Atlante

Cecilia Pennacini

È professoressa ordinaria di Antropologia culturale nonché direttrice del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, dove attualmente insegna Antropologia visiva ed Etnologia dell’Africa. Dal 1988 svolge ricerche etnografiche nella regione africana dei Grandi Laghi (Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Tanzania, Uganda) su temi della religione africana, del patrimonio culturale e dell’antropologia visiva. Tra le sue pubblicazioni principali Kubandwa. La possessione spiritica nell’Africa dei Grandi Laghi (Trauben, 2012), Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visiva (Carocci, 2005) oltre alla cura di La ricerca sul campo in antropologia. Oggetti e metodi (Carocci, 2010) e a numerosi articoli apparsi su riviste scientifiche. Ha inoltre realizzato documentari etnografici e programmi di divulgazione scientifica per la RAI e per altri enti. Nel 2020 ha ricevuto il Premio Giorgio Maria Sangiorgi per l’Etnologia e la Storia dell’Africa attribuito dall’Accademia dei Lincei.

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I musei postcoloniali

Il collezionismo di oggetti extraeuropei è profondamente radicato nella storia dell’Europa moderna. Con la scoperta dell’America, la percezione e la rappresentazione di mondi lontani diviene un ingrediente fondamentale dell’idea stessa di modernità: il progetto di sfruttamento capitalistico delle risorse umane e naturali delle colonie si basava infatti sulla costruzione di un’umanità segnata da profonde differenze “razziali” e culturali. A questa costruzione contribuirono le testimonianze e le descrizioni di viaggiatori e missionari così come gli oggetti straordinari e stravaganti che iniziarono a giungere in Europa fin dal Rinascimento, trovando una collocazione nelle Wunderkammer dei nobili e dei prelati accanto a reperti naturalistici di varia natura, a strumenti scientifici e a opere d’arte. Estrapolati dai loro contesti di provenienza, questi oggetti acquisirono nuovi significati nell’ambito di pratiche collezionistiche che mutarono nel corso del tempo. Beni di prestigio, reperti archeologici, manufatti artistici, ma anche oggetti sacri ‒ definiti “idoli” e “feticci” ‒ vennero accumulati nei gabinetti di curiosità allo scopo di impressionare e suscitare meraviglia. Più tardi, con la nascita dei musei scientifici nel XIX secolo, gli oggetti esotici si trasformarono in reperti etnografici utilizzati per lo studio e la classificazione delle società e delle culture. Acquisiti sul terreno nel corso di spedizioni etnografiche oppure acquistati da viaggiatori, questi oggetti erano conservati ed esposti accanto a scheletri, mummie o altri resti umani di varia provenienza, anch’essi al centro di un massiccio collezionismo. Il loro status in questo contesto è quello di specimina atti a dimostrare le tesi evoluzionistiche che opponevano i “primitivi” ai “civilizzati”. Nello stesso periodo nelle principali metropoli europee furono organizzate esposizioni universali in cui esibire non solo manufatti, ma anche persone esposte alla curiosità del pubblico in quelli che sono stati definiti veri e propri “zoo umani”.

Nella seconda metà dell’Ottocento, quando il colonialismo giunge alla sua fase matura con la conquista del continente africano, al collezionismo etnologico si affianca la scoperta dell’arte “primitiva” che provoca un’ulteriore risemantizzazione degli oggetti extraeuropei e il progressivo sviluppo di un fiorente mercato. La capacità di adattamento delle società africane che si trovavano sulle rotte dei viaggiatori europei consentì loro di avviare precocemente la produzione di una proto-arte turistica in grado di soddisfare i desideri dei collezionisti. D’altro canto, è ben nota l’influenza dell’estetica extraeuropea sull’arte modernista europea e in particolare gli influssi “primitivisti” che colpirono tra gli altri pittori come Cézanne, Matisse, Gauguin, Derain e Picasso. In questa fase l’arte entra in dialogo con l’etnologia favorendo finalmente il riconoscimento del valore di produzioni estetiche estranee alla tradizione occidentale.

