della provincia dello Hebei. La correlazione tra inquinamento e salute è stata denunciata per la prima volta nel 2009 da un giornalista di inchiesta di una televisione di Hong Kong, all’indomani dell’individuazione dei famigerati “villaggio del cancro” (aizheng cun), la cui esistenza è stata riconosciuta da Pechino nel 2013.

Ciò detto, il governo cinese, già da qualche anno, si è impegnato nell’adozione di politiche volte a integrare e bilanciare protezione ambientale, crescita economica e stabilità sociale. Il tema della sostenibilità della crescita è stato declinato nei Piani quinquennali sin dai primi anni Ottanta, partendo dall’introduzione di concetti quali “società armoniosa” (hexie shihui), “visione scientifica dello sviluppo” (kexue fazhan guan), “sviluppo dell’industria verde” (luse chanye fazhan), e dall’inserimento di obiettivi ambiziosi resi via via obbligatori – a partire dal VI (1981-1985) dove, per la prima volta, si faceva un richiamo esplicito alla necessità di rafforzare la protezione dell’ambiente, passando per il XII (2011-2015) che vedeva l’industria verde (luse chanye) tra i settori strategici emergenti, per arrivare all’ultimo, il XIII (2016-2020), definito “il più verde di tutti i piani” (zui luse de wu nian jihua). Di rilevanza ancora maggiore è il cambio di atteggiamento sotteso della leadership cinese, evidente nell’enfasi crescente posta nella tutela ambientale e nella conservazione delle risorse naturali, attraverso la promozione dell’uso di energie rinnovabili, e nella maggiore attenzione riposta sulla qualità piuttosto che sulla velocità della crescita economica.

A conferma di ciò vi è l’inserimento della questione ambientale e della crescita sostenibile fra i punti chiave della campagna del “sogno cinese” (Zhongguo meng) di Xi Jinping, che ne ha fatto uno strumento utile per valutare le performance dei quadri di governo locali, laddove fino a qualche tempo fa essi erano giudicati sulla base del tasso di crescita del PIL, e della nuova Legge per la protezione ambientale (Huanjing baohu fa), in vigore dal 1° gennaio 2015, che inasprisce le pene per i trasgressori e aumenta le responsabilità dei funzionari pubblici. Insomma, dopo svariati decenni di crescita incontrollata, la Cina sembra essere giunta a un inevitabile punto di svolta, contrassegnato dal passaggio dalla vecchia impostazione di “crescita a ogni costo” a un nuovo modello di sviluppo sostenibile attento all’ambiente e alla salute della popolazione, in linea con la visione radicata nel pensiero tradizionale cinese che considera l’uomo come parte integrante della natura.

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Pechino a un anno dallo scoppio della crisi ucraina

Ad un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, seguita all’invasione russa nel Paese, la Repubblica Popolare Cinese (RPC) è rimasta apparentemente ferma nel proprio atteggiamento ondivago ed equilibrista, nel tentativo di non compromettere del tutto la propria reputazione di “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo), giunta ai minimi storici. Ad essere mutate però sono le condizioni in cui versa la Cina di Xi Jinping, sia dal punto di vista economico e sociale, sia dal punto di vista delle relazioni internazionali, che rendono sempre più impellente un cambio di rotta da parte di Pechino. Infatti, per quanto la conferma di Xi per un terzo mandato, in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese (PCC), potesse essere interpretato agli occhi dei più come una riprova dell’onnipotenza del leader cinese, e nonostante i toni positivi utilizzati da lui utilizzati in occasione del suo tradizionale discorso di fine anno, nel corso del quale ha definito la Cina di oggi come un «Paese dove i sogni diventano realtà» (jintian de zhongguo, shi mengxiang jielian shixian de zhongguo), di fatto alcuni  accadimenti degli ultimi mesi hanno contribuito a metterne in evidenza non poche debolezze. A partire da un calo della crescita dell’economia, messa letteralmente in ginocchio da una pesantissima politica “zero Covid” – recentemente abbandonata, ma i cui effetti si faranno certamente sentire nel lungo periodo – che è stata accompagnata dal tracollo del settore immobiliare, da sempre uno dei motori propulsori della crescita economica cinese, da una diminuzione delle esportazioni e da pericolosissime proteste sociali che hanno direttamente investito la leadership, come non si vedeva dalla fine degli anni Ottanta. A questo si aggiungano i dati relativi al calo demografico cinese, che combina un tasso di natalità ai minimi storici (il primo dal 1961) e un indice di mortalità ai livelli più alti dalla metà degli anni Settanta, stando ai dati rilasciati dall’Ufficio nazionale di statistica il 17 gennaio, che non lasciano presagire nulla di buono.

 

Le preoccupazioni del leader cinese in ambito domestico non sono ovviamente disgiunte dalla politica estera e dalle relazioni internazionali del Paese. Il gravissimo danno di immagine determinato dalla pandemia e rafforzato dalla posizione assunta di fronte alla guerra in Ucraina si è inevitabilmente tradotto in una drastica riduzione dei rapporti con buona parte delle cancellerie straniere “che contano”, a partire da quelle di Unione Europea (UE) e Stati Uniti, entrambi di cruciale rilevanza per la Cina. Non bisogna dimenticare che, a partire dai primi anni Duemila, e per oltre un decennio, RPC e UE sono stati il principale partner economico l’uno dell’altro, né che, al di là degli alti e bassi, anche il legame tra Pechino e Washington è stato a lungo considerato “a doppia mandata”. In questo senso Xi Jinping ha l’impellente necessità di riportare sui binari le politiche estere ed economiche promosse da Pechino.

Non stupisce pertanto il fatto che, per quanto ufficialmente la leadership cinese non abbia mai rinnegato l’amicizia “speciale” con la Russia di Vladimir Putin, continuando a condannare la mentalità da guerra fredda dell’Occidente e della NATO in primis – come si evince, da un lato, dai contenuti dell’ultimo incontro virtuale tra Xi Jinping e Putin, lo scorso 30 dicembre, in occasione del quale hanno concordato di continuare a rafforzare le relazioni bilaterali e, dall’altro, dalla reazione cinese all’indomani della firma della terza dichiarazione congiunta di cooperazione tra l’UE e la NATO, il 10 gennaio 2023 –, stiano emergendo al contempo alcuni segnali che sembrerebbero rivelare il tentativo di studiare e mettere a punto misure volte al miglioramento dei suoi rapporti diplomatici, oltre che al rilancio dell’economia cinese. È quanto si desume, soprattutto, dalle testimonianze di alcuni funzionari del PCC riportate in forma anonima dal quotidiano londinese Financial Times, in un articolo pubblicato il 10 gennaio, in base alle quali la Cina starebbe cercando di riorientare la propria politica estera per prendere le distanze dalla Russia, nel timore di un declino dell’economia e del potere politico di Mosca in seguito alla disastrosa operazione in Ucraina. I funzionari cinesi si sono detti convinti che gli obiettivi di Putin in Ucraina non saranno raggiunti e la Russia uscirà dalla guerra come una «potenza minore», molto ridimensionata economicamente e diplomaticamente sulla scena mondiale, e hanno definito il leader russo un «matto», in riferimento al fatto che la decisione di invadere l’Ucraina sarebbe stata presa da un gruppo molto ristretto di persone (oltre al presidente), ragion per cui, la Cina dovrebbe smarcarsi e «non deve limitarsi a seguire la Russia».

Vale la pena ricordare come sempre il Financial Times avesse riportato, lo scorso mese di novembre i malumori e il disappunto di Zhongnanhai (sede del Partito comunista e del governo della RPC) per la scelta del leader russo di non informare il suo omologo cinese dell’intenzione di lanciare un’invasione su vasta scala in Ucraina, in occasione del loro incontro a Pechino durante le Olimpiadi invernali, che si era chiuso con la famosa Dichiarazione congiunta per una nuova era delle relazioni internazionali e dello sviluppo globale sostenibile. Stando a quanto riportato sul quotidiano britannico, in quell’occasione Putin avrebbe informato Xi che la Russia non escludeva di adottare tutte le misure possibili nel caso in cui i separatisti dell’Est dell’Ucraina avessero attaccato il territorio russo causando disastri umanitari, parole che erano state interpretate dalla Cina come un potenziale segnale di un impegno militare limitato, laddove non lasciavano presagire l’invasione su vasta scala lanciata da Mosca contro l’Ucraina venti giorni dopo. A conferma della plausibilità di quanto fosse lontana da Pechino l’idea di un attacco unilaterale da parte della Russia sarebbe il fatto che proprio l’incapacità dell’intelligence cinese di prevedere l’invasione russa dell’Ucraina aveva portato alla destituzione, nel mese di giugno, dell’allora viceministro degli Esteri, nonché massimo esperto di Russia, Le Yucheng, fino ad allora tra i papabili candidati alla carica di nuovo ministro degli Esteri.

Alla luce di quanto detto sopra, non stupisce che nell’ultimo incontro di dicembre tra Xi e Putin, al di là del clima di intesa su tutti i fronti (anche in considerazione del fatto che il commercio bilaterale ha raggiunto il record di 192 miliardi di dollari nel 2022, rispetto ai 147 dell’anno precedente), il leader cinese non tralasci di evidenziare la necessità di rafforzare il «coordinamento strategico» tra i due Paesi, volto a riportare «maggiore stabilità al mondo» al fine di contenere e ridurre quella che viene percepita come una pressione senza precedenti da parte dell’Occidente, che per Xi Jinping rappresenta la condicio sine qua non per uscire dal pantano della crisi ucraina. Sembrerebbe andare in questo senso l’annunciato “tour” di Wang Yi in Europa nelle prossime settimane, dove si prevede che prenderà a parte alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco tra il 17 e il 18 febbraio, e successivamente si recherà in visita a Bruxelles, nel tentativo di rispristinare il dialogo e le relazioni con una UE sempre più scettica in merito alle sue future relazioni con Pechino. Analogamente il “ridimensionamento” nei ruoli di Zhao Lijian – ex portavoce del ministero degli Esteri e uno dei massimi esponenti della cosiddetta diplomazia dei “lupi guerriero” che, con i suoi 1,9 milioni di followers su Twitter, aveva spesso usato il suo account per scagliarsi contro l’Occidente, e soprattutto contro gli Stati Uniti, durante le fasi più acute del Covid-19 –, recentemente nominato uno dei tre vicedirettori di un dipartimento pressoché sconosciuto del ministero degli Esteri, ossia il dipartimento per gli Affari dei confini e oceanici, potrebbe essere interpretato come l’esigenza di abbassare i toni e tornare sui canali tradizionali di una diplomazia e di un corpo diplomatico spesso lodato per le sue qualità – preparazione, professionalità, affidabilità – il cui emblema è stato a lungo rappresentato da Zhou Enlai, il quale, in un clima di grande ostilità era riuscito con il suo savoir-faire a coltivare molte amicizie per il suo Paese, convincendo le sue controparti straniere che la Cina comunista non aveva alcuna intenzione di sfidare lo status quo, pur perseguendo i suoi legittimi interessi sulla scena mondiale.

 

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Immagine: Xi Jinping (30 novembre 2018). Crediti: Matias Lynch / Shutterstock.com

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Cosa significa, per Pechino e per il mondo, il calo demografico cinese

 

La notizia diffusa lo scorso 17 gennaio da Yang Yi, commissario dell’Ufficio nazionale di statistica della Repubblica Popolare Cinese (RPC), secondo la quale alla fine del 2022 la popolazione continentale (che esclude i residenti di Hong Kong, Macao, Taiwan e i cittadini stranieri residenti in queste aree) era di 1.411.075 persone, con una diminuzione di 850 mila unità rispetto a quella registrata alla fine del 2021, ha fatto subito il giro del mondo ed è stata accolta con un generale senso di apprensione e di inquietudine dalla comunità internazionale, in considerazione del fatto che si è accompagnata al dato relativo alla crescita cinese per l’anno 2022 del 3%, ben lontana dalle stime ufficiali divulgate nel mese di marzo in occasione della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo (che fissavano il tetto al 5,5%), e ai livelli più bassi da oltre quattro decenni, complici i problemi legati alla crisi pandemica, soprattutto le prolungate chiusure determinate dalla politica draconiana dello “zero Covid”, l’indebolimento della domanda estera, il tracollo del settore immobiliare.

Il dato del calo demografico, che combina un tasso di natalità ai minimi storici e un indice di mortalità ai livelli più alti dal 1976, si inserisce, dunque, in un contesto nazionale instabile e incerto che porta, inevitabilmente, a riflettere su quelle che potrebbero essere le sue conseguenze, sia nel breve sia nel lungo periodo, sia per la Cina sia per il resto del mondo. I timori sono legati al fatto che il declino demografico possa essere solo all’inizio, e che il trend della decrescita della natalità potrebbe trovare conferma negli anni a venire, con gravi conseguenze oltre che per la stessa Cina – che si ritroverebbe con una popolazione sempre più vecchia e con una forza lavoro ridimensionata, che comporterebbe un inevitabile aumento del costo del lavoro – anche per il resto del mondo, in considerazione del ruolo chiave giocato dalla nazione asiatica nel trainare la crescita, quale seconda economia globale. In effetti, la pandemia ha chiaramente illustrato come i problemi interni alla RPC siano in grado di influenzare il flusso del commercio e degli investimenti globali, con i blocchi e i controlli alle frontiere che interrompono le catene di approvvigionamento.

La stampa internazionale ha riportato unanime il fatto che si tratterebbe del primo calo demografico dal 1961, quando la fallimentare politica del “Grande balzo in avanti” (dayuejin), voluta dal “grande timoniere” (weida de duoshou) per “bruciare le tappe” e accelerare la modernizzazione del Paese, aveva causato la morte per gli stenti e l’inedia di svariate decine di milioni di cinesi. Oggigiorno alla base del calo vi è, invece, una combinazione di fattori che ruotano attorno alla politica del controllo delle nascite introdotta dalla Cina negli anni Ottanta – al fine di contrastare quello che veniva considerato come un eccessivo incremento demografico, tanto da mettere a rischio la politica modernizzatrice del “piccolo timoniere” (xiao duoshou) – e alle sue conseguenze nel lungo periodo, quali il cambio di atteggiamento nei confronti del matrimonio e della famiglia tra le giovani generazioni; la radicata disuguaglianza di genere e le crescenti difficoltà legate all’allevamento e all’istruzione dei figli nelle sempre più costose città cinesi. Cause che, per quanto la crisi pandemica degli ultimi anni abbia contribuito ad esacerbare, affondano le loro radici in oltre tre decenni di “politica del figlio unico” (dusheng zinü zhengce), la quale, pur avendo assolto all’obiettivo di rallentare il tasso di crescita della popolazione, impedendo, secondo alcune stime, la nascita di ben 400 milioni di bambini, ha determinato gravi conseguenze sociali (in primis lo squilibrio tra i due sessi e l’invecchiamento della popolazione) e influenzato le scelte delle nuove generazioni urbanizzate, in particolare della cosiddetta Generazione Y o Millennials, che di fare figli non sembrano avere la benché minima intenzione. È interessante soffermarsi sulle loro motivazioni in merito, che non sono molto dissimili da quelle dei loro coetanei in molti Paesi occidentali, e che sono racchiuse nello stato di incertezza per il futuro e nel timore di non riuscire a mantenerli, visti i costi proibitivi legati alla crescita e all’istruzione di un figlio, le pressioni alle quali sono sottoposte le donne lavoratrici, ma anche nella scarsa propensione ad assumersi determinate responsabilità e nel desiderio di vivere la propria vita senza quei vincoli che inevitabilmente subentrano con la genitorialità. Non a caso, la notizia di Yang Yi in Cina è stata immediatamente seguita dalla diffusione di un hashtag su Weibo, la piattaforma cinese simile a Twitter, contenente un chiaro messaggio alle autorità governative, ossia che “per incoraggiare le nascite, bisognerebbe prima risolvere le preoccupazioni dei giovani” (guli shengyu yao xian jiejue nianqingren de houguzhiyou). In altri termini, il calo demografico viene visto dai cinesi come “inevitabile”, poiché i giovani scelgono consapevolmente di non avere figli, complice anche il rallentamento di un’economia che non cresce più ai ritmi sostenuti dei decenni precedenti, l’aumento della disoccupazione (un fenomeno pressoché nuovo nel Paese), il contestuale aumento del costo della vita, la necessità – non secondaria e comunque imposta per legge – di prendersi cura dei genitori anziani.

In tal senso, i dati dell’Ufficio nazionale di statistica non hanno rappresentato il classico fulmine a ciel sereno. Al contrario, questo momento era atteso da tempo e, difatti, già da diversi anni, il governo comunista aveva rivisto la politica del figlio unico nel tentativo di invertire il trend negativo della crescita della popolazione e contrastare la tendenza all’invecchiamento che rischiava di avere conseguenze sempre più pesanti per l’economia nazionale, a partire dalla riduzione delle entrate fiscali e le pressioni sul sistema pensionistico e sanitario, e con una potenziale perdita di dinamismo e fiducia nel futuro, determinato dal ridimensionamento del bacino di manodopera, componente indispensabile per l’ascesa della RPC a grande potenza mondiale. La prima svolta risale al novembre 2013, quando il Partito aveva concesso ad alcuni tipi di famiglie – quelle con una sola figlia femmina e quelle in cui uno dei due genitori era un figlio unico – la possibilità di avere un secondo figlio. Aveva poi fatto seguito, nell’ottobre 2015, la decisione del V plenum del XVIII Comitato centrale di decretare la fine generalizzata del controllo delle nascite, consentendo a tutte le coppie di avere due figli (erhai zhengce), finalizzata “a migliorare lo sviluppo equilibrato della popolazione” e a far fronte al problema dell’invecchiamento della popolazione, secondo la dichiarazione finale riportata negli organi ufficiali del Partito. Nel maggio 2021, infine, una riunione del Politburo, presieduta dal segretario generale Xi Jinping e dedicata specificatamente all’invecchiamento della popolazione,  si chiudeva con la decisione di consentire fino a tre figli per coppia (sanhai zhengce).

Tale decisione, che appariva strettamente legata alla pubblicazione degli esiti del VII censimento nazionale della popolazione, che aveva rivelato per il 2020 un numero di nascite nella Cina continentale di soli 12 milioni (il più basso dal 1960), si era accompagnata a tutta una serie di contributi e aiuti, quali agevolazioni fiscali, permessi di maternità più lunghi, sussidi per le case, volti ad incentivare le nascite. Queste, tuttavia, non sembravano avere alcuna presa nella popolazione cinese, che non accettava più che il Partito entrasse nelle scelte più intime della coppia e della sua componente femminile in particolare (come ai tempi delle rigidissime misure imposte nel rispetto della politica del figlio unico), soprattutto nei centri urbani. In effetti, come si è già accennato, tra le cause persistenti della bassa natalità cinese vi sono il crescente inurbamento, la progressiva partecipazione femminile al mondo del lavoro e il crescente aumento del livello di istruzione, che alimenta prospettive di carriera, con tutto ciò che ne consegue. Nelle grandi città si vanno diffondendo da diversi lustri modelli alternativi di famiglie, come le cosiddette dingke jiating, famiglie DINK (Double Income No Kids), ossia coppie di giovani che decidono di non fare figli perché di intralcio alle loro carriere e ai loro progetti di vita, che contemplano viaggi e tempo libero, oltre a riserve crescenti di donne single che godono sempre più di indipendenza e potere d’acquisto. Si tratta senza dubbio di una tendenza di difficile inversione, ma che il Partito non può permettersi di sottovalutare. Anzi, secondo alcuni esperti, questa situazione dovrebbe fungere da campanello d’allarme per la Cina, per accelerare le riforme del suo sistema sanitario e pensionistico ancora altamente inefficienti e diseguali e approntare misure volte a far fronte a uno scenario dalle inevitabili conseguenze sull’economia nazionale, simile a quello intrapreso da Giappone e Corea del Sud, che rischierebbe di comprometterne le ambizioni quale grande potenza economica globale.

 

Immagine: Folla sulla via pedonale Qianmen, Pechino, Cina (6 febbraio 2019). Crediti: Fotokon / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Una_nuova_distensione_USA_Cina.html

Una nuova distensione nei rapporti USA-Cina?

Il rapporto tra la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e gli Stati Uniti d’America è sempre stato difficile e altalenante, tra periodi di avvicinamento che si sono accompagnati a una proficua collaborazione ad altri di elevata tensione e grande attrito, evidente anche nella raffigurazione della Cina da parte di Washington come partner o competitore strategico. Negli ultimi anni le relazioni tra le due superpotenze hanno toccato i minimi storici, complice la guerra commerciale e tecnologica avviata dall’amministrazione Trump, la pandemia da Covid-19, la crisi ucraina e l’annosa questione taiwanese. Per tale ragione, l’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden, lo scorso 14 novembre a Bali, a margine del vertice del G20, è stato senza dubbio uno dei più attesi dell’ultimo biennio, la cui maggiore rilevanza risiede nel solo fatto che ci sia stato. Per la verità, non era la prima volta che i due si incontravano di persona – era già successo al Forum economico mondiale di Davos, nel gennaio 2017, in occasione del quale il presidente della RPC, in maniera del tutto inedita,  aveva tenuto il discorso inaugurale, all’insegna della difesa della globalizzazione –, ma all’epoca Biden era ‘solo’ il vicepresidente di Barak Obama.

A Bali, entrambi i leader hanno espresso la propria soddisfazione per aver avuto la possibilità di incontrarsi di persona, in quanto, come sottolineato dal presidente statunitense, «niente può sostituire i colloqui faccia a faccia», soprattutto quando ci si trova davanti a una situazione di elevata tensione tra due superpotenze mondiali chiamate a «gestire le differenze e prevenire che la competizione possa sfociare nel conflitto». Anche per Xi Jinping, «il mondo si aspetta che la Cina e gli Stati Uniti gestiscano le loro relazioni in modo appropriato», in quanto «lo stato attuale delle relazioni bilaterali non è nell’interesse fondamentale dei due paesi e dei due popoli, né è ciò che la comunità internazionale si aspetta». Per tale ragione, «Cina e Stati Uniti devono avere un senso di responsabilità per la storia, per il mondo e per le persone, esplorare il modo giusto per andare d’accordo nella nuova era, mettere la relazione sulla giusta rotta e riportarla indietro sul binario di una crescita sana e stabile a vantaggio dei due Paesi e del mondo intero».

Al di là di tali dichiarazioni di facciata, che sono apparentemente servite per riportare sui binari un treno che negli ultimi mesi sembrava aver deragliato, l’incontro non pare aver portato a nulla di concreto. I problemi rimangono – da Taiwan alla guerra in Ucraina, dalla crisi economica alle violazioni dei diritti umani da parte di Pechino – e non saranno facilmente risolti, se è vero, come ha messo in evidenza il leader cinese con riferimento specifico alla crisi ucraina «non esistono soluzioni semplici per problemi complessi». Né questo sembrava essere nelle intenzioni dei protagonisti, al contrario. Come ha specificato Biden nella sua conferenza stampa al termine dell’incontro con Xi Jinping, «I’m not looking for conflict, I’m looking to manage this competition responsibly». In altre parole, pur nella consapevolezza che Pechino e Washington «continueranno a competere in modo vigoroso», secondo il presidente statunitense è importante accertarsi che «la competizione abbia dei limiti», ossia che si definiscano regole chiare e che si faccia «tutto il possibile per garantire che la competizione non degeneri in conflitto». Insomma, l’obiettivo sarebbe quello di evitare che la tensione crescente non sfoci in conflittualità, poiché sempre secondo Biden «non deve esserci alcuna nuova Guerra fredda con la Cina».

In questo senso, come hanno messo in evidenza in tanti, l’esito più importante dell’incontro sembra essere stato il fatto di essersi incontrati e di essere tornati a parlarsi, in modo «diretto e schietto», dunque senza troppi giri di parole, sulle questioni chiave che alimentano da sempre lo stato dei rapporti tra i due Paesi, a partire da Taiwan. E di questi tempi, verrebbe da dire, non è poco. Soprattutto se questo dialogo avviene all’indomani delle rivelazioni fatte da una fonte autorevole quale è il Financial Times, che ha riportato le testimonianze di alcuni funzionari cinesi (che hanno voluto mantenere l’anonimato), secondo i quali Xi Jinping non avrebbe avuto da Vladimir Putin alcuna indicazione circa la sua volontà di invadere l’Ucraina, a dispetto dell’amicizia “illimitata” che sembrava legare Mosca e Pechino all’indomani della dichiarazione congiunta siglata il 4 febbraio durante la visita del presidente russo nella capitale cinese per l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali. Un segnale importante che in un certo senso contribuisce a restituire alla Cina di Xi, fresco di rinnovo di mandato (il terzo), un minimo di credibilità, e tanto più rilevante in quanto arriva in un momento in cui l’amministrazione statunitense non fa mistero dell’assoluta necessità di porre fine alla guerra in Ucraina, poiché, come asserito dal segretario al Tesoro Janet Yellen, questo sarebbe «il modo migliore per porre fine al tumulto economico mondiale». Alla luce di tali considerazioni, le parole del leader cinese ‒ secondo il quale di fronte a una crisi globale e composita come quella in Ucraina, è importante riflettere seriamente sul fatto che «conflitti e guerre non producono vincitori», che «non c’è soluzione semplice a una questione complessa» e che «il confronto tra i principali Paesi deve essere evitato», ragion per cui è auspicabile oltre che la ripresa dei colloqui di pace tra le due parti in causa, anche il dialogo tra Stati Uniti,  NATO, UE e Russia ‒, assumono un peso ancora più significativo.

Sebbene, dunque, non ci sia stata – né d’altro canto ci si attendeva – alcuna svolta significativa nelle relazioni bilaterali tra Cina e Stati Uniti, l’incontro tra i leader delle due superpotenze mondiali ha senza dubbio contribuito ad abbassare momentaneamente i toni, facendo appello al senso di responsabilità e a chiarire contestualmente le rispettive posizioni, nella consapevolezza che «il mondo è abbastanza grande perché i due Paesi possano coesistere e prosperare insieme», ma tracciando al contempo i confini di quello che rimane sotto molti punti di vista uno scontro aperto e di non facile risoluzione.

 

Immagine: Le bandiere di Stati Uniti e Cina. Crediti: vaalaa / Shutterstock.com

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Il XX Congresso del PCC tra critiche interne e tensioni internazionali

 

Si è aperto ieri il XX Congresso del Partito comunista cinese (PCC), senza dubbio l’evento politico più atteso dell’ultimo lustro, non solo in Cina, ma anche fuori dalla Cina. A memoria, è forse uno dei pochi Congressi che hanno ricevuto una tale attenzione mediatica fuori dai confini della Repubblica popolare cinese (RPC) – anche in Italia, grazie al prezioso lavoro di un gruppo di giornalisti sinologi, che quotidianamente contribuisce a rendere edotto il pubblico di lettori di ciò che è “dato sapere” del sempre più complesso universo politico cinese – soprattutto date le circostanze nelle quali si inserisce l’importante assise, in un clima di crescente tensione sia sul fronte interno sia sul fronte internazionale. Il Congresso giunge, infatti, in “un momento critico” per la Cina popolare, segnato dalle incertezze sul piano internazionale, a cominciare dalla guerra in Ucraina, dalle crescenti tensioni sulla questione di Taiwan e dai rapporti sempre più complessi con gli Stati Uniti d’America, a cui si aggiungono le difficoltà economiche sul piano interno, determinate anche (ma non solo) dalla lotta alla pandemia da Covid-19, che stanno mettendo a serio rischio la stabilità sociale del Paese. È di qualche giorno fa la notizia, riportata sulla stampa internazionale e sui social media, di un’inedita, quanto sporadica, “manifestazione anti-regime” portata avanti con l’affissione su un cavalcavia stradale della capitale, in corrispondenza del quartiere di Haidian (sede di diverse università e uffici di società tecnologiche), di due striscioni riportanti delle scritte in rosso fortemente critiche della politica “zero Covid”, e più in generale del regime comunista cinese e del suo “nucleo” (hexin 核心). Laddove il primo riportava la scritta “Vogliamo cibo, non covid test, vogliamo riforme, non la rivoluzione culturale, vogliamo libertà, non i lockdown, vogliamo poter votare, non un leader, vogliamo dignità, non bugie, siamo cittadini, non schiavi” (buyao hesuan yao chifan, buyao fengkong yao ziyou, buyao huangyan yao zunyan, buyao wenge yao gaige, buyao lingxiu yao xuanpiao, bu zuo nucai zuo gongmin «不要核酸要吃饭,不要封控要自由,不要谎言要尊严,不要文革要改革,不要领袖要选票,不做奴才做公民»), il secondo conteneva un appello allo “sciopero volto a rimuovere il dittatore e traditore nazionale Xi Jinping” (bake bagong bamian ducai guozei Xi Jinping «罢课罢工罢免独裁国贼习近平»).

Come hanno riportato alcuni osservatori, considerando gli elevatissimi livelli di sicurezza cui è sottoposta in genere la capitale cinese nei giorni che precedono il Congresso, si è trattato di un episodio alquanto clamoroso e, per quanto sia stato arginato sul nascere dalla polizia, e i video girati in rete siano stati prontamente colpiti dalla macchina della censura cinese, rappresenta un evidente segnale d’allarme per il Partito/Stato. Tanto più che non si tratta di un caso isolato. Basti pensare alle proteste pubbliche senza precedenti di Shanghai, la scorsa primavera, che hanno visto come protagonisti i residenti di un palazzo in un distretto centrale della città, scesi in piazza per rivendicare il “diritto di poter mangiare, lavorare e sapere”, il cui video ha fatto il giro dei social (prima di essere rimosso dalla censura), per non parlare dei poster circolati sui social cinesi che invitavano gli abitanti della città a ribellarsi alle restrizioni, per esempio suonando le pentole e le padelle dai balconi. Sono questi segnali preoccupanti del crescente malcontento di una parte della popolazione cinese che percepisce il Partito come sempre più distante e distaccato e, soprattutto, incurante del benessere del popolo – fattori che nell’antica tradizione imperiale erano sufficienti per sancire la fine del cosiddetto Mandato del cielo (tianming 天命) del Figlio del cielo (tianzi 天子), ossia la sua legittimazione a governare.

Ciò detto, è un dato scontato che Xi Jinping otterrà dal XX Congresso del PCC un terzo mandato come segretario generale, capo della Commissione militare e presidente della Repubblica Popolare – un fatto storico ma non inedito, dal momento che, se è vero che dagli inizi degli anni Ottanta la prassi impone un limite ai due mandati, di fatto questa è stata rispettata solo dalla quarta generazione di governanti guidata da Hu Jintao, che ha guidato il Paese dal 2002 al 2012, laddove Jiang Zemin è stato segretario generale dal 1989 al 2002, presidente della RPC dal 1993 al 2003, presidente della Commissione militare centrale del Partito dal 1989 al 2004 (e di quella dello Stato dal 1990 al 2005). Ma la posta in gioco è molto alta e riguarda il futuro posizionamento della Cina sul fronte interno e internazionale. Il primo, come si è già accennato, è contrassegnato da un rallentamento della crescita economica senza precedenti, determinata oltre che dagli effetti della guerra al Covid-19, anche da problemi strutturali, quali la crisi del settore immobiliare; il secondo caratterizzato da crescenti tensioni su più fronti che vedono la Cina coinvolta direttamente o indirettamente. La lettura del tradizionale Rapporto politico, generalmente presentato dal segretario generale all’apertura del Congresso, e contenente sia una sintesi dei risultati raggiunti nel quinquennio precedente, sia una elencazione delle principali priorità politiche per il quinquennio successivo, è una prima indicazione in tal senso. In linea di massima le parole chiave contenute nel documento “cristallizzano concetti politici che fungono da guida dell’azione di governo e possono anche dare conto di equilibri di potere all’interno del Partito”. In questo senso, si tratta di un documento fondamentale per captare l’orientamento politico ed economico del Paese durante il terzo mandato di Xi Jinping. Rispetto ai pronostici, le aspettative sembrano essere state rispettate a pieno: politica “zero Covid”, riunificazione di Taiwan, sviluppo economico, sicurezza nazionale,  sono tra le parole chiave del discorso di apertura pronunciato dal segretario generale, durato circa 100 minuti, contro le oltre tre ore del discorso del 2017 (parrebbe tuttavia, che sia stato letto solo in parte, a differenza di quanto accaduto in occasione del XIX Congresso).  Tra tutte, vale la pena soffermarsi sulla posizione espressa in merito alla questione taiwanese che negli ultimi mesi, come è noto, ha raggiunto livelli di tensione mai registrati prima, complice anche l’atteggiamento dell’amministrazione statunitense. La Cina si è opposta risolutamente “alle gravi provocazioni delle attività separatiste delle forze di ‘indipendenza di Taiwan’ e all’ingerenza di forze esterne negli affari di Taiwan” (‘taidu’ shili fenlie huodong he waibu shili ganshe taiwan shiwu de yanzhong tiaoxin «台独’势力分裂活动和外部势力干涉台湾事务的严重挑衅»), ha affermato Xi in uno dei primi passaggi del suo discorso, promettendo per il prossimo futuro la realizzazione della riunificazione con l’isola. Nello scandire che “la risoluzione della questione di Taiwan è un affare del popolo cinese e che spetta al popolo cinese decidere in merito” (jiejue taiwan wenti shi zhongguoren ziji de shi, yao you zhongguoren lai jueding «解决台湾问题是中国人自己的事,要由中国人来决定») ha ribadito che, pur continuando a lavorare per una riunificazione pacifica, “non prometteremo mai di rinunciare all’uso della forza e di prendere tutte le misure necessarie volte a contrastare l’ingerenza delle forze esterne e dei pochissimi separatisti dell’‘indipendenza di Taiwan’ e le loro attività” (dan jue bu chengnuo fangqi shiyong wuli, baoliu caiqu yiqie biyao cuoshi de xuanxiang, zhe zhendui de shi waibu shili ganshe he ji shaoshu “taidu” fenlie fenzi ji qi fen lie huodong, jue fei zhendui guangda taiwan tongbao «但决不承诺放弃使用武力,保留采取一切必要措施的选项,这针对的是外部势力干涉和极少数“台独”分裂分子及其分裂活动,绝非针对广大台湾同胞»). Può essere superfluo sottolineare come questo passaggio sia quello che ha ottenuto il maggiore gradimento della platea, espresso con un lungo applauso da parte dei 2296 delegati presenti. In realtà, la posizione del governo di Pechino sulla questione era abbastanza scontata, in considerazione anche dei contenuti dell’ultimo Libro bianco (il terzo) dedicato all’isola “ribelle”, pubblicato lo scorso mese di agosto. Quest’ultimo conteneva, infatti, alcune omissioni rispetto ai due Libri bianchi precedenti del 1993 e del 2000, in particolare il riferimento alla possibilità di giungere a compromessi, una volta che Taipei avesse accettato il principio dell’unica Cina (yige zhongguo yuanze 一个中国原则) rinunciando alla sua indipendenza, laddove l’unico modello di ispirazione per l’isola rimaneva quello in vigore a Hong Kong (e a Macao), ossia il principio “un Paese, due sistemi” (yiguo liangzhi 一国两制). D’altro canto, nel suo Rapporto Xi ha elogiato l’efficacia del modello in questione, dichiarando peraltro che l’ex colonia britannica “è passata dal caos alla governance” (Xianggang jushi shixian you luan dao zhi de zhongda zhuanze «香港局势实现由乱到治的重大转折»), grazie anche, e soprattutto, al lavoro svolto dai “patrioti” (aiguozhe 爱国者) nell’amministrazione della città. Né sono emersi ripensamenti relativamente alla correttezza della politica “zero Covid” messa in atto con durezza da Pechino, a discapito della crescita economica e del malcontento sociale. Il merito maggiore per la leadership cinese è di aver “messo le persone e la vita al primo posto” (women jianchi renmin zhishang, shengming zhishang 我们坚持人民至上、生命至上), mantenendo i numeri delle vittime e dei contagi infinitamente più bassi rispetto a quelli dell’Occidente. Questo aspetto, oltre ad essere il fondamento della “guerra al Coronavirus”, che Xi Jinping è intenzionato a vincere a ogni costo, vuole apparire anche come un simbolo virtuoso del rispetto dei diritti umani secondo l’interpretazione del governo cinese. Sul fronte economico, Xi ha messo in evidenza come sebbene il PIL sia raddoppiato negli ultimi dieci anni, si rivela necessario “accelerare la costruzione di un nuovo modello di sviluppo e concentrarsi sulla promozione di uno sviluppo di alta qualità” (jiakuai goujian xin fazhan geju, zhuoli tuidong gao zhiliang fazhan «加快构建新发展格局,着力推动高质量发展»), ribadendo al contempo il sostegno al settore privato e l’impegno volto a consentire ai mercati di svolgere un ruolo chiave. Un ultimo punto che vale la pena riportare riguarda il riferimento alla sicurezza (anquan, 安全) che secondo un resoconto della Reuters risulterebbe ripetuto ben 89 volte nella versione completa del Rapporto politico – contro le 55 volte menzionate nel Rapporto del 2017. Viceversa, il termine riforma ricorrerebbe 48 volte contro le 68 del rapporto precedente. Questo dato andrebbe letto alla luce del fatto che nei due precedenti mandati Xi Jinping ha avviato la Cina su un percorso sempre più autoritario che ha dato priorità alla sicurezza, al controllo statale dell’economia in nome della “prosperità comune”, a una diplomazia più assertiva, a un esercito più forte e a una crescente pressione per riunire Taiwan alla madrepatria. Se è vero, dunque, come accennato sopra, che il Rapporto politico pronunciato in apertura del Congresso dal segretario generale del Partito costituisce un documento fondamentale per capire l’orientamento politico ed economico del mandato successivo, è plausibile non aspettarsi cambiamenti significativi nella direzione politica del terzo mandato di Xi Jinping.