La storia dei rapporti tra l’Occidente e la produzione materiale extraeuropea è quindi complessa e variegata, e tuttavia resta incontestabilmente segnata dalla dimensione coloniale e dal sistema di relazioni asimmetriche su cui si basava. Molti degli oggetti conservati nei musei costituiscono dunque un’eredità scomoda con cui è divenuto urgente confrontarsi: le grandi istituzioni museali europee e nordamericane stanno tentando di affrontare questo problema, chi trasferendo le collezioni in nuovi edifici all’interno dei quali ripensare completamente gli impianti allestitivi, chi riorganizzando il discorso museale sulla base di complessi negoziati con le comunità migranti originarie dei luoghi da cui gli oggetti provengono. La presenza nelle metropoli occidentali di queste comunità costituisce infatti una sfida fondamentale per i musei, spinti a ripensare la loro identità anche in funzione di pubblici nuovi che esigono una rilettura e un ripensamento delle narrazioni museali. In questa situazione, gli oggetti venuti da lontano possono divenire ambasciatori delle loro culture nel mondo, consentendo alle comunità diasporiche di riconnettersi alla loro storia garantendone la visibilità.

La nuova definizione di museo approvata da ICOM (International Council of Museums) nell’agosto del 2022 sottolinea l’inclusività, la diversità e la partecipazione delle comunità in quanto elementi imprescindibili di qualunque istituzione museale. Nel suo codice etico, inoltre, ICOM incoraggia la condivisione delle conoscenze, della documentazione e delle collezioni con i musei e gli organismi culturali che hanno sede nei Paesi di origine delle collezioni stesse, anche attraverso l’istituzione di specifici accordi di partenariato. Sottolinea inoltre l’esigenza di restituire gli oggetti di cui è stata dimostrata l’esportazione illegale sulla base della violazione di trattati nazionali e internazionali, purché la legge lo consenta. I musei occidentali hanno a lungo manifestato grandi resistenze nei confronti di questo tema, ma una nuova era è iniziata con il discorso pronunciato da Emmanuel Macron all’Università di Ouagadougou il 28 novembre 2017. In questa occasione il presidente della Repubblica francese ha promesso l’avvio di un processo di restituzione di alcuni capolavori dell’arte africana conservati nei musei francesi. L’obiettivo non è soltanto quello di riconoscere la violenza culturale esercitata sulle società colonizzate, che sono state private di parti importanti del loro patrimonio. Si tratta più in generale di avviare una nuova etica relazionale in grado di sanare le ferite subite riguadagnando la fiducia delle comunità locali e di quelle diasporiche.

Per fare questo il museo postcoloniale deve adottare criteri di trasparenza nella ricostruzione delle biografie degli oggetti, delle circostanze di acquisizione, dei diversi significati che essi hanno assunto nei contesti di origine e nelle reti di relazioni all’interno delle quali sono stati scambiati e valorizzati. Criteri che la comunicazione digitale è in grado di garantire nelle forme più ampie. In questo modo, intorno agli oggetti sarà possibile sviluppare un dialogo e una collaborazione con le comunità di origine e con quelle della diaspora. I musei potranno così diventare “zone di contatto” in cui contrastare l’eurocentrismo della storia e della conoscenza insegnandoci a convivere nella diversità.

 

Immagine: Bandiera Asafo del popolo Fanti, 20° secolo. Crediti: Brooklyn Museum, New York

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Razzismo e imperialismo nel regime fascista

Nel 2018 l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza di Torino ha ritrovato la versione integrale del documentario dell’Istituto Luce sulla visita di Mussolini a Trieste del 18 settembre 1938. Si tratta di un ritrovamento eccezionale della durata di 34 minuti, di cui 18 relativi al comizio tenuto dal duce in piazza dell’Unità di fronte a 150.000 persone, mentre nelle copie distribuite il discorso era sintetizzato in 3 minuti. Un documento impressionante che ci consente di percepire direttamente la violenza della teoria fascista della razza. Eccone i passi più salienti:

 

«In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia, gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibilmente meriti militari e civili nei confronti dell’Italia e del regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri, seguirà una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi, più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di altre frontiere e quelli dell’interno e soprattutto i loro improvvisati e inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino. […] Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il problema razziale non è scoppiato all’improvviso come pensano coloro i quali sono abituati ai bruschi risvegli perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si mantengono con il prestigio, e per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno, la nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto. L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo».