 

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Lo stato dell’economia cinese alla vigilia del XX Congresso del Partito

 

«L’economia cinese è resiliente, ha un ampio potenziale e ampi margini di manovra e i suoi fondamentali positivi a lungo termine non cambieranno». Questo è quanto ha dichiarato Xi Jinping, nel tentativo di rassicurare il mondo, al vertice della SCO di Samarcanda, aggiungendo che la Cina «darà un forte slancio alla stabilizzazione e alla ripresa dell’economia mondiale e offrirà maggiori opportunità di mercato ad altri Paesi», seppure i dati riferiti agli ultimi mesi non sembrano coincidere con la realtà prospettata dal leader cinese. D’altro canto, erano state le stesse autorità comuniste a smorzare gli entusiasmi, confermando la situazione tutt’altro che rosea in cui versava l’economia del Paese, in occasione della riunione del Politburo del 28 luglio scorso, presieduta da Xi, e volta a fare il punto della situazione economica e approntare eventuali misure correttive. Pur riconoscendo che «L’intero Paese ha compiuto sforzi ardui e i risultati sono degni di pieno riconoscimento», si ammetteva allo stesso tempo che la performance economica della Cina era stata inibita da alcune sfide importanti e, pertanto, era necessario «mantenere il nostro focus strategico e fare le cose con fermezza». Per la seconda metà dell’anno, il Politburo sottolineava come fosse «necessario stabilizzare e sviluppare i requisiti di sicurezza, consolidare la tendenza della ripresa economica, concentrarsi sulla stabilizzazione dell’occupazione e dei prezzi, mantenere l’economia entro un intervallo ragionevole e sforzarsi di ottenere i migliori risultati possibili». Il fatto che la riunione si fosse chiusa dichiarando che, per il 2022, l’obiettivo era di sforzarsi per ottenere «i migliori risultati possibili» (zui hao de jieguo 最好的结果), equivaleva ad ammettere lo stato di incertezza in cui versava l’economia del Paese. Come ha puntualmente osservato l’ISPI, infatti, «per una Cina abituata a programmare i decimali dei suoi obiettivi di crescita», l’obiettivo volto a ottenere «i migliori risultati possibili» (zui hao de jieguo 最好的结果) era «una mancanza di precisione quanto mai anticonvenzionale», equivalente a un’ammissione di fallimento. Era, cioè, inteso a riconoscere, senza specificarlo a chiare lettere, che la crescita del PIL del +5,5%, annunciata per il 2022 durante la riunione annuale dell’ANP (Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento cinese), agli inizi di marzo, sarebbe stata impossibile da raggiungere. In tal senso, lo scenario prospettato dal Politburo era quanto mai realistico e non faceva che confermare ciò che gli analisti e gli economisti di mezzo mondo avevano già ben chiaro.

Negli ultimi mesi, infatti, sia la stampa italiana sia la stampa estera hanno dato ampio risalto allo stato sempre più incerto dell’economia cinese e alle sue potenziali ripercussioni a livello globale, anche alla luce delle concomitanti turbolenze internazionali, determinate dalla crisi ucraina che sembra lungi dal concludersi in tempi brevi. Nel II trimestre il PIL della Repubblica Popolare Cinese (RPC) è cresciuto, infatti, di appena lo 0,4%, contro l’1% previsto, vanificando gli entusiasmi legati alla crescita del 4,8% del I semestre e compromettendo definitivamente le stime di crescita per il 2022 – senza dubbio uno dei peggiori risultati dal 1992, se si eccettua la contrazione del 6,9% registrata nel I trimestre del 2020, determinata dallo shock iniziale del Covid-19. Vale comunque la pena sottolineare come l’obiettivo del +5,5%, fissato in occasione della riunione annuale del Parlamento cinese, fosse già il più basso della Cina popolare da un quarto di secolo di pianificazione economica. Ben si comprende, pertanto, come un tasso di crescita ancora più lento avrebbe potuto avere delle serie implicazioni per il Paese – sia a livello economico sia, soprattutto, a livello politico – ma anche per un’economia globale già in forte sofferenza, che negli ultimi lustri si era affidata alla Cina come vasto mercato, nonché come anello chiave nelle catene di approvvigionamento globali.

 

Volendo tentare di ragionare sulle cause che hanno determinato questo stato di cose, è importante tenere d’acconto sia fattori contingenti – in primis la scellerata politica “zero Covid” con tutto ciò che comporta, combinata con le turbolenze internazionali legate alla crisi ucraina, ma non solo – sia fattori strutturali, tra tutti la gravissima crisi del settore immobiliare cinese, che incombe nel Paese da oltre un decennio. Mentre gran parte del mondo allentava le restrizioni legate al Covid-19, dopo l’ondata invernale della variante Omicron, la RPC rimaneva intrappolata nella sua strategia di tolleranza zero verso la diffusione di nuovi casi (strategia “zero Covid”) pur consapevole delle conseguenze negative per l’economia e per l’immagine del Paese. Ma essendo stata inizialmente decantata come un successo, come in un circolo vizioso le autorità comuniste si vedevano costrette a persistere in questa narrazione, per non dover sconfessare il loro leader. Negli ultimi mesi, dunque, le chiusure hanno visto protagoniste città del calibro di Shanghai, notoriamente la locomotiva economica del Paese, e Shenzhen, il suo principale hub tecnologico, con conseguenze drammatiche, sia da un punto di vista economico – nei mesi di marzo e aprile, in coincidenza con il lockdown, Shanghai ha registrato una contrazione del PIL pari al 13,7% su base annua e un calo della produzione del 2,9 % su base annua – sia, soprattutto, da un punto di vista sociale.

La particolarità del caso shanghaiese risiede proprio nelle ricadute profonde del lockdown sulla società, paragonato a una sorta di “malattia autoimmune”, nel senso che le morti per Covid nella megalopoli si sono evitate al “costo di un tremendo autolesionismo”. A differenza di Wuhan nel 2020, infatti, dove al terrore del virus – che era assolutamente reale – si era aggiunto anche quello delle autorità, gli abitanti di Shanghai hanno temuto solo le autorità. Il risultato è stato un profondo senso di sfiducia e di tradimento, soprattutto tra i giovani, paragonabile a quello lasciato nel giugno del 1989, a seguito della repressione delle proteste democratiche di piazza Tienanmen. E sono sempre i giovani ad aver subito alcuni degli effetti maggiormente negativi della strategia “zero Covid”. Stando agli ultimi dati diffusi dall’Ufficio nazionale di statistica cinese, nel mese di luglio, la disoccupazione giovanile ha raggiunto a giugno il tasso record del 19,9%. Si tratta del tasso più alto da quando Pechino ha iniziato a pubblicare l’indice nel gennaio 2018, quando era pari al 9,6%, e che rischia di avere serie ripercussioni in seno alla società, poco abituata a questo genere di fenomeni – si consideri che la prima legge che metteva in discussione la tradizionale “ciotola di ferro” (tiefan wan 铁饭碗) risale al 1994 – e con un numero crescente di laureati che si immette nel mercato del lavoro. Nel 2022, erano ben 10,7 milioni, con un aumento di 1,67 milioni su base annua, laddove nel 1999 erano meno di un milione.

Un ulteriore effetto negativo si ricollega alla crisi del settore immobiliare – uno dei motori propulsori della crescita economica – con il drammatico crollo della vendita di immobili che ha causato il fallimento di alcuni colossi del settore, a partire da Evergrande, e determinato una serie di conseguenze a catena, con numerose manifestazioni di protesta agli sportelli bancari e lo sciopero del pagamento dei mutui delle case travolte dai fallimenti. Stando ai dati riportati da Bloomberg, a metà luglio erano ben 230 i progetti immobiliari coinvolti dal boicottaggio dei mutui, con 80 città coinvolte, e gli istituti di credito cinesi stimavano perdite pari a 2 trilioni di yuan (circa 300 milioni di dollari). Ma se è vero che è dal 2021 che il settore immobiliare sta vivendo tempi difficili, a causa dell’indebitamento molto elevato dei costruttori – dopo il caso di Evergrande, altri colossi, come il Country Garden, hanno seguito la scia indebolendo ulteriormente il settore – è ancor più vero che è da quasi 15 anni che la RPC persegue campagne di costruzioni immobiliari a ritmi altissimi, nel campo delle infrastrutture come in quello dell’edilizia residenziale. Il vero problema risiede nel fatto che la costruzione degli edifici non avviene in base alla domanda, dunque seguendo le logiche del mercato, ma è regolata dai governi locali, che traggono delle percentuali importanti dalla vendita dei terreni edificabili e decidono dove è possibile edificare. Il che ha comportato la nascita di veri e propri “quartieri fantasma” nelle periferie, dove la gente non è disposta a trasferirsi. Conseguentemente gli edifici sono rimasti invenduti e i costruttori non sono stati in grado di ripagare i propri debiti con le banche. Tornando alla situazione attuale, il boicottaggio dei mutui in Cina è sintomatico del raggiungimento di un punto di minimo nella fiducia dei consumatori, che i continui lockdown della strategia del “zero Covid” non hanno fatto che aggravare, inibendo qualsiasi decisione di investimento.

 

Un tale stato di cose, oltre a rendere irrealizzabile l’obiettivo ufficiale di crescita per il 2022, ridimensionato a un non meglio specificato “migliore risultato possibile”, non fa che aumentare le incertezze e le preoccupazioni tra le imprese e gli investitori stranieri, che stanno valutando nuove mete più agevoli. Alcune fonti autorevoli, quali il capo economista cinese di Nomura Lu Ting, agli inizi di settembre hanno tagliato ulteriormente le previsioni del PIL per il 2022 al 2,7 % – rispetto alla stima del 2,8% del mese di agosto – alla luce dei nuovi lockdown imposti tra fine agosto e i primi di settembre, che hanno colpito, tra gli altri, l’hub tecnologico di Shenzhen e la megalopoli occidentale Chengdu. Nel frattempo, lo yuan è crollato ai minimi degli ultimi due anni, spingendo la banca d’affari statunitense Goldman Sachs a prevedere delle conseguenze non solo nei Paesi vicini, ma anche nel continente africano e in quello latino americano, con uno yuan più fragile che rischia di innescare svalutazioni competitive. In generale, dunque, il drastico rallentamento della crescita economica cinese rischia di avere delle gravi ripercussioni anche per l’economia globale, che negli ultimi lustri si è affidata alla RPC sia come vasto mercato sia come anello chiave nelle catene di approvvigionamento globale e che oggi sconta le conseguenze negative della crisi ucraina, con le interruzioni al commercio. In effetti, la stessa economia cinese ha dovuto fare i conti con la crisi ucraina, a partire dalle sfide poste alla riuscita della BRI (Belt and Road Initiative) – il fiore all’occhiello della strategia di politica estera di Xi Jinping – che solo cinque anni fa era stata definita come “il progetto del secolo”. Come è noto, l’Ucraina rappresentava un tassello fondamentale della “cintura economica della via della Seta”, essendo il Paese un importante ponte logistico di collegamento delle vie di trasporto dalla Cina all’Unione Europea. 

Detto ciò, le ripercussioni maggiori rischiano di essere soprattutto sul fronte interno, alla vigilia di un delicato XX Congresso, previsto per metà ottobre, che dovrebbe assegnare un terzo mandato al leader della quinta generazione di governanti cinesi e, stando ad alcune voci, elevarne il pensiero e il titolo, ergendolo definitivamente allo stesso livello del Grande timoniere. Come è noto, la presenza di un’economia fiorente e forte rientrava proprio nel patto sociale che i cittadini cinesi avevano accettato di sottoscrivere con il governo all’indomani dei drammatici eventi del 4 giugno 1989, quando il Partito comunista era alla ricerca di una nuova fonte di legittimazione. Da allora, la crescita economica ha costituito la garanzia per la stabilità sociale, che a sua volta ha rappresentato la garanzia di legittimazione del Partito.

 

Immagine: Assemblaggio di ventilatori elettrici presso la Emmett Electric Co LTD per l’esportazione in Corea del Sud, Jiujiang, Cina (14 maggio 2022). Crediti: humphery / Shutterstock.com

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L’eredità Gorbačëv secondo Pechino

La morte dell’ultimo leader sovietico, lo scorso 30 agosto, non poteva avvenire in un momento peggiore per la Cina di Xi Jinping, alle prese con crescenti gravi tensioni internazionali e con una complessa situazione interna da gestire in vista dell’imminente XX Congresso del Partito comunista cinese (PCC), che dovrebbe assegnare al leader cinese il suo terzo mandato. Oltre alla delicata tensione nello Stretto di Taiwan e alle conseguenze legate al protrarsi della crisi ucraina, internamente la leadership di Pechino si trova a dover affrontare sfide quali l’aumento della disoccupazione, l’indebolimento del mercato immobiliare, la siccità e una severa politica “zero Covid” che continua a mettere città e distretti in isolamenti improvvisi, a grave discapito dell’economia. Per quanto la morte di Michail Gorbačëv rappresenti pochi rischi per la reputazione del Partito prima del Congresso, si teme, tuttavia, che qualcuno possa sfruttare la commemorazione della sua morte per criticare direttamente o indirettamente Xi Jinping. In effetti, al di là del cordoglio ufficiale, espresso con toni freddi e laconici, per bocca di uno dei più noti portavoce del ministero degli Affari esteri, Zhao Lijian – «Il signor Gorbačëv ha dato un contributo positivo alla normalizzazione delle relazioni sino-sovietiche. Esprimiamo il nostro cordoglio per la sua scomparsa e porgiamo le nostre condoglianze alla famiglia» – la stampa cinese ha fatto emergere in toni inequivocabili la visione tutt’altro che positiva che del leader sovietico si ha nel Paese, sia in seno al Partito, sia tra gli osservatori e buona parte del mondo accademico. In effetti, gli storici cinesi hanno discusso a lungo se siano state le questioni strutturali o le decisioni individuali di leader come Gorbačëv ad aver causato il crollo dell’ex Unione Sovietica. All’indomani della sua ascesa al potere, Xi non aveva avuto remore nel propendere per la seconda ipotesi e in un discorso pronunciato nel dicembre del 2012, fatto circolare tra i quadri, ma non riportato dai media statali, aveva dichiarato come fosse bastata una parola di Gorbačëv per dichiarare lo scioglimento dell’Unione Sovietica, mettere fine alla parabola di un grande partito e come, alla fine, «nessuno si fosse rivelato abbastanza uomo da alzarsi e resistere». A fine luglio 2022 ai quadri è stato riproposto un documentario in sei parti dedicato al crollo dell’Unione Sovietica, con un focus sulle “amare lezioni” della leadership di Gorbačëv. Un altro documentario sulla sua figura è stato riportato sui social media il 30 agosto, a seguito dell’annuncio della sua morte, e le critiche non sono mancate tra i tanti commentatori, che ne hanno parlato in termini di «governante di una nazione distrutta» e di «un personaggio pubblico storico che è finalmente diventato lui stesso la storia». Per Shi Yinhong, docente di relazioni internazionali presso l’Università del Popolo di Pechino, il Partito comunista cinese è molto critico nei confronti dell’ex leader sovietico in quanto «ritiene che abbia tradito l’Unione Sovietica», avendone avviato il declino come grande potenza mondiale e determinandone poi la fine. Vale la pena riportare il fatto che in alcuni documenti interni al Partito che circolarono prima della visita ufficiale dell’allora primo ministro Li Peng a Mosca, nell’aprile del 1990, Gorbačëv veniva descritto come un revisionista che aveva completamente tradito i principi base del marxismo-leninismo, negando sostanzialmente la lotta di classe nella sfera internazionale, e favorendo la democrazia parlamentare di stile occidentale.   

I toni denigratori sono quelli che emergono da alcuni articoli comparsi nella stampa cinese all’indomani dell’annuncio della morte di Gorbačëv. Tra tutti, quello pubblicato il 31 agosto dal Global Times – tabloid in lingua inglese pubblicato dal Quotidiano del Popolo – dal titolo emblematico Chinese observers express mixed feelings about Gorbachev, draw lessons from his immature policy of coxing up with West, ampiamente ripreso anche dalla stampa italiana, che riporta il punto di vista di osservatori, analisti, accademici, ma anche “semplici” internauti. L’articolo bolla l’ex leader sovietico come «una figura tragica, senza principi e compiacente con gli Stati Uniti e l’Occidente», che ha commesso «gravi errori» nel valutare la situazione internazionale, e «ha provocato il caos nell’ordine economico interno» con conseguenze catastrofiche per il Paese. Con il senno di poi, si legge, Gorbačëv è stato «ingenuo e immaturo», colui che ha rappresentato per un certo periodo storico l’Unione Sovietica, oscillando tra «la ricerca di una via indipendente» e «l’abbraccio all’Occidente». In particolare, il fatto di «venerare ciecamente il sistema occidentale ha fatto perdere indipendenza all’Unione Sovietica, e il popolo russo ha sofferto di instabilità politica e di gravi pressioni economiche, che la Cina ha considerato come un grande avvertimento e una lezione da cui trarre esperienza per la propria governance». Per Wang Yiwei, direttore dell’Istituto per gli Affari internazionali della già citata Università del Popolo, «Gorbačëv è stato ingannato dall’Occidente» e «in un momento critico non ha potuto salvare l’Unione Sovietica, né il Partito comunista dell’Unione Sovietica». Qui risiede la differenza di approccio del PCC che, secondo Wang, si fonda sulla leadership del Partito e sul principio di autonomia e indipendenza «piuttosto che sulla ricerca dell’occidentalizzazione». L’opinione unanime degli osservatori citati nell’articolo è che la Cina dovrebbe trarre una lezione importante da tale tragedia, ossia rimanere vigile nei confronti delle forze occidentali che conducono «evoluzioni pacifiche» in altri Paesi, poiché indipendentemente dalle idee o dai piani occidentali, Gorbačëv si era rivolto all’Occidente senza saldi principi a cui appellarsi, contribuendo a indebolire l’influenza e la forza dell’Unione Sovietica negli affari internazionali. In altre parole, nel racconto ammonitore di una leadership fallita che i funzionari del Partito comunista cinese hanno studiato ossessivamente per decenni, al fine di evitare di compiere errori analoghi, Gorbačëv è denigrato per aver causato disastri al suo stesso popolo e smantellato a cuor leggero una grande nazione socialista.

È interessante osservare come la scomparsa dell’ex leader sovietico abbia attirato un’enorme attenzione pubblica anche sui social media, con un totale di 770 milioni di visualizzazioni di post su Weibo (il Twitter cinese). In generale, la reazione è stata altrettanto dura e gli utenti di Internet non hanno esitato a includere Gorbačëv nella lista dei «cattivi della storia». Per gli uni «Gorbačëv ha portato disastri non solo al popolo dell’Unione Sovietica, ma al mondo intero»; per gli altri «ha ottenuto ampi consensi in Occidente svendendo gli interessi della sua patria». In questo senso, viene percepito come «uno dei leader più controversi al mondo». Ed è soprattutto da uno dei suoi più grandi errori (forse il più grande) che, agli occhi dell’attuale leadership comunista, bisogna prendere le distanze, ossia il fatto di aver aperto le porte alla democrazia occidentale senza aver posto le basi per garantire la prosperità al Paese. Qui risiede, per Pechino, la forza del Partito comunista cinese e del modello socialista cinese – il cosiddetto socialismo con caratteristiche cinesi  – che rappresenta un perfetto connubio tra liberismo economico e autoritarismo politico.

 

Immagine: Al centro, Michail Gorbačëv (2 giugno 1990). Crediti: mark reinstein / Shutterstock.com

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La reazione della Cina alla morte di Shinzo Abe

La morte di Shinzo Abe, lo scorso 8 luglio, ha scosso le cancellerie e le opinioni pubbliche di mezzo mondo, sia per le modalità che l’hanno determinata, sia per la caratura del personaggio. Abe è stato infatti il premier più giovane della storia del Giappone moderno, oltre che il più longevo: primo ministro per un totale di nove anni, prima tra il 2006 e il 2007 e di nuovo tra il 2012 e il 2020. Verrà ricordato anche per l’audace strategia di ripresa economica avviata alla fine del 2012, ribattezzata “Abenomics”, ma soprattutto per il tentativo – mai realizzato – di emendare l’art. 9 della Costituzione pacifista, che sostanzialmente vieta al Giappone di avere un esercito, e di rafforzare al contempo le cosiddette “forze di autodifesa”. 

Delfino del carismatico Junichiro Koizumi, è stato l’ultimo esponente di una famiglia politica blasonata. Il padre Shintaro è stato, infatti, ministro degli Affari esteri dal 1982 al 1986 e suo nonno, Nobusuke Kishi, influente primo ministro negli anni 1957-60, ma un politico di spicco già nel periodo bellico, con una storia controversa determinata dal fatto di esser stato inserito nella lista dei venticinque tra militari e politici giapponesi accusati di aver commesso crimini cosiddetti “di classe A” durante il secondo conflitto mondiale. Per questo fu detenuto dalle forze alleate, ma venne rilasciato nel 1948 e mai incriminato o processato dal Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente.

Da leader conservatore del Partito liberaldemocratico, Abe era considerato un “falco”, soprattutto durante il suo secondo mandato (2012-14), con riferimento alle politiche di difesa e alle relazioni con i Paesi vicini, in primis la Cina di Xi Jinping. Dopo un avvio di rapporti all’insegna del gelo (il cui emblema è stato rappresentato dalla crisi relativa alla nazionalizzazione delle isole contese Senkaku/Diaoyu), le relazioni bilaterali si sono evolute negli anni in senso positivo, complice a partire dal 2016 anche la politica controversa dell’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump. Queste sono state coronate dalla visita compiuta da Abe in Cina nel 2018 – la prima di un premier giapponese in sette anni – seguita dalla partecipazione di Xi al 14° vertice del G20 di Osaka, nel giugno 2019, e dall’invito ricevuto dal presidente cinese in quell’occasione a effettuare una visita di Stato nel Paese del Sol Levante nella primavera del 2020. Una visita che avrebbe sancito una svolta importante nelle relazioni bilaterali e inaugurato probabilmente un “nuovo” capitolo nei rapporti tra Pechino e Tokyo, ma che lo scoppio della pandemia da Covid-19 ha contribuito ad annullare. Le dimissioni di Abe nell’estate del 2020 e l’avvento della nuova amministrazione democratica negli Stati Uniti guidata da Joe Biden hanno posto la parola “fine” a questa tendenza, riportando indietro di svariati anni lo stato delle relazioni bilaterali tra i due Paesi. La reazione “mista” della Cina all’assassinio di Abe – da un lato le dichiarazioni ufficiali che esprimono diplomaticamente shock e vicinanza, dall’altro le reazioni quasi compiaciute dell’opinione pubblica nei social media (ma non solo) che riflettono l’immagine impopolare del premier nipponico nel Paese – si può comprendere solo al netto di tali considerazioni e alla luce dell’annoso “problema della storia” che continua a influenzare le relazioni tra i due Paesi ma più in generale quelle tra il Giappone e tutti i Paesi dell’Asia nordorientale. Al di là delle scontate e diplomatiche reazioni ufficiali del Partito e del governo che hanno condannato l’attentato e speso parole di plauso nei confronti degli sforzi di Abe volti al miglioramento e all’approfondimento delle relazioni sino-giapponesi, anche i media di Stato (Xinhua, il Quotidiano del Popolo e il China Daily) hanno affrontato le notizie relative all’assassinio dell’ex premier giapponese con l’approccio tipico della cortesia diplomatica. L’unica eccezione è stata quella del Global Times che, fedele alla sua natura fortemente nazionalistica, subito dopo l’attentato ha pubblicato un commento controverso nel quale si sottolinea come le forze di destra giapponesi avrebbero potuto sfruttare l’incidente per portare avanti la tendenza alla trasformazione conservatrice della politica di Tokyo, attirandosi non poche critiche. Al contempo, però, è interessante rilevare come le reazioni nei social media cinesi siano state molto più in linea con la posizione del Global Times che non con quelle degli altri media di Stato e dunque con la posizione ufficiale di Pechino. Su Weibo – un ibrido fra Twitter e Facebook, e uno dei siti più frequentati del Paese – le manifestazioni di sentimenti antigiapponesi, così come le espressioni di compiacimento per quanto accaduto, non sono mancate, tutt’altro. Molti utenti hanno definito l’attentatore un “eroe” e hanno suggerito che l’8 luglio fosse ricordato in Cina come una “giornata storica”. Né sono mancate le accuse di antipatriottismo rivolte ai giornalisti che hanno manifestato una certa commozione nel riportare i fatti, o le manifestazioni di quanti hanno trasformato la morte di Abe in un grido di battaglia per coloro che nel Paese vogliono difendere la propria libertà di espressione, sfruttando l’opportunità di dimostrare empatia per un così tragico evento e, al contempo, di avere un pensiero indipendente. Laddove il governo di Pechino è intervenuto a censurare alcune di queste reazioni “scomode”, ampia voce è stata data, invece, ad altre manifestazioni di soddisfazione riportate sulla stampa ufficiale o su Twitter – negozi che offrivano sconti, locali che organizzavano raduni per celebrare la morte dell’ex premier giapponese – smascherando in parte il reale stato d’animo della leadership cinese.

Il fatto è che Shinzo Abe è una figura estremamente controversa in Cina, oltre che per la sua tendenza a minimizzare le atrocità giapponesi durante la Seconda guerra mondiale (in primis il massacro o “stupro” di Nanchino), anche per i tentativi di allentare le restrizioni alle “forze di autodifesa”. Per non parlare delle reiterate visite, soprattutto dopo le sue dimissioni nel 2020, al tempio Yasukuni. Si tratta di un santuario shintoista dove riposano le anime dei soldati e delle persone che morirono combattendo al servizio dell’imperatore, incluse quelle di quattordici criminali di guerra “di classe A”, ossia condannati per “crimini contro la pace”. Esso ospita altresì un museo sulle operazioni belliche del Giappone durante il secondo conflitto mondiale considerato, da alcuni, revisionista. Le visite ufficiali al santuario da parte di esponenti del governo di Tokyo sono state spesso causa di tensioni sia internamente sia all’estero. In particolare, la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Sud hanno più volte protestato contro queste visite a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e, soprattutto, negli anni del mandato del primo ministro Koizumi, mentore di Abe, tra il 2001 e il 2006. Inoltre, le mosse geopolitiche di Abe hanno contribuito a fare del Giappone una componente chiave nell’ambito della crescente coalizione, a guida statunitense, volta a contenere la Cina popolare. È Abe l’ideatore del cosiddetto QUAD (Quadrilateral Security Dialogue), l’alleanza indo-pacifica in chiave anticinese che include Giappone, Stati Uniti, Australia e India. È sempre Abe l’ispiratore della “Indo-Pacific Strategy” dell’amministrazione USA, la quale trae origine dalla visione strategica di una “Free and Open Indo-Pacific” annunciata dall’ex premier giapponese nel 2016, in occasione del suo discorso di apertura alla TICAD (Tokyo International Conference on African Development) VI in Kenya. Né vanno tralasciate le sue ingerenze nella questione taiwanese negli ultimi anni. Abe ha, infatti, compiuto degli sforzi significativi per adattare la politica del Giappone nei confronti di Taiwan alla luce di una Cina sempre più assertiva. Questo risulta evidente sia nella reazione del governo di Taipei all’indomani della sua uccisione, sia dagli esiti di alcuni recenti sondaggi di opinione nell’isola. Nel primo caso, risultano emblematiche le dichiarazioni della presidentessa Tsai Ing-wen che ha definito Shinzo Abe uno dei migliori amici di Taipei, così come la scelta di far posizionare le bandiere a mezz’asta nella capitale taiwanese, e la decisione del vicepresidente William Lai di prendere parte alla cerimonia funebre dell’ex premier. Per quanto sia avvenuta in forma privata, la visita del vicepresidente taiwanese è quella di più alto livello di un dignitario di Taipei da quando il Giappone ha rotto le relazioni con Taipei al fine di normalizzare i rapporti con Pechino nel 1972 e assume un significato rilevante alla luce delle dichiarazioni di Abe dello scorso mese di febbraio che aveva invitato l’amministrazione statunitense ad «abbandonare l’ambiguità» relativamente alla difesa di Taiwan. Nel secondo caso, è interessante rilevare come il gradimento dei taiwanesi nei confronti del Giappone abbia raggiunto livelli record. Da un recente sondaggio di opinione è emerso come il 60% consideri il Giappone il Paese straniero preferito, con un incremento di 8 punti percentuali rispetto al 2010. Per molti versi, questa crescente predilezione del pubblico taiwanese per il Giappone riflette gli sforzi di Abe per espandere le relazioni bilaterali tra Taipei e Tokyo.

Sarebbero queste le ragioni per le quali il limitato riavvicinamento tra i due Paesi, ma soprattutto tra i due leader Abe e Xi, non ha avuto seguito. Al di là del Covid-19 che ha impedito che la visita ufficiale di Xi avesse luogo, la motivazione principale risiede nel fatto che nessuna delle due parti ha davvero indirizzato la propria politica in tal senso e le cause delle diverse diatribe tra i due Paesi sono fortemente radicate e difficili da rimuovere. Secondo alcuni analisti cinesi, Abe non è mai stato un amico sincero della Cina ma si è servito del riavvicinamento con il presidente Xi, sfruttando al contempo i dissapori tra Pechino e Washington, per realizzare la sua ambizione di “normalizzare” il Giappone, per far sì che il Paese si liberasse dei vincoli della sua Costituzione pacifista e ridiventasse un Paese potente. Questo, in parte, spiega le diverse reazioni che la morte dell’ex leader giapponese ha suscitato in Cina, unito alla consapevolezza che la leadership di Fumio Kishida, delfino di Abe, nonché ministro degli Esteri in due dei suoi governi, proseguirà sulla strada tracciata dal suo predecessore.

 

Immagine: Shinzo Abe (27 settembre 2019). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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La ‘carta di Taiwan’ nella crescente tensione tra USA e Cina

 

Lo scorso 5 maggio, il Dipartimento di Stato statunitense ha aggiornato nel suo sito web la scheda informativa sulle relazioni tra Stati Uniti e Taiwan, che si discosta notevolmente dalla versione precedente pubblicata il 31 agosto del 2018 sotto l’amministrazione di Donald Trump. L’atteso lavoro di revisione della scheda ha comportato sia l’eliminazione di alcune parti sia l’aggiunta di nuovi contenuti che vanno ben oltre le modifiche di carattere esclusivamente formale, suscitando inevitabilmente l’attenzione di numerosi analisti e osservatori. Questo è intervenuto, infatti, in un momento particolarmente delicato per le relazioni tra Repubblica Popolare Cinese (RPC) e Stati Uniti, contrassegnato da un crescendo di tensioni scandite da dichiarazioni, spesso contradditorie, da parte statunitense, in merito alla questione taiwanese, e che la guerra in Ucraina non ha fatto che esacerbare. Gli USA ritengono che la guerra russa in Ucraina abbia influenzato i calcoli cinesi su Taiwan, ventilando l’ipotesi della minaccia di un attacco da parte della RPC contro Taiwan entro il 2030. A lanciare l’allarme sono stati la direttrice dell’intelligence nazionale statunitense Avril Haines e il direttore dell’Agenzia di intelligence per la Difesa Scott Berrier, secondo i quali gli sviluppi della guerra in corso in Ucraina avrebbero fornito ai governi delle due sponde dello Stretto di Taiwan alcuni indizi cruciali per sviluppare le rispettive strategie di attacco e difesa. In particolare, per la direttrice della CIA (Central Intelligence Agency), Pechino si starebbe dotando dei mezzi militari per invadere l’isola ‘ribelle’, per quanto lo scenario preferibile continui ad essere una sua presa pacifica in un futuro non necessariamente imminente.

Tra le eliminazioni di testo degne di nota ve ne sono due in particolare che, a bene vedere, costituiscono l’impalcatura della politica taiwanese portata avanti da Washington a partire dal 1979 (basata sull’accettazione della politica di ‘un’unica Cina’) e rappresentano al contempo i pilastri della politica estera della Cina popolare. La prima riguarda una parte del primo paragrafo in cui si segnalava che nel Comunicato congiunto firmato a Pechino nel dicembre del 1978, alla vigilia dell’avvio delle relazioni diplomatiche ufficiali, «gli Usa hanno riconosciuto che il governo della Repubblica popolare cinese è l’unico governo legale della Cina, accettando la posizione cinese secondo la quale esiste un’unica Cina e Taiwan è parte della Cina»; la seconda, contenuta nella versione precedente nel secondo paragrafo, è relativa invece all’affermazione secondo la quale gli Stati Uniti «non sostengono l’indipendenza di Taiwan». Per quanto concerne i nuovi contenuti, invece, si rivelano utili per specificare la natura del rapporto tra le due parti e, soprattutto, la ratio del continuo e crescente sostegno statunitense all’isola. Laddove la versione precedente della scheda si apriva con la dichiarazione secondo la quale «Stati Uniti e Taiwan intrattengono una solida relazione non ufficiale», nella versione aggiornata si legge che «in quanto democrazia avanzata e potenza tecnologica, Taiwan è un partner chiave degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico» che, pur non intrattenendo relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti (ma solo una ‘solida relazione non ufficiale’), ne condivide i valori, oltre a intrattenere con essi profondi legami economico-commerciali e altrettanti forti legami interpersonali (I paragrafo). La natura di questi legami è esplicitata nel paragrafo 2 quando si chiarisce che «Taiwan è diventata un importante partner statunitense nel commercio e negli investimenti, salute, semiconduttori e altre catene di approvvigionamento critiche, screening degli investimenti, scienza e tecnologia, istruzione e promozione dei valori democratici».

Come si accennava sopra, nella nuova versione scompare il riferimento diretto alla politica dell’“unica Cina”, ma questa viene evocata implicitamente nel punto in cui si afferma che le relazioni con Taipei sono regolate dal «Taiwan Relations Act» e dai tre «Comunicati congiunti Usa-Cina e le Sei rassicurazioni» (paragrafo 3). Può essere interessante soffermarsi sulle ‘Sei rassicurazioni’, che  vennero fornite in privato dal presidente Reagan al governo di Taipei, contestualmente alla firma del Terzo comunicato congiunto sulla vendita di armi al Paese, nell’estate del 1982, e rese note ufficialmente solo nel dicembre 2020, a seguito della declassificazione del relativo documento. Esse prevedevano che gli USA non avrebbero fissano una data per la fine della vendita delle armi a Taiwan; non si sarebbero consultati con la RPC in merito alla vendita d’armi a Taiwan; non avrebbero svolto alcuna mediazione fra Taipei e Pechino; non avrebbero rivisto il Taiwan Relations Act; non avrebbero mutato posizione in merito alla sovranità di Taiwan; infine, non avrebbero fatto pressioni su Taiwan affinché avviasse trattative con la RPC. In tal senso, si ponevano in contraddizione con i contenuti del Terzo comunicato congiunto. Sempre nel paragrafo 3, gli Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno ad una «soluzione pacifica delle differenze tra le due sponde dello Stretto», aggiungendo però che questa soluzione deve essere «in linea con la volontà e gli interessi del popolo di Taiwan» – un evidente riferimento ai regolari sondaggi di opinione che rivelano come i taiwanesi abbiano poco o nessun interesse a essere governati da Pechino.

Come c’era da aspettarsi, le suddette modifiche alla scheda informativa sulle relazioni tra Washington e Taipei, da parte dell’amministrazione Biden, hanno suscitato la rabbia di Pechino, sia  negli ambienti politici sia negli ambienti accademici. Tra i primi ad esprimersi è stato Zhao Lijian – portavoce del ministero degli Esteri e uno dei massimi esponenti della nota diplomazia ‘dei lupi guerriero’ (zhanlang waijiao) – il quale, dopo aver ricordato gli impegni solenni assunti dagli Stati Uniti per il rispetto del principio dell’‘unica Cina’ (‘yi ge Zhongguo’ yuanze) inserito nei tre Comunicati congiunti siglati con Pechino nel 1972, nel 1978 e nel 1982 (rispettivamente dalle amministrazioni Nixon, Carter e Reagan), ha definito la revisione della scheda come un «un atto di manipolazione politica e un tentativo di cambiare lo status quo nello Stretto di Taiwan, che si ritorcerà contro gli stessi Stati Uniti». E per quanto Washington si sia affrettata a precisare che il suddetto aggiornamento non rifletteva alcun cambiamento di politica, le continue prese di posizione dell’amministrazione democratica e, soprattutto, le dichiarazioni dello stesso presidente, in occasione del suo tour in Asia orientale (20-24 maggio), hanno contribuito ad alimentare ulteriormente le tensioni. Laddove il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price si prodigava nel ribadire che, anche se i contenuti della scheda informativa erano cambiati, non era cambiata la sostanza della politica di Washington, e che quindi gli Stati Uniti continuavano a «non sostenere l’indipendenza di Taiwan», dall’altro Biden si lasciava andare ad alcune esternazioni che sembravano al contrario voler gettare benzina sul fuoco.

Da Tokyo, dove il 24 maggio era riunito il quarto vertice dei leader del QUAD (Quadrilateral Security Dialogue) – il gruppo formato da Stati Uniti, Giappone, Australia e India, che punta a contenere le mire di Pechino nell’Indo-Pacifico – egli lanciava a Pechino uno dei più duri moniti sull’isola, dichiarando senza mezzi termini come gli Stati Uniti fossero pronti a intervenire militarmente qualora la Cina intendesse prendere Taiwan con la forza. Nel rispondere a una domanda postagli da un giornalista in merito a un possibile intervento militare diretto degli USA per difendere Taiwan, scandiva a chiare lettere come quello fosse «l’impegno che abbiamo preso». L’arditezza delle parole di Biden ha portato ad un pronto intervento della Casa Bianca, che si è affrettata a minimizzare le dichiarazioni del suo inquilino – per la terza volta nell’arco di pochi mesi – sulla questione, specificando come il presidente avesse solo «reiterato la nostra politica dell’unica Cina e il nostro impegno alla pace e alla stabilità nello Stretto di Taiwan» e alla vendita di armi a Taiwan, ‘da sempre’ il punto di frizione più problematico nelle relazioni bilaterali.

Molti analisti si sono domandati se le dichiarazioni (intenzionali o mere gaffe secondo alcuni) di Biden, cui si aggiungono quelle di altri funzionari della Casa Bianca – tra tutte quelle del segretario di Stato americano Antony Blinken che, nell’ottobre 2021, ha esortato tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite a sostenere la partecipazione di Taiwan al suo interno – possano essere interpretate come la fine della cosiddetta ‘ambiguità strategica’. Quest’ultima è stata praticata da Washington nei suoi rapporti con Taiwan dopo il riconoscimento formale della Repubblica Popolare Cinese ed è servita come doppio deterrente, al fine di prevenire sia la presa con la forza di Taiwan da parte della RPC sia la proclamazione d’indipendenza de jure da parte di Taiwan. Negli ultimi anni, tuttavia, il sostegno del Congresso statunitense a Taiwan è stato rafforzato dalla sempre crescente ostilità nei confronti della Cina popolare. Alcuni studiosi e diversi membri del Congresso hanno iniziato ad invocare sempre più frequentemente la “chiarezza strategica” da parte del governo statunitense, per scongiurare eventuali azioni militari cinesi nello Stretto di Taiwan, schierandosi apertamente a favore di una revisione della politica di ‘un’unica Cina’ e per la difesa di Taiwan. In particolare, nel novembre del 2021, due senatori esponenti del Partito repubblicano (Josh Hawley e James Risch) hanno proposto alla Commissione del Senato per la Politica estera l’adozione di due leggi – una sull’armamento e l’altra sulla deterrenza di Taiwan – volte a fornire prestiti d’aiuto per miliardi di dollari alla difesa dell’isola. Ciò detto, queste iniziative e prese di posizione non sembrerebbero rappresentare, tuttavia, il punto di vista ufficiale del governo statunitense, come dimostra il fatto che il 28 maggio il Dipartimento di Stato ha nuovamente modificato la sopracitata scheda nel suo sito web, ripristinando la linea precedente, in particolare dove si sostiene che gli Stati Uniti «non sostengono l’indipendenza formale dell’isola» e auspicano una «soluzione pacifica delle differenze tra le due sponde dello Stretto», senza più alcuna menzione dell’opinione pubblica taiwanese.

 

Immagine: Muro di cemento con le bandiere dipinte di USA, Cina e Taiwan. Crediti: Photo Veterok / Shutterstock.com

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La Cina di Xi di fronte alla guerra in Ucraina

A due mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, la Cina popolare non ha cambiato atteggiamento rispetto alla sua posizione iniziale – alla fine ha condannato l’aggressione, pur tra mille equilibrismi per non definire ‘guerra’ quella che di fatto è; ha detto no alle sanzioni unilaterali imposte dal fronte occidentale a Mosca, pur impegnandosi a non boicottarle (ma trovando altri modi per sostenere il governo ‘amico’) – né sembra intenzionata a cedere rispetto alla propria posizione critica nei confronti degli Stati Uniti e del blocco occidentale in generale, come hanno rivelato i toni (e i contenuti) tutt’altro che amichevoli della recente telefonata tra il capo del Pentagono Lloyd Austin e il ministro della Difesa cinese Wei Fenge – la prima in assoluto tra i due dall’avvio dell’amministrazione Biden, e ancor prima gli esiti del vertice UE-Cina in videoconferenza, lo scorso 1° aprile. In altre parole, sebbene Pechino persista nel ribadire la propria neutralità nella guerra della Russia in Ucraina, di fatto non perde occasione per accusare gli Stati Uniti e la NATO di aver incitato alla guerra. Tanto meno ha manifestato tentennamenti riguardo alla sua relazione ‘speciale’ e all’amicizia ‘senza limiti’ con Mosca, sancita dalla firma della ‘Dichiarazione congiunta’, lo scorso 4 febbraio. Al contrario, sembrerebbe intenzionata a rafforzare il partenariato strategico globale, come è emerso chiaramente dall’incontro tra il viceministro degli Esteri cinese, Le Yucheng, e l’ambasciatore russo in Cina, Andrey Denisov, il 19 aprile. A detta di Le, indipendentemente dall’evoluzione della situazione internazionale, «la Cina, come sempre, rafforzerà il coordinamento strategico con la parte russa, realizzerà una cooperazione vantaggiosa per tutti e salvaguarderà congiuntamente gli interessi comuni di entrambe le parti». Si tratta di una presa di posizione netta, che non lascia margini di dubbio sulle scelte del governo cinese. Eppure, sembrerebbe una scelta rovinosa per una Cina che non può permettersi di rompere con l’Occidente, il che le impone, necessariamente, di trovare un modus vivendi per la gestione dei futuri rapporti sia con Washington sia con Bruxelles. Non sarebbe la prima volta per la Cina popolare. Basti pensare a quanto accadde all’indomani dei fatti di piazza Tienanmen, quando la condanna e l’isolamento internazionali, unite alle sanzioni economiche e diplomatiche occidentali, sembravano aver vanificato i brillanti risultati raggiunti dalla politica di riforma e di apertura avviata da Deng Xiaoping un decennio prima, e compromesso il suo futuro quale grande potenza.  

Alla luce dei danni sempre più evidenti in termini di reputazione e immagine per la Cina di Xi Jinping, oltre che delle pericolose ricadute economiche che iniziano a farsi sentire – che si sommano ad una fortissima recrudescenza dei contagi in Cina che sta bloccando quasi la metà dell’economia nazionale, mettendo a serio rischio il commercio globale e le sue previsioni di ripresa per il 2022, e generando forti instabilità sociali – non sono in pochi a chiedersi che cosa voglia realmente Pechino e, soprattutto, se ci sia qualcosa che possa indurre la leadership cinese ad un ripensamento della sua relazione ‘speciale’ con Mosca. Questo anche alla luce del fatto che appare sempre più palese come le scelte del Cremlino stiano avendo delle serie ripercussioni anche per Zhongnanhai, al di là degli aspetti economici. Sotto il profilo militare, le ‘dubbie’ prestazioni delle forze russe sul campo di battaglia sono oggetto di una grande riflessione per l’Esercito popolare di liberazione (EPL) che ad esse si è a lungo ispirato. Come spiega un interessante articolo del Financial Times, per l’EPL, le operazioni russe in Ucraina rappresentano vere e proprie ‘lezioni dal vivo’ del tipo di guerra che le truppe cinesi non hanno sperimentato dai tempi della cosiddetta ‘spedizione punitiva’ lanciata contro il Vietnam nel marzo del 1979. In questo senso Pechino teme che i suoi militari soffrano di una sorta di ‘malattia della pace’, ossia una mancanza di esperienza sul campo di battaglia e di spirito combattivo. Non meno rilevanti sono le ripercussioni in ambito geopolitico, il cui emblema è rappresentato dalla rinnovata – e fino a poco tempo fa tutt’altro che scontata – compattezza dell’alleanza atlantica e dalla sua crescente espansione in Europa e in Asia orientale. Basti pensare che le portaerei statunitensi sono tornate nel Mar del Giappone, dopo ben cinque anni, posizionandosi di fronte alla Corea del Nord e sotto la Russia. In Finlandia e Svezia si è avviata una discussione, sia in ambito governativo sia a livello di opinione pubblica, su un prossimo ingresso dei due Paesi nella NATO. Una risposta, semplice, quanto banale, potrebbe essere l’interesse nazionale cinese, quale è percepito dalla leadership comunista, che sembrerebbe agli antipodi rispetto a quello dell’‘alleato’ russo, e riassumibile in due parole chiave: ordine e stabilità. Pertanto, nel gestire le sue relazioni con la Russia, Pechino potrebbe perseguire i propri interessi attraverso quella che è stata definita una ‘maximin’ strategy, ossia una strategia con la quale il governo cinese cerca di massimizzare i benefici che può trarre dall’indebolimento e dal crescente isolamento della Russia, dagli effetti nefasti della guerra in Ucraina e dal suo confronto con l’Occidente, minimizzando al contempo le ricadute negative di questo confronto per il Paese. A ben vedere, si tratta di una strategia complessa e alquanto rischiosa per il governo e per il Partito comunista alla sua guida, e può rivelarsi fatale per il suo leader che, forse, ha ‘investito’ troppo su un partner come Vladimir Putin che ha dimostrato una grande incoscienza e una forte inclinazione a creare caos e distruzione scatenando la guerra, determinando una grande instabilità, sia dentro che fuori le aree interessate dal conflitto. Questo è esattamente quello che Pechino ha a lungo cercato di evitare (quantomeno a parole), poiché il disordine e l’instabilità mettono a repentaglio, oltre che la propria crescita economica, la riuscita dei progetti che il Paese sta portando avanti nell’ottica della realizzazione del ‘sogno cinese’ e del rinnovamento della nazione, e per i quali un ordine globale funzionante costituisce la conditio sine qua non. Per ora, a prevalere sulle differenze è una parvenza di intesa tra due uomini forti che sembrano ‘amarsi’ e fidarsi l’uno dell’altro, uniti nel comune obiettivo di non lasciare che un Occidente, ai loro occhi sempre più prepotente, continui a dettare le regole del gioco. Nella realtà, la Cina di Xi non è mai stata così ‘fragile’, la stessa leadership non sembra più così solida, a pochi mesi dal XX Congresso del Partito comunista che dovrebbe consegnare al leader della ‘quinta generazione di governanti’ al potere un inedito terzo mandato. Pertanto, nel perseguire la sua ‘maximin’ strategy, Pechino dovrà ponderare ogni minimo dettaglio, poiché la prosecuzione della sua neutralità filorussa implica un continuo defilarsi della Cina dalle proprie responsabilità di potenza globale, con tutto ciò che ne consegue.

Alla luce di quanto detto finora, le parole espresse dal presidente cinese nel discorso di apertura della Conferenza annuale del Boao Forum for Asia – il corrispettivo asiatico del vertice economico di Davos – tenutasi lo scorso 21 aprile, posso essere lette in chiaroscuro. Con il suo discorso, significativamente intitolato ‘Essere all’altezza delle sfide e costruire un futuro luminoso attraverso la cooperazione’, Xi ha osservato come la storia dell’umanità insegni che nei momenti più difficili sia necessario rinsaldare ancora di più la fiducia; che le contraddizioni non debbono fare paura poiché sono proprio esse a promuovere il progresso della società umana; e che «per uscire dalla nebbia e abbracciare un futuro luminoso, la più grande forza viene dalla cooperazione e il modo più efficace è attraverso la solidarietà». Egli ha inoltre auspicato un maggiore coordinamento tra le principali economie mondiali per prevenire che le decisioni politiche abbiano ricadute «gravi e negative» sulla crescita globale e la stabilità della supply chain, affermando come in un mondo globalizzato non ci sia spazio per un decoupling.

A fare da contraltare a queste parole, volte in un certo qual modo a ‘rassicurare’ il mondo, con l’impegno a continuare a lavorare per migliorare la governance globale, sono quelle volte a ribadire, senza mai citare direttamente gli Stati Uniti, l’Unione Europea e gli altri alleati di Washington, le posizioni chiave anti-occidentali di Pechino, ossia l’opposizione alle ‘sanzioni unilaterali’, ai ‘doppi standard’, alla  ‘giurisdizione a braccio lungo’, alla ‘mentalità da guerra fredda’ che, a detta di Xi, può solo danneggiare il quadro della pace globale, laddove l’egemonismo e la politica di potenza non fanno altro che minarla. Per questo il presidente cinese propende per ‘un’iniziativa di sicurezza globale’ a sostegno della cosiddetta ‘indivisibilità della sicurezza’, un principio già avallato da Mosca sull’invasione in Ucraina, secondo il quale la comunità internazionale «dovrebbe rispettare la sovranità e integrità territoriale» di ogni Paese, tenendo però nella debita considerazione le «legittime preoccupazioni di tutti».

 

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Immagine: Xi Jinping (5 luglio 2017). Crediti: 360b / Shutterstock.com

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I dilemmi di Pechino sulla guerra in Ucraina

Lo scoppio della guerra in Ucraina, all’indomani dell’invasione su vasta scala perpetrata dall’esercito russo nel Paese, a partire dallo scorso 24 febbraio, ha posto la Repubblica Popolare Cinese (RPC) davanti a una grande sfida, su più fronti. Da una parte, nelle sue relazioni “speciali” con Mosca, che la Dichiarazione congiunta per una nuova era delle relazioni internazionali e dello sviluppo globale sostenibile, siglata lo scorso 4 febbraio, in occasione della visita di Putin in Cina per l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Pechino, ha contribuito a rafforzare ulteriormente; dall’altra, negli ottimi e promettenti rapporti (soprattutto economici) con Kiev, a trent’anni dall’avvio di relazioni diplomatiche tra le due parti, che hanno portato la RPC a diventare il primo partner commerciale dell’Ucraina e l’Ucraina a costituire un tassello fondamentale per la componente terrestre della Nuova Via della Seta (BRI, Belt and Road Initiative). Non meno rilevante è il fronte relativo ai rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Europea (EU) e alle aspettative della comunità internazionale. Secondo molti analisti, la Cina di Xi Jinping avrebbe (finora) perso l’occasione di dimostrare nei fatti (e non solo a parole) di essere una “grande potenza responsabile”, in grado di riportare alla ragione uno dei suoi più grandi amici e “alleati” di sempre (dal primo incontro nel marzo del 2013 all’ultimo del 4 febbraio scorso i due leader si sono incontrati ben 38 volte) e il conflitto sui binari del dialogo e della diplomazia.

Non è la prima volta che Pechino si trova davanti a una situazione in cui rischia di “perdere la faccia” per i comportamenti di un “alleato” irresponsabile e solo all’apparenza irrazionale. È successo in un passato non molto lontano con la Corea di Kim Jong-un negli anni del consolidamento del potere del nuovo leader nordcoreano, in cui Pyongyang ha più volte sfidato la comunità internazionale con test nucleari e missilistici (peraltro tutti condannati all’unanimità dal Consiglio di sicurezza dell’ONU).

Con la guerra scatenata da Putin, Pechino è nuovamente sotto pressione, il che contribuisce in parte a spiegare i messaggi ambigui dati inizialmente dalla leadership cinese. Da un lato, ha condannato l’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia (non votando, però, la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2 marzo); dall’altro ha manifestato la volontà di non voler applicare le sanzioni a Mosca, in linea con un approccio che non considera le sanzioni uno strumento efficace per risolvere i problemi e si oppone di default a tutte le sanzioni unilaterali, viste come illegali. Così facendo la Cina popolare ha cercato di esporsi il meno possibile, nel tentativo di non rompere del tutto con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea – con i quali, al di là dei problemi e delle incomprensioni, la Cina vuole e deve continuare a interfacciarsi. Ma questo comportamento ambiguo ha inevitabilmente destato più di un sospetto nella comunità occidentale: che la Cina sapesse dei piani di invasione russa e che anzi, in occasione della visita di Putin a Mosca avrebbe ottenuto di posticipare l’invasione al termine dei Giochi olimpici e che la Cina abbia tutto da guadagnare dal conflitto in corso.

È innegabile che la RPC potrebbe ottenere dei vantaggi dall’isolamento internazionale di Mosca nel lungo periodo, in termini non solo di riduzione della pressione statunitense sul fronte dell’Asia-Pacifico, ma anche economici. Con una Russia isolata dall’Occidente si aprirebbe, infatti, un nuovo scenario nella collaborazione tra Mosca e Pechino, con enormi vantaggi per la Cina. Basti pensare solo al recente mega-accordo siglato con Gazprom, per la fornitura di gas naturale a Pechino, che avrebbe il vantaggio di rendere la RPC meno dipendente dalle rotte marittime, intrise di pericoli e “colli di bottiglia”.  

Ciò detto, nell’eventualità di un ulteriore aggravarsi della situazione, e in assenza di apertura al dialogo da parte di Mosca, Pechino potrebbe vedersi costretta ad esporsi, prendendo le distanze dalla Russia di Putin, per non “perdere la faccia”, ossia per evitare che il Paese – che ha a lungo anelato all’obiettivo di essere percepito come una “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo) sulla scena internazionale – possa essere associato a chi, invadendo uno Stato indipendente e sovrano, ha violato i principi base del diritto internazionale e fatto carta straccia della Carta delle Nazioni Unite. Un costo troppo elevato per l’immagine di un Paese che negli ultimi anni è stato sotto i riflettori della comunità internazionale, oltre che per la pandemia da Covid-19, della quale è stato ritenuto il principale responsabile, anche per il mancato rispetto dei diritti umani e le politiche repressive sia nella regione autonoma dello Xinjiang (animata da sempre da tendenze separatiste), sia nella regione autonoma speciale di Hong Kong. Tanto più che la Cina popolare ha davanti a sé un anno estremamente impegnativo dal punto di vista politico, essendo previsto per il prossimo autunno il XX Congresso del Partito comunista che dovrebbe assegnare un inedito terzo mandato a Xi Jinping, rompendo con una tradizione avviata da Deng Xiaoping fin dai primi anni Ottanta, che prevedeva il limite di due mandati, al fine sia di evitare riproposizioni di personalismi e culti della personalità facilmente traducibili in governi di “un solo uomo”, sia per garantire transizioni di potere ordinate e stabili. 

Alla luce di tali considerazioni ma, soprattutto, nel tentativo di mettere un po’ di ordine nelle dichiarazioni anche contradditorie susseguitesi con il trascorrere del tempo in riferimento alla crisi in corso, lo scorso 25 febbraio il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha approfittato di alcuni colloqui telefonici con il suo omologo britannico Liz Truss, con l’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Josep Borrell e con Emmanuel Bonne, consigliere diplomatico del presidente francese, per chiarire la posizione di base di Pechino sulla questione ucraina, articolandola in cinque punti. In primo luogo, Wang ha ribadito che la Cina «sostiene fermamente il rispetto e la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati, attenendosi con serietà agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite»; in secondo luogo, ha sottolineato come la Cina «sostenga il concetto di sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile», specificando che la sicurezza di un Paese non possa venire a scapito di quella degli altri e che la sicurezza regionale non possa essere garantita rafforzando e persino espandendo i blocchi militari; in terzo luogo ha aggiunto che «la Cina ha seguito l’evoluzione della questione ucraina e la situazione attuale è qualcosa che non vuole vedere»; ancora, ha sottolineato come «la parte cinese sostenga e incoraggi tutti gli sforzi diplomatici che portano alla soluzione pacifica della crisi ucraina e il Paese accoglie con favore i colloqui diretti e i negoziati tra la Russia e l’Ucraina». Infine, ha spiegato che «la Cina ritiene che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite dovrebbe svolgere un ruolo costruttivo nella risoluzione della questione ucraina e che la pace e la stabilità regionali, così come la sicurezza di tutti i paesi, dovrebbero essere messe al primo posto».

Con questa nota, che pure non elimina le ambiguità e le contraddizioni insite nella postura cinese, Pechino ha chiarito la sua posizione, richiamandosi ai principi tradizionali della politica estera cinese, racchiusi nei cosiddetti “Cinque principi della coesistenza pacifica” – il cui nucleo è costituito proprio dal rispetto reciproco per la sovranità e l’integrità territoriale di ciascun Paese e la reciproca non aggressione – e smarcandosi dall’avventurismo di Mosca, che mette in difficoltà la Repubblica Popolare non solo agli occhi della comunità internazionale, ma anche dell’opinione pubblica interna. Vale la pena sottolineare come nei social network e in diversi ambiti della società cinese esista quella che è stata definita una “maggioranza silenziosa” che non approva molte delle politiche di Pechino e non ha paura di esternarle. Nella fattispecie, vi sono molte opinioni contrastanti rispetto alla Russia, alcune delle quali sono decisamente negative. I cinesi non dimenticano che la Russia è stata una delle potenze europee che ha invaso la Cina durante il famigerato “secolo dell’umiliazione” (bainian chiru) e che, a lungo, l’Unione Sovietica aveva sostenuto i nazionalisti di Chiang Kai-shek, prima di sostenere i comunisti, raggiungendo il culmine nell’agosto del 1945 con la firma del Trattato di amicizia e alleanza, in base al quale le due parti avrebbero dovuto combattere insieme contro il Giappone, in cambio di alcune concessioni a Mosca – e ritenuto non a caso “l’ultimo dei trattati ineguali”. Di questa componente della società cinese sempre più attiva e informata, che si esprime anche sui social pur nei limiti concessi dalla censura cinese, e che non ha esitato a esprimere le proprie riserve in merito al consolidamento dei rapporti tra i due Paesi, all’indomani della sigla della già citata dichiarazione congiunta per una nuova era delle relazioni internazionali e dello sviluppo globale sostenibile e, ancor più, a seguito dell’invasione dell’Ucraina – come rivela la lettera di condanna, subito censurata, a firma di cinque storici di altrettanti atenei cinesi, tradotta in italiano per Sinosfere – la Cina di Xi è ben consapevole e deve tenerla in debita considerazione nella formulazione delle proprie politiche e nelle risposte a situazioni di particolare criticità. Il rischio è di alimentare ulteriori pericolose sacche di malcontento interno potenzialmente in grado di destabilizzare la società e mettere in discussione la governance del Partito, all’indomani delle celebrazioni per il suo centenario, ma alle prese con una fase, forse, tra le più critiche della sua esistenza.  

 

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Immagine: Xi Jinping (4 settembre 2016). Crediti: plavi011 / Shutterstock.com

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Le Olimpiadi “della discordia” e i rischi per la Cina di Xi Jinping

 

A poche settimane dalle Olimpiadi invernali di Pechino – che la consacreranno quale unica città ad aver ospitato finora sia le Olimpiadi estive (le XXIX del 2008) sia le Olimpiadi invernali – la Repubblica Popolare Cinese (RPC) si è vista costretta sulla difensiva da un boicottaggio diplomatico lanciato dagli Stati Uniti d’America lo scorso 6 dicembre, e seguito da alcuni Paesi occidentali (Australia, Belgio, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito), che prevede il mancato invio di funzionari e diplomatici alla rassegna sportiva in programma dal 4 al 20 febbraio. L’invio di rappresentanti governativi, infatti, sarebbe stato interpretato come una tacita approvazione al governo di Xi Jinping, per il quale l’evento è fonte di notevole prestigio, soprattutto in un momento così delicato che vede l’immagine del Paese e, soprattutto, la reputazione del suo presidente toccare i minimi storici, complice la crisi pandemica del Covid-19 (ma non solo), mentre si appresta a ricevere il suo terzo mandato, che ne sancirà il definitivo inserimento nell’alveo dei “timonieri” della RPC.

 

La decisione dell’amministrazione Biden è stata dettata dalla volontà di lanciare un messaggio forte a Pechino, accusata di non rispettare i diritti umani delle minoranze nel Tibet e nel Xinjiang, e di reprimere le libertà a Hong Kong, senza però impedire la partecipazione alla manifestazione da parte degli atleti statunitensi. Al di là delle scontate reazioni da parte del governo comunista – che per bocca di uno dei più noti e aggressivi portavoce del ministero degli Esteri (Zhao Lijian) ha minacciato l’utilizzo di «contromisure risolute», denunciando il fatto che le Olimpiadi invernali «non sono un palcoscenico per spettacoli e manipolazioni di natura politica», e che il boicottaggio rappresenta «una grave contaminazione dello spirito della Carta olimpica, una pura provocazione politica e una grave offesa contro 1,4 miliardi di cinesi» – risulta assai improbabile che la Cina sia stata colta di sorpresa. Già nei mesi precedenti vi erano state, infatti, numerose pressioni da parte di gruppi attivisti e organizzazioni non governative affinché i governi occidentali annunciassero un boicottaggio per le XXIV Olimpiadi invernali per il trattamento riservato dal partito-Stato nei confronti degli Uiguri e di altre minoranze etniche nello Xinjiang, così come degli avvocati per i diritti umani e di coloro che osano parlare contro il governo del Paese e del suo presidente. La decisione definitiva è maturata indubbiamente all’indomani della scomparsa, per tre settimane, della star del tennis cinese Peng Shuai, in seguito alle sue accuse di aggressione sessuale contro un ex alto funzionario del Politburo (l’ex vicepremier cinese Zhang Gaoli), e dopo che la WTA (Women’s Tennis Association) ha sospeso tutti i suoi tornei nel Paese – ad oggi, la misura più forte mai adottata contro la Cina da parte di un’organizzazione sportiva che fa molto affidamento sul mercato cinese.

 

Per tale ragione, è assai improbabile che il boicottaggio sportivo di Washington avrà il benché minimo impatto su Pechino, nel senso di far capitolare la Cina e favorire aperture volte a riparare la sua immagine internazionale. È invece assai più probabile che il governo cinese passi all’offensiva servendosi della consueta leva economica, nella consapevolezza che la comunità internazionale non voglia, né possa permettersi di rinunciare al redditizio mercato cinese. Il silenzio dei principali sponsor coinvolti vale più di mille parole, a conferma che non esiste una voce univoca di fronte alla questione dei diritti umani e, più in generale, che i valori democratici professati e il rispetto dei diritti umani possono essere sacrificati quando sono in gioco i profitti.

 

In effetti, la mossa di Biden ha contribuito a rompere quel fronte internazionale costituitosi contestualmente all’approvazione in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite della Risoluzione sulla “tregua olimpica” adottata, per consenso, da 193 membri, ma co-sponsorizzata solo da 173 di questi (con l’esclusione, tra gli altri, di Stati Uniti, India, Giappone, Australia e Turchia). La Risoluzione, intitolata Building a peaceful and better world through sport and the Olympic ideal, esorta i Paesi membri all’osservanza della “tregua olimpica” per i Giochi olimpici e paralimpici di Pechino, con inizio a partire da sette giorni prima dell’inaugurazione dei Giochi e conclusione dopo sette giorni dalla fine degli stessi, richiamando lo spirito della “tregua sacra” (la ekecheirìa), istituita dagli antichi greci oltre tremila anni fa per consentire la partecipazione ai Giochi di tutti gli atleti e spettatori delle città-Stato greche, altrimenti quasi costantemente in conflitto tra loro. La Risoluzione sottolinea, dunque, l’importanza della cooperazione tra gli Stati membri per attuare collettivamente i valori della tregua olimpica nel mondo e ribadisce il ruolo fondamentale del Comitato olimpico internazionale, del Comitato paralimpico internazionale e delle Nazioni Unite a tale riguardo, laddove il boicottaggio, in ogni sua forma, «è equiparabile a un affronto ai principi della Carta olimpica, che mira alla ‘neutralità politica’ e all’indipendenza del movimento olimpico».

Al contempo, il boicottaggio di Washington ha contribuito a far emergere le divisioni in seno alla comunità internazionale. Molti Paesi occidentali alleati degli Stati Uniti e membri della NATO, quali Italia e Francia, hanno rifiutato di aderire all’iniziativa statunitense, con il presidente Macron che lo ha descritto come «simbolico e insignificante». In particolare, l’esitazione dell’Unione Europea (UE) in merito a una sua risposta al boicottaggio ha rafforzato la posizione di Pechino, consentendole di sfruttare la posizione non compatta dell’Occidente sulla questione.

 

I Paesi che si oppongono alla mossa americana insistono sul fatto che i boicottaggi dei Giochi olimpici in piena guerra fredda (quelli di Mosca nel 1980 e quelli di Los Angeles nel 1984) ebbero un impatto politico minimo, con il risultato che gli unici a pagarne le spese furono gli atleti, e concordano nel ritenere che l’impegno nelle competizioni sportive possa garantire l’opportunità di una preziosa diplomazia sportiva, favorendo al contempo un controllo internazionale, in grado di portare, eventualmente, a dei cambiamenti positivi. La realtà dei fatti può essere però ben diversa, come rivelano i casi della Cina, dopo i Giochi olimpici estivi nel 2008, e della Russia dopo le Olimpiadi invernali del 2014 e la Coppa del mondo del 2018.

 

Nel caso cinese, in particolare, c’erano grandi aspettative per l’evento che si inseriva, peraltro, in un contesto di un’ascesa e di uno sviluppo pacifici, ipotizzando che avrebbe cambiato la Cina in meglio, favorendo un maggior senso di responsabilità e un maggiore rispetto per i diritti umani da parte del governo comunista. Tuttavia, tali speranze furono infrante ancor prima dell’inizio della rassegna sportiva, di fronte alle proteste scoppiate in Tibet contro le politiche repressive del partito-Stato represse, senza esitazione, da Pechino. Ciò nondimeno, Pechino riuscì a gestire così bene i Giochi, al punto da trasformarli in una vera e propria vittoria del soft power cinese, proiettando la Cina come una superpotenza sulla scena globale. Per lo storico Zheng Wang, autore del volume Never forget national humiliation. Historical memory in Chinese politics and foreign relations (Columbia University Press, 2014), i Giochi della XXIX Olimpiade di Pechino avevano finito per costituire un «simbolo del ringiovanimento della Cina». Con la stravagante e sfarzosa cerimonia di apertura, il governo cinese aveva messo in mostra le glorie passate e mostrato al contempo i successi raggiunti dalla nuova Cina, ponendo definitivamente il Paese alla ribalta della scena internazionale e consacrandone lo status di potenza emergente.

Detto ciò, come ha messo in evidenza il Comitato olimpico internazionale, l’organismo «non svolge alcun ruolo volto a determinare cambiamenti politici» e l’assegnazione dei Giochi a uno specifico Paese non ha nulla a che fare con la sua natura politica né tantomeno con gli obiettivi politici che esso si prefigge.

Alla luce di quando detto, viene spontaneo domandarsi se la Cina possa e, soprattutto, voglia riconquistare l’opinione pubblica mondiale con le imminenti Olimpiadi invernali, tenuto conto che l’immagine internazionale del Paese ha raggiunto il livello più basso degli ultimi anni in molti Stati occidentali a seguito dello scoppio della pandemia di Covid-19, come hanno rivelato i sondaggi di opinione globali effettuati dal Pew Research Center (tra gli altri). Nei primi giorni della pandemia Pechino aveva sperato di trasformare la crisi sanitaria globale in un’opportunità per salvare la propria immagine, attraverso la cosiddetta “diplomazia degli aiuti”, con l’invio di milioni di mascherine e altri dispositivi medici, oltre a impegnarsi a rendere i vaccini cinesi un bene pubblico globale – in netta contrapposizione con le politiche nazionaliste sul vaccino portate avanti in primis dagli Stati Uniti. Ma le cose non sono andate esattamente come si attendeva Pechino. Laddove il successo della Cina nel contenere rapidamente il virus ha ottenuto un sostegno schiacciante in patria, la sua reputazione internazionale è crollata a causa, oltre che della cattiva gestione iniziale dell’epidemia di Wuhan e le accuse al dottor Li Wenliang – che per primo aveva lanciato l’allarme ‒ anche, e soprattutto, della disinformazione che i suoi diplomatici e propagandisti hanno aggressivamente diffuso all’estero per favorire una narrazione favorevole al regime cinese, e delle continue repressioni su Xinjiang, Tibet e Hong Kong e una posizione sempre più assertiva nei confronti dei suoi vicini. Nel corso del 2021, le relazioni della RPC con gli Stati Uniti si sono ulteriormente deteriorate, proprio a causa dell’intensificarsi delle tensioni con Taiwan. Con l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno, infatti, cercato legami più stretti con partner che la pensano allo stesso modo, non solo in Europa, ma anche nella regione indo-pacifica, al fine di contrastare l’ascesa della Cina popolare.

Al netto di tutte le tensioni che hanno contrassegnato i preparativi per le Olimpiadi invernali della capitale cinese, Xi Jinping, nel tradizionale discorso di inizio anno, ha dichiarato che il Paese «non risparmierà sforzi per presentare una grande» Olimpiade invernale e che la Cina è «pronta» per l’attenzione del mondo, esortando in chiusura il popolo cinese a «lavorare unito per un futuro condiviso». In una delle sue prime uscite del nuovo anno, in visita a una base di allenamento per gli sport invernali nella capitale, egli ha incoraggiato gli atleti del Paese a lavorare sodo per l’eccellenza alle Olimpiadi invernali di Pechino 2022 e cogliere ogni opportunità dopo anni di preparativi, citando un’antica poesia cinese, secondo la quale «Solo chi resiste al freddo gelido può godere della fragranza dei fiori di susino».

 

Immagine: Vista notturna dello Stadio olimpico Bird’s Nest, Pechino, Cina (5 gennaio 2021). Crediti: Adam Yee / Shutterstock.com

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L’inatteso accordo sul clima tra Pechino e Washington

 

Dopo una lunga serie di speculazioni relative all’assenza di Xi Jinping (peraltro resa nota dal Times fin dalla metà del mese di ottobre) e scambi di accuse reciproci, il 10 novembre, a ridosso della conclusione del vertice ONU sul clima riunito a Glasgow (COP26), è giunta pressoché inaspettata la firma di una dichiarazione congiunta tra Pechino e Washington contro il cambiamento climatico. A prevalere è stato, dunque, il senso di responsabilità, al di là delle reciproche diffidenze, che rimangono, e che vanno ben oltre la questione climatica. Sul clima, infatti, è la scienza a dettare legge e la scienza dice che “dobbiamo agire assieme e nella stessa direzione”; la cooperazione è l’unica scelta possibile per affrontare un’urgenza che mette a rischio la “nostra stessa esistenza”. Sono queste alcune delle considerazioni da parte delle due controparti, a margine della firma. L’inviato speciale per il clima della Casa Bianca, John Kerry, ha persino fatto un paragone con gli accordi sul disarmo nucleare dell’era Reagan, che «hanno reso il mondo un posto più sicuro». Ad ogni buon conto, l’accordo è stato salutato con favore dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, definendolo «un passo avanti nella giusta direzione».

Con la firma dell’accordo, i due Paesi «riconoscono la gravità e l’urgenza della crisi climatica» e si «impegnano ad affrontarla nel decennio critico», anche attraverso la «cooperazione nei processi multilaterali». Washington e Pechino hanno rilanciato l’attuazione degli accordi di Parigi, puntando all’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale «ben al di sotto dei due gradi e di proseguire sforzi per limitarlo a 1,5 gradi». Nel testo viene riconosciuto, tuttavia, il divario tra i risultati raggiunti e gli obiettivi prefissati dagli accordi di Parigi, pertanto, sottolineano «l’importanza vitale di colmare tale divario il prima possibile, attraverso sforzi più intensi» volti ad «accelerare la transizione verde e verso le basse emissioni di carbonio». Per raggiungere questo obiettivo, hanno promesso di collaborare anche al fine di «migliorare la misurazione delle emissioni di metano e scambiarsi informazioni sulle rispettive politiche per il controllo del metano», essendo quest’ultimo il secondo idrocarburo più inquinante al mondo.

L’impegno alla collaborazione tra le due superpotenze è stato ribadito anche in occasione del lungo incontro virtuale tra i due leader, il 15 novembre (il primo in assoluto tra i due), riportato dalla stampa internazionale (ma anche cinese) in termini molto positivi. In particolare, secondo la Reuters, il presidente statunitense avrebbe sottolineato come la «nostra responsabilità come leader di Cina e Stati Uniti è di garantire che la concorrenza tra i nostri Paesi non si trasformi in conflitto, intenzionale o meno», mentre Xi Jinping, rivolgendosi a Biden come «vecchio amico», avrebbe ribadito come «nei prossimi 50 anni, la cosa più importante nelle relazioni internazionali è che Cina e Stati Uniti devono trovare il modo giusto per andare d’accordo».

Tra i passaggi più importanti dell’accordo bilaterale sul clima, vi è senza dubbio l’impegno di Pechino in merito al raggiungimento della cosiddetta “neutralità carbonica” (o “zero emissioni”), già annunciata dal presidente cinese in più occasioni (da ultimo nel discorso, tenuto in remoto, alla settantaseiesima Assemblea generale dell’ONU, lo scorso mese di settembre), intorno la metà del secolo (e non necessariamente entro il 2050). In particolare, laddove gli Stati Uniti hanno fissato l’obiettivo di raggiungere il traguardo di “zero emissioni” entro il 2035, la Repubblica Popolare Cinese ha promesso di lavorare al fine di «ridurre gradualmente il consumo di carbone» e contrastare la deforestazione, accogliendo (assieme a Washington) l’appello lanciato dalla COP26, volto a fermare il depauperamento del patrimonio boschivo. 

Ma la “neutralità carbonica” da raggiungere entro il 2060 – con il picco di emissioni previsto per il 2030 – rappresenta un obiettivo che l’amministrazione di Xi aveva annunciato già in precedenza, come emerge dalla prolusione del presidente cinese in occasione della settantacinquesima sessione dell’Assemblea generale, nel settembre 2020, e ribadito nel novembre successivo in occasione dell’incontro dei Paesi BRICS. Secondo il presidente cinese, l’umanità non poteva più permettersi di ignorare i ripetuti avvertimenti provenienti dalla natura e per questo il suo Paese era intenzionato ad aumentare il proprio contributo previsto a livello nazionale, attraverso l’adozione di politiche e misure più rigorose. Al contempo, egli chiedeva a tutti i Paesi di perseguire «uno sviluppo innovativo, coordinato, verde e aperto per tutti, cogliere le opportunità storiche presentate dal nuovo ciclo di rivoluzione scientifica e tecnologica e trasformazione industriale, realizzare una ripresa verde dell’economia mondiale nell’era post-COVID e creare così una potente forza trainante dello sviluppo sostenibile». All’epoca, la dichiarazione di Pechino aveva suscitato sorpresa nei più, ma era stata accolta come una scelta strategica, sebbene non fossero mancate le critiche, soprattutto da parte di coloro che vedevano nell’intervento del leader cinese un’evidente mossa geopolitica – determinata dall’intenzione di Pechino di assumere un ruolo di leadership sulla gestione climatica nel prossimo futuro, di fronte ad una amministrazione statunitense che aveva optato per il disimpegno – e una mera dichiarazione di intenti, di difficile realizzazione, in considerazione del fatto che la “neutralità carbonica” sembrava mal conciliarsi con la continua espansione del carbone nel Paese.

In effetti, proprio nei mesi più critici della crisi pandemica, la Cina aveva dato il via alla costruzione di nuove centrali elettriche a carbone, alla luce della crisi energetica che attanagliava il Paese, contrassegnata da frequenti interruzioni di corrente che aveva determinato l’interruzione della catena di approvvigionamento, causata dai rigorosi obiettivi di emissione e dai prezzi record del combustibile, e aveva messo in evidenza gravi problemi strutturali. Insomma, la ripresa economica cinese registrata a partire dagli ultimi mesi del 2020 è stata resa possibile proprio grazie alla crescita della produzione di energia con il carbone. Stando ai dati riferiti al settembre 2021, nell’ultimo anno la Cina avrebbe installato 37 GW di nuova capacità energetica a carbone, pari al triplo di quella sommata del resto del mondo. Al contempo, il governo di Pechino avrebbe rilasciato autorizzazioni per installare ulteriori 250 GW entro il 2025 da centrali energetiche a carbone. Va da sé che, per rispettare gli impegni della COP26, Pechino dovrebbe annullare le suddette concessioni. In effetti, nel già menzionato discorso alla settantaseiesima Assemblea generale dell’ONU, Xi Jinping ha annunciato che il Paese avrebbe interrotto la costruzione di nuove centrali a carbone all’estero, mentre avrebbe aumentato gli investimenti in metodi di produzione di energia più rispettosi dell’ambiente, nei Paesi in via di sviluppo dove esercita la sua influenza. Viceversa, non ha fatto alcun accenno in merito ai piani di dismissione del carbone all’interno del Paese, contrariamente all’anno precedente quando, in sede ONU, si era impegnato a raggiungere la “neutralità carbonica” entro il 2060.