 

Il nesso indissolubile tra razzismo e imperialismo è evidenziato da Mussolini con estrema chiarezza, lasciandoci intuire il progetto di un mondo edificato sul principio della separazione e della gerarchia di gruppi dominanti e di soggetti dominati, da sfruttare o addirittura da eliminare. La rappresentazione di un’umanità suddivisa in razze biologicamente e intellettualmente diverse non era ovviamente nuova. Si era consolidata nel corso del XIX secolo per esplodere nella fase delle esplorazioni e dell’espansione coloniale. L’esigenza di legittimare la ‘missione civilizzatrice’ di un’Europa alla conquista del mondo fu soddisfatta attraverso la costruzione immaginaria di selvaggi e primitivi collocati sul gradino più basso di una gerarchia, che vedeva al suo apice le civiltà europee. Il dibattito scientifico ottocentesco opponeva coloro che spiegavano la diversità umana nei termini di razze di origini diverse, a coloro che invece postulavano l’uniformità intellettuale del genere umano diversificato in funzione delle culture. Con la scoperta del DNA negli anni Cinquanta del Novecento e con l’emergere della genetica delle popolazioni, l’impalcatura teorica basata sulle razze perde gran parte del suo significato, anche se il termine resta in uso nella prospettiva storica di chi ha subito a causa di esso discriminazioni e violenze.

 

Nell’Italia fascista molti scienziati e tra loro numerosi antropologi si adoperarono a sostegno di teorie di stampo razzista funzionali alle politiche coloniali in Africa e successivamente all’estensione delle leggi razziali all’Italia. Il 14 luglio del 1938, il Giornale d’Italia pubblica il Manifesto della razza, commissionato dal duce e redatto da dieci studiosi appartenenti alle discipline medico-biologiche e antropologiche. Tra questi il medico Nicola Pende, il demografo Franco Savorgnan, gli antropologi Lidio Cipriani, allora direttore del Museo nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze, e Guido Landra. Il documento, poi sottoscritto da 180 scienziati fascisti sancisce – reificandole – l’esistenza delle razze e la loro gerarchia, la natura biologica e non spirituale di tale classificazione, l’attribuzione della popolazione italica alla razza ariana, la purezza della razza italiana, la necessità di distinguere e separare le razze, l’esclusione degli ebrei dalla razza italiana. All’interno delle università – i cui docenti avevano giurato in grandissima maggioranza fedeltà al fascismo nel 1931 – pochi antropologi presero le distanze dalle teorie razziste, cosicché si sviluppò una sorta di ‘antropologia di Stato’ (dal titolo di un articolo di Sergio Sergi, 1940) asservita al regime fascista, imperialista e antisemita. Giovanni Marro, ad esempio, fondatore dell’Istituto e Museo di antropologia ed etnografia dell’Università di Torino, si adoperò per «arrecare mano a mano materiale per quella individuazione di superiorità della razza italiana» (1940), affermando nel contempo che la razza ebraica era caratterizzata da aspetti fisico-anatomici degenerati causati da costumi poligamici e dall’unione con ‘negri’ e ‘camiti’. Ebrei e africani furono dunque accomunati da un’inferiorità intellettuale radicata nella loro stessa biologia.

 

Il problema razziale, come ricorda Mussolini nel discorso, si era inizialmente posto in relazione alla conquista dell’impero. Il razzismo fascista fu progressivamente legalizzato nelle colonie a partire dal 1935. Il madamato – l’istituzione che consentiva agli italiani in colonia di vivere more uxorio con donne locali di cui riconoscevano la prole – venne dunque proibito per evitare il meticciato, di