Pechino è cosciente del fatto di essere il primo emettitore di CO2 in termini assoluti – sebbene non manchi di ribadire che guardando al dato pro capite la situazione è ben differente, dal momento che un americano medio produce più o meno il doppio di emissioni rispetto al corrispettivo cinese – e per tale motivo cerca di portare avanti due strategie, inconciliabili fra loro. Da un lato prosegue la propria crescita industriale basata sui combustibili fossili; dall’altro investe in soluzioni tecnologiche innovative al fine di rendere più efficaci gli sforzi per contrastare l’inquinamento e i cambiamenti climatici, oltre a limitare i danni di un’economia ancora troppo basata sugli idrocarburi. Tra le varie soluzioni merita di essere citata la “tecnologia blockchain”, utile per rendere più veloci e sicure le transazioni di pacchetti energetici “green”, prodotti da impianti a fonti rinnovabili.

La strategia cinese in merito è guidata dall’agenzia governativa per lo sviluppo e le riforme (nota con l’acronimo inglese NDRC, National Development and Reform Commission), in partenariato con i principali distributori di energia del Paese, ossia la State Grid Corporation of China e la China Southern Power Grid. Vale la pena sottolineare come la tecnologia blockchain fosse stata inserita ufficialmente nel documento finale relativo al XIV piano quinquennale (2021-25) deciso dal V plenum del Comitato centrale del Partito e approvato dal Parlamento lo scorso mese di marzo. In particolare, nel documento era incluso anche il lancio di un progetto per sviluppare un Blockchain Service Network, ossia una infrastruttura blockchain nazionale, da intendersi quale risorsa fondamentale per il piano di sviluppo Vision 2035. Gli investimenti in questa tecnologia stanno crescendo ad un tasso medio annuo del +52% e le stime di IDC (International Data Corporation) indicano per il 2024 una spesa complessiva di 2,3 miliardi di dollari.

Ciò detto, la problematica in questione, oltre a riguardare la dimensione internazionale del Paese, strettamente collegata all’immagine di “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo) che la Cina vuole trasmettere a livello globale, ha molto a che fare anche con la dimensione interna, in particolare con l’accresciuto senso della consapevolezza ambientale da parte della popolazione cinese che sta sperimentando sulla propria pelle alcune delle conseguenze più drammatiche del cambiamento climatico, tra piogge torrenziali, inondazioni e disastri naturali che si ripetono con una sempre maggiore frequenza – l’ultimo dei quali la scorsa estate nella provincia dello Henan, che ha causato ben 71 vittime e provocato danni e disagi a oltre undici milioni di persone. Insieme alla consapevolezza ambientale, è aumentata anche la sfiducia nei confronti delle capacità del governo a farvi fronte, il che rappresenta un fattore potenzialmente in grado di destabilizzare la società, con tutto ciò che ne consegue in termini di legittimazione del Partito.

Anche per rispondere a questa duplice pressione, il governo cinese a fine ottobre ha pubblicato un Libro Bianco intitolato Rispondere ai cambiamenti climatici: le politiche e le azioni della Cina, volto a documentare i progressi del Paese nella mitigazione dei cambiamenti climatici e condividere la sua esperienza e i suoi approcci con il resto della comunità internazionale, ma con uno sguardo rivolto anche al pubblico cinese.

 

Immagine: Strade invase dall’acqua dopo forti piogge nel distretto di Tianhe, Guangzhou, Cina (22 agosto 2014). Crediti: Julythese7en / Shutterstock.com

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Il centenario del Partito comunista cinese, tra tensioni interne e crisi di immagine

 

La Repubblica Popolare Cinese (RPC) ha appena dato il via alle celebrazioni per un anniversario di fondamentale rilevanza, ossia i cento anni della nascita del Partito comunista cinese (PCC), sebbene sia storicamente appurato che la riunione fondativa del Partito abbia avuto luogo a Shanghai, nella ex Concessione francese, il 23 luglio 1921. Tale anniversario ha una valenza particolare nell’attuale situazione in cui versa il Paese, sia a livello internazionale sia a livello domestico. A livello internazionale, la Cina di Xi Jinping appare sempre più in affanno, a seguito della grave perdita di immagine determinata dalla gestione iniziale, assai discutibile, dell’emergenza del Coronavirus, che ha presto travalicato i confini, diffondendosi in ogni angolo del pianeta, oltre che da una campagna diplomatica aggressiva portata avanti dal governo di Pechino per imporre la propria narrazione in merito alle origini e alla diffusione del virus (cosiddetta “diplomazia dei lupi guerriero”, zhanlang waijiao). A livello domestico la situazione è contrassegnata da numerosi focolai di tensione, da Hong Kong allo Xinjiang, alle crescenti sfide poste su più fronti a una leadership sempre più accentratrice e autoritaria, come rivela il numero crescente di intellettuali silenziati, di imprenditori emarginati e di militari epurati in preparazione della ricorrenza del centenario del Partito. L’anniversario del 1° luglio va, dunque, ben oltre la mera celebrazione storica di uno dei partiti comunisti più longevi della storia mondiale e si traduce nell’ennesimo tentativo di imporre, sia in patria sia all’estero, una narrazione basata sul racconto di una Cina moderna, potente e assertiva, pronta a giocare il ruolo di leader geopolitico mondiale e guida del mondo che ritiene le spetti oramai di diritto. In questa narrazione emergono in maniera preponderante il ruolo cruciale svolto dal PCC, alla guida del Paese fin dal 1949, e dal suo attuale leader che è riuscito in soli nove anni ad affermarsi e a consolidare il suo status quale interprete più autorevole e custode della “corretta visione” della storia del Partito.

Il contributo di Xi Jinping è contenuto in una serie di libri e articoli pubblicati di recente, che lo mettono alla pari del Grande Timoniere nel pantheon del Partito. In particolare, in una nuova versione della Breve storia del Partito comunista cinese (Zhongguo gongchandang jianshi), dato alle stampe nei mesi scorsi, i nove anni di amministrazione del leader della quinta generazione di governanti cinesi occupano circa un quarto del libro, laddove gli sconquassi della Rivoluzione culturale che hanno segnato l’ultimo decennio dell’epoca maoista (1966-76) non sono neppure menzionati. Nell’ultimo libro di Xi Jinping, intitolato Sulla storia del Partito comunista cinese (Lun Zhongguo gongchangdang lishi) si trova una selezione di articoli e discorsi del leader in un arco temporale che va dal novembre del 2012 al novembre del 2020, con un interessate riferimento al diritto dei “principini” (taizidang), ossia i figli dei leader del Partito, di essere imbevuti della corretta visione della storia, capaci di “ereditare il gene rosso” (chuancheng hongse jiyin) e tramandarlo di generazione in generazione.

Viceversa, nel Libro bianco pubblicato lo scorso 25 giugno dal dipartimento del Lavoro per il Fronte unito del Comitato centrale del PCC, intitolato Il nuovo sistema partitico cinese (Zhongguo xinxing zhengdang zhidu), emergono con chiarezza i vantaggi unici del “nuovo” sistema partitico cinese – dove il Partito comunista svolge un ruolo di primo piano, laddove gli altri otto partiti che siedono in seno alla Conferenza politica consultiva del popolo cinese si limitano ad un ruolo di supporto – e la sua forte vitalità nella vita politica e sociale cinese, contribuendo a promuovere efficacemente l’ammodernamento del sistema di governo nazionale e della capacità di governo e offrendo un valido contributo per lo sviluppo della politica mondiale contemporanea. Secondo Martin Jacques, ricercatore dell’Università di Cambridge, «l’argomentazione a lungo termine dei paesi occidentali è che il sistema multipartitico è un grande vantaggio della democrazia, che può impedire l’ossificazione e la stagnazione dei partiti politici. Tuttavia, di fatto, il Partito Comunista Cinese ha trovato un modo per mantenersi energico e giovane, mentre i partiti politici occidentali stanno sempre più alienando il popolo che rappresentano».

Un articolo del South China Morning Post dedicato al Libro bianco riporta la visione dei governanti di Pechino sul sistema politico cinese, definito come “il gatto che cattura il maggior numero di topi”, una metafora che rimanda al famoso slogan di Deng Xiaoping, secondo il quale “non importa che il gatto sia nero o bianco; l’importante è che acchiappi i topi” (buguan hei mao bai mao neng zhuandao laoshu jiu shi hao mao), diventato poi il simbolo del suo approccio pragmatico alla politica economica. In altri termini, negli ultimi quattro decenni la Cina popolare, guidata da un sistema a partito unico dominato dal PCC, è riuscita a compiere importanti progressi in termini di modernizzazione del Paese e di accrescimento delle condizioni di vita della popolazione cinese, con riferimento soprattutto all’eliminazione della povertà, oltre ad essersi trasformata in una grande potenza tecnologica.

Al di là delle legittime riserve in merito ai potenziali vantaggi di un sistema a partito unico e, più in generale, del sistema politico cinese, bisogna riconoscere al PCC le sue straordinarie capacità di adattamento, trasformazione e resilienza che ne hanno fatto uno dei partiti comunisti più longevi a livello internazionale, e una delle principali forze politiche dei tempi moderni, responsabile del destino di un quinto dell’umanità e alla guida di un Paese che è diventato la seconda potenza economica mondiale e una grande potenza in termini geopolitici. Non solo, va riconosciuta l’attrattiva che negli ultimi lustri hanno esercitato il cosiddetto Beijing consensus (Beijing gongshi) e il “modello Cina” (Zhongguo moshi), non solo presso i regimi autoritari sparsi nel mondo, ma anche in alcuni contesti democratici. Secondo lo studioso di politica estera americano Stefan Halper, Pechino ha fornito al mondo la dimostrazione più convincente e immediata di come «liberalizzarsi economicamente senza arrendersi alla politica liberale». È innegabile che lo straordinario salto verso la modernità e il progresso compiuto dalla Cina popolare in pochi decenni rappresenti il grande merito storico del Partito comunista cinese.

Il PCC ha superato numerose sfide nel corso della sua storia alla guida della RPC. Tra le più rilevanti, ai fini della presente analisi, è sicuramente il fatto di essere uscito indenne dal processo rivoluzionario democratico del 1989 che ha travolto tutti i partiti comunisti al potere negli Stati satelliti di Mosca e lo stesso Partito comunista sovietico, evitando di incorrere nello stesso destino dell’Unione Sovietica. Ma, cosa ancora più importante, è stato in grado di gestire la gravissima crisi di legittimazione interna seguita ai fatti del 4 giugno 1989, quando i suoi leader decisero di reprimere le manifestazioni pacifiche degli studenti di piazza Tienanmen, che avevano paralizzato la capitale per molte settimane. Secondo alcuni osservatori, in Cina il PCC non è crollato proprio perché è stato in grado di rivedere pragmaticamente le sue funzioni e di ristabilire le sue priorità, ossia garantire sviluppo economico e prospettive di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Paradossalmente il miracolo cinese degli anni Novanta è “figlio” della crisi di Tienanmen, quale diretta conseguenza delle scelte ardite della leadership di Deng Xiaoping. Nel suo famoso Tour del Sud (Nanxun) compiuto agli inizi del 1992, Deng presentò la tesi secondo la quale se non fosse stato per i risultati della politica di “riforma e apertura” (gaige kaifang), il PCC non sarebbe stato in grado di sopravvivere a un evento traumatico come quello del 4 giugno 1989 e il Paese sarebbe finito nel caos e nella guerra civile; bisognava pertanto procedere in maniera spedita sulla strada riformista e proseguire lungo la via dello sviluppo economico.

Come è noto, l’iniziativa di Deng venne ufficializzata in occasione del XIV Congresso del Partito che adottò il concetto di “economia socialista di mercato” (shehui zhuyi shichang jingji) che mirava a costruire il cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi” (Zhongguo tese shehuizhuyi). L’opera di Deng venne poi proseguita dal suo successore, Jiang Zemin, che riuscì a ristabilire l’autorità del Partito nella società cinese aumentandone la capacità rappresentativa e trasformandone la natura. Con la “teoria delle tre rappresentanze” (“san ge daibiao zhongyao sixiang), infatti, il potere e la forza del PCC derivavano dal fatto che esso fosse in grado di rappresentare le esigenze delle forze produttive più avanzate del Paese, di dare voce a più avanzati orientamenti culturali e di garantire gli interessi dei più ampi strati della popolazione, oltre alla componente operaia e contadina. Con la sua ufficializzazione, la suddetta teoria ha consentito al Partito di diventare espressione dei nuovi gruppi sociali emersi con lo sviluppo economico. È interessante osservare come, degli attuali 92 milioni di membri del Partito (circa il 6,6% della popolazione cinese), operai e contadini rappresentino il 34,9%, laddove la componente laureata è salita al 50,7%, mentre nel 2009, i membri del Partito con istruzione universitaria erano il 35,7% di quelli totali e gli operai e i contadini il 39,7%.

Tra luci e ombre, la Cina di Xi Jinping si appresta dunque a celebrare in pompa magna il centenario della fondazione del Partito, e contestualmente il raggiungimento del primo dei “due obiettivi centenari” (liang ge yibai nian mubiao), ossia il raggiungimento di una “società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti” (quanmian jiancheng xiaokang shehui). Come si è già avuto modo di evidenziare in alcuni contributi precedenti, ciò significa essenzialmente assicurarsi che lo sviluppo del Paese migliori le condizioni di vita dell’intera popolazione, in particolare di coloro che vivono al di sotto o vicino alla soglia di povertà. A questo proposito il governo comunista di Pechino vanta il record di aver ridotto la percentuale di popolazione rurale che vive sotto la soglia di povertà dal 97,5% del 1978 all’1,7% del 2018, una cifra che rappresenta circa il 70% dello sradicamento della povertà globale nello stesso lasso di tempo. In particolare, dall’arrivo al potere di Xi, l’incidenza della povertà assoluta nel Paese è scesa dal 10,2% all’1,7% del 2018, mentre lo scorso mese di febbraio, il presidente cinese ha annunciato che il suo Paese ha vinto «definitivamente» la «lotta contro la povertà estrema» nelle aree rurali, un risultato fondamentale non solo per la Cina e per il “sogno cinese” (Zhongguo meng), ma anche per il resto del mondo, in quanto fornisce un enorme contributo agli sforzi della comunità internazionale sulla complessa questione della lotta alla povertà globale.

Al contempo, il governo di Pechino si prepara per l’importante vertice autunnale del PCC, che precede il XX Congresso, in programma per il 2022, che avrà il compito di confermare la leadership di Xi Jinping per un ulteriore decennio che, date le premesse iniziali, si prevede carico di sfide, su tutti i fronti.

 

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Peng Liyuan e le first lady della Cina

Fin dalle sue prime apparizioni pubbliche in veste di first lady della seconda potenza economica mondiale, all’indomani della nomina di Xi Jinping alla carica di presidente della Repubblica popolare cinese (RPC), nel marzo del 2013, Peng Liyuan si è guadagnata i riflettori della scena internazionale e le attenzioni dei media di mezzo mondo, che ne hanno messo in evidenza le maniere raffinate, l’eleganza nel portamento, le abilità diplomatiche, e senza esitazioni l’hanno paragonata ad alcune first lady che hanno fatto la storia sia del Novecento che del nuovo millennio (da Jack Kennedy a Michelle Obama, passando per Evita Perón e Carla Bruni).

Sia dentro che fuori dalla Cina, Peng Liyuan è stata definita come la “prima” first lady della Cina, in quanto il suo ruolo di grande visibilità, sia nell’accompagnare il consorte durante le frequenti visite di Stato all’estero (così come nell’accogliere gli ospiti stranieri nel proprio Paese), sia nelle numerose attività di patrocinio che la vedono coinvolta, la differenziano notevolmente dalle sue predecessore, rimaste pressoché nell’ombra. Per quanto la rilevanza del ruolo delle first lady fosse un dato appurato nella RPC, tuttavia gli sconvolgimenti e gli eccessi che contrassegnarono i dieci anni della Grande rivoluzione culturale proletaria, nel corso dei quali la quarta e ultima moglie di Mao ZedongJiang Qing – a capo della famigerata “Banda dei quattro”, giocò un ruolo di grande rilievo, contribuirono a far sì che le mogli dei leader successivi mantenessero un basso profilo, rimanendo per lo più dietro le quinte. Fu questo il caso non solo di Zhuo Lin (moglie di Deng), che pur accompagnando spesso il ‘piccolo timoniere’ nei suoi tour ufficiali, non prendeva mai la parola, ma anche di Wang Yeping, moglie di Jiang Zemin, che fece solo qualche comparsa nei dieci anni di mandato del marito, probabilmente anche a causa dei suoi problemi di salute, e di Liu Yongqing, consorte di Hu Jintao, che raramente venne fotografata in pubblico. Ma la Cina, prima di Peng, ha avuto anche first lady di grande peso.

Nei primi anni Sessanta, Wang Guangmei, moglie di Liu Shaoqi – presidente della RPC dal 1959 e fino alla sua epurazione durante la Rivoluzione culturale – aveva fama di essere una first lady bella, articolata e sofisticata, oltre che intelligente e molto dotata (e per questo presa di mira dalle “guardie rosse” sobillate dalla moglie di Mao). Abile nelle lingue (conosceva il francese, il russo e l’inglese) e con una carriera di interprete alle spalle – accompagnò il generale statunitense Marshall nell’importante missione svolta in Cina tra il 1946 e il 1947, nel tentativo di favorire la costituzione di un governo di coalizione tra i nazionalisti guidati da Chiang Kai-shek e i comunisti guidati da Mao – Wang ottenne incarichi politici importanti nella nuova Cina inaugurata da Deng a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Fu nominata direttrice dell’Ufficio affari esteri dell’Accademia cinese delle scienze sociali; fu deputata all’Assemblea nazionale popolare (il Parlamento); fu membro del comitato nazionale della Conferenza politica consultiva del popolo cinese (organo consultivo incaricato di rappresentare i partiti politici della RPC, sotto la direzione del Partito comunista). Un ruolo ancor più rilevante, in virtù della sua forte componente internazionale, fu giocato da Song Meiling, nota anche come “madame Chiang Kai-shek”, moglie del Generalissimo nonché presidente della Repubblica di Cina, e ribattezzata da alcuni la “first lady eterna della Cina”. Quarta di sei figli di Charlie Song, ricco uomo d’affari ed ex missionario metodista, e la più giovane fra le tre sorelle, che ebbero tutte ruoli significativi nella storia cinese del Novecento (in particolare Qingling, moglie di Sun Yat-sen che ricoprì incarichi politici di grande rilievo nella RPC), Song Meiling parlava correntemente l’inglese, avendo vissuto per diversi anni negli Stati Uniti e avendo frequentato il prestigioso Wellesley College di Boston. La signora Chiang fu una figura di spicco nel panorama politico della Repubblica di Cina tra gli anni Trenta e Quaranta: fu membro dello Yuan legislativo, dal 1930 al 1932; segretario generale della Commissione per gli affari dell’aeronautica, dal 1936 al 1938; membro del comitato esecutivo centrale del Partito nazionalista nel 1945. La sua fama è, però, legata al fatto di aver rappresentato il “volto pubblico della Cina” nel corso della guerra sino-giapponese (1937-45), con i suoi modi eleganti e il fascino che finirono per conquistare il pubblico internazionale, a partire da quello statunitense. Non a caso il Time le dedicò la copertina tre volte in quegli anni (nel 1931, nel 1938 e nel 1943, le prime due in posa con il Generalissimo). 

Ciò detto, la grande rilevanza del ruolo giocato da Peng Liyuan oggi, dopo quarant’anni di invisibilità delle sue predecessore, risiede nel suo essere la first lady di una Cina che è diventata la seconda potenza economica mondiale e ha recuperato la centralità perduta a seguito dell’incursione delle potenze occidentali nel corso dell’Ottocento. La Cina di Xi Jinping non è né la Cina isolata di Mao né quella “di basso profilo” di Deng; è una Cina ambiziosa che intende giocare un ruolo sulla scena internazionale che sia commisurato al suo status di grande potenza; è una Cina che rivendica una voce crescente nella governance internazionale e che non è disposta ad accettare “lezioni” da nessuno; è una Cina che ambisce a realizzare il “sogno del rinnovamento della nazione”. Essere la first lady nella Cina di Xi Jinping ha, dunque, delle evidenti implicazioni, in termini di immagine e di popolarità. In questo senso, Peng Liyuan è innegabilmente una delle first lady più note sia a livello nazionale sia a livello internazionale e, soprattutto, più amate dal pubblico cinese. È importante ricordare come ben prima di assurgere al rango di “signora Xi” – sebbene non venga mai presentata in questo modo, quanto piuttosto come “compagna Peng Liyuan”, per evidenziare la sua appartenenza al Partito – Peng Liyuan avesse una sua carriera e una sua fama, costruita negli anni, come cantante lirica e come ‘generale maggiore del Partito’. La sua grande popolarità come cantante lirica ha inizio nel 1982, a seguito di una esibizione al Gala per il nuovo anno, lo show sulla TV di Stato (CCTV, China Central Television), seguito dalla stragrande maggioranza dei cinesi, in Cina e all’estero. Dalla metà degli anni Duemila, Peng ha inoltre collezionato incarichi e svolto svariati ruoli a sostegno di diverse cause, per conto del governo del proprio Paese: lotta contro l’AIDS; lotta contro il fumo; sostegno ai bambini orfani. Nel 2011 è diventata invece ambasciatrice di buona volontà dell’OMS per la tubercolosi e l’AIDS, mentre come first lady ha ottenuto un ulteriore incarico nel 2014, quando l’UNESCO l’ha nominata inviata speciale per l’avanzamento dell’educazione delle ragazze e delle donne. Questi ruoli di sostegno alle cause internazionali non hanno precedenti nella storia delle first lady cinesi, laddove rappresentano la norma in altri contesti occidentali.

In altre parole, la peculiarità dell’attuale first lady cinese risiede nel fatto di aver costruito la sua carriera e la sua popolarità ben prima di acquisire tale status, e a prescindere da esso. Il che ha facilitato la sua accoglienza nell’ambito della comunità internazionale e il riconoscimento del suo ruolo nell’ambito della cosiddetta “diplomazia delle mogli”. Soprattutto, a detta di alcuni osservatori, avrebbe contribuito (e potrebbe continuare) a ravvivare il soft power cinese, messo sempre più in crisi dall’assertività crescente che contrassegna l’era di Xi Jinping, e ad “umanizzare” in un certo qual modo l’immagine del Partito comunista, che alla vigilia del suo centesimo anniversario, risulta sempre più offuscata e messa in discussione, su più fronti – da Hong Kong allo Xinjiang alla gestione della pandemia.     

 

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Cinquanta anni di Cina all’ONU

 

Il 25 ottobre 1971 rappresenta una data fondamentale per la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e per le relazioni internazionali di Pechino. Con l’adozione della Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la Cina popolare faceva, infatti, il suo ingresso nella “comunità degli Stati”, sostituendosi alla Repubblica di Cina (Taiwan) quale membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Un tale avvenimento comportava un significativo miglioramento dello status e della reputazione internazionale di Pechino, soddisfacendo i bisogni di prestigio più profondi del nazionalismo cinese e ponendo fine alla condizione di “paria” della RPC in seno alla comunità internazionale, assegnatole fin dai tempi della guerra di Corea (1950-1953).

Sul finire del 1971, con la Rivoluzione culturale ancora in atto, faceva così la sua apparizione, per la prima volta sulla scena mondiale, uno Stato cinese indipendente e ambizioso che, con il passare del tempo, sarebbe stato in grado di ritagliarsi un ruolo degno di rispetto nel concerto delle nazioni, oltre che ridare legittimità al regime comunista dopo i drammatici avvenimenti che avevano contrassegnato l’ultima fase dell’epoca maoista. L’ingresso all’ONU non implicò, tuttavia, una rinuncia alla propria ideologia da parte di Pechino. Nel salutare la delegazione cinese in partenza per New York, Mao Zedong non esitò a raccomandare ai suoi componenti di continuare a trattare gli Stati Uniti quale “nemico principale”, ergendosi così a paladino antiamericano e portavoce dei Paesi in via di sviluppo, dei quali la stessa Cina si sentiva parte.

La platea delle Nazioni Unite è dunque servita agli interessi della Cina popolare nella sua duplice identità di paese in via di sviluppo (seppure il più grande) e di grande potenza in ascesa che aspira ad avere una crescente voce in capitolo nella gestione della governance globale. In qualità di massima organizzazione più rappresentativa e autorevole della comunità internazionale, l’ONU ha permesso alla RPC di emergere quale grande potenza responsabile, evidente sia nell’utilizzo assai contenuto dell’esercizio del potere di veto rispetto alle altre grandi potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza – la Cina ne ha fatto uso 16 volte dal 1971, analogamente alla Francia, il Regno Unito 29 volte, gli Stati Uniti 82 e l’URSS/Russia ben 116 –, sia nel graduale cambio di approccio nei confronti delle missioni di mantenimento della pace, trasformandosi da massimo oppositore a principale contributore nazionale di peacekeeper fra i membri permanenti del Consiglio e il secondo maggior contributore finanziario.

L’identificazione della RPC con gli interessi dei PVS è evidente anche, e soprattutto, nel suo essere diventata una sorta di “modello” per molti di essi, e ai cui successi bisogna ispirarsi. Si può citare, a titolo d’esempio, la “lotta contro la povertà estrema” che la Cina popolare sembrerebbe avere “definitivamente” vinto, come ha recentemente dichiarato il leader cinese Xi Jinping in un discorso pronunciato in occasione di un incontro organizzato nella Sala del Popolo di Pechino, lo scorso 25 febbraio, per celebrare i risultati raggiunti dal Paese nello sradicamento dell’indigenza e onorare coloro che si sono distinti maggiormente in questa “lunga marcia”, diventando dei veri e propri modelli da emulare. Il risultato è stato definito come un altro “miracolo” che “passerà alla storia” e che evidenzia “i vantaggi politici e l’efficacia del modello socialista” il quale, attraverso “una comune volontà e un’azione congiunta” ha creato i requisiti per sconfiggere la povertà estrema. Secondo Xi, l’eliminazione della povertà estrema nelle aree rurali “è un contributo fondamentale per raggiungere l’obiettivo di costruire una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti”, creando un “esempio” da proporre al resto del mondo, e dando un enorme contributo agli sforzi della comunità internazionale sulla complessa materia della lotta alla povertà globale.

Al di là della solita retorica che accompagna i discorsi dei leader cinesi, ma soprattutto dei molteplici dubbi in merito al risultato in sé – che vanno dai criteri di misurazione (la soglia di povertà estrema è fissata da Pechino a 1,69 dollari al giorno, contro 1,90 dollari stabiliti dalla Banca Mondiale), alla veridicità dei rapporti cinesi, alla sostenibilità dei provvedimenti e delle misure draconiane adottate, quali trasferimenti forzati e sradicamenti di massa da territori e comunità in cui la gente aveva affetti e radici da generazioni – si tratta innegabilmente di un risultato straordinario e difficilmente equiparabile. Nell’arco di quattro decenni, a partire dall’avvio della politica di riforma e apertura del Paese verso l’esterno voluta da Deng Xiaoping, più di 770 milioni di persone sono state portate fuori dalla “povertà estrema”, contribuendo per più del 70% alla riduzione del fenomeno della lotta alla povertà su scala globale. Solo negli ultimi otto anni, la Cina di Xi Jinping è riuscita nell’impresa di portare fuori dalla povertà oltre 10 milioni di persone all’anno, fino a un totale 98,99 milioni, grazie ad una campagna ad hoc costata ben 1,6 miliardi di yuan (246 miliardi di dollari).

Questo successo ha guadagnato a Pechino il plauso della comunità internazionale, a partire dal Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che ha espresso parole di elogio per il grande traguardo raggiunto – oltre che per la visione e la leadership di Xi – che fa della RPC il primo Paese ad aver raggiunto uno (il primo) degli Obiettivi del Millennio e dell’Agenda 2030. Nello specifico, Guterres ha definito il successo cinese come “uno straordinario risultato e motivo di speranza e ispirazione per l’intera comunità internazionale”, “un traguardo notevole e un contributo significativo alla realizzazione di un mondo migliore e più prospero”. Al contempo, il Segretario generale si è detto fiducioso che “la Cina continuerà a compiere progressi negli sforzi per non lasciare indietro nessuno”. Si tratta di un riconoscimento di grande rilevanza in un momento cruciale per la Cina popolare, che il prossimo primo luglio si appresta a festeggiare un altro importante anniversario, ossia il centenario della fondazione del Partito Comunista Cinese (PCC), che coincide con uno dei due obiettivi centenari fissati dal “sogno cinese” di Xi Jinping, e che la crisi pandemica globale sembrava potesse aver messo in discussione.

Dopo un lungo periodo di esclusione dall’ONU, la Cina ha dunque recuperato il terreno perduto, arrivando a ritagliarsi un ruolo sempre più da protagonista al suo interno, finendo per diventare un interlocutore obbligatorio per la maggioranza dei capitoli in cima all’agenda della governance internazionale – dai cambiamenti climatici alla proliferazione delle armi nucleari, alla lotta al terrorismo. Al contempo, ha lavorato assiduamente in numerose agenzie specializzate dell’Organizzazione, e ha assunto un atteggiamento responsabile nei confronti di alcuni tra i più ambiziosi progetti della stessa, quali l’Agenda 2030, come rivela l’inclusione degli obbiettivi di sviluppo sostenibile nel XIII piano quinquennale (2016-2020) appena concluso, riportando esiti assai significativi. Non meno rilevante è il fatto che, se da un lato, la Cina popolare si è servita delle Nazioni Unite, quale massima espressione della diplomazia multilaterale di Pechino, oltre che per promuovere (con successo) la sua idea di governance globale, come risulta evidente dall’inclusione del concetto di “comunità umana di futuro condiviso” – uno dei leitmotiv della leadership di Xi Jinping – all’interno di diverse risoluzioni ONU, dall’altro ha finito per diventarne uno dei suoi più fedeli sostenitori.

 

Immagine: New York, 28 settembre 2015. Il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping parla all'apertura della 70a sessione dell'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Crediti: Drop of Light / Shutterstock.com

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L’assalto al Congresso USA e la morale cinese

L’assalto al Congresso statunitense, da parte di un folto gruppo di sostenitori del presidente uscente, ha fornito a Pechino l’ennesima occasione per mettere in evidenza le contraddizioni e la crescente debolezza della democrazia liberale e dei suoi valori, incarnata dagli Stati Uniti d’America, e per ribadire implicitamente la superiorità del proprio modello di governance autoritaria. Al contempo, il governo comunista cinese non si è fatto sfuggire l’opportunità per sottolineare l’ipocrisia dei governi occidentali e denunciare il ricorso alla logica del doppio standard nella valutazione di eventi simili nella forma, anche se non nella sostanza. Nella fattispecie, l’assalto al Congresso statunitense da parte di una folla manifestante “violenta ed estremista”, da un lato, e l’assedio al Consiglio legislativo di Hong Kong, nel luglio del 2019, da parte di “combattenti per la democrazia”, dall’altra. Un evento assolutamente da condannare, il primo, e da encomiare e sostenere, il secondo.

Non è un caso che gran parte della copertura mediatica in Cina sugli eventi di Washington si sia concentrata sul collegamento tra la diversa reazione alle proteste antigovernative del 2019 nella regione amministrativa speciale di Hong Kong, in opposizione a un controverso disegno di legge sull’estradizione, e quelli appena accaduti nella capitale statunitense, nel tentativo di contrastare l’esito di un verdetto elettorale scaturito da elezioni libere e democratiche, con l’intento di far emergere l’apparente ipocrisia dell’establishment politico e dei media statunitensi nel sostenere le proteste in un altro Paese ma non nel proprio. Volutamente, dunque, le immagini dell’assalto a Capitol Hill sono state affiancate alle immagini relative all’assalto al Parlamento di Hong Kong. All’epoca il mondo occidentale, con gli Stati Uniti in testa, avevano lodato l’iniziativa dei manifestanti di Hong Kong definendola l’esito di una coraggiosa ribellione da parte di “combattenti per la democrazia”, mentre la speaker della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, aveva commentato le immagini provenienti dall’ex colonia britannica come uno «spettacolo bellissimo da vedere».

Il Global Times – pubblicato dal giornale portavoce del Partito (il Quotidiano del Popolo), in lingua inglese e con un forte orientamento nazionalistico – è stato tra i primi a tracciare un parallelismo tra l’insurrezione a Washington e le proteste a favore della democrazia di Hong Kong. In un tweet del 7 gennaio partiva proprio dalle considerazioni di Nancy Pelosi sull’assedio di Hong Kong, domandandosi se il sentimento fosse analogo alla vista dell’assalto al Campidoglio da parte della folla simpatizzante di Donald Trump. E proprio l’osservazione della Pelosi è diventata una sorta di parola d’ordine tra gli internauti cinesi, che se ne sono serviti per deridere il sistema democratico statunitense, che fomenta disordini sociali in altri Paesi ma li condanna nel proprio, compiacendosi del fatto che gli Stati Uniti avessero “assaporato il karma dei propri doppi standard”, dopo aver incitato il caos in tutto il mondo con il pretesto di favorire libertà e democrazia. E mentre la Lega della gioventù comunista cinese (la principale organizzazione politica giovanile della Repubblica Popolare), pubblicava le foto della folla che sorreggeva striscioni pro-Trump davanti al Campidoglio con la didascalia shijie ming hua (un dipinto di fama mondiale), le immagini del Capital Hill, nella prima pagina del giornale del Global Times del 7 gennaio, erano accompagnate da contenuti che rimandavano, già nei titoli, all’umiliazione e alla perdita della faccia subita dal governo statunitense e alla “Waterloo” della democrazia americana, interpretando l’insurrezione come l’esito di profonde divisioni nel Paese e il segnale di un possibile “collasso interno”.

Non sono sfuggiti ai commenti dei giornali e degli internauti cinesi l’intervento della guardia nazionale e gli scontri con i manifestanti pro-Trump, che hanno mietuto alcune vittime, laddove ad Hong Kong, anche nei momenti di massima tensione, la polizia aveva mantenuto un elevato grado di moderazione, senza causare vittime (ben cosciente del fatto che avesse i riflettori del mondo puntati addosso); così come la decisione relativa al blocco dell’account Twitter dell’ex presidente statunitense, a seguito dalla pubblicazione di “post devianti e provocatori”, interpretata ironicamente come la dimostrazione che anche nella democratica America non venga rispettata la libertà parola.

A detta di alcuni accademici, intervistati per il Global Times, ma anche il ben più moderato South China morning post (pubblicato a Hong Kong), i commenti degli utenti della rete sull’assalto al Campidoglio esprimevano “i sentimenti chiari, veri e sinceri dei cinesi”, laddove le differenze interpretative degli eventi da parte di Washington riflettevano chiaramente le divisioni ideologiche tra i due Paesi, che sono ben note. In particolare, secondo Wang Yiwei – titolare di una cattedra Jean Monnet, direttore dell’Institute of International Affairs e del Center for European Studies presso l’Università del Popolo di Pechino – l’atteggiamento di Washington era una chiara riprova dell’egocentrismo degli Stati Uniti ed espressione dell’eccezionalismo americano, che legittimava il governo statunitense a voler dare lezioni di democrazia agli altri, noncurante dei gravi problemi interni al Paese (dalle profonde diseguaglianze presenti nella società, alle persistenti manifestazioni razziste, alla violenza determinata dalla libera circolazione delle armi da fuoco) che rischiavano di minarne il sistema alla base.

Ciò detto, è importante sottolineare come sia una tattica familiare per Pechino quella di utilizzare i punti critici delle democrazie occidentali – in questo caso le derive sovraniste – per giustificare il proprio approccio autoritario alla governance. Il sofisticato strumento della censura, utilizzato dal governo comunista per filtrare le informazioni provenienti dall’esterno, consente alle autorità di promuovere una narrativa secondo cui uno Stato forte e monopartitico può fornire molta più stabilità del caos di una democrazia. Ma non mancano gli esempi in cui l’equazione Stato forte-economia forte abbia dimostrato la sua efficacia; questi vanno dalla gestione della crisi economica finanziaria globale del 2008 – dalla quale la Cina è riuscita a difendersi nella maniera ritenuta “la migliore, la più stabile e la più rapida” – a quella più recente scatenata dallo scoppio del Coronavirus – anche in questo caso la gestione ferrea della crisi da parte del governo comunista cinese ha favorito la ripresa post-lockdown e, a detta di buona parte degli analisti internazionali, l’economia post-Covid sembra correre più veloce del previsto. Anche le note resistenze cinesi ad una democrazia di tipo occidentale, basata su una presunta “teoria dell’incompatibilità” tra la Cina e la democrazia occidentale, sono strettamente collegate a questo tipo di ragionamento, quello secondo il quale solo un governo forte e autoritario è in grado di garantire la stabilità necessaria per gestire crescita economica e problematiche sociali, oltre che per assicurare ricchezza e potenza. Al di là di tutto, e senza tralasciare le profonde contraddizioni interne alla Cina popolare, gli esempi sopra citati sembrerebbero, in linea di massima, rappresentarne una conferma.

 

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Il V Plenum del Comitato centrale del PCC e le sfide per la Cina di Xi

 

Mentre i riflettori sono puntati sulle imminenti elezioni statunitensi, si è appena chiuso a Pechino il V Plenum del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC) ‒ riunito dal 26 al 29 ottobre ‒, la cui importanza non è secondaria, in considerazione del fatto che le decisioni adottate, e che verranno rese note nei prossimi giorni – essendo questo genere di riunioni a porte chiuse – avranno un impatto non solo sulla politica domestica, ma anche sulle sorti del resto del mondo. Non meno rilevante è il fatto di essere il primo vertice di massimo livello del Partito in tempo di Coronavirus. In effetti, gli osservatori e gli analisti hanno prestato una particolare attenzione ai preparativi del suddetto Plenum, interessati a capire la risposta della seconda economia del pianeta ai continui attacchi provenienti dall’amministrazione Trump nell’ambito della guerra commerciale-tecnologica scatenata nel 2018 e della pandemia di Coronavirus. Non solo, tra i punti all’ordine del giorno del V Plenum, come da tradizione, c’era anche la discussione relativa al piano di sviluppo economico e sociale per gli anni 2021-25, ossia il XIV Piano quinquennale, che sarà formalmente approvato la prossima primavera in occasione della sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo (il ramo legislativo del Parlamento cinese), che si svolge ogni mese di marzo.

Prima di entrare nel merito di questo Plenum, può essere interessante spendere due parole sul funzionamento del Partito, con particolare riguardo alle sessioni plenarie del Comitato centrale che è nominato ogni cinque anni dal Congresso nazionale e che, con i suoi delegati (attualmente 376 tra effettivi e supplenti), è l’organo decisionale a base più ampia del Partito. Il Comitato centrale è incaricato di applicare le risoluzioni congressuali, di dirigere il lavoro del PCC e di rappresentarlo nelle relazioni internazionali e gioca pertanto il ruolo di massimo organo esecutivo nel Paese, quando il Congresso nazionale non è riunito. La tradizione del governo comunista cinese prevede che si tengano sette Plenum nell’arco del quinquennio e lo Statuto del Partito stabilisce che ogni anno ne debba essere convocato almeno uno (art. 22), in genere in autunno, in linea con le riunioni quinquennali del Congresso nazionale, che si svolgono per lo più tra fine ottobre e inizio novembre. È importante precisare che, tra i vari Plenum, ve ne sono alcuni che hanno una rilevanza maggiore, in virtù del loro focus. Infatti, laddove il III e il IV sono generalmente focalizzati rispettivamente sulle riforme economiche e sulle questioni legate alla governance interna del Partito, il V è chiamato a delineare il nuovo piano quinquennale, che sarà approvato nella primavera successiva, in occasione della riunione annuale del Parlamento. Molti di questi Plenum hanno fatto la storia. Si possono citare a titolo d’esempio il III Plenum dell’XI Comitato centrale, riunito nel dicembre 1978, che diede avvio alla politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping; oppure al IV Plenum del XIII Comitato centrale, riunito alla fine del giugno 1989, che decretò l’eliminazione del segretario generale del Partito, Zhao Ziyang, a causa della sua opposizione all’applicazione della legge marziale, prima, e alla repressione dei manifestanti di piazza Tienanmen, poi. Non meno rilevanti sono il III Plenum del XIV Congresso (novembre 1993), che ha ufficialmente abbracciato l’“economia socialista di mercato”, principale eredità ideologica di Deng, e il IV Plenum dell’XI Comitato centrale (settembre 1979) nel corso del quale Deng sostituì il principio maoista della “lotta di classe” con quello dello sviluppo economico, quale strategia nazionale. Viceversa, il I Plenum si riunisce in genere all’indomani dell’inizio del mandato del nuovo Congresso e ha il compito di nominare i membri dell’Ufficio politico (Politburo) e del suo Comitato permanente (il più alto organo esecutivo in Cina); il II si riunisce, invece, alla vigilia della cosiddetta “doppia sessione” (lianghui) dei due rami del Parlamento cinese, in riferimento alle riunioni plenarie dell’Assemblea nazionale del popolo e della Conferenza consultiva politica del popolo cinese – che del Parlamento è l’organo consultivo – con il compito, tra le altre cose, di nominare i candidati per le posizioni apicali del governo durante gli anni di transizione alla leadership; il VI determina la tempistica approssimativa per il successivo Congresso del Partito, discute le regole interne a quest’ultimo e le politiche sociali e culturali del Paese; infine, il VII precede la riunione del nuovo Congresso, annunciandone in via definitiva le date ufficiali.

Con Xi Jinping le sessioni plenarie del XIX Comitato centrale (nominato nell’ottobre 2017) non hanno seguito l’ordine tradizionale appena menzionato. Infatti, il II e il III Plenum sono stati convocati a distanza di poche settimane tra il gennaio e il febbraio del 2018, con il compito di legittimare gli emendamenti costituzionali in approvazione nell’imminente riunione annuale del Parlamento, che includevano, tra le altre cose, l’inserimento del “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, nel Preambolo, e la modifica dell’art. 79, con l’abolizione del termine dei due mandati per le cariche della presidenza e della vicepresidenza del Paese. Il IV Plenum si è invece svolto nell’autunno del 2019, a distanza di oltre cinquecento giorni dal III – un’interruzione che non si sperimentava dai tempi di Mao Zedong – dando adito a numerose speculazioni circa le motivazioni del ritardo. La sessione di autocritica organizzata per i membri del Politburo, nel dicembre 2018, sembrava confermare l’esistenza di forti controversie all’interno del Partito sebbene la leadership di Xi possa essere ritenuta ad oggi una delle più forti dell’intera storia della Cina popolare, nonostante le crescenti minacce interne ed esterne.

 

Il grave stato di crisi dovuto alla pandemia di Coronavirus, per la Cina, come per il mondo intero, contribuisce a rendere il V Plenum del XIX Comitato centrale anch’esso di portata storica. Come si accennava sopra, il V Plenum rappresenta l’ultimo incontro prima dell’approvazione, nel marzo 2021, del nuovo piano quinquennale ed è pertanto funzionale alla delineazione delle politiche economiche e sociali che determineranno le strategie e gli obiettivi di Pechino per il prossimo quinquennio. L’ordine del giorno del Plenum può essere sintetizzato in due parole chiave: “doppia circolazione” (shuang xunhuan) e “Vision 2035” (2035 nian yuanjing mubiao).

 

La prima formula, svelata dallo stesso presidente cinese in occasione di una riunione del Politburo lo scorso mese di maggio, prevede una nuova strategia di sviluppo economico basata più sull’espansione del commercio interno e meno sull’integrazione globale. In quella circostanza, Xi Jinping aveva chiarito che la “doppia circolazione” non rappresentava un espediente per far fronte alle difficoltà post-Covid o alle tensioni con gli Stati Uniti d’America, ma equivaleva ad una nuova strategia economica, con la quale la Cina popolare non intendeva chiudersi agli investimenti, ai beni e ai servizi in arrivo dall’estero, né rinunciare all’esportazione delle sue merci, ma sceglieva di incardinare il suo sviluppo dei prossimi anni sulla circolazione (produzione, distribuzione e consumo) interna, provando in tal modo a ridurre la sua dipendenza dalla tecnologia e dai mercati stranieri. Per la verità, già prima dello scoppio della pandemia, Pechino stava cercando di ristrutturare l’economia del Paese, nella consapevolezza che la strategia di crescita economica guidata dalle esportazioni fosse insostenibile nel lungo periodo. Ciò detto, un ruolo rilevante nell’elaborazione della nuova strategia è stata giocata anche dalla crescente ostilità degli Stati Uniti nei confronti delle aziende techno cinesi, in primis il gigante della telefonia mobile Huawei e la popolare app video TikTok, di proprietà della società Internet ByteDance. Detto in altro modo, la strategia della “doppia circolazione” vuole essere una risposta pragmatica alle pressioni interne ed esterne in rapida evoluzione che il Paese deve affrontare e non significa che la Cina si stia ritirando dal mondo.

 

La Vision 2035, considerata come una sorta di evoluzione del piano manufatturiero Made in China 2025, è invece una strategia di medio termine con la quale la Cina di Xi Jinping punta, entro il 2035, a ricoprire un ruolo chiave nella definizione degli standard globali per le tecnologie di prossima generazione, ed è funzionale al raggiungimento dell’autarchia tecnologica, un obiettivo, anch’esso, delineato da tempo, ma che le tensioni con Washington – che riguardano non solo il commercio, ma anche e soprattutto l’high tech – hanno reso ancora più impellente.

In attesa di conoscere gli esiti della riunione, appare evidente l’intenzione della Cina di Xi Jinping di procedere lungo il cammino della realizzazione del “sogno cinese”, sorvolando sul primo degli “obiettivi centenari” e puntando dritto al secondo, quando la Cina diventerà un “moderno Paese socialista”. Il raggiungimento dell’autarchia tecnologica, con il completamento della trasformazione del Paese da “fabbrica del mondo” a colosso tecnologico, rappresenta una tappa fondamentale in tal senso.

 

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Le elezioni americane secondo Pechino

 

Le elezioni americane sono, da sempre, uno degli eventi internazionali maggiormente oggetto di osservazione e di dibattito a Zhongnanhai (sede del Partito comunista e del governo della Repubblica Popolare Cinese, RPC). Per quanto le relazioni sino-americane non siano mai assurte al rango di “partnership strategica”, costituiscono innegabilmente una delle priorità (forse la priorità) della politica estera cinese, al di là dell’andamento altalenante che le caratterizza, fin dall’avvio di relazioni diplomatiche ufficiali, nel gennaio 1979. Gli Stati Uniti rappresentano, infatti, una variabile determinante per molti capitoli dell’agenda politica, sia interna sia esterna, di Pechino (diritti umani, Taiwan, Mar Cinese Meridionale, tanto per citarne alcuni). Ben si comprende, pertanto, l’attenzione riposta dalla leadership di Pechino ai due candidati che si confrontano per le imminenti elezioni americane, in un periodo in cui le relazioni tra le due parti hanno raggiunto i “minimi storici”, complice la pandemia da Covid-19, che si è inserita in un contesto già stressato da una guerra commerciale che va avanti dal 2018, e che ha portato alcuni osservatori a parlare di un clima da “guerra fredda”. «Il confronto sta diventando conflitto e può finire in un esito disastroso per l’umanità», ammoniva Henry Kissinger – segretario di Stato americano fra il 1973 e il 1976, durante le presidenze di Richard Nixon e Gerald Ford, fautore dell’avvicinamento sino-americano e grande conoscitore e amico della Cina popolare – lo scorso mese di novembre, in un discorso tenuto a Pechino, e rivolto ad entrambe le amministrazioni.

Dietro un clima di calma apparente, c’è un acceso dibattito in corso all’interno dell’establishment della politica estera cinese su quale tra i due candidati possa rappresentare il classico “male minore” per la RPC. Sia Donald Trump che John Biden hanno, infatti, definito la Cina una minaccia centrale per gli interessi degli Stati Uniti, al di là delle connessioni personali di entrambi con il leader cinese Xi Jinping, delle quali si sono spesso vantati in passato, per poi prenderne le distanze via via che la pandemia rivelava tutta la sua gravità, ed emergevano le responsabilità di Pechino relativamente alle omissioni iniziali sul virus, prospettando tempi duri per il governo comunista cinese. Ciò detto, laddove la retorica trumpiana è ben nota a Pechino, quella di Biden è oggetto di maggiore riflessione. Per quanto la campagna di quest’ultimo sia percepita, anche in Cina, come un’offerta agli elettori americani di un “ritorno alla normalità”, questo stesso ritorno non si prospetta tale nell’ambito delle relazioni con la RPC; in altre parole, è probabile che Pechino si aspetti cambiamenti nello stile, ma non nella sostanza della politica statunitense nei prossimi quattro anni.

Non a caso, a dispetto di quanto va affermando il presidente Trump, secondo il quale Pechino starebbe facendo il tifo per Biden per continuare ad affossare l’economia statunitense attraverso pratiche commerciali scorrette, le posizioni in Cina sono assai meno nette. Al contrario, alcuni studiosi riportano come molti cinesi comuni auspichino una vittoria di Trump, in quanto funzionale alla continua ascesa del loro Paese. Come è noto, la Cina punta, nel lungo periodo, a sostituirsi agli Stati Uniti nel ruolo di superpotenza egemone a livello globale e ambisce a rifondare l’ordine mondiale – lo stesso nei confronti del quale Trump è andato mostrando una crescente insofferenza – secondo caratteristiche proprie (le cosiddette “caratteristiche cinesi”, zhongguo tese). Le scelte dell’amministrazione Trump hanno, infatti, contribuito a minare il sistema di alleanze di Washington, in Occidente come in Oriente, dando agli alleati l’impressione che gli Stati Uniti non siano più una potenza responsabile e affidabile, rafforzando al contempo lo spirito di coesione dei cinesi e dando alla Cina la possibilità di guadagnare terreno, come rivelato dai discorsi pronunciati da Xi Jinping in diversi consessi, a partire dal World Economic Forum di Davos, nel gennaio del 2017, che hanno ricevuto il plauso della comunità internazionale. Una conferma della preferenza di Pechino per Trump risiederebbe, secondo alcuni osservatori, nel rispetto della tregua commerciale siglata il 15 gennaio 2020 – l’accordo sulla cosiddetta “Fase uno”. Il fatto che la Cina stia cercando di sostenere l’accordo con gli Stati Uniti, con l’acquisto di soia e cereali, sarebbe una chiara dimostrazione dell’interesse a sostenere Trump; l’impegno cinese è assai significativo per il presidente degli Stati Uniti, in termini di risultati da esibire nei confronti degli agricoltori americani, duramente colpiti dalla guerra commerciale, che rappresentano un segmento elettorale fondamentale. Paradossalmente, secondo un articolo di Cnn Business dell’agosto scorso, pur essendo il commercio la causa principale degli attriti tra i due Paesi negli ultimi anni, di fatto è l’unica cosa che funziona nel rapporto bilaterale. Viceversa, una nuova amministrazione democratica potrebbe lavorare nel tentativo di ripristinare una politica estera “tradizionale” in grado di riportare gli Stati Uniti al loro ruolo di guida della comunità internazionale e di difensore del sistema internazionale, il che rende Joe Biden un candidato meno desiderabile per Pechino.

Ovviamente, la Cina non è un monolite, ma al suo interno esistono visioni contrastanti. Molti cinesi, appartenenti all’élite di coloro che hanno la fortuna di studiare e viaggiare in Occidente, sono colpiti dal livello di antagonismo raggiunto tra le due superpotenze, e auspicano una vittoria di Biden, nella speranza di un ripristino dei programmi culturali, educativi e di altro tipo. Questa speranza trova concordi anche molti esponenti del mondo accademico (ma non solo) statunitense. Può essere interessante riportare i contenuti di una lettera scritta nel luglio del 2019 da cinque eminenti studiosi americani (ma firmata da cento noti esponenti di vari settori), indirizzata al presidente Trump e al Congresso americano, per esprimere le loro preoccupazioni in merito alla politica aggressiva portata avanti nei confronti della Cina popolare. Intitolata significativamente Making China a U.S. enemy is counterproductive, la lettera metteva in evidenza la presenza, nel Paese, di posizioni discordanti in merito alla percezione della Cina e l’inesistenza di un unico consenso a Washington.

In altre parole, per quanto la condanna delle politiche cinesi sia diventata trasversale nel dibattito pubblico statunitense – la Cina non è più soltanto una questione di politica estera nelle prossime elezioni, ma è diventata una sorta di problema quasi esistenziale, in quanto con il suo virus mette a rischio la vita stessa degli americani, con le sue pratiche scorrette ostacola l’economia nazionale e compete con gli Stati Uniti per la leadership globale – e Pechino si sia forse rassegnata alla natura irritabile delle relazioni con Washington nel prossimo futuro, emerge chiaramente una condivisione di punti di vista nella componente istruita di entrambi i Paesi, nella consapevolezza che «gli Stati non hanno né amici permanenti né nemici permanenti. Hanno solo interessi», per citare ancora una volta Kissinger e Henry John Temple, due volte premier britannico a metà dell’Ottocento, che pare abbia pronunciato per primo la frase.

 

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Immagine: Donald Trump sulla copertina di una rivista in un’edicola. Il 6 aprile si era tenuto il primo incontro tra Trump e Xi Jinping, Pechino, Cina (7 aprile 2017). Crediti: testing / Shutterstock.com

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Le implicazioni del Coronavirus sugli obiettivi centenari di Pechino

 

Come si è avuto modo di analizzare in alcuni articoli precedenti, fin dal suo arrivo al potere, Xi Jinping ha impresso una forte connotazione nazionalista al suo mandato, riassunta nello slogan del “sogno cinese” (Zhongguo meng), che si identifica con “il grande rinnovamento della nazione cinese” (Zhonghua minzu weida fuxing), da realizzarsi con il soddisfacimento dei cosiddetti due obiettivi centenari (‘liangge yibai nian’ fendou mubiao), quello del Partito comunista cinese (PCC) nel 2021 e quello della Repubblica popolare di Cina (RPC) nel 2049. Per il 2021, l’obiettivo è di “costruire una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti” (quanmian jiancheng xiaokang shehui). Ciò significa essenzialmente assicurarsi che lo sviluppo del Paese migliori le condizioni di vita dell’intera popolazione, in particolare di coloro che vivono al di sotto o vicino alla soglia di povertà; per il 2049, l’obiettivo è invece di “costruire un moderno Paese socialista che sia prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso” (jiancheng fuqiang minzhu wenmin hexie meili de shehui zhuyi xiandaihua guojia). Questo è il motivo per cui gran parte delle riforme promosse negli ultimi lustri hanno avuto l’obiettivo di prevenire e/o controllare i rischi principali di destabilizzazione della società, puntando ad alleviare la povertà, ridurre i divari di crescita tra le diverse aree del Paese, frenare il tasso di inquinamento e approfondire le riforme strutturali dal lato dell’offerta, al fine di promuovere uno sviluppo economico e sociale sostenuto e sano. Nell’ottica della leadership cinese, l’attenzione riposta nella realizzazione dei due obiettivi ha lo scopo di continuare a garantirsi il consenso del popolo e salvaguardare la legittimità del potere del Partito comunista; rappresenta insomma una sorta di strumento di legittimazione per il Partito.

L’impostazione di questi obiettivi non è recente, ma è da rinvenirsi nella politica denghista post-Tienanmen. In una serie di discorsi tenuti da Deng Xiaoping durante il suo famoso Nanxun (viaggio di ispezione nelle province del Sud che, per prime, si erano aperte al mondo capitalista occidentale alla fine degli anni Settanta con la costituzione delle prime Zone economiche speciali) agli inizi del 1992, il piccolo timoniere attribuì la sopravvivenza del regime comunista e la sua apparente stabilità all’indomani dei fatti del 4 giugno 1989 in Cina, e più in generale delle Rivoluzioni del 1989 che misero la parola fine a molti regimi comunisti nei Paesi dell’Europa centrale e orientale e si conclusero con l’implosione dell’Unione Sovietica, alla politica di ‘riforma e apertura’ (‘gaige kaifang’ zhengce) avviata nel Paese dal terzo plenum dell’XI Comitato centrale del PCC nel dicembre del 1978. Non a caso, il filo conduttore dei discorsi pronunciati da Deng durante tutto il Nanxun fu “più riforma e più apertura”, nella consapevolezza che se non fosse stato per i risultati della suddetta politica, il PCC non sarebbe stato in grado di sopravvivere a un evento traumatico come quello del 4 giugno e il Paese sarebbe finito in preda al caos e alla guerra civile, con il rischio di subire un destino analogo a quello dell’Unione Sovietica. Fu in quella circostanza che Deng reiterò la sua ambiziosa Strategia di sviluppo in tre fasi (‘san bu zou’ fazhan zhanlüe), sviluppata gradualmente dalla fine degli anni Settanta ma svelata in occasione del XIII Congresso nazionale del Partito nel 1987. La prima fase della Strategia prevedeva il raddoppio della dimensione dell’economia cinese tra il 1981 e il 1990; la seconda, un ulteriore raddoppio dell’economia tra il 1991 e il 2000, e la conseguente trasformazione della Cina in una xiaokang shehui, ossia una società moderatamente prospera; la terza fase prevedeva infine di elevare il Paese al livello dei Paesi moderatamente sviluppati entro la metà del XXI secolo, coincidente con il centesimo anniversario della fondazione della RPC. Questi obiettivi, che rientravano nell’idea di costruire un’“economia socialista di mercato” (shehui zhuyi shichang jingji), furono ufficialmente inseriti nello Statuto del Partito in occasione del XIV Congresso nazionale svoltosi nell’ottobre del 1992. Con l’avvio del nuovo secolo la retorica denghista si era evoluta negli ‘obiettivi dei due centenari’ nei discorsi successivi dei leader cinesi, prima che fossero ufficializzati con l’inserimento nello Statuto del Partito, nel novembre 2012, in occasione del XVI Congresso che ha portato al potere la quinta generazione di governanti, capeggiata da Xi Jinping. L’inclusione dei due obiettivi centenari nello Statuto del PCC equivale all’assunzione di un impegno solenne per la leadership al potere, e il raggiungimento degli stessi una sorta di condicio sine qua non per continuare a garantirsi la legittimazione a governare. Tanto più che in svariate occasioni, Xi Jinping ha descritto i due obiettivi come tappe concrete nella realizzazione del “sogno del ringiovanimento della nazione cinese”, diventato il concetto cardine della visione politica del leader.

A questo punto può essere interessante soffermarsi brevemente ad analizzare ciò che è stato fatto finora in vista della realizzazione di questi obiettivi, con riferimento soprattutto al primo dei due – considerata la sua imminente scadenza – e ciò che rimane da fare, al fine di valutare in che modo la crisi legata alla pandemia globale possa averne compromesso in qualche modo il raggiungimento.

In termini di alleviamento della povertà, il governo di Pechino vanta il record di aver ridotto la percentuale di popolazione rurale che vive sotto la soglia di povertà, così come definita dalla Banca mondiale, dal 97,5% del 1978 all’1,7% del 2018 (da 770 milioni a 16,6 milioni), una cifra che rappresenta circa il 70% dello sradicamento della povertà globale nel stesso lasso di tempo. In particolare, dall’arrivo al potere di Xi Jinping l’incidenza della povertà assoluta in Cina è scesa dal 10,2% all’1,7% del 2018, in calo di quasi 9 punti percentuali. Nel 2019 la Cina ha completato l’obiettivo di emancipare ulteriori 10 milioni di persone dallo stato di povertà assoluta, come previsto nel piano triennale pubblicato nel 2018, volto a sradicare completamente il fenomeno entro il 2020.

Questi dati fanno della Cina popolare il Paese con il maggior numero di persone emancipatesi dalla povertà al mondo e il primo Paese in assoluto ad aver completato gli Obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite; in questo senso, le idee e le pratiche cinesi sostenute da Pechino, come la riduzione della povertà tramite l’industria e la riduzione mirata della povertà (jingzhun fupin) hanno fornito un riferimento per i Paesi in via di sviluppo e sono state ampiamente riconosciute dalla comunità internazionale. Al riguardo Jorge Chediek, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la cooperazione Sud-Sud, ha definito l’emancipazione dalla povertà di centinaia di milioni di cinesi un’impresa eroica nella storia dello sviluppo dell’umanità, che ha fornito un modello di riferimento per lo sviluppo mondiale.

Per quanto riguarda il Paese nel suo insieme, dal 1979 al 2018, l’economia cinese è cresciuta a una media del 9,4% all’anno, segnando un tasso di sviluppo molto superiore rispetto a una media mondiale del 2,9%. Anche il reddito pro capite ha conosciuto una crescita senza eguali, passando da soli 160 dollari nel 1978 a oltre 8.800 dollari alla fine del 2018, mentre in termini di potere d’acquisto, il cittadino cinese medio ha oggi a disposizione circa 16.000 dollari.

Detto ciò, vi sono ancora alcune sfide importanti da affrontare prima che la Cina possa effettivamente realizzare i suoi obiettivi. La povertà, per quanto drasticamente ridotta, continua a rappresentare in alcune zone del Paese un problema che richiede ulteriori sforzi. Sulla base delle esperienze di altri Paesi, infatti, la fase più difficile dello sradicamento della povertà è costituita generalmente quando il numero di persone che vivono in povertà rappresenta meno del 10% della popolazione complessiva. In aggiunta vi sono alcune sfide esterne, rappresentate dai cambiamenti climatici e dalle problematiche rappresentate dall’economia globale in generale, che sono al centro delle interazioni di Pechino sia con le organizzazioni internazionali, in primis le Nazioni Unite e l’ASEAN, sia nell’ambito delle sue relazioni bilaterali. A queste sfide si è aggiunta di recente quella legata all’emergenza e alla diffusione del Coronavirus nel mondo – una delle crisi peggiori di sempre per la Cina, oltre che dal punto di vista economico e di politica interna, anche dal punto di vista geopolitico – che ha già avuto modo di manifestare tutta la sua gravità per la Cina e per il sistema globale in generale, e che avrà innegabilmente dei pesanti strascichi nel lungo periodo, sotto molteplici punti di vista. Nell’immediato, il rallentamento economico determinato dalla crisi pandemica, getta un’ombra sulla prospettiva del raggiungimento del primo dei due obiettivi centenari, che è praticamente dietro l’angolo. In modo abbastanza inusuale, nessuna previsione di crescita del PIL è stata annunciata per il 2020, in occasione della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, lo scorso mese di maggio, a suggerire la gravità della situazione, il difficile cammino verso la ripresa e le incognite sul futuro del “sogno cinese”.

 

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Le relazioni internazionali di Pechino ai tempi della pandemia

 

Il 2020 è destinato a rimanere una data spartiacque per Pechino, come tante ce ne sono state nei 70 anni di storia della RPC. In termini di danni all’immagine del Paese, le conseguenze della pandemia determinata dalla crisi del Covid-19 possono essere paragonate al 1989, quando, a seguito dei fatti di piazza Tienanmen, la Cina subì una grave condanna e un isolamento internazionali che rischiavano di mettere in discussione il progetto di modernizzazione avviato da Deng Xiaoping nel dicembre del 1978, in occasione del III plenum dell’XI Comitato Centrale. Internamente il PCC conobbe all’epoca una pericolosa crisi di legittimazione, che costrinse i governanti comunisti a darsi una nuova missione per garantire la sopravvivenza del Partito. E questa nuova missione venne trovata nella prosecuzione del processo di modernizzazione e di crescita economica. Oggi sappiamo che la Cina ha avuto ragione: paradossalmente il miracolo economico cinese è ‘figlio di Tienanmen’; così come sappiamo che la condanna e l’isolamento internazionali sono stati di breve durata. Ciò detto, Pechino ha lavorato a lungo per ripulire la propria immagine, macchiata a Tienanmen, e guadagnarsi la nomea di ‘potenza responsabile’ desiderosa di crescere in maniera ‘pacifica’ e di dare il proprio contributo nella gestione della governance internazionale, oltre che per allontanare lo spettro della ‘minaccia cinese’ che ha iniziato ad aleggiare nei primi anni Novanta, complice una crescita economica senza eguali.

 

Oggi come allora, la Cina rischia di mettere in discussione molti dei traguardi raggiunti negli ultimi anni e che hanno visto il Paese protagonista in molti consessi internazionali, approfittando anche della ritirata statunitense dell’amministrazione di Donald Trump, dietro lo slogan dell’America First. Soprattutto, la Cina del 2020 è tornata a fare paura, al di là del virus, per il suo modus operandi che, per un certo periodo, era assurto a “modello” per alcuni Paesi (secondo diverse denominazioni, da Beijing Consensus a modello Cina/cinese). Di nuovo è il Partito comunista a essere messo in discussione, quello stesso Partito che nel 2021 festeggerà il suo centesimo anniversario, consentendo al Paese di raggiungere il primo dei suoi “obiettivi centenari”, e dunque di realizzare, almeno teoricamente, la prima parte del suo ‘Sogno’.

 

Sembra passato molto tempo da quando Pechino si compiaceva per i successi raggiunti dal proprio Paese nell’ambito delle relazioni internazionali. Era il 30 settembre 2019 quando il governo centrale pubblicava un libro bianco significativamente intitolato China and the World in the New Era, mentre l’indomani si sarebbero svolti in pompa magna i festeggiamenti per il settantesimo anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese. Il libro bianco, basandosi su alcune fonti autorevoli occidentali, elencava tutti i successi raggiunti dalla Cina in vari settori, dall’abbattimento dei tassi di povertà assoluta alla lotta ai cambiamenti climatici, confermando il ruolo chiave svolto dal Paese sulla scena internazionale. I contenuti del libro bianco erano ripresi dal presidente cinese, in occasione del tradizionale discorso di fine anno pronunciato il 31 dicembre – quando, come noto, l’allarme per il nuovo virus era già scattato nel Paese senza che, però, si fossero intraprese delle misure per arginarne la diffusione, nella convinzione che si trattasse di un allarme infondato, da un lato, e che questa sarebbe rimasta probabilmente dentro i confini del Paese, dall’altro. Il focus del discorso di Xi Jinping era sul numero accresciuto di Paesi che avevano allacciato relazioni diplomatiche con Pechino (180) – laddove il numero di Paesi che riconoscevano la Repubblica di Cina, ossia Taiwan, si era ridotto a 15 – e il fatto che la Cina avesse «amici in ogni angolo del pianeta».

 

La crisi pandemica legata alla diffusione del Covid-19 rischia di compromettere molti di questi traguardi, così come di rimettere in discussione molte di queste relazioni amichevoli, anche quelle più consolidate, come quelle con il continente africano, tanto per citare un caso, per via dei gravi atteggiamenti razzisti di cui sono stati oggetto alcuni immigrati africani nella provincia meridionale di Guangdong. La stampa internazionale ha dato molto risalto a questi episodi, soprattutto in considerazione del fatto che molti governi africani (tra i quali Nigeria, Ghana, Kenya e Uganda) hanno formalmente protestato, per voce dei loro diplomatici accreditati a Pechino e, cosa ben più grave, hanno velatamente minacciato di interrompere o di rinegoziare molti dei contratti stipulati con la RPC, nell’ambito della Belt and Road Initiative, per la cui realizzazione, come è noto, il continente africano riveste una rilevanza cruciale.

 

Vale la pena ricordare come il razzismo contro gli africani non costituisca una novità per la Cina. Le relazioni tra Cina-Africa sono, infatti, segnate tanto da solidarietà quanto da episodi di razzismo, che vanno dai maltrattamenti da parte della polizia, a evidenti discriminazioni negli ambienti di lavoro – da quelli che escludono l’impiego per gli heiren (letteralmente ‘uomini neri’) a quelli che propongono salari più bassi. Una crisi nelle relazioni che l’appuntamento del FOCAC 2020, svolto in modalità del tutto inedite il 16 giugno, come rivela la stessa titolatura scelta per l’evento – “Extraordinary China-Africa Summit On Solidarity Against COVID-19” –, ha in parte contribuito a far rientrare. Nel suo keynote speech, intitolato “Defeating COVID-19 with Solidarity and Cooperation”, il Presidente cinese ha rimarcato l’impegno del suo Paese a sostenere le precarie finanze del continente – il cui PIL, stando alle stime del Fondo monetario internazionale, subirà una contrazione dell’1,5% – a partire dalla cancellazione del debito per alcuni Paesi, rispetto alla semplice sospensione dei pagamenti fino a dicembre stabilita in seno al G20.


L’intenzione di Pechino, oltre che allontanare le accuse di razzismo, è senza dubbio di consolidare il ruolo di partner privilegiato dei Paesi africani in via di sviluppo e di portavoce delle loro istanze di fronte all’Occidente. “La Cina spera che la comunità internazionale, in particolare i Paesi sviluppati e le istituzioni finanziarie multilaterali, agiscano con più forza per il taglio e la sospensione del debito dell’Africa”. Vale la pena sottolineare che all’appuntamento in videoconferenza erano presenti, in qualità di “special guests”, anche il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, e il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, accusato dagli Stati Uniti di essere troppo conciliante con la Cina di Xi e di dirigere un’organizzazione favorevole a Pechino, per i continui elogi portati al Paese comunista per la lotta alla pandemia.

 

Viceversa, la crisi ha consentito a Pechino di migliorare e consolidare i rapporti con alcuni Paesi, anche in maniera inaspettata, agli occhi dei più. Un caso per tutti è certamente quello che riguarda il Giappone, che per primo è andato in soccorso a Pechino attraverso una serie di azioni, talvolta anche simboliche, inaugurando quella che è stata poi ribattezza la ‘mask diplomacy’. In questo caso è importante sottolineare come le relazioni tra i due Paesi avessero conosciuto un certo miglioramento negli ultimi anni, come diretta conseguenza delle mosse dell’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, che avevano finito per colpire anche il ‘fedele’ alleato asiatico. Non è un caso che il presidente Xi Jinping fosse atteso a Tokyo per una visita di Stato proprio in primavera, un invito ricevuto personalmente da Shinzo Abe in occasione di un incontro bilaterale a margine del vertice G-20 di Osaka, nel giugno 2019. Quella di Osaka era stata la prima visita di un presidente cinese in Giappone in nove anni e si era rivelata un’occasione importante per approfondire la relazione personale tra i due leader.

 

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Immagine: Da sinistra: Shinzo Abe  e Xi Jinping (4 settembre 2016). Crediti:  plavevski / Shutterstock.com

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Cina, le (prime) conseguenze economiche e politiche del Coronavirus

Il 2020, per la Repubblica popolare cinese, che solo qualche mese fa aveva festeggiato con una cerimonia memorabile il suo settantesimo anniversario, dando sfoggio dei grandi traguardi raggiunti, rischia di essere un anno da dimenticare, e non una «pietra miliare nella storia», come enunciato da Xi Jinping in occasione del suo discorso di fine anno, pronunciato il 31 dicembre. Nel 2020 la Cina avrebbe, infatti, dovuto edificare una società moderatamente prospera sotto tutti i punti di vista e realizzare così il primo dei due ‘obiettivi centenari’ (‘liangge yibainian’ fendou mubiao). Ma l’insorgenza dell’epidemia di Coronavirus (2019-nCoV o Coronavirus di Wuhan, Wuhan feiyan) rischia di mettere tutto in discussione, quasi fosse uno di quei ‘cigni neri’ (hei tian’e) e/o ‘rinoceronti grigi’ (hui xiniu) – termini che nel linguaggio economico-finanziario indicano imprevisti e minacce altamente possibili, eppure ignorate – cui aveva fatto cenno il presidente cinese in un discorso pronunciato davanti ai funzionari convocati nella capitale cinese per una sessione di studio del Partito comunista, il 21 gennaio 2019. Nel suo discorso Xi aveva anche aleggiato lo spettro di ‘rivoluzioni colorate’ (yanse geming), lasciando dunque intendere che quello sarebbe stato un anno difficile per il Paese, vista la coincidenza con una serie di ‘anniversari sensibili’ (dal centesimo anniversario del movimento del ‘4 maggio 1919’ al trentesimo di piazza Tienanmen) che avrebbero potuto dare adito a indebite interferenze dall’estero.

A detta di alcuni osservatori si era trattato di uno dei discorsi più duri pronunciati da Xi Jinping fin dal suo arrivo al potere e lasciava trapelare un certo nervosismo da parte della leadership cinese. Sul finire dell’anno, in effetti, le analisi dei commentatori erano per lo più negative, ritenendo che il 2019 fosse stato per la Cina un vero e proprio annus horribilis, sotto molteplici punti di vista. Al di là della guerra commerciale con gli Stati Uniti, che aveva assunto tutti i contorni di una guerra per l’egemonia, erano soprattutto l’immagine e la reputazione del Paese ad averne subito le conseguenze principali. La Cina era stata messa sotto attacco, oltre che per le vicende di Hong Kong, anche per la pubblicazione da parte del New York Times dei cosiddetti Xinjiang Papers – una serie di documenti interni e rapporti, ritenuti ‘credibili dalle Nazioni Unite, che accusavano il governo cinese di gravi violazioni di diritti umani nei confronti della minoranza musulmana della provincia autonoma del Xinjiang Uygur – e per le ripetute accuse mosse agli Istituti Confucio, accusati di essere delle spie del governo cinese e di rappresentare una minaccia alla libertà accademica delle università ospitanti.

Ora, se è vero che per Pechino la reputazione nazionale è importante tanto quanto lo sono il potere economico e militare, ben si comprendono le conseguenze che questa emergenza epidemiologica mondiale potrà ulteriormente determinare all’immagine del Paese nel breve e medio periodo, soprattutto in considerazione della risposta non tempestiva da parte del governo centrale. Infatti, sebbene risulti appurato che il primo caso si sia verificato lo scorso 1° dicembre, e il primo allarme – ritenuto infondato e pertanto ignorato – sia stato lanciato quasi contemporaneamente al discorso di fine anno di Xi, le prime misure sono state adottate soltanto a partire dal 23 gennaio, quando l’epidemia oramai dilagava. La tardiva risposta delle autorità cinesi rischia di avere delle ricadute enormi, dal punto di vista economico (al di là dei differenti punti di vista), politico e geopolitico, non solo per la Cina, ma per il mondo intero, essendo oramai Pechino profondamente integrata nel sistema globale.

Ovviamente non è facile prevederne con esattezza le conseguenze, essendo la crisi ancora nel pieno della sua manifestazione e gli aspetti da considerare molteplici. Tuttavia, si può tentare di riflettere su alcuni degli esiti finora prodotti. In primis un allarme generalizzato e non sempre giustificato rispetto alla diffusione del virus, una psicosi che si sta diffondendo ad una velocità maggiore del virus stesso, l’emergere di una miriade di teorie complottiste circa la sua origine e il ritorno dello spettro della cosiddetta ‘minaccia cinese’ (Zhongguo weixie). In secondo luogo, una rinnovata ‘sfiducia’ nei confronti dei governanti comunisti e più in generale dell’autoritarismo inflessibile di Pechino e di Xi Jinping in particolare, che le misure draconiane messe a punto in queste ultime settimane hanno fatto emergere in tutta la sua forza. Quella del governo cinese è, infatti, una vera e propria lotta senza quartiere al virus, con controlli a tappetto sui mezzi di trasporto e cordoni sanitari estesi a ben 56 milioni di persone in diverse città del Paese, l’annullamento delle festività per il capodanno lunare – la più sentita in assoluto e che vede in media circa 3 miliardi di cinesi spostarsi ogni anno nell’arco di poco più di un mese per festeggiare insieme ai familiari e agli amici più cari – e la chiusura di scuole e università, oltre alla messa sotto accusa di centinaia di funzionari per comportamenti scorretti nella gestione dell’emergenza sanitaria. Misure che solo un governo autoritario come quello cinese avrebbe potuto, nel bene e nel male, mettere in campo, ma che nell’era dei social possono essere oggetto di dietrologia e alimentare ulteriori allarmismi, sia fuori che dentro i vasti confini del Paese. Insomma, la Cina rischia di farne le spese anche in termini di instabilità sociale, con possibili ripercussioni sulla tenuta del Partito e conseguenze del tutto imprevedibili.

Per quanto concerne i costi della crisi, non sono facili da stimare, in considerazione del fatto che già nel corso del 2019 la Cina aveva iniziato ad accusare i contraccolpi della guerra commerciale con gli Stati Uniti, registrando un tasso di crescita del 6%, il peggior dato dal 1990, quando le turbolenze politiche del periodo post-Tienanmen avevano frenato il PIL su un +3,9%. Bisogna inoltre considerare che le conseguenze delle misure adottate dal governo di Pechino avranno ripercussioni sull’intero sistema economico mondiale, essendone la Cina il traino. Basti pensare all’appello lanciato dall’OPEC, che sottolinea il rischio globale per il mercato del petrolio per via del calo degli ordinativi cinesi; allo stop di alcuni impianti industriali, in particolare dei settori automobilistico e della componentistica, localizzati nella zona epicentro del virus; alla chiusura dei propri punti vendita di colossi sportivi quali Adidas e Nike, analogamente a quella di catene mondiali molto popolari e diffuse nel Paese quali McDonald’s, Starbucks, Ikea, H&M; all’annullamento di eventi sportivi, quali Super League e la Coppa del mondo di sci, o al loro rinvio (sine die), come per il Gran Premio di Formula 1 a Shanghai. Per non parlare dei mancati introiti indotti dal turismo (in uscita, in entrata e domestico) e da fiere varie, oltre all’annullamento del capodanno lunare, che da solo muove in genere cifre astronomiche. Stando ai dati del ministero del Commercio cinese riportati in un articolo di Booking Blog TM, il blog del web marketing turistico, nel 2019, nella settimana del capodanno i cinesi hanno speso 1 trilione di yuan (circa 132 miliardi di euro) tra ristoranti, centri commerciali e negozi on-line, circa l’8,5% in più rispetto all’anno precedente, ma in costante calo rispetto al +20% del periodo pre-2011. Un calo determinato certamente dal rallentamento della crescita del PIL, a seguito delle misure messe a punto dal governo comunista cinese per trasformare il sistema economico (cosiddetto New Normal), favorendo una crescita quality-oriented, ossia sostenibile e tecnologicamente avanzata, meno basata sulle esportazioni e incentrata sui consumi interni.

Per quanto la Cina stia dando prova, ancora una volta, della sua grande capacità di reazione – quale diretta conseguenza delle restrizioni adottate nelle aziende con la messa a bando di riunioni e co-working, il Paese sta mettendo in campo il più grande esperimento di telelavoro al mondo; analogamente le scuole e le università si stanno organizzando per l’attivazione dei corsi on-line – la strada sembra essere ancora tutta in salita.

 

Immagine: Funzionari della salute e della sicurezza ispezionano i negozi nel quartiere dello shopping per identificare casi sospetti di Coronavirus, Chengdu, Cina (30 gennaio 2019). Crediti: B.Zhou / Shutterstock.com

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La Cina, la Nuova Via della Seta e la ‘diplomazia del debito’

Fin dal suo annuncio ufficiale, nel 2013, il progetto della Nuova Via della Seta, meglio nota con gli acronimi OBOR (One Belt One Road) e BRI (Belt and Road Initiative), in cinese yidai yilu, ha suscitato un grande interesse, ma anche molte critiche e altrettanti dubbi circa le reali intenzioni del governo comunista cinese. Il progetto, che mira a far rivivere l’antica via della seta, collegando l’Asia all’Europa e all’Africa attraverso la costruzione di una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri muovendosi su due direttrici principali – una terrestre (la cintura economica della Via della Seta), dalla parte occidentale della Cina all’Europa del Nord attraverso l’Asia Centrale e il Medio Oriente, e una marittima (la Via della Seta marittima del XXI secolo), che attraverso l’Oceano Indiano raggiunge l’Africa per poi piegare a nord – altro non è, infatti, che il riflesso della definitiva ascesa della Repubblica Popolare Cinese sulla scena globale, dal punto di vista economico, politico-diplomatico e strategico-militare, e un tassello fondamentale del ‘sogno cinese’ (Zhongguo meng) e del ‘risorgimento nazionale’ (Zhongguo fuxing), atti a mettere la parola fine al famigerato ‘secolo di vergogna e umiliazione’ (bainian chiru).

È dunque un progetto associato alla dimensione internazionale della Cina e alla sua capacità di modellare il sistema internazionale e di influenzarne lo sviluppo. In tal senso può essere considerato come uno dei progetti strategici più rilevanti della Cina popolare e senza dubbio il più ambizioso della quinta generazione di governanti (di wu dai), capeggiata da Xi Jinping, sul quale le autorità cinesi hanno investito un rilevante capitale politico, come la propria credibilità, attraverso il suo inserimento nello Statuto del Partito e nella Costituzione.

Non stupisce pertanto l’atteggiamento di ‘sospetto’ da parte di buona parte della comunità internazionale nel momento stesso in cui l’iniziativa è stata svelata nella sua interezza e complessità: un progetto che attraverso i due bracci principali si prefigge di riunire tre continenti (Asia, Europa, Africa), con la prospettiva di raggiungere l’Artico, l’Australia e finanche le Americhe, favorendo la costituzione di una ‘comunità di futuro condiviso per l’umanità’ (renlei mingyun gongongti). In tal senso la BRI viene percepita come un tentativo da parte di Pechino di ricostruire un proprio impero e reintrodurre l’antico sistema sinocentrico.

Tra gli aspetti specifici oggetto di critica del progetto vi è proprio l’identificazione di quest’ultimo con il Partito comunista, ma, soprattutto, il meccanismo di creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi coinvolti (oltre una sessantina) nei confronti di Pechino, per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture nell’ambito della BRI (cosiddetta ‘trappola del debito’). Una delle accuse principali rivolte dall’Occidente al progetto faraonico di Xi Jinping è, infatti, di essere una strategia di dominio mondiale che la Cina popolare porta avanti facendo deliberatamente ricorso all’arma del debito: attraverso prestiti a Paesi piccoli e già problematici di per sé, otterrebbe il controllo di asset strategici (a partire dai porti), limitando al contempo la sovranità politica dei suddetti Paesi.

È la cosiddetta ‘diplomazia del debito’, un termine utilizzato come critica della politica estera del governo cinese nell’ambito della Belt and Road Initiative; laddove con il termine di ‘trappola del debito’ si intende genericamente una ‘situazione in cui un debito è difficile, quando non addirittura impossibile da estinguere, in genere perché i pagamenti di interessi elevati impediscono il rimborso del capitale’. La problematica in questione è emersa soprattutto all’indomani della pubblicazione, nel marzo del 2018, di un rapporto del think tank americano Center for Global Development, secondo il quale la Belt and Road Initiative starebbe determinando delle gravi controindicazioni finanziarie per alcuni Paesi, già vulnerabili. In particolare, dei 68 Paesi identificati come potenziali debitori, 23 erano considerati a rischio ‘abbastanza elevato’ di sofferenza del debito; tra questi lo Sri Lanka, che nel dicembre del 2017 si era visto costretto a trasferire il controllo del porto di Hambantota, costruito utilizzando prestiti cinesi, alla China Merchants Port Holdings, un importante conglomerato di proprietà statale, con sede a Hong Kong. Lo stesso studio rivelava come 8 di quei 23 Paesi – Pakistan, Gibuti, Maldive, Laos, Mongolia, Montenegro, Tagikistan e Kirghizistan – erano invece a rischio ‘molto elevato’ di non potere ripagare il loro debito a causa di futuri finanziamenti relativi a progetti infrastrutturali nell’ambito della BRI. Tra questi il Montenegro, Stato periferico dell’Europa, parte dell’Iniziativa 16+1 (che racchiude la Cina e 16 Paesi dell’Europa centrale e Orientale), nonché membro potenziale dell’Unione Europea, il quale aveva conosciuto un forte aumento del proprio debito a seguito della accettazione di un cospicuo prestito da parte della Cina per la costruzione di un’autostrada di collegamento tra il porto di Bar a Belgrado, nella vicina Serbia. La rilevanza del caso montenegrino è data dal fatto che Pechino aveva accettato di investire nel progetto nonostante che due distinti studi di fattibilità (realizzati nel 2006 e nel 2012) ne avessero messo in evidenza le problematiche di realizzazione. Il progetto rischiava pertanto di non vedere la luce poiché il debito di Podgorica era previsto all’80% del prodotto interno lordo (PIL) del Paese già alla fine del 2018. Ciò detto, studi più recenti hanno contribuito a ridimensionare la natura del problema, circoscrivendolo ad alcuni casi specifici e rivelando la presenza di altri attori nel processo di indebitamento di alcuni Paesi inseriti nella traiettoria della BRI e citati nello studio del think tank americano, tra cui il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca mondiale, oltre a Stati Uniti e Giappone.

In particolare, le ricerche condotte dalla China-Africa Research Initiative della John Hopkins University – diretta da Deborah Brautigam, uno dei massimi esperti di presenza cinese in Africa – e dal Global Development Policy Center della Boston University, hanno contribuito a rivelare ‘scarse prove’ di un modello che indica come le banche cinesi, agendo per conto del governo centrale, stiano deliberatamente finanziando progetti in perdita con il proposito di garantire vantaggi strategici alla RPC, smontando in qualche modo i postulati della ‘diplomazia del debito’ praticata da Pechino. In altre parole, i problemi di debito di buona parte dei Paesi inseriti nella traiettoria della BRI non sono necessariamente ‘targati’ BRI e la Cina non appare come il maggior creditore. Nella fattispecie, è emerso che in Africa, su 17 Paesi oggetto di analisi, classificati dall’FMI come vulnerabili, solo in tre casi – Gibuti, Repubblica del Congo e Zambia – i prestiti cinesi rappresentano la metà o più del debito pubblico. Analogamente, un’indagine portata avanti da due economisti ha messo in evidenza come il debito dello Sri Lanka – spesso citato come l’emblema della nuova strategia di dominio di Pechino – sia antecedente al caso di Hambatota, e come in generale i creditori cinesi detengano ‘solo’ il 10% del totale del debito estero accumulato dal Paese.

 

Immagine: Containers nel porto commerciale di Hong Kong (24 novembre 2012). Crediti: nui7711 / Shutterstock.com

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La Cina in America Latina

Quello tra Repubblica Popolare Cinese (RPC) e America Latina è un rapporto relativamente recente. Per lungo tempo i governanti comunisti hanno, infatti, manifestato una certa riluttanza a entrare nel continente latinoamericano, considerato come una sorta di ‘cortile di casa’ (houyuan) degli Stati Uniti d’America e, eccezion fatta per Cuba – il primo Paese ad aver riconosciuto Pechino nel 1959, ma con cui i rapporti non sono mai stati particolarmente cordiali – la Cina è rimasta assente dalla regione durante tutti gli anni caldi della guerra fredda. Questo stato di cose iniziò a cambiare nel corso degli anni Ottanta, complice l’avvio della nuova politica di ‘riforme e apertura’ di Deng Xiaoping, e le relazioni conobbero una sorta di ‘epoca d’oro’ a partire dagli anni Duemila.

Piazza Tienanmen rappresenta uno spartiacque importante in tal senso. A differenza che in Occidente, e analogamente a quanto accadde in altri contesti (in buona parte dei Paesi asiatici e in Africa), la reazione rispetto ai fatti del 4 giugno fu assai contenuta: nessuna condanna di principio, nessuna critica, nel totale rispetto del principio della ‘non interferenza’, caro a Pechino, nessuna sanzione. E la risposta cinese non si fece attendere. Il primo viaggio di Yang Shangkun (presidente della Repubblica Popolare) dopo i fatti di Tienanmen, nel maggio del 1989, ebbe come destinazione proprio l’America Latina. Si trattava in assoluto della prima visita ufficiale di un presidente cinese in Sud America, ragion per cui venne acclamata dai media, sia cinesi sia latinoamericani, come l’‘inizio di un nuovo capitolo dell’amicizia latinoamericana’ e un’‘importante pietra miliare nella storia delle relazioni amichevoli cinesi-latinoamericane’. Sul piano economico, l’America Latina è diventata un’area di interesse per Pechino soprattutto all’indomani dell’adesione cinese all’Organizzazione mondiale del commercio, ed è diventata una componente fondamentale della strategia cinese di diversificazione dei propri fornitori di materie prime e dei propri mercati. I Paesi latinoamericani sono, infatti, ricchi di risorse naturali e si affermano ben presto come fornitori chiave di prodotti agricoli e minerali per le esigenze manifatturiere e industriali della RPC.

Il rapporto tra RPC e America Latina è contrassegnato, per certi versi, da dinamiche analoghe a quelle che caratterizzano i rapporti tra Cina e Africa – natura asimmetrica, valenza economico-commerciale e politico-diplomatico-strategica – che contribuiscono ad alimentare percezioni e sentimenti contrastanti (la Cina è percepita al contempo sia come un predatore che come portatore di opportunità). Tali sentimenti contrastanti, che per l’appunto ricordano molto da vicino l’esperienza cinese in Africa, non si riferiscono tanto alla presenza della Cina in sé, ininfluente se paragonata ad altri contesti (Paesi del Sud-Est asiatico e Occidente in generale, dove Pechino concentra la stragrande maggioranza dei suoi affari economici), quanto piuttosto al ritmo impressionante di crescita che hanno conosciuto i rapporti commerciali, economici e politici nell’arco di pochi lustri. L’interscambio commerciale è passato da 12 miliardi di dollari nel 2000 a oltre 300 miliardi di dollari nel 2018 e la RPC è diventata il terzo principale investitore nel continente. Il valore dei suoi prestiti, destinati principalmente a progetti energetici e infrastrutturali, ha superato i finanziamenti della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. Così facendo, la Cina è diventata il principale partner economico-commerciale di molti Paesi latinoamericani (Brasile, Cile, Perù, Uruguay) e il secondo in assoluto dell’intero continente, dietro gli Stati Uniti. I sentimenti contrastanti si riferiscono anche alle modalità con cui si sono esplicitate finora le relazioni commerciali – lo schema tradizionale del commercio che lega le due parti è infatti del tipo centro-periferia, che vede l’America Latina rifornire la Cina di materie prime, a basso valore aggiunto, e la RPC esportare nella regione latinoamericana principalmente beni manufatti – che mettono al centro gli interessi specifici di Pechino.

Un cenno a parte meritano i rapporti tra RPC e Paesi centroamericani. Pechino riserva, infatti, a questi ultimi un’attenzione speciale, del tutto sproporzionata rispetto al loro peso politico-diplomatico, ancorché economico, per il fatto di essere tra i pochi Paesi che ancora riconoscono la Repubblica di Cina, ossia Taiwan. Dei quindici Paesi finora rimasti a non riconoscere diplomaticamente Pechino, nove sono Paesi latinoamericani, ossia Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadines, oltre al Paraguay. I restanti sei si trovano in Europa (Santa Sede), in Africa (Swaziland/elSwatini) e in Oceania (Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu).

L’importanza attribuita dal governo comunista cinese a questa parte del mondo è emersa inequivocabilmente all’indomani della pubblicazione, nel 2008, di un Libro politico specificamente dedicato ad America Latina e Paesi caraibici (Zhongguo dui Lamei he Jialabi zhengce wenjian), all’epoca il terzo del suo genere, dopo quello dedicato all’Unione Europea nel 2003 e quello destinato all’Africa nel 2006. Analogamente ai due Libri precedenti (e ai due successivi dedicati ai Paesi arabi e all’Artico rispettivamente nel 2016 e nel 2018), esso si soffermava sulla convergenza dei punti di vista tra le due parti e sull’interesse condiviso per un mondo più equo e multipolare. Al contempo, Pechino non mancava di dettare le sue condizioni per un approfondimento ulteriore del rapporto – cruciale in primis per i Paesi latinoamericani severamente colpiti dalla crisi economica – con riferimento, soprattutto, al rispetto della politica di ‘una sola Cina’ (‘yige Zhongguo’ yuanze). Come in altri casi, Pechino ha ritenuto opportuno rinnovare formalmente il proprio interesse per l’area, attraverso l’aggiornamento del Libro, uscito in una seconda versione nel 2016. Quest’ultima presenta sia elementi di continuità sia elementi di novità rispetto alla versione originaria.

Vale la pena soffermarsi sui secondi, in particolare sull’importanza attribuita alla piattaforma ufficiale istituita nel 2014 quale quadro istituzionale di cooperazione di alto livello tra le due parti, il cosiddetto Forum Cina-CELAC, (Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi), analogo al FOCAC (Forum per la cooperazione sino-africana) per l’Africa. Un ulteriore elemento di novità è costituito dal riferimento al ‘fattore USA’, dato il legame storico con la regione. Per quanto le relazioni economiche tra Stati Uniti e America Latina siano state colpite dalla crisi finanziaria globale del 2008 – laddove la strategia cinese si è rivelata fondamentale per contribuire a rilanciare l’economia regionale, ragion per cui i Paesi dell’area hanno iniziato a considerare Pechino come un’alternativa rispetto a Washington – l’influenza statunitense nell’area è un dato di fatto e non può essere negata.

Un ultimo punto che merita un cenno riguarda la partecipazione del continente latinoamericano all’ambizioso progetto di rinascita dell’antica Via della Seta (BRI, Belt and Road Initiative), nei confronti del quale numerosi leader hanno manifestato interesse fin dall’indomani del suo lancio da parte di Xi Jinping. La RPC ha formalmente invitato l’America Latina a prendere parte all’Iniziativa in occasione dell’incontro svoltosi, nell’ambito del sopracitato Forum Cina-CELAC, a Santiago del Cile nel gennaio del 2018. Ora, per quanto Pechino si astenga dall’includere formalmente la regione latinoamericana sulle mappe della BRI, in continuo aggiornamento, numerosi Paesi (18 in tutto) possono essere annoverati tra i partecipanti al progetto, avendo formalmente dichiarato la loro adesione attraverso la firma di memorandum di intesa. Panama è stato il primo, subito dopo la rottura dei legami diplomatici con Taipei nel 2017. Si tratta per la maggior parte di Paesi piccoli dell’America Centrale e dei Caraibi (tra questi Antigua e Barbuda, Barbados, El Salvador, la Repubblica Dominicana, Giamaica, Guyana, Trinidad e Tobago), o membri cosiddetti della Nuova Sinistra, ossia Venezuela, Bolivia ed Ecuador.

 

Immagine: Barrio Chino a L’Avana, Cuba (18 marzo 2018). Crediti: Nadezda Murmakova / Shutterstock.com

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La conversione della Cina al multilateralismo

Il tema del multilateralismo (duobian zhuyi) ha fatto il suo ingresso nel discorso politico cinese nel 1986, con il rapporto sul lavoro del governo presentato da Zhao Ziyang in occasione del lancio del VII piano quinquennale (1986-90), quando la diplomazia multilaterale venne definita, per la prima volta, parte integrante della politica estera indipendente della RPC. Nella pratica, furono le modificazioni intervenute nei calcoli strategici dei governanti cinesi all’indomani dell’isolamento e della condanna internazionali seguiti ai fatti del 4 giugno 1989 a contribuire a far posto ad una partecipazione progressiva più estesa e diversificata a diversi consessi multilaterali, determinando una sorta di «conversione» cinese al multilateralismo – tradizionalmente considerato un veicolo potenziale di pressioni esterne.

La svolta della Cina verso il multilateralismo può essere considerata, in effetti, come uno dei pochi veri cambiamenti radicali intervenuti nella politica estera di Pechino post-Tienanmen e post-guerra fredda e costituisce un elemento centrale nell’ambito della cosiddetta Grand strategy cinese. Si tratta di un «percorso alternativo», distintamente cinese, al potere globale, da intendersi quale strumento per «gestire le relazioni con la superpotenza (gli Stati Uniti) e lavorare per costruire le regole di un ‘nuovo ordine internazionale’», a seguito della presa di coscienza che «le limitazioni derivanti dalla partecipazione a consessi multilaterali fossero preferibili all’isolamento e all’accerchiamento e potessero in qualche modo contribuire a promuovere la sua reputazione come potenza responsabile».

Ciò nonostante, la Cina popolare ha continuato a mostrare a lungo una chiara preferenza per le istituzioni di carattere economico, rispetto a quelle legate alla sicurezza, e a prediligere in linea di massima quelle che presentano un basso livello di istituzionalizzazione, al fine di poter continuare a impostare i propri rapporti con gli altri Stati per il tramite di relazioni bilaterali, nell’ambito delle quali gode di vantaggi indiscutibili che le derivano dalla sua posizione privilegiata, sia dal punto di vista del potere economico/finanziario sia di quello politico/diplomatico/militare. Il risultato è che la forma di cooperazione prevalente in Asia (soprattutto nel campo della sicurezza), ma non solo, si articola in una sovrabbondanza di accordi bilaterali, spesso nella forma di partnership strategiche (huoban zhanlüe).

Secondo alcuni studiosi, il boom di partnership strategiche siglate a partire dagli anni Novanta riflette esattamente l’adattamento di Pechino al mondo che cambia e un tentativo di ridisegnare un ordine globale più favorevole al Paese. Si tratta, in effetti, di uno strumento diplomatico con il quale la RPC intendeva regolamentare i rapporti con le grandi potenze, in un momento in cui un nuovo ordine mondiale stava prendendo forma – la prima venne siglata con il Brasile, nel 1993; la seconda, con la Russia, nel 1996; la terza con l’India nel 1998. In particolare, la prima, rimasta dormiente per oltre un decennio, rappresentava il tentativo di Pechino di restaurare la propria immagine, dopo i fatti di piazza Tienanmen. Ciò detto, come amano rimarcare i governanti cinesi, le partnership bilaterali e multilaterali costituite da Pechino sono un riflesso dell’incipiente transizione verso un sistema multipolare e uno strumento che contribuisce ad accelerarlo.

La svolta cinese al multilateralismo ha costituito un processo lungo e graduale, cadenzato da fasi ben definite che possono essere riassunte nel modo seguente: una fase di osservazione, evidente nell’interazione della Cina all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU, per almeno un decennio successivo al suo ingresso nell’organizzazione; una fase di coinvolgimento, contrassegnata da una graduale maggiore partecipazione della Cina alle operazioni di mantenimento della pace dell’ONU, laddove fino alla fine degli anni Ottanta aveva adottato un atteggiamento cauto nei confronti di tale tipo di operazioni, viste come pretesti per giustificare l’intervento delle due superpotenze negli affari interni dei piccoli Stati; una fase di aggiramento, che ha visto Pechino operare al di fuori dell’architettura esistente nel tentativo di costruire nuovi regimi con obiettivi e regole propri, maggiormente in linea con i suoi interessi, come emerge dall’«investimento» della RPC sull’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (SCO) – una delle uniche organizzazioni internazionali a guida (anche) cinese; infine, una fase di modellamento, evidente nell’operato della Cina in seno al G20, al fine di «rimediare alla crescita mondiale ancora troppo lenta e disuguale», prestando una maggiore attenzione ai bisogni delle economie emergenti; nell’allineamento con i BRIC/BRICS; ma, soprattutto, nella creazione della Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali (AIIB, Asian Infrastructure Investment Bank), di supporto al mastodontico progetto di Xi Jinping lanciato nel 2013 – la cosiddetta Belt and Road Initiative (BRI) – con l’obiettivo di far rivivere l’antica via della seta.

Quest’ultima fase, ancora operativa, vede Pechino assumere sempre più una posizione di guida – con un abbandono definitivo della politica denghista «di basso profilo», che ha guidato le scelte strategiche del governo comunista cinese per almeno due decenni – al fine di dare il proprio contributo per lo sviluppo globale e per l’ordine internazionale, con specifico riferimento al sostegno dell’architettura multilaterale, all’opposizione al protezionismo nelle sue varie forme, alla direzione della globalizzazione economica, nel senso di una maggiore inclusività, di fronte all’arretramento statunitense perpetrato dall’amministrazione di Donald Trump.

 

Immagine: Xi Jinping (5 settembre 2016). Crediti: Gil Corzo / Shutterstock.com


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Hong Kong-Cina, le responsabilità di Londra e il ruolo di Pechino

Nonostante la sospensione a “tempo indefinito” da parte del governo di Hong Kong del contestato emendamento sull’estradizione che aveva innescato le proteste lo scorso mese di giugno, gli animi dei manifestanti non si placano e le proteste continuano. L’obiettivo è il ritiro totale della riforma dell’estradizione che consentirebbe a Pechino di perseguitare i dissidenti nell’ex colonia britannica e, in generale, di allargare ulteriormente la sua influenza nella Regione amministrativa speciale (RAS) di Hong Kong. Molti ritengono, infatti, che il governo comunista stia lentamente erodendo i diritti “speciali” garantiti agli abitanti di Hong Kong per un periodo di cinquant’anni (a partire dall’handover) dall’accordo siglato dai governi di Londra e Pechino nel dicembre 1984 (Joint Declaration of the Government of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland and the Government of the People’s Republic of China on the Question of Hong Kong) sulla base della formula coniata da Deng Xiaoping “un Paese due sistemi” (yiguo liangzhi).

Non è certo la prima volta che gli abitanti di Hong Kong alzano la testa per protestare contro quelle che ritengono violazioni dei loro diritti e continue ingerenze del governo di Pechino. Quella delle ultime settimane, però, è innegabilmente la più grande manifestazione politica mai organizzata nell’ex colonia britannica dal 1997, che ha visto momenti di grande tensione, come quando il Parlamento della regione è stato preso d’assedio dai manifestanti, il 1° luglio. L’assedio è durato diverse ore e stando a quanto riportato dai media locali, dopo l’irruzione i manifestanti hanno istallato, significativamente, una bandiera dell’era coloniale britannica.

Anche nel 2014 Hong Kong era stata scossa da proteste guidate da gruppi studenteschi divisi in varie fazioni che paralizzarono l’ex colonia britannica per quasi tre mesi – il cosiddetto Occupy Central o Rivolta degli ombrelli (yunsan yundong). In quel caso, le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo (il Parlamento cinese) di riformare il sistema elettorale di Hong Kong, inserendo una misura di “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito comunista. Un ulteriore motivo della protesta era da rinvenirsi nella pubblicazione da parte del governo di Pechino di un Libro bianco (baipishu) intitolato La pratica del principio «un Paese due sistemi» nella Regione amministrativa speciale di Hong Kongyiguo liangzhi» zai Xianggang tebie xingzhengqu de shixian baipishu), nel quale si affermava che l’autonomia di Hong Kong dipendeva dal governo centrale, il quale poteva decidere di modificare la Basic Law (la Legge fondamentale) entrata in vigore nel 1990, come previsto dall’accordo del 1984 in qualsiasi momento lo reputasse necessario. Ad essere messo in discussione era soprattutto quell’“elevato grado di autonomia” (gaodu zizhi) concesso al territorio con la Joint Declaration.

Se è vero, come hanno sostenuto alcuni studiosi, che i semi dell’attuale crisi di Hong Kong furono piantati a Londra proprio una generazione fa, vale la pena soffermarsi brevemente sull’accordo concluso nel 1984 e sulle responsabilità dei due governi. Quest’ultimo (composto da otto articoli, tre allegati e due memorandum) prevedeva, da parte britannica, la restituzione di tutto il territorio di Hong Kong alla data del 1° luglio 1997 – data di scadenza prevista per una parte di Hong Kong ceduta in affitto nel 1898, i cosiddetti New territories, che costituiva oltre il 90% dell’intero territorio e dal quale dipendeva tutto il resto, ossia l’isola omonima, la penisola di Kowloon e l’isola di Stonecutters, cedute, al contrario, in perpetuo al governo di Londra dai trattati “ineguali” che avevano posto fine alle due Guerre dell’oppio. Da parte cinese si stabiliva, invece, che Hong Kong sarebbe stata costituita in una RAS della Repubblica Popolare Cinese, con denominazione «Hong Kong, China», in conformità con quanto stabilito dall’art. 31 della Costituzione. In altre parole, si acconsentiva che l’ex colonia conservasse il suo sistema capitalistico e liberale per un periodo di cinquant’anni, sulla base del principio “un Paese, due sistemi”, e in base ai dettami contenuti nella Legge fondamentale (cosiddetta Basic Law), che sarebbe stata emanata come una sorta di legge costituzionale della nuova RAS, da parte del Parlamento di Pechino. In particolare il comma 2 dell’art. 3 stabiliva che la RAS di Hong Kong avrebbe goduto di un “elevato grado di autonomia” sotto l’autorità del governo centrale, eccezion fatta per alcuni capitoli relativi alla politica estera e alla difesa, mentre all’art. 4 i due governi dichiaravano che durante il periodo di transizione il governo di Londra avrebbe continuato ad essere responsabile dell’amministrazione di Hong Kong con l’obiettivo di “mantenere e preservare” la sua prosperità economica e la sua stabilità sociale, laddove il governo di Pechino avesse dato il suo contributo in tal senso.

Vale la pena sottolineare il ruolo del tutto marginale giocato dal governo e dalla popolazione di Hong Kong nell’intera vicenda, nel senso che, il governo britannico e quello cinese avevano negoziato l’accordo bilateralmente, negando deliberatamente il diritto degli abitanti della colonia di prendere parte al tavolo delle trattative, i quali si videro pertanto costretti a subire l’accordo. Ma questo non dovrebbe stupire, visto e considerato che il governo britannico non era mai stato particolarmente illuminato e fu sempre orientato alla massimizzazione dei profitti della madrepatria, piuttosto che al miglioramento della situazione degli abitanti della colonia. Durante l’intera epoca coloniale, Hong Kong non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo nelle scelte relative al proprio territorio, né aveva mai goduto di una qualche autonomia, posto che ufficialmente tutto il potere era nelle mani dei governatori designati dai sovrani britannici, che agivano in loro nome. Fino agli anni Novanta del secolo scorso l’amministrazione della colonia era, in effetti, regolata da due testi legislativi redatti dal Parlamento inglese nel 1888 – le Letters Patent e le Royal Instructions – che attribuivano ampi poteri al governatore (chief executive), personalmente nominato dalla Corona, con il compito specifico di rappresentare il governo britannico e di realizzarne le decisioni. Fu solo l’ultimo governo di Chris Patten (1992-97) a iniettare quelle poison pills tanto temute da Deng Xiaoping, promuovendo una sostanziale parziale democratizzazione, quando oramai il passaggio di Hong Kong alla Cina era stato già deciso – una mossa che lo studioso Peter Harris ha recentemente definito, in modo molto efficace, come una «democratic timing bomb».

In un’interessante intervista concessa al The Guardian, alla vigilia dei festeggiamenti per il ventesimo anniversario dell’handover, Chris Patten ha espresso un giudizio molto positivo sull’operato dei giovani attivisti coraggiosi che nel 2014 hanno combattuto per far sentire la propria voce mentre la Cina violava le sue promesse sulle libertà, e dunque il principio denghista alla base della Joint Declaration; al contempo si è soffermato sulle responsabilità del governo di Londra, il quale nonostante l’obbligo morale nei confronti dei suoi ex sudditi, nel corso degli anni ha preferito spesso e volentieri chiudere un occhio davanti alle continue violazioni delle libertà di Hong Kong e continuare a collaborare con Pechino, al fine di salvaguardare gli interessi economici del Paese.

 

Immagine: Migliaia di manifestanti marciano contro il controverso emendamento sull’estradizione, Hong Kong  (9 giugno 2019). Crediti: John YE / Shutterstock.com

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La Cina della lotta all’inquinamento

Lo scorso 5 marzo si è aperta la seconda sessione della XIII Assemblea popolare nazionale, l’organo supremo di potere della Repubblica popolare cinese (RPC), in occasione della quale il premier cinese Li Keqiang ha presentato il consueto rapporto di lavoro del governo dell’anno precedente, passando in rassegna i risultati e i successi conseguiti in vari ambiti e le sfide da affrontare per l’anno in corso, in cui ricorre il settantesimo anniversario della RPC e si avvicina il primo dei due obiettivi centenari (liangge yibai nian’ fendou mubiao) che mira a costruire una società moderatamente prospera entro il 2021. Tra queste rientrano le cosiddette “tre grandi battaglie” (san da gongjianzhan), ossia la lotta contro lo sradicamento della povertà, la gestione del rischio finanziario e la lotta contro l’inquinamento, continuando a promuovere uno sviluppo ecologico sostenibile, ritenute una “missione sacra” per il Partito.

Come si è già avuto modo di analizzare in un precedente articolo, la questione ambientale rappresenta da tempo uno dei capitoli principali dell’agenda politica di Pechino, per via delle sue importanti ripercussioni sia interne sia esterne. Da tempo il governo comunista si è impegnato nell’adozione di politiche volte a bilanciare protezione ambientale, crescita economica e stabilità sociale, come emerge dai piani quinquennali approvati fin dai primi anni Ottanta, e di leggi che aumentano le responsabilità dei funzionari pubblici e inaspriscono le pene per i trasgressori. Come diretta conseguenza di tali misure, negli ultimi anni la Cina ha conseguito progressi importanti negli ambiti dell’ecologia e della tutela ambientale. A dirlo non sono tanto le statistiche cinesi (non sempre attendibili), quanto piuttosto le agenzie e le organizzazioni internazionali. Secondo un rapporto rilasciato dalla NASA nel febbraio scorso, il mondo è più verde di quanto non fosse due decenni fa, e questo grazie anche soprattutto a India e Cina. In particolare, la RPC si piazza al primo posto al mondo, con oltre il 25% della quota globale di alberi piantati. In effetti, negli ultimi decenni, Pechino ha promosso nel suo territorio il rimboschimento su vasta scala e il ripristino ecologico, attuando vari progetti ad hoc. Anche il problema della desertificazione e del degrado di suolo ha conosciuto un evidente attenuamento nel Paese, con una riduzione della superficie desertica superiore a 12.000 metri quadrati negli ultimi cinque anni. Uno dei maggiori successi nell’ambito del controllo della desertificazione riguarda il deserto del Kubuqi, nella Mongolia Interna, a lungo conosciuto come il “mare della morte” (si wang zhi hai). A seguito di una serie di interventi mirati di inverdimento, il Kubuqi è diventato un’oasi ed è stato inserito dalle Nazioni Unite nella lista delle “Zone pilota mondiali di economia ecologica dei deserti”, diventando un “modello” da imitare, nell’ambito del controllo della desertificazione nei Paesi che si trovano lungo il braccio terrestre della Nuova Via della Seta.

Risultati positivi sono stati ottenuti anche nella lotta contro l’inquinamento atmosferico. Secondo quanto illustrato dal ministro cinese dell’Ecologia e della Tutela ambientale, Li Ganjie, durante una conferenza stampa organizzata negli stessi giorni in cui era riunito il Parlamento per la sessione annuale, nel 2018 il numero delle giornate di bel tempo in 338 città principali è salito al 79,3%, con un aumento del 1,3% rispetto all’anno precedente; al contempo, la densità media dei valori di PM2,5 nelle medesime città ha visto una riduzione del 9,3%.

Su ammissione dello stesso ministro, però, la parte più difficile della sfida in questo ambito deve essere ancora affrontata, e la battaglia sarà dura da vincere: uno degli ostacoli principali risiede nella (annosa) tendenza, da parte di alcuni funzionari, a falsificare i dati.

Ad avallare i buoni risultati in questo ambito è intervenuto il direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), Joyce Msuya, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua, lo scorso 5 marzo. Msuya, che in passato è stata coordinatrice regionale per l’Asia orientale e il Pacifico della Banca mondiale in Cina, ha salutato il successo di Pechino nel passaggio alle fonti di energia rinnovabili e nella lotta all’inquinamento atmosferico e idrico, sostenendo come il perseguimento dello sviluppo ecologico da parte della Cina possa rappresentare una fonte di ispirazione per altri Paesi in via di sviluppo.

Ma la Cina non si ferma, nella consapevolezza che c’è ancora molto da fare. Nella terza parte del citato rapporto di lavoro del governo, dedicata ai “Compiti per il 2019”, si afferma che la Cina continuerà a promuovere la prevenzione e il risanamento dell’inquinamento, consolidando e migliorando i risultati della lotta per la salvaguardia dell’aria, nell’ambito del cosiddetto “Piano d’azione triennale della guerra per la difesa del cielo blu, 2018-2020” (Da ying lantian baowei zhan san nian xingdong jihua 2018-2020), varato nel luglio 2018. Per prevenire e risanare l’inquinamento delle acque e del suolo, la Cina ha in mente di sviluppare un’industria ecocompatibile su vasta scala che consenta ai cittadini di godere di un ambiente bello e vivibile.

Pechino sembrerebbe, dunque, fare sul serio, come rivela anche la pubblicazione da parte del Research Program on Sustainability Policy and Management presso l’Earth Institute della Columbia University e il China Centre for International Economic Exchanges del secondo rapporto annuale relativo al “China Sustainable Development Indicator System” – un quadro di indicatori di sostenibilità e una classificazione annuale delle performance di sostenibilità delle città e province cinesi. Il rapporto intitolato Rapporto di valutazione sullo sviluppo sostenibile in Cina (Zhongguo ke chisu fazhan pingjia baogao), è stato pubblicato dalla Social Sciences Academic Press of China, sotto forma di “libro blu” (lanpishu) lo scorso mese di novembre, a seguito di una severa procedura di selezione dei contenuti meritevoli di pubblicazione nell’ambito del XIII piano quinquennale (2016-2020). Vale la pena sottolineare che in Cina i “libri blu” sono collane accademiche molto prestigiose, che forniscono basi scientifiche di guida per i processi decisionali, a conferma della rilevanza dello sviluppo sostenibile nell’attuale fase di sviluppo del Paese.

 

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La visita di Xi Jinping e le relazioni UE-Cina

La visita in Italia di Xi Jinping, la prima visita di Stato del presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel nostro Paese, ma di fatto la seconda se si considera lo ‘scalo tecnico’ effettuato in Sardegna nel novembre 2016 ‒ in viaggio verso il continente latino-americano per prendere parte al vertice dell’APEC di Lima ‒ e la seconda in assoluto in Europa, dopo il ‘tour’ del 2014, tra L’Aja, Parigi, Berlino e Bruxelles, rappresenta un’occasione per fare il punto della situazione sui rapporti tra Cina e Unione Europea (UE).

Per quanto formalmente caratterizzati da “una partnership strategica complessiva”, con una “relazione che si evolve stabilmente negli interessi delle due parti” – nel 2018 la RPC è stata il secondo partner commerciale dell’UE per il quattordicesimo anno consecutivo, e l’UE il principale partner commerciale di Pechino per il tredicesimo anno consecutivo – i rapporti tra RPC e UE sono di fatto contrassegnati da diverse questioni critiche che contribuiscono a rendere altalenante il rapporto bilaterale, inibendo di fatto la costituzione del tanto auspicato asse sino-europeo (in funzione anti-USA) e rallentando la creazione di un nuovo ordine mondiale multipolare. Tali questioni, a partire dall’embargo sulle armi in vigore dal 1989, dal mancato riconoscimento a Pechino dello status di economia di mercato, per arrivare alla percepita aggressività del progetto strategico di rinascita dell’antica Via della Seta, con riferimento soprattutto ai Paesi dell’Europa centrale e orientale, rimandano tutte al dilemma principale dell’UE, ossia alla sua incapacità di parlare con una ‘voce sola’ su molte delle questioni che attengono alla politica estera, e alla perdurante tendenza a muoversi secondo l’approccio del ‘minimo comune denominatore’.

Alcuni cablogrammi resi pubblici qualche anno fa da WikiLeaks hanno messo in evidenza, per esempio, le differenti posizioni degli Stati membri dell’Unione Europea in merito alla possibile revoca dell’embargo, più volte richiesta da Pechino, con il gruppo degli Stati più grandi ed economicamente sviluppati che intrattengono forti rapporti economici con la Cina, vale a dire Germania, Francia, Italia e Spagna favorevoli alla sua revoca, e il gruppo dei Paesi del Nord contrari. Non meno rilevante è la tipica tendenza delle due parti a gestire le divergenze che le oppongono, anziché coltivare le convergenze in grado di avvicinarle. Come ha suggerito lo stesso presidente cinese, nel discorso pronunciato al Collegio d’Europa di Bruges, il 1° aprile 2014, in occasione della sua prima visita nel vecchio continente, «è sul piano della civiltà che l’Unione Europea e la Cina hanno vere radici in comune» e su quelle bisogna lavorare, al di là delle inevitabili differenze. Non a caso, alla fine del suo discorso, Xi Jinping aveva ripreso, assai abilmente, un concetto molto caro agli europei, ossia il bisogno di ‘essere uniti nella diversità’, riportandolo all’antica massima confuciana dell’‘armonia senza uniformità’ (he er bu tong), che differisce sostanzialmente dall’idea di uniformità ideologica a lungo sponsorizzata dall’Occidente.

Ciò detto, il vivace dibattito che ha animato politici, imprenditori ed esperti nelle ultime settimane, e riportato su giornali, TV e social media in generale, relativamente all’opportunità o meno per il governo italiano di firmare un memorandum di intesa con Pechino nell’ambito della cosiddetta Belt and Road Initiative (yi dao yi lu), meglio nota come Nuova Via della Seta, andando contro i desiderata di Washington, ma, soprattutto, nonostante le critiche di Bruxelles, non è che l’ennesima manifestazione circa l’incapacità dell’Unione Europea di agire come un unico attore politico. È importante sottolineare il fatto che l’Italia non sarebbe il primo Paese europeo a siglare un accordo con Pechino sulla Belt and Road Initiative (BRI) – sebbene sarebbe uno dei primi tra i membri fondatori delle istituzioni europee e tra i primi dell’Alleanza Atlantica. Al contrario, sono già tredici i Paesi dell’Unione Europea che hanno siglato un documento di tal fatta con la Cina, ossia Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Grecia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Si tratta per la maggior parte di Paesi facenti parte del cosiddetto Forum 16 + 1 (CEEC-China), un forum economico e commerciale biennale lanciato da Pechino nel 2012 al fine di intensificare e ampliare la cooperazione con i Paesi dell’Europa centrale e orientale, tra cui undici Stati membri dell’UE (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria) e cinque Paesi balcanici (Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Serbia), investiti da un processo di adeguamento ai requisiti necessari per un futuro ingresso nell’Unione. Tra questi la Bosnia ed Erzegovina è ufficialmente riconosciuta come potenziale candidato, avendo Sarajevo già presentato formale domanda di adesione. Non stupisce pertanto che l’iniziativa in questione sia stata interpretata e criticata da Bruxelles come una sorta di strategia di “divide et impera”, in grado di minare la coesione economica e politica dell’Unione, di esercitare un’influenza negativa sui Paesi membri e sulle scelte strategiche dei membri potenziali, portandoli più vicini alla Cina attraverso una politica di investimenti e più stretti rapporti commerciali. Proprio in quest’area risultano concentrati i principali investimenti cinesi nell’ambito della Nuova via della seta.

Le maggiori critiche di Bruxelles alla BRI sono dirette, oltre che alla sua stretta identificazione con il Partito – in occasione del 19° Congresso del PCC (ottobre 2017) la BRI è stata inserita nello Statuto del PCC, come parte integrante del cosiddetto Xi Jinping pensiero “sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” (Xi Jinping xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi sixiang) – con tutto ciò che ne consegue in termini di potenziali pressioni e interferenze da parte del governo comunista, in considerazione della rilevanza giocata dalle grandi aziende di Stato nell’Iniziativa, al mancato rispetto degli standard internazionali (con riferimento all’affidamento di lavori in assenza di gare d’appalto pubbliche), anche e soprattutto alla creazione di crescenti livelli di dipendenza dei Paesi coinvolti nei confronti di Pechino, per via della loro incapacità a ripagare i debiti contratti per la realizzazione delle infrastrutture.

Secondo un rapporto pubblicato dal think tank americano Center for Global Development, nel marzo 2018, la BRI starebbe producendo delle gravi controindicazioni finanziarie per alcuni Paesi già problematici di per sé, i quali potrebbero avere delle difficoltà a sopportare il loro debito a causa dei finanziamenti elargiti dalla RPC per sviluppare progetti nell’ambito dell’Iniziativa. Tra questi rientrerebbe anche un Paese europeo, parte del gruppo CEEC, ossia il Montenegro.

Alla luce di quanto detto sopra, non stupisce l’attenzione sull’opportunità o meno per l’Italia di siglare un memorandum d’intesa con la Cina sulla BRI, sebbene l’Italia sia uno dei cinquantasette Stati fondatori della Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB), insieme a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, e sia stato uno dei pochi Paesi europei rappresentati al I forum sulla Via della Seta organizzato nella capitale cinese nel maggio 2017.

Per Pechino, l’Europa rappresenta il punto di arrivo di ambedue le rotte e il partner politico principale dell’Iniziativa – la RPC ‒ ha più volte enfatizzato come la BRI sia complementare ai piani preesistenti, europei e cinesi, per lo sviluppo delle connessioni tra Cina e Europa, e non solo. In questo senso, e alla luce dei passi indietro compiuti dall’amministrazione Trump nell’integrazione globale e nei diversi ambiti della cooperazione internazionale, la collaborazione tra Europa e Cina diventa ancora più fondamentale per salvaguardare l’avanzamento della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico ed economico.

 

Immagine: Xi Jinping al vertice del G20 a Hangzhou, Cina (4 settembre 2016). Crediti: plavevski / Shutterstock.com

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La scommessa cinese sull’intelligenza artificiale

Sin dalla fine degli anni Settanta, ossia da quando la Cina di Deng Xiaoping ha avviato la nuova politica di ‘riforma e apertura’ (gaige kaifang) – della quale lo scorso mese di dicembre si è festeggiato il quarantesimo anniversario – il Paese ha conosciuto una trasformazione a trecentosessanta gradi, passando dall’essere una società agricola chiusa e autosufficiente a seconda economia mondiale ‒ la prima in termini di parità di potere d’acquisto (PPA). Si è trattato di un processo lungo trent’anni che, al di là dei suoi effetti positivi, ha determinato non pochi sconquassi in seno alla società cinese, cadenzato da un rincorrersi di obiettivi accompagnati da parole d’ordine. Raggiunto il traguardo, la Cina non si è fermata.

Una delle ultime parole d’ordine in termini di tempo è stata pronunciata lo scorso mese di aprile dal presidente cinese Xi Jinping, in occasione del Bo’ao Forum for Asia (il corrispettivo asiatico del Forum economico mondiale che si riunisce annualmente a Davos), davanti a una platea di imprenditori cinesi e stranieri, sostenendo che la Cina deve fare uno sforzo straordinario per promuovere il passaggio dell’economia da una crescita ad alta velocità ad uno sviluppo di alta qualità nella nuova era. “Cong ‘you mei you’ zhuanxiang ‘hao bu hao’”, letteralmente ‘dall’avere o non avere’ ‘all’essere buono o meno’, che tradotto significa transitare da un’economia della quantità a un’economia di qualità. Dall’espansione quantitativa al miglioramento qualitativo, dunque.

Lo strumento per raggiungere questo obiettivo è già stato identificato da Pechino. È l’iniziativa Made in China 2025 (Zhongguo zhizao 2025) lanciata nel 2015, che si prefigge di trasformare la cosiddetta fabbrica del mondo (shijie gongchang) in una mega industria 4.0, con l’auspicio che in un futuro non lontano l’etichetta Made in China non costituisca più sinonimo di prodotti di imitazione e di beni a basso costo, prodotti in serie, quanto piuttosto emblema di innovazione e prodotti di elevata qualità.

Al contempo sono stati identificati i settori industriali nei quali il Paese vuole diventare competitivo, puntando ad acquisirne la leadership entro pochi decenni: biotecnologie, aerospaziale, trasporti e logistica d’avanguardia, robotica, veicoli elettrici, tecnologia quantistica, eccetera. Tra questi, come sempre, c’è un primus inter pares, sul quale la Cina ha puntato di più e ha già compiuto progressi notevoli. Si tratta della rengong zhineng, ossia l’intelligenza artificiale (AI), ritenuta strategica non solo per rendere la sua economia più innovativa, ma anche per modernizzare l’esercito e, più in generale, per accrescere la propria influenza a livello globale. Tutti ingredienti fondamentali per il raggiungimento del Zhongguo meng, del sogno cinese. L’obiettivo è di raggiungere la supremazia mondiale del settore entro il 2030, passando per l’azzeramento del divario tecnologico con l’Occidente già entro il 2020. Stando a quanto riportato dalla politologa Sophie-Charlotte Fischer, del Centro studi sulla sicurezza del Politecnico di Zurigo, in un articolo intitolato Artificial Intelligence: China’s High-Tech Ambitions, pubblicato nel febbraio del 2018 nella rivista Security Policy, la Cina sarebbe nella giusta traiettoria per il raggiungimento del nuovo traguardo, avendo già superato gli Stati Uniti in quanto a numero di pubblicazioni nel settore e in considerazione del crescente numero di aziende cinesi che stanno investendo in AI e che si sono stabilite nella Silicon Valley, in California, grazie agli incentivi del governo comunista.

Esattamente un anno fa, l’agenzia di stampa nazionale Xinhua riportava la notizia relativa al progetto di costituzione di un gigantesco parco tecnologico (di circa 55 ettari) dedicato allo sviluppo dell’intelligenza artificiale a Pechino da realizzarsi nell’arco di un quinquennio, in grado di ospitare fino a quattrocento aziende specialiste del settore, per un investimento stimato di circa 1,77 miliardi di euro, a conferma dell’importanza strategica attribuita all’AI. In effetti, oggigiorno l’intelligenza artificiale è onnipresente nella vita pubblica cinese. L’emblema è senz’altro costituito dal giornalista virtuale (rengong zhineng jiqiren) che ha fatto il suo debutto in televisione il 9 novembre 2018. Si tratta del primo presentatore virtuale a livello mondiale e lavora per la sopracitata agenzia di stampa nazionale Xinhua. Come dichiarato dalla stessa agenzia in un comunicato, riportato ampiamente dalla stampa internazionale, ivi compresa quella italiana, «Gli anchor con intelligenza artificiale sono entrati ufficialmente nella squadra dei reporter della Xinhua News Agency. Lavoreranno instancabili con gli umani per portarvi informazione tempestiva, autorevole e accurata, in lingua cinese e inglese». In effetti, sono due i prototipi di giornalista virtuale entrati a far parte dell’organico della Xinhua, uno parlante il cinese mandarino e l’altro un inglese fluente, che riproducono rispettivamente volti e voce di due giornalisti in carne ed ossa, molto noti al pubblico cinese, ossia Qiu Hao e Zhang Zhao.

Eppure di intelligenza artificiale si è iniziato a parlare relativamente da poco in Cina. Il termine è entrato per la prima volta in un documento ufficiale solo qualche anno fa. Si tratta del XIII piano quinquennale di sviluppo economico (Shi san wu), varato dal V plenum del XVIII comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC) nell’ottobre 2015, e valido per il quinquennio 2016-2020, a dimostrazione di come lo sviluppo del settore fosse un obiettivo prioritario ai livelli più alti dei vertici del partito e del governo. Ma è solo nel luglio del 2017 che Pechino ha lanciato un piano di sviluppo – New Generation Artificial Intelligence Development Plan, Xin yidai rengong zhineng fazhan xianhua – che ha segnato ufficialmente lo sviluppo del settore dell’AI come priorità nazionale, ricevendo l’imprimatur ufficiale in occasione del XIX Congresso, nel successivo mese di ottobre, quando per la prima volta l’AI veniva specificamente menzionata in un rapporto di lavoro del PCC. Nel suo discorso inaugurale di quasi tre ore e mezzo, Xi Jinping ha toccato tutte le sfide che il Paese si preparava a vincere nei successivi trent’anni – dal mantenimento dell’unità nazionale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla sconfitta definitiva della povertà, alla sicurezza informatica, alla modernizzazione dell’esercito, includendovi anche lo sviluppo della robotica e l’intelligenza artificiale – al fine di garantire alla Cina il passaggio senza traumi da un’economia di produzione a un’economia di servizi. Al contempo, si sono fatti sempre più frequenti i richiami di Xi Jinping affinché la Cina diventi un leader nella scienza e nella tecnologia e il protagonista indiscusso è senza dubbio l’AI.

È evidente come la Cina abbia fatto propria l’affermazione di Vladimir Putin, durante un incontro con gli studenti della città di Jaroslavl´  nel settembre 2017, in apertura dell’anno scolastico, ossia «Chi diventerà leader nell’Intelligenza Artificiale dominerà il mondo». E la Cina di Xi vuole diventarne il leader.

 

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La duplice realtà dell’islam in Cina

Quando si parla di islam in Cina (RPC) il riferimento immediato è agli Uiguri, una popolazione di ceppo turcofono risiedente nel Nord-Ovest del Paese, in particolare nella regione autonoma del Xinjiang – istituita dal governo comunista insieme a quelle del Guangxi, della Mongolia Interna, del Ningxia, e del Tibet, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nel tentativo di trovare una soluzione alle complesse e problematiche relazioni tra l’etnia maggioritaria Han e le principali tra le cinquantacinque minoranze etniche (shaoshu minzu) presenti nel territorio – e agli attentati terroristici di cui essi si sono resi responsabili negli ultimi lustri (colpendo non soltanto espressioni del potere centrale Han ma anche la popolazione civile) e in virtù dei quali sono stati inseriti nella famosa lista nera statunitense dei gruppi terroristici internazionali con l’acronimo ETIM (East Turkestan Islamic Movement); come pure alla campagna di repressione sistematica cui è sottoposta la regione, e di cui i media stranieri riportano gli aspetti più sensazionali, confermati spesso da rapporti di organizzazioni non governative che si occupano della difesa dei diritti umani e delle stesse Nazioni Unite.

Quella del Xinjiang è una regione di rilevanza cruciale per il governo cinese, sia dal punto di vista strategico, per la sua posizione geografica, incastonata tra Cina, Russia, Mongolia e Repubbliche centro-asiatiche, che ne hanno sempre fatto la porta della Cina verso l’Occidente, sia dal punto di vista economico, per la ricchezza di giacimenti di minerali e idrocarburi. Oggigiorno rappresenta una componente chiave del progetto della Nuova Via della Seta, la cosiddetta Belt and Road Initiative (BRI) e, in quanto tale, è parte integrante del sogno cinese (Zhongguo meng) di rinnovamento nazionale del presidente Xi Jinping. Ciò detto, la minoranza turcofona e indipendentista degli Uiguri che la abita rappresenta una minaccia costante, un fattore di destabilizzazione e dunque un problema per la sicurezza nazionale del Paese, le cui radici sono profondamente radicate nella storia cinese del Novecento. Per ben due volte (negli anni Trenta e di nuovo negli anni Quaranta), infatti, la regione, conosciuta anche come Turkestan Orientale, ha proclamato la propria indipendenza rispetto al governo centrale, sfruttando la situazione di divisione e instabilità che contrassegnava il Paese all’indomani del crollo dell’impero plurimillenario (1911) e la nascita della Repubblica di Cina (1912), con la parentesi dei signori della guerra e la guerra civile tra comunisti e nazionalisti, conclusasi soltanto nel 1949, con la vittoria dei primi e la proclamazione della RPC. La Costituzione della regione autonoma – che avrebbe dovuto garantire una certa autonomia nella gestione degli affari locali – non è servita a placare le pulsioni indipendentiste della popolazione, complice il processo di sinizzazione imposto dal governo centrale fin dal principio (con trasferimenti più o meno volontari di quote crescenti di cinesi Han nel territorio) e più in generale la politica repressiva e discriminatoria portata avanti dalla componente Han contro la cultura, la lingua e le usanze religiose locali, oltre al sostegno internazionale alla loro causa, soprattutto negli Stati Uniti d’America, dove risiedono alcuni politici ed esponenti della comunità affaristica uigura attivi nella difesa dei diritti umani e della comunità in generale. La recrudescenza del conflitto ha avuto picchi di violenza nell’ultimo decennio, spesso sfociata in attentati terroristici (alcuni plateali come quello condotto in piazza Tian’anmen nell’ottobre del 2013 e quello messo in atto nella stazione ferroviaria di Kunming nel marzo del 2014) e frequenti scontri di piazza.

Ma l’islam in Cina non è solo quello fondamentalista e radicale degli Uiguri, che pur rappresentano la maggioranza degli abitanti di religione islamica presenti nell’intero Paese (circa 13 su 20 milioni). Esiste, infatti, un’altra minoranza, gli Hui, che a differenza dei primi è costituita da cinesi Han convertiti all’islam, concentrata per lo più all’interno di un’altra regione autonoma, quella del Ningxia, la quale non ha mai rappresentato oggetto di allarme per il governo centrale. A questo punto può essere utile sottolineare come l’islam vanti una significativa presenza nel territorio cinese già a partire dall’VIII secolo a.C., quando mercanti arabi e persiani iniziarono a frequentare e a stanziarsi lungo le coste cinesi, e conobbe una crescita rilevante nei successivi secoli XIII e XIV, in concomitanza con il ricorso, da parte della dinastia mongola degli Yuan, a burocrati, soldati e uomini d’affari islamici, in luogo di cinesi Han. Ciò detto, la regione autonoma del Ningxia è stata a lungo presentata dal governo centrale come un modello di “unità etnica”, una storia di successo della convivenza pacifica tra minoranza Hui e maggioranza Han; a loro volta gli Hui sono sempre stati lasciati liberi di praticare la loro fede, almeno finora.

Con l’arrivo di Xi Jinping al potere, e la stretta autoritaria di cui si è reso protagonista, questa situazione è iniziata infatti a venire meno. All’indomani della pubblicazione del Libro bianco sulle religioni, intitolato Politica cinese riguardo alla pratica e alla salvaguardia della libertà di religione (Zhongguo baozhang zongjiao xinyang baipishu de zhengce he shixian), lo scorso mese di aprile, preceduto dalla chiusura dell’ufficio dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi, con il trasferimento delle competenze al partito e al presidente in prima persona, ma che si inserisce nel più vasto processo di cinesizzazione della religione (zongjiao zhongguohua), avviato da Xi Jinping fin dal 2015, con il proposito di allineare le cinque religioni ufficiali riconosciute dallo Stato – taoismo, buddismo, islam, cristianesimo protestante e cattolicesimo – alla cultura cinese e alla autorità assoluta del partito, le cose hanno iniziato a cambiare anche per gli Hui, i quali hanno preso a manifestare pubblicamente il loro disagio, scendendo in piazza per protestare contro la volontà del governo di Pechino di imporre le proprie regole sull’islam – dal divieto delle chiamate alla preghiera (per motivi di inquinamento acustico), all’eliminazione delle copie del Corano dagli scaffali dei negozi di souvenir, dalla proibizione, per i dipendenti pubblici, di indossare il tradizionale copricapo sul posto di lavoro, ai piani di trasformazione delle moschee esistenti per renderle più simili a templi cinesi. Pur riconoscendo che la Cina costituisce un Paese multi-religioso fin dai tempi antichi, il Libro bianco ribadisce, infatti, che Pechino mantiene il principio secondo il quale «le religioni devono essere cinesi nell’orientamento» e che ad esse si provvede «una guida attiva», affinché «possano adattarsi alla società socialista». Trattasi di uno slogan che il presidente cinese ha ribadito sia in occasione del XIX Congresso del Partito comunista cinese che della riunione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo, nel marzo scorso, ma che costituisce parte integrante dei nuovi Regolamenti sulle attività religiose, entrati in vigore il 1° febbraio 2018, che fanno di tale “guida attiva” lo strumento per il controllo totale dei credenti, di ogni fede, in ogni ambito e a tutti i livelli dell’organigramma statale.

 

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Politica estera cinese, oltre la non interferenza

Fin dagli anni Cinquanta i “cinque principi della coesistenza pacifica” (heping gongchu wuxian yuanze) rappresentano i pilastri della dottrina ufficiale della politica estera cinese. È sulla base di questi principi che Pechino ha instaurato relazioni diplomatiche e avviato scambi commerciali, economici, scientifici, tecnologici, culturali e di cooperazione con la maggioranza dei Paesi del mondo; ha risolto i problemi di confine con buona parte dei vicini e ha mantenuto la pace e la stabilità nelle sue aree circostanti. In anni più recenti, hanno rappresentato la base del modus operandi della Cina popolare (RPC) nei confronti dei Paesi in via di sviluppo (PVS) in Africa, Asia e America Latina – elargizione di aiuti economici e tecnici senza condizionamenti politici (bu fujia zhengzhi tiaojian) – favorendo l’emergere di un “modello Cina” (Zhongguo moshi).

Tra tutti il principio della “non interferenza negli affari interni” (huxiang bu ganshe neizheng) di altri Stati – progettato per riflettere la solidarietà con gli Stati postcoloniali di nuova indipendenza e sottolineare il rispetto per la sovranità territoriale – ha acquisito fin dall’inizio un ruolo di preminenza nella gestione degli affari esteri cinesi, sebbene sia stato regolarmente violato da Pechino negli anni Sessanta e Settanta, quando il governo comunista era impegnato a sostenere i movimenti rivoluzionari nei continenti africano e asiatico; ha poi riassunto una posizione centrale negli anni Ottanta, quando il Paese ha iniziato a perseguire una politica estera indipendente, ma di fatto è stato rigorosamente rispettato solo negli anni Novanta, nel periodo post-Tiananmen, quando il governo di Pechino era votato ad una politica estera di moderazione e di “basso-profilo”, per rimediare ai danni alla statura della nazione, riprendersi dall’isolamento internazionale e proseguire lungo la strada della modernizzazione e della crescita economica.

La politica di “basso profilo” e ancor più il principio della non interferenza hanno iniziato ad essere messi in discussione con l’avvio del nuovo millennio, complici gli interessi globali in espansione della RPC e le conseguenti sfide cui il Paese si è trovato di fronte. Come ha sottolineato lo studioso Wang Yizhou, dell’Università di Pechino, uno dei cambiamenti più drammatici intervenuti nella politica estera cinese nel nuovo millennio risiede nel fatto che la Cina si trova a dover proteggere e tutelare gli interessi economici e la sicurezza dei propri cittadini presenti oramai in ogni angolo del pianeta – ad oggi più di 70 milioni di cinesi, tra rappresentanti ufficiali e cittadini comuni, quali studenti, lavoratori migranti, uomini d’affari e turisti, viaggiano all’estero ogni anno, laddove alla vigilia del lancio della politica riformista di Deng Xiaoping erano poco più di 9 mila. Tra questi spiccano i lavoratori migranti (circa 5 milioni) inviati da Pechino, quasi allo sbaraglio, in contesti geopolitici difficili, contrassegnati da instabilità politiche e sociali, e spesso teatro di guerre civili.

Non stupisce, pertanto, che il governo comunista sia sottoposto a crescenti pressioni, in particolare tra la nutrita comunità dei blogger cinesi, per garantire la loro sicurezza. Si tratta di un compito tutt’altro che semplice, che richiederebbe una presa di posizione vigorosa da parte di Pechino, ma che il governo centrale è riluttante ad adottare, data la sua tradizionale avversione all’ingerenza negli affari interni di altri Stati. Bisogna ammettere, tuttavia, che alcuni episodi in particolare stanno alimentando un acceso dibattito, sia dentro che fuori le stanze del potere, che induca a sviluppare una strategia globale per proteggere i cittadini e le imprese cinesi in tempi di crisi.

Una fonte di grande allarmismo è rappresentata dalle cosiddette “crisi degli ostaggi” (renzhi weiji) che da qualche anno hanno iniziato ad interessare un numero sempre maggiore di lavoratori cinesi all’estero, diventati facile bersaglio per svariati attori criminali che vanno dai terroristi ai gruppi antigovernativi, a bande criminali di svariati Paesi, in maggioranza africani. Per quanto non si tratti di numeri rilevanti, appare comunque come una tendenza preoccupante, che risulta connessa, oltre che al numero crescente di lavoratori inviati in zone calde, dove risultano concentrati i maggiori investimenti cinesi, anche al modus operandi dello stesso governo di Pechino che, generalmente, intrattiene relazioni solo con i partiti al governo, laddove tralascia i legami con le forze dell’opposizione o con i gruppi ribelli e, più in generale, con la società civile. Uno degli ultimi casi ha visto come protagonisti, nel giugno del 2017, due giovani insegnanti presi in ostaggio e poi uccisi dall’Isis nella provincia pachistana del Belucistan, area nella quale è stato avviato il grande progetto infrastrutturale del Corridoio economico Cina-Pakistan, nell’ambito del programma della Nuova Via della Seta.

Di fronte a tali episodi, in effetti, la dottrina della non interferenza ha iniziato ad essere percepita sempre più come un dilemma da parte dei governanti cinesi, data la mancanza di consensi su come bilanciare il rispetto nei confronti di questo dogma tradizionale con i crescenti interessi d’Oltremare e le sempre maggiori responsabilità internazionali che questi determinano. Numerosi studiosi e analisti concordano nel sostenere come la non interferenza stia diventando un peso crescente, che rischia di danneggiare gli interessi nazionali del Paese, dal momento che per soddisfare i propri bisogni economici la Cina si vede costretta a trattare con Paesi fornitori e clienti, a prescindere dalla loro natura o dal loro livello di stabilità. E rappresenta oltremodo un problema per le ambizioni della RPC di porsi come attore globale “responsabile”, che accetta di condividere la gestione della governance internazionale.

Vi sono evidentemente diversi fattori che rendono complesso un ripensamento, e men che meno un abbandono tout court di un principio che costituisce da sempre uno dei pilastri portanti della politica estera cinese. Tra tutti la consapevolezza che la non interferenza abbia costituito lo strumento principale per preservare la sovranità cinese da intromissioni esterne, così come per costruire delle relazioni preziose con i Paesi africani, e in generale con i PVS, stanchi dei condizionamenti imposti dall’Occidente – non a caso è uno dei pilastri maggiormente apprezzati del Beijing consensus; né bisogna trascurare i timori legati ad un possibile rinvigorimento della famigerata teoria della “minaccia cinese” (“Zhongguo weixie” lun), come conseguenza di un maggior attivismo della RPC.

Alla luce di tali considerazioni, alcuni studiosi cinesi hanno sviluppato nuovi paradigmi per descrivere come la Cina potrebbe essere più attiva e svolgere un ruolo costruttivo nelle relazioni internazionali, senza una completa negazione o rinuncia ai suoi tradizionali principi di politica estera. Tra tutti spicca il concetto di “coinvolgimento creativo” (chuangzaoxing jieru) di Wang Yizhou. Il punto di partenza della sua riflessione è la considerazione secondo la quale la Cina sta vivendo le implicazioni tipiche dello status di grande potenza. Insieme alle crescenti responsabilità legate alla maggiore interdipendenza negli affari internazionali e alla presenza fisica nei quattro angoli del mondo, la Cina deve anche rispondere alle aspettative sempre più alte della comunità internazionale. Di conseguenza, non può permettersi di continuare a rimanere un free rider del sistema internazionale; piuttosto è chiamata a cambiare il corso della sua diplomazia e a dare il proprio contributo, dando seguito, laddove necessario, a politiche e strategie che prevedano una sorta di interferenza con “caratteristiche cinesi” – da condursi nel massimo rispetto dei principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e nella totale considerazione delle capacità e degli interessi vitali o fondamentali (hexin liyi) del Paese. La grande operazione di evacuazione di civili cinesi dalla Libia nel 2011, così come l’impegno di Pechino nelle ultime missioni di mantenimento della pace nel continente africano – con il dispiegamento, per la prima volta in assoluto, di truppe da combattimento in Mali e in Sud Sudan – sembrano andare in questo senso.

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Cina e Taiwan, una lunga battaglia diplomatica

Senza la riunificazione con Taiwan il ‘risorgimento della nazione cinese’ (Zhongguo fuxing) non potrà dirsi compiuto e il ‘sogno cinese’ (Zhongguo meng) sarà solo parzialmente realizzato. La piena unificazione con Taiwan – che i comunisti cinesi considerano da sempre come la ventitreesima provincia ‘ribelle’ (fanpan xing) – rientra, infatti, nei compiti da assolvere per completare il rinnovamento della nazione e ritornare alle glorie dell’epoca imperiale.

Sin dall’epoca imperiale, infatti, Taiwan ha avuto un ruolo strategico per il governo centrale e la sua riunificazione con Pechino avrebbe un forte impatto sull’identità nazionale cinese, in quanto contribuirebbe a sanare le ferite inflitte dal Giappone e dalle potenze imperialiste occidentali durante il famigerato ‘secolo di vergogna e umiliazione’ (bainian chiru). Per di più, si tradurrebbe in un grande successo per il Partito comunista cinese, al quale le forze nazionaliste guidate dal Guomindang di Chiang Kai-shek hanno impedito nel 1949 di prendere possesso dell’isola, facendone il proprio rifugio e poi sede della Repubblica di Cina (ROC). Una situazione che l’avvio della guerra fredda e lo scoppio della guerra di Corea (1950-53), in particolare, hanno contribuito ad internazionalizzare, impedendo alla Cina maoista di mettere in pratica i piani di invasione dell’isola e di procedere all’unificazione del Paese. La comunità internazionale ha riconosciuto la ROC quale legale rappresentante di tutta la Cina fino al 1971, quando, anche a seguito del processo di distensione tra Pechino e Washington, la Repubblica popolare cinese (RPC) venne ammessa all’ONU, in sostituzione della ROC, con la Risoluzione 2758 del 25 ottobre.

Ma Pechino non ha mai rinunciato all’idea di riannettere Taiwan per riunificare il territorio cinese e ha fatto del principio di ‘un’unica Cina’ (yige Zhongguo yuanze) la condicio sine qua non per intrattenere rapporti con il resto del mondo. Il principio prevede che tutti i cinesi che vivono da un lato e dall’altro dello Stretto di Formosa appartengono ad un’unica Cina e che ‘Taiwan è parte della Cina’. Si tratta di un principio non negoziabile, che non ammette deroghe, e che anche il governo di Taipei ha sostanzialmente accettato, nell’ambito del cosiddetto Consenso del 1992, salvo poi rimetterlo in discussione di quando in quando. Dal canto suo Pechino non ha esitato ad optare per la linea dura, in sua difesa. È il caso, per esempio, della Legge antisecessione (fan fenlie guojia fa), promulgata dall’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento cinese) nel marzo 2005, che rende automatica una risposta armata di Pechino nel caso in cui Taiwan dovesse dichiarare l’indipendenza, e che si era resa necessaria, agli occhi del governo comunista, per arginare le spinte indipendentiste presenti nell’isola e che l’amministrazione democratico-progressista guidata da Chen Shui-bian (2000-08) aveva contribuito ad incoraggiare.

Ciò detto, uno degli strumenti privilegiati di cui si è servito il governo di Pechino per cercare di risolvere la questione taiwanese, a partire dagli anni Novanta, e ancora più nei decenni successivi, è stato quello di indebolirne la politica estera, ingaggiando una ‘battaglia diplomatica’ combattuta a suon di dollari. In questa battaglia il 2018 è destinato a rimanere un anno cruciale. Il 21 agosto, infatti, è stato siglato il riconoscimento diplomatico tra la RPC e la Repubblica di El Salvador e la contemporanea rottura dei rapporti tra San Salvador e Taipei. Una rottura tanto più importante in quanto rappresenta l’ennesima per Taiwan, nell’arco di poco tempo: la terza nel giro di due mesi – dopo quella del Burkina Faso e della Repubblica Domenicana, nel mese di maggio – e la quinta dell’ultimo anno e mezzo – dopo quella di Panama, nel giugno 2017, e quella di São Tomé e Príncipe, nel dicembre 2016. Sempre nel 2016, a riconoscere il governo di Pechino era stato anche il Gambia, che aveva interrotto i rapporti con Taiwan tre anni prima. E così Taiwan si ritrova oggigiorno ad essere riconosciuta da soli diciassette Stati, tra i più poveri e meno sviluppati, oltre che meno influenti sul piano geopolitico, con l’unica eccezione rappresentata dalla Santa Sede, con la quale peraltro sono in corso trattative (più o meno ufficiali) per la risoluzione della questione legata alla nomina dei vescovi, che potrebbe costituire una base di partenza per un riconoscimento diplomatico, in un futuro non lontano.

Si tratta di una vera e propria débâcle per il Partito democratico progressista al potere e per la presidentessa taiwanese Tsai Ing-wen – che era stata oggetto di critiche feroci da parte di Pechino per aver telefonato al neoeletto presidente Trump per congratularsi della sua vittoria, in assoluto il primo contatto ai massimi livelli fra Washington e Taipei dal 1979, quando Jimmy Carter riconobbe Taiwan come parte di ‘una sola Cina’ – soprattutto se si pensa alla tenuta della cosiddetta ‘tregua diplomatica’ (waijiao xiuzhan), proposta dalla precedente amministrazione nazionalista guidata da Ma Ying-jeou (2008-16) e accettata da Pechino, che aveva visto le due sponde dello Stretto collaborare nel bloccare la corsa al riconoscimento internazionale dei rispettivi governi e incrementare notevolmente gli scambi tra le due parti.

Questo trend, se da un lato denota un evidente riconoscimento della rinnovata centralità acquisita dalla Cina sulla scena internazionale, che offre innegabili opportunità di crescita e sviluppo ai Paesi che riconoscono e accettano il principio di ‘un’unica Cina’, dall’altro rappresenta una deriva pericolosa capace di minare la sopravvivenza politica della ROC.

A detta di alcuni osservatori l’obiettivo di Xi Jinping andrebbe proprio in questo senso, ovvero conquistare uno dopo l’altro gli alleati di Taiwan, portandoli dalla propria parte, privando l’isola di alleati strategici e restringendo sempre più i suoi margini di manovra in campo internazionale. Per il suo raggiungimento la RPC non bada a spese, mettendo in campo tutti gli strumenti tipici della diplomazia economica di cui essa dispone. Per molti Paesi si tratta di una questione di sopravvivenza e nel riconoscimento di Pechino si intravvedono grandi opportunità di crescita e sviluppo. Al contempo sono sempre più chiari gli svantaggi per i Paesi rimasti fedeli a Taipei. Si può citare a titolo d’esempio il caso della piccola Repubblica di Palau, che si è vista tagliare il flusso turistico cinese (e con esso una fonte notevole di reddito), dopo lo stop imposto da Pechino agli operatori turistici, per via dei rapporti del governo palauano con Taiwan; ma può essere interessante ricordare come tra i pochi casi in cui Pechino ha fatto uso del proprio diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU (9 volte dal 1971 ad oggi), due hanno riguardato il blocco di missioni di pace in Paesi che riconoscevano Taiwan (il Guatemala, nel 1997, e la Macedonia, nel 1999).

Certamente la partita per Pechino non è semplice. Sebbene il governo cinese insista nel considerare la questione taiwanese come una faccenda interna, che come tale deve essere risolta – è noto che la formula ‘un Paese due sistemi’ (yiguo liangzhi), applicata per il recupero di Hong Kong e Macao, era stata originariamente pensata per Taiwan – tuttavia non può permettersi di trascurare la sua dimensione internazionale, essendo la ROC un’alleata importante degli Stati Uniti, i quali per quanto non la riconoscano ufficialmente, la sostengono di fatto militarmente. Non a caso uno dei punti di costante frizione nei rapporti tra Pechino e Washington, all’indomani dell’allacciamento di relazioni diplomatiche ufficiali, è relativo alla vendita di armi statunitensi al governo taiwanese. In tal senso Pechino studia bene le proprie mosse, e persiste nell’abile lavorio volto a far capitolare l’isola, continuando nella strategia di indebolimento della sua politica estera e in generale del suo isolamento sulla scena internazionale, anche all’interno di quelle organizzazioni che ne avevano accolto la partecipazione come stato osservatore, o sotto altri nomi. Negli ultimi due anni la Cina è riuscita ad ottenere dall’Organizzazione mondiale della sanità l’esclusione di Taiwan come membro osservatore sia dai principali meeting tecnici sia dall’assemblea generale (un ruolo che deteneva dal 2009); nel luglio scorso, il Comitato olimpico d’Asia, al quale Taiwan partecipa sotto il nome di Taipei Cina, ha annullato i Giochi olimpici giovanili d’Asia, previsti a Taiwan nel 2019. Non meno importante è la recente decisione di alcune compagnie aeree internazionali di cancellare la destinazione ‘Taiwan’, per compiacere alle richieste del governo della Cina popolare, e di quello che rappresenta innegabilmente il principale mercato turistico di tutti i tempi.

 

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Il soft power con “caratteristiche cinesi”

La Cina è sempre stata impermeabile alle influenze straniere e ha sempre avuto la tendenza a trasformare ideologie e concetti provenienti dall’esterno per adattarli alle specificità della realtà cinese. Lo aveva capito il grande gesuita italiano Matteo Ricci nel momento in cui si trovò davanti all’improba missione di convertire i cinesi al cristianesimo e per farlo aveva accettato di accondiscendere in qualche modo alle loro regole, vestendo i panni del letterato confuciano, nella convinzione che l’unica chiave potenziale di successo avrebbe potuto essere quella di conoscere la realtà cinese e di adattare il cristianesimo, al fine di renderlo accettabile per i cinesi conciliandolo con il confucianesimo.

Nei primi decenni del XX secolo, la Cina ha accolto l’ideologia marxista-leninista solo dopo un fondamentale processo di adeguamento alle condizioni specifiche del Paese, noto come “sinizzazione del marxismo”. Non è possibile, infatti, comprendere la Cina contemporanea senza riconoscere le peculiarità del marxismo cinese e considerare l’importanza del processo di cinesizzazione portato avanti dagli intellettuali radicali cinesi fin dal momento in cui le dottrine di Marx e Engels entrarono in contatto con la cultura cinese. In tempi più vicini a noi, la RPC (Repubblica Popolare di Cina), dopo decenni di riforme economiche, ha inaugurato una nuova fase di “socialismo con caratteristiche cinesi”, che rappresenta l’adattamento del socialismo e del marxismo alla mutata realtà socioeconomica cinese, attraverso l’introduzione di elementi dell’economia di mercato.

Il concetto di soft power non sfugge a questa logica. Anche in questo caso, si rende necessario prendere le distanze da quella che è una definizione consolidata, che notoriamente fa capo al politologo statunitense Joseph Nye, e in base alla quale la Cina rischia di essere sistematicamente condannata come Paese privo di particolare attrattiva. Al fine di comprendere le motivazioni che hanno consentito alla RPC di accumulare una grande influenza su scala mondiale nell’arco di pochi lustri, è necessario dunque soffermarsi sull’interpretazione cinese del soft power (ruan shili).

Quando si parla della capacità attrattiva esercitata dalla Cina in specifici contesti, o dell’accresciuta influenza cinese nel mondo, il riferimento è soprattutto ai successi ottenuti da Pechino in ambito economico (e in parte sociale), condensati in quello che è stato definito Beijing consensus o “modello Cina”. A questo punto è importante rilevare come, secondo lo studioso Joshua Kurlantzick, che per primo ha dedicato un saggio sulle modalità attraverso le quali Pechino ha costruito nel tempo la sua influenza globale ricorrendo a strumenti di potere soft, la Cina percepisca il soft power in termini differenti rispetto al concetto originario di Nye, ovvero come «qualsiasi cosa al di là dell’ambito militare e della sicurezza, includente non solo la cultura popolare e la diplomazia pubblica ma anche leve economiche e diplomatiche più coercitive come aiuti allo sviluppo, investimenti e la partecipazione a consessi multilaterali». In altre parole, la Cina considera espressione di potere soft molti degli strumenti che “tradizionalmente” sono ritenuti parte integrante dell’hard power e su queste leve ha puntato fin dagli anni Novanta per contrastare la percezione generalizzata nel mondo occidentale che la considerava come una minaccia e per proporre la visione alternativa di un Paese in ascesa impegnato in uno sviluppo pacifico. Non a caso, l’avvio di una nuova strategia soft della diplomazia cinese, e la diffusione sistematica del concetto di soft power, coincidono con l’adozione di una serie di misure economiche mirate a sostenere i Paesi vicini colpiti dalla crisi finanziaria asiatica del 1997: oltre ad attivarsi prontamente per fornire assistenza economica alle nazioni colpite, il governo cinese si è impegnato con forza nella stabilizzazione della propria moneta, scartando l’ipotesi di una sua possibile svalutazione che avrebbe avvantaggiato le esportazioni del Paese, guadagnandosi la riconoscenza della regione per il suo “comportamento responsabile”.

Dai primi anni Duemila, il soft power è diventato oggetto di ricerca e analisi di pletore di esperti e studiosi delle più rinomate università del Paese, centri di ricerca di primo piano, nonché di branche rilevanti del governo cinese, e successivamente fatto proprio dai massimi vertici dello Stato e del partito, come rivela il rapporto di Hu Jintao al XVII Congresso del PCC (2007), nel quale, per la prima volta il presidente cinese fece esplicitamente cenno al soft power quale strumento per permettere al Paese il raggiungimento dell’obiettivo della costruzione di una società moderatamente prospera. Lo stesso premier Wen Jiabao, in un articolo pubblicato sul Renmin ribao nel febbraio 2007, aveva fatto riferimento all’importanza di promuovere un’immagine più positiva del Paese affidandosi a strumenti di potere soft, mettendo l’accento soprattutto sugli scambi culturali definiti come «un ponte che unisce i cuori e le menti dei popoli di tutti i Paesi». L’attenzione nei confronti di tale concetto emerse proprio a seguito della presa di coscienza da parte di studiosi e politologi che le risorse di hard power, da sole, non sarebbero state sufficienti per raggiungere gli obiettivi strategici regionali e globali di lungo periodo, identificati nell’ascesa della Cina da potenza regionale a potenza globale. A conferma di tale punto di vista portavano l’esempio di molte grandi potenze del passato la cui ascesa non era dipesa soltanto dal potere coercitivo, ma anche dall’attrattiva dei loro valori e delle loro istituzioni e dalla loro influenza culturale, come dimostrato dal documentario dedicato per l’appunto all’Ascesa delle grandi potenze (Daguo jueqi) trasmesso dalla televisione di Stato cinese (CCTV, China Central TeleVision) nel 2006.

In realtà, se ci si riferisce alla definizione che ha dato Nye di soft power, secondo la quale molto risiede nell’attrattiva culturale di un Paese e nei suoi valori, bisogna riconoscere che i cinesi hanno avuto storicamente un sistema ben radicato per promuovere questo tipo di influenza. Lo stesso Impero di mezzo (Zhongguo) costituiva un paradigma culturale e ideologico all’interno del cosiddetto “ordine mondiale cinese” (sinocentrismo, zhongxin zhuyi) che considerava la Cina come il “centro” della sola civiltà conosciuta e obbligava i suoi vicini a riconoscerne la superiorità pagando il tributo all’imperatore. Nel fare ciò, si serviva dello strumento della persuasione al fine di portare i “barbari” (non-cinesi) dentro l’Impero, senza stabilire un diretto controllo sui loro territori, per quanto si debba riconoscere come il sinocentrismo fosse basato anche sulla forza militare.

Il tema della diffusione culturale è in cima all’agenda politica del governo comunista oramai da diversi decenni e costituisce un modo per accompagnare e collegare la forza del successo economico con la promozione dell’immagine di un Paese responsabile che non rappresenta alcuna minaccia, in linea con una chiara indicazione politica già espressa da Hu Jintao e rilanciata nel 2014 da Xi Jinping come esigenza di «produrre un bella narrativa della Cina e spiegare meglio il messaggio della Cina al mondo».

Un importante contributo su questo fronte è stato fornito dalla costituzione di una rete mondiale di Istituti Confucio (Kongzi xueyuan), ovvero centri per l’insegnamento della lingua e della cultura cinese che Pechino auspica possano diventare strumenti effettivi della diplomazia culturale della RPC, analogamente alle esperienze di molti altri Paesi. Stando ai dati forniti dal XII Congresso mondiale degli Istituti Confucio, alla fine del 2017, la rete comprendeva 525 Istituti e 1113 Classi Confucio, distribuiti in ben 146 Stati e regioni di ogni angolo del pianeta. Altrettanto rilevante è stata l’acquisizione, da parte cinese, di importanti partecipazioni delle case di produzione cinematografiche hollywoodiane, nonché dei media tradizionali, anche all’interno degli Stati Uniti, come pure la trasformazione in senso globale della televisione di Stato che, dopo essere stata ribattezzata China global television network, nel dicembre del 2016, ha iniziato a trasmettere 6 canali in lingua straniera, di cui 2 in inglese. Al contempo, Pechino ha investito risorse rilevanti sia nell’attrazione di studenti stranieri in Cina – secondo l’Institute of international education, nel 2017 la RPC figurava al terzo posto nella classifica mondiale delle più popolari mete di studio – sia nella cooperazione scientifica e culturale con il mondo accademico all’estero.

In un arco di tempo relativamente breve, dunque, la RPC ha compiuto alcuni passi importanti nell’esercizio responsabile del suo soft power – sostenendo la crescita economica in contesti specifici con incentivi economici, prestiti e investimenti, aderendo ad istituzioni multilaterali, partecipando a numerose operazioni di pace, accettando l’invito della comunità internazionale ad assumersi delle responsabilità nella gestione della governance mondiale – riuscendo ad accumulare una grande influenza a livello mondiale, sebbene la natura autoritaria del suo potere, la crescente assertività in specifici contesti e la percepita aggressività di alcune delle sue politiche costituiscano dei limiti evidenti alla sua definitiva affermazione.

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La strategia cinese nella penisola coreana

Qualunque sia il futuro che attende la penisola coreana, il 27 aprile 2018 è destinato a rimanere una data storica (per la penisola e per il mondo intero) e il merito sarà stato anche della Cina (RPC), e di Xi Jinping in particolare, quello stesso Xi che solo qualche mese fa, all’indomani dell’esplosione del sesto test nucleare, aveva scelto di optare per la linea dura, nella profonda convinzione che la Corea del Nord, da ‘cuscinetto’ stava trasformandosi in un vero e proprio ‘fardello’ strategico, mettendo sempre più a rischio l’immagine e la reputazione del suo Paese.

Se è vero che le scene dell’incontro tra Kim Jong-un e Moon Jae-in hanno riempito le pagine di tutti giornali e occupato le prime notizie di tutti i telegiornali per diversi giorni, quelle relative all’incontro tra Kim e il presidente cinese Xi Jinping dello scorso marzo (e ripetute poche ore fa) non sono state da meno. A ben vedere, infatti, il consolidarsi del rapporto personale tra Kim e Xi ha avuto lo scopo di preparare il terreno per i futuri incontri (che nel frattempo erano già stati annunciati) tra il leader nordcoreano e il suo omologo sudcoreano, fissato per la fine di aprile, e tra Kim Jong-un e Donald Trump, previsto entro la fine di maggio, lanciando a Washington un messaggio inequivocabile, ovvero che la soluzione della questione coreana passa per Pechino, dopo che gli sviluppi degli ultimi mesi sembravano averla marginalizzata.

Al contempo, le visite di Kim, prima a Pechino e poi a Dalian, hanno contribuito a porre fine ad una ‘anomalia’ che aveva palesato lo scollamento dei rapporti tra i due alleati, già all’indomani dal cambio della guardia in entrambi i Paesi, sebbene tale processo abbia avuto una lunga gestazione, coincidente con l’avvio della politica di ‘riforma e apertura’ (gaige kaifang) nella Cina di Deng Xiaoping. Finora, infatti, i due non si erano ‘volutamente’ mai incontrati. Nel 2014, Xi Jinping, rompendo una tradizione consolidata, si era recato a Seoul dalla allora presidente sudcoreana, Park Geun-hye, diventando così il primo capo di Stato cinese a visitare la Corea del Sud prima della Corea del Nord; Kim Jong-un, che fino ad ora non aveva mai varcato i confini del suo Paese, era atteso in Cina nel settembre del 2015, in occasione dei festeggiamenti per il settantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, e in diverse occasioni ha intenzionalmente ignorato gli emissari cinesi inviati da Pechino. Con il suo viaggio ‘segreto’ nella capitale cinese alla fine di marzo, Kim ha rimediato a questa anomalia, omaggiando finalmente il suo grande (e pressoché unico) alleato, definendo la sua visita come un dovere solenne e accettandone i consigli (nel rispetto almeno formale della tradizione), come si evince dalle immagini trasmesse dalla TV di Stato cinese in cui il ‘giovane’ Kim appare intento a prendere appunti mentre il ‘saggio’ Xi parla – in netto contrasto con la propaganda nordcoreana che mostra di continuo immagini di anziani dignitari che registrano ogni singola parola pronunciata dal loro leader.

In questo senso il summit pechinese che ha consentito ad entrambi i protagonisti di incassare un ottimo risultato – elevando Kim sul palcoscenico internazionale e restituendo alla Cina un ruolo centrale nelle trattative diplomatiche sulla penisola coreana – ha senz’altro contribuito a innescare una dinamica positiva, e non appare esagerato ritenere che Pechino abbia avuto un ruolo fondamentale nel facilitare l’attuale fase di ‘disgelo’ tra le due Coree. Appare evidente, infatti, come la strategia cinese, nella sua coerenza e linearità, alla fine sia risultata vincente.

Per quanto i test nucleari e missilistici effettuati da Pyŏngyang, a partire dalla seconda metà degli anni Duemila, abbiano contribuito a mettere in discussione il ruolo e le capacità di condizionamento del regime cinese nei confronti della Corea del Nord, rendendo oltremodo evidente la crescente insofferenza del governo di Pechino di fronte al comportamento schizofrenico, ma del tutto razionale, del suo recalcitrante vicino, che si è tradotto in un crescendo di apprensione e di indignazione, anche nell’opinione pubblica cinese, nei fatti la Cina ha continuato a puntellare il regime di Pyŏngyang, al fine di preservare lo status quo nella penisola coreana, nella piena consapevolezza che un eventuale collasso del regime nordcoreano avrebbe effetti ben più disastrosi di qualsiasi altra soluzione.

In questo senso la RPC è sempre rimasta ferma nella sua politica cosiddetta dei ‘tre no’ verso Pyŏngyang – ‘no alla guerra, no all’instabilità, no agli armamenti nucleari’ (buzhan, buluan, huhe) – e, sebbene abbia sostenuto e votato tutte le risoluzioni di condanna adottate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in risposta ai test nucleari, si è in genere opposta all’inasprimento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti e ha trovato il modo di aggirare anche quelle che la stessa Cina aveva votato, eccezion fatta per l’ultimo periodo, quando, in seguito al sesto test nucleare del 3 settembre scorso, ha deciso per la linea dura – imponendo, già poche settimane dopo, un tetto alle esportazioni di greggio verso Pyŏngyang e la chiusura, entro quattro mesi, di tutte le imprese nordcoreane, comprese quelle in joint venture con gruppi locali – proprio al fine di evitare un peggioramento delle condizioni della Corea del Nord che potessero in qualche modo favorirne un’implosione. Un evento di tal fatta avrebbe, infatti, conseguenze disastrose per Pechino, sotto molteplici punti di vista, a partire da quello umanitario, che vedrebbe milioni di nordcoreani in fuga verso la Cina, per finire con quello geopolitico.

Ad una implosione del regime nordcoreano potrebbe fare seguito una riunificazione delle due Coree sotto l’egida di Seoul (e sotto la protezione di Washington) che prenderebbe possesso dell’arsenale nucleare e chimico della Corea del Nord, rompendo così il cuscinetto strategico tra la Cina e gli USA. Un tale ragionamento è utile per meglio comprendere la strategia di Pechino nella penisola che punta a mantenere lo status quo, riprendere i ‘dialoghi a sei’ (in fase di stallo dal 2009) e raggiungere nel lungo periodo la stabilizzazione dell’area, attraverso una ‘doppia sospensione’: l’interruzione dei test nucleari e balistici da parte di Pyŏngyang; l’interruzione delle esercitazioni militari congiunte da parte di Seoul e Washington.

Con l’invito di Xi a Kim Jong-un, la Cina ha inteso dunque riaffermare la sua centralità nella questione nordcoreana, scongiurando ‘definitivamente’ il pericolo di un conflitto alle porte di casa, che negli ultimi mesi del 2017 sembrava essere diventato sempre più probabile; al contempo è riuscita nell’intento di condizionare l’agenda dei successivi incontri del leader nordcoreano, salvaguardando gli interessi del Paese e mettendo in sicurezza la sua reputazione.

 

Crediti immagine: da Roman Harak (North Korea - China friendship) [CC BY-SA 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

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La “nuova era” cinese di Xi Jinping

Il 2018 è destinato a rimanere un anno cruciale nella storia contemporanea cinese, analogamente al 1949, che ha sancito la nascita della “nuova Cina” con la proclamazione della RPC e l’avvio della politica rivoluzionaria maoista, e al 1978, anno del lancio della “politica di riforma e apertura” e del processo di modernizzazione, da parte di Deng Xiaoping, che ha segnato il successo dell’economia cinese nei decenni successivi. Il 2018 segna, infatti, l’avvio ufficiale della “nuova era” di Xi Jinping, che la prima sessione della XIII Assemblea nazionale del popolo cinese (ANP), una sorta di Parlamento che ratifica le decisioni già prese dal Partito comunista cinese (PCC) , riunita a Pechino a partire dal 5 marzo, ha contribuito a sancire.

Nel 2018 l’ANP ha aperto i lavori con il compito di completare il ricambio della classe politica e di ratificare le modifiche al testo costituzionale proposte da un inconsueto plenum del Comitato centrale (CC) del partito riunito alla fine del mese di febbraio – generalmente il CC si riunisce in forma plenaria sette volte in cinque anni, la prima volta subito dopo il Congresso, la seconda all’inizio dell’anno successivo e la terza in autunno; la quarta, la quinta e la sesta a cadenza annuale, e la settima poco prima del Congresso successivo – a ridosso dell’avvio dei lavori delle “due sessioni” (lianghui) plenarie dell’ANP e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, che funge da organo consultivo del Parlamento, e include, tra gli altri, esponenti del mondo dello spettacolo, della cultura, dell’economia, oltre a rappresentare gli altri otto partiti politici legalmente riconosciuti nella RPC.

Tra le modifiche proposte ve ne erano alcune di particolare rilevanza. Tra queste, l’inserimento del “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” (Xi Jinping xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi sixiang), già entrato nello Statuto del partito in occasione del XIX Congresso riunito nell’ottobre del 2017, a fianco al pensiero di Mao Zedong, alla teoria di Deng Xiaoping, all’importante “pensiero delle tre rappresentanze” e alla “visione di sviluppo scientifico” (eredità ideologica rispettivamente di Jiang Zemin e Hu Jintao, rappresentanti della terza e quarta generazione di governanti cinesi).

Oltremodo rilevante era la proposta di eliminare il limite dei due mandati per le cariche del presidente e del vicepresidente, previsto all’articolo 79, comma 3 della Costituzione. Entrambi gli emendamenti, ratificati l’11 marzo, hanno, da un lato, rafforzato la leadership del presidente cinese, facendone l’unico leader, oltre a Mao, a vedere inserito il proprio nominativo nello Statuto del partito mentre è ancora in vita e pienamente in carica (da qui il paragone con il grande timoniere, il cui pensiero era stato iscritto come ideologia guida del partito già nel 1945, in occasione della riunione del VII Congresso); dall’altro lato, hanno conferito a Xi Jinping il ruolo di presidente “a tempo indefinito”, laddove la sua scadenza naturale sarebbe stata nel 2023, contribuendo al contempo a risolvere una incongruenza legata al fatto che le per le altre due cariche ricoperte dal presidente cinese, ovvero quella di segretario generale del PCC e di presidente della Commissione militare centrale, non sono previsti limiti temporali.

A ben vedere, secondo il parere di alcuni studiosi, tali modifiche appaiono in linea con l’orientamento emerso in occasione del XIX Congresso, volto a rafforzare la capacità di governance della leadership del partito, e sono strettamente legate alla necessità di garantire continuità all’ambizioso programma di governo dell’amministrazione di Xi, sia a livello di politica interna – lotta alla corruzione, lotta alle disuguaglianze sociali, lotta all’inquinamento, trasformazione del modello economico – sia di politica estera. L’assenza di vincoli temporali consentirà, infatti, a Xi Jinping di continuare a rappresentare la Cina come capo di una nazione che vuole accreditarsi come una “grande potenza responsabile”, un ruolo che richiede coerenza e forte continuità, e soprattutto realizzare quello che è diventato uno dei principali slogan della quinta generazione di governanti cinesi, ovvero il “sogno cinese” (Zhongguo meng), un sogno che si identifica con “il grande rinnovamento della nazione cinese” (Zhonghua minzu weida fuxing) e che passa attraverso la realizzazione di due obiettivi centenari (liangge yibai nian ‘fendou mubiao’), ovvero la creazione di una “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui) entro il 2021, in occasione del centesimo anniversario della fondazione del partito, e la trasformazione della Cina in un “Paese socialista ricco e forte” (fuqiang de shehuizhuyi guojia), entro il 2049, in occasione del centenario della nascita della RPC.

Ciò detto, il secondo emendamento, in particolare, è stato oggetto di diverse polemiche, sia all’estero che in Cina, essendo stato interpretato come un segnale evidente di una decisa involuzione autoritaria del potere, con l’abbandono della logica della leadership collettiva introdotta da Deng Xiaoping nel corso degli anni Ottanta e che, dopo gli eccessi dell’epoca maoista, aveva contribuito ad istituzionalizzare il meccanismo di successione al potere. È importante ricordare come il vincolo costituzionale dei due mandati per le massime cariche dello Stato (presidente e vicepresidente), così come il limite anagrafico dei 68 anni per le cariche di partito (che rappresenta una prassi consolidata, per quanto non codificata), fossero stati voluti da Deng al fine di istituzionalizzare le transizioni di potere ed evitare così l’emergere di nuovi leader carismatici, consentendo al Paese, a differenza di altri sistemi autoritari, di gestire transizioni ordinate per ben 25 anni. Questo ragionamento appare tanto più importante se si considera come, sin dalla sua ascesa ai massimi vertici del partito e dello Stato, Xi Jinping abbia conosciuto una progressiva concentrazione di potere nelle sue mani, grazie soprattutto alla pervasiva campagna anticorruzione contro le “tigri e le mosche” (laohu yu cangying) – i “grandi e i piccoli” funzionari corrotti, suoi potenziali nemici – che ha rievocato nelle menti dei più le purghe di epoca maoista, ma anche all’accumulazione continua di cariche e titoli, al punto da essere ribattezzato come il “presidente di tutto”, in linea con il suo riconoscimento formale, in occasione del plenum del partito dell’ottobre del 2016, di “core leader” (hexin lingdaoren).

Cionondimeno, è presumibile che la sessione plenaria dell’ANP del 2018 rimarrà impressa nelle generazioni future dei fedeli del partito (ma non solo) come il momento in cui il presidente Xi ha finalmente liberato il Paese dal complesso di “vittimismo” che ha a lungo condizionato i rapporti della Cina con le potenze occidentali, e posto la parola fine al famigerato “secolo di umiliazione” (bainian chiru), iniziato con le guerre dell’oppio a metà dell’Ottocento, attraverso l’implementazione del suo “sogno” per la Cina e la creazione di un nuovo anniversario da omaggiare solennemente.

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Il Nord-Est asiatico in Africa. Cina e non solo

Quando si parla di attori del Nord-Est asiatico in Africa, i riflettori sono tutti inevitabilmente puntati sulla Repubblica popolare cinese (RPC), laddove le presenze di Giappone e delle due Coree risultano a malapena percepite. In effetti, nell’ultima decade le relazioni cino-africane sono state oggetto di una vastissima letteratura, anche in lingua italiana, che si è concentrata sugli interessi economici del gigante asiatico in Africa, sul modus operandi di Pechino e sull’impatto economico e sociale della presenza cinese nella società africana, evidenziandone spesso e volentieri la natura rapace e di stampo neocolonialista, e contribuendo, tra le altre cose, a mettere  in ombra il ruolo giocato dagli altri attori dell’Asia nordorientale che vantano una presenza altrettanto consolidata rispetto a quella cinese e presentano interessanti similitudini (anche negli aspetti meno positivi) con essa, essendo dettate da dinamiche simili.

In tutti i casi l’interesse economico/commerciale risulta preponderante, come emerge dalla costituzione di meccanismi istituzionali per favorire la cooperazione tra le parti – la TICAD (Tokyo International Conference on African Development) dal Giappone, il FOCAC (Forum on China-Africa Cooperation) dalla Cina e il KOAFEC (Korea-Africa Economic Cooperation) dalla Corea del Sud – e, più in generale, dalla diplomazia delle risorse, portata avanti da Cina, Corea del Sud e Giappone attraverso lo strumento degli aiuti allo sviluppo; per non parlare delle lucrose attività economiche gestite dal regime di Pyŏngyang – nonostante l’isolamento e le sanzioni internazionali – fondamentali per garantirsi la sopravvivenza.

Oggigiorno la Corea del Nord commercia con circa 30 Stati dell’Africa subsahariana, vende armi, fornisce addestramento militare e assistenza per le attrezzature di epoca sovietica, ancora in uso tra diversi gruppi militari africani, ed è ben inserita nel settore delle costruzioni (dagli impianti di produzione di armi, ai palazzi presidenziali, alle enormi statue di bronzo, ai blocchi di appartamenti). Un rapporto pubblicato alla fine del 2017 da un gruppo di esperti ONU incaricato di vigilare sul rispetto delle sanzioni internazionali imposte al Paese ha rivelato come le relazioni tra Pyŏngyang e molte capitali africane continuino ad essere molto forti; non a caso, ben 11 gruppi dell’Africa subsahariana risultano indagati per la violazione delle sanzioni.

Non meno rilevante è l’interesse politico/strategico da parte di ognuno degli attori nordorientali. Pechino si è servita del teatro africano, inizialmente per proporre un modello rivoluzionario distinto e alternativo rispetto a quello sovietico; successivamente per portare avanti la politica di “una sola Cina” (yi ge Zhongguo zhengce), che implica il riconoscimento diplomatico esclusivo della RPC e non della ROC (Republic Of China, Taiwan), e per sostenere l’intera agenda politica del Paese nei vari forum multilaterali, tenuto conto dell’ampio blocco di voti espresso dal continente, anche nella prospettiva di creazione di un nuovo ordine mondiale multipolare, più equo e democratico; in tempi più vicini a noi l’Africa ha costituito un teatro prezioso dove la Cina ha potuto esercitare il proprio soft power e proiettare il suo prestigio e la sua reputazione internazionali quale “grande potenza responsabile” (fuzeren daguo), attraverso una crescente partecipazione nelle PKO (Peacekeeping Operations) impegnate nel territorio.

L’interesse iniziale della Corea del Sud per l’Africa è stato determinato dalla necessità di ottenere il riconoscimento politico come Stato per contrastare la Corea del Nord, che negli anni Sessanta e Settanta godeva di un significativo vantaggio diplomatico rispetto al Sud, essendo all’epoca una nazione più prospera, ma soprattutto per via dei preziosi legami ideologici forgiati da Pyŏngyang fin dagli anni Cinquanta attraverso la fornitura di aiuti finanziari militari ai movimenti di liberazione e al peso acquisito sul piano internazionale all’indomani del suo ingresso all’interno del Movimento dei Paesi non allineati; negli anni Duemila la strategia di Seoul mirava invece a presentarsi come un attore attivo e rispettato sulla scena internazionale e a proporsi quale “modello alternativo di sviluppo”, più sostenibile rispetto a quello cinese.

Per il Giappone, infine, l’Africa ha assunto una particolare rilevanza sia nella prospettiva (oramai quasi tramontata) di una riforma del Consiglio di sicurezza dell’ONU, volta ad includere un numero maggiore di membri permanenti sulla base di una rappresentanza geografica ed economico-politica, e nella quale risultano attivi anche molti Stati africani, sia nel rilancio in patria della politica di legittimazione delle cosiddette forze di autodifesa, che si inserisce in una politica di più vasto respiro portata avanti da Tokyo a partire dagli anni Novanta che punta alla “normalizzazione” del Paese e al progressivo abbandono del pacifismo.

Ciò detto, bisogna riconoscere che la presenzialità cinese appare difficile da contrastare, o anche solo da eguagliare. Si tratta infatti di una presenza “ingombrante” in tutti i sensi – nella quantità massiccia di lavoratori migranti al soldo delle grandi aziende di Stato, nel numero crescente degli operatori di pace, nelle magnificenti opere infrastrutturali realizzate da Pechino, per non parlare della costante partecipazione fisica dei massimi esponenti del governo cinese nel continente, alle quali viene data un’ampia copertura mediatica a livello internazionale. A partire dal 1991 – come segnale di riconoscenza per il sostegno garantito dal continente alla Cina nella difficile situazione determinatasi all’indomani dei fatti di piazza Tian’anmen – l’Africa è diventata la prima meta del ministro degli Esteri cinese all’inizio di ogni anno, e destinazione privilegiata anche per il primo ministro e lo stesso presidente cinese. In confronto, i viaggi ufficiali dei leader giapponesi e coreani nel continente impallidiscono. Basti pensare che la visita di Yoshiro Mori in Africa subsahariana, nel 2001, ha costituito una delle rare visite di un leader giapponese in Africa, laddove il tour di Shinzo Abe, all’inizio del 2014, era il primo di un leader giapponese in otto anni. Il premier Junichiro Koizumi si recò due volte in Africa durante il suo mandato (nel 2002 e nel 2006). In maniera non dissimile, i leader sudcoreani hanno compiuto visite ufficiali nel continente in maniera assai discontinua: la visita di Roh Moo-hyun, nel 2006, era la prima della Corea “democratica” dopo quella di Chun Doo-hwan, nel 1982, ed è stata seguita da quella di Lee Myun-bak, nel 2011, e di Park Geun-hye, nel 2016.

Naturalmente l’assiduità delle visite dei governanti cinesi in Africa segue una logica ben definita, che si ricollega strettamente ad alcune importanti iniziative economiche lanciate dalla RPC che vedono l’Africa “al centro”, in primis la Belt and Road Initiative (yidao yilu) che ambisce a ricostruire l’antica Via della Seta attraverso due nuove vie – una terrestre (“cintura economica della via della seta”, sichou zhilu jingji dai) e una marittima (“via della seta marittima del XXI secolo”, 21shiji haishang sichou zhilu) – che costituisce parte integrante del cosiddetto Sogno cinese (Zhongguo meng) e ambisce, tra le altre cose, a ridisegnare l’ordine mondiale.

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Diseguaglianze sociali, l’altra faccia del miracolo cinese

Nel 2018 si festeggia un anniversario importante nella Repubblica Popolare Cinese (RPC), ovvero il quarantesimo dell’avvio di quel processo riformistico che ha consentito al Paese di vivere il suo miracolo economico (con tempistiche del tutto inedite) e di recuperare quel rispetto e quella centralità che gli erano appartenuti in passato e che l’irruzione europea, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, aveva contribuito a cancellare. Il processo di “riforma e apertura’ (gaige kaifang) lanciato da Deng Xiaoping in occasione del III plenum dell’XI Comitato Centrale (CC) del Partito Comunista Cinese (PCC), nel dicembre del 1978, è, infatti, alla base degli straordinari successi conseguiti dalla RPC, sia a livello economico sia a livello politico-diplomatico, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Negli ultimi quattro decenni l’economia cinese è cresciuta ad un tasso medio del 10% annuo circa, con conseguenti aumenti sostanziali dei guadagni della popolazione, un considerevole miglioramento delle condizioni di vita della maggioranza dei cinesi e una riduzione drastica della povertà. Stando alle stime della Banca mondiale, dal 1978 sono ben 800 i milioni i cinesi usciti dalla condizione di povertà assoluta (cui appartengono coloro che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno), sebbene ancora nel 2010 circa l’11% della popolazione (150 milioni di persone) continuasse a vivere con meno di questa cifra e circa il 27% (circa 360 milioni di persone) avesse uno stipendio inferiore ai 3,10 dollari al giorno.

Ciò detto, bisogna anche riconoscere che la crescita economica non ha riguardato l’intero Paese in egual misura – in prevalenza le zone costiere, meno le zone centrali e quelle occidentali; le aree urbane piuttosto che le aree rurali. In altri termini, la società cinese, sviluppandosi, è diventata sempre più squilibrata, dal punto di vista della distribuzione della ricchezza e la Cina è passata dall’essere uno dei Paesi più omogenei ed equi (quale era in epoca maoista) ad uno dei più iniqui a livello mondiale. L’indice di disuguaglianza (misurato con il coefficiente di Gini), che era pari allo 0,3% nel 1980, ha raggiunto il picco dello 0,49 nel 2007, attestandosi allo 0,465 nel 2016, ben oltre il livello di guardia fissato dall’ONU (0,40). Un rapporto dell’Istituto di scienze sociali dell’Università di Pechino, nel 2015, ha rilevato come oltre un terzo della ricchezza complessiva del Paese sia in mano all’1% delle famiglie, laddove il 25% più povero vive con un analogo 1%.

Secondo la Global rich list 2017, pubblicata da Hurun (il Forbes cinese), la Cina registra in assoluto il maggior numero di miliardari (609 contro i 552 statunitensi) che posseggono una ricchezza complessiva pari al 2,1% del PIL mondiale; analogamente, Pechino si attesta, per il secondo anno consecutivo, al primo posto tra le città con più miliardari al mondo – 94 contro gli 86 di New York. Tra i due estremi ci sarebbe una “consistente” classe media (zhongchan jieji), composta, secondo i parametri dell’Accademia cinese delle Scienze sociali (che include gli individui con una fascia di reddito compresa tra gli 11,800 e i 17,700 dollari all’anno), da oltre 480 milioni di persone, che presenta caratteristiche ben precise: giovane età, elevato livello di istruzione, residenza nei centri urbani, proprietà della casa di abitazione, elevata propensione a viaggiare, utilizzo dei social networks, attitudine all’acquisto di prodotti tecnologici e allo shopping online. Essa sarebbe strettamente legata al PCC, visto e considerato che lo sviluppo economico del Paese e le attività economiche imprenditoriali sono direttamente o indirettamente sotto il suo controllo. E da essa dipende il successo del nuovo corso dell’economia cinese ribattezzato “nuovo normale” (xin changtai), inserito nel XIII piano quinquennale (2016-20), che punta ad una crescita economica meno sostenuta (con un tasso compreso tra il 6,5 e il 6,9%) e a un ribilanciamento delle diverse componenti dell’economia, con una minore dipendenza dalle esportazioni e una crescita dei consumi interni. Un ruolo fondamentale nel raggiungimento di quest’ultimo obiettivo è giocato proprio dal ceto medio.  

Se è innegabile, dunque, che la crescita degli ultimi decenni ha avuto effetti estremamente positivi, con aumenti considerevoli del PIL pro capite, con una riduzione drastica della povertà assoluta, e con sensibili miglioramenti delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, è vero anche che non tutte le regioni del Paese sono state coinvolte in questo processo di sviluppo e non tutte le categorie sociali ne hanno beneficiato. Anzi, la forte crescita di alcune aree geografiche, accompagnata dallo scarso sviluppo di altre, ha determinato un acuirsi delle diseguaglianze di reddito e un ampliarsi del divario nelle condizioni di vita degli abitanti delle diverse regioni, così come delle zone urbane rispetto a quelle rurali, che sono andate consolidandosi con il passare del tempo e rappresentano oggigiorno una delle minacce principali alla stabilità della società, che rischia di mettere a repentaglio le sorti del partito. L’emergere delle disuguaglianze, prima tenute basse dalla scarsa crescita globale e dalla pianificazione centrale dell’economia, è cominciato proprio in seguito alle prime iniziative di apertura economica, con l’invito di Deng Xiaoping a lasciare che «alcune persone si arricchissero prima di altri» (rang yibufen ren xian fu qilai), perché «arricchirsi è glorioso» (facai zhifu guangrong), laddove la «povertà non è socialismo» (pinqiong bushi shehuizhuyi).

Pechino ha iniziato a prestare una certa attenzione alle problematiche in questione negli anni Duemila, con la leadership guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao – il concetto di “sviluppo scientifico” (kexue fazhan guan), che riassume il pensiero teorico di Hu, è apparso per la prima volta tra le “Risoluzioni” del III plenum del XVI CC del PCC, nell’ottobre 2003; nel 2006, il VI plenum del XVI CC ha posto al centro il concetto di costruzione di una «società armoniosa» (hexie shehui) – come conferma l’inserimento del pensiero teorico di Hu nello Statuto del PCC in occasione del XVII Congresso del partito (ottobre 2007), che ha sancito il consolidamento del suo potere con la conferma per un secondo mandato. Il concetto di “visione di sviluppo scientifico”, nella versione emendata dello Statuto, è definito come uno sviluppo «globale, coordinato e sostenibile» (quanmian, xietiao, ke chixu), e può considerarsi come la conditio sine qua non per la realizzazione della sopraccitata «società armoniosa (socialista)» (shehuizhuyi hexie shehui). In tal modo, i governanti cinesi dimostravano di aver preso atto della situazione di squilibrio, creatasi nella Cina del miracolo, prevedendo di risolvere la questione promuovendo l’armonia sociale e il progresso.

La posta in gioco è molto alta, se è vero che stando agli esiti di un sondaggio condotto dal Pew Research Center nel 2015, il gap tra ricchi e poveri rientra tra le «quattro questioni più preoccupanti» (zui danxin de wenti) dei cinesi (assieme a corruzione, inquinamento dell’aria e terrestre). Si tratta di capitoli fondamentali dell’agenda politica che il governo comunista deve affrontare e cercare di risolvere, in vista non solo del raggiungimento dei due “obiettivi centenari” (liangge yibai nian ‘fendou mubiao’) – la creazione di una “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui) entro il 2021 e la trasformazione della Cina in un Paese ricco e forte (fuqiang de shehuizhuyi guojia) entro il 2049 –, ma anche, e soprattutto, per garantire la sua sopravvivenza al potere e il futuro del socialismo cinese. La “nuova era del socialismo con caratteristiche cinesi” (xin shidai Zhongguo tese shehuizhuyi) che rappresenta il fulcro del “Pensiero di Xi Jinping” (Xi Jinping sixiang), passa, non a caso, dall’applicazione di politiche volte ad allargare l’uguaglianza sociale attraverso un miglioramento delle condizioni di vita del popolo cinese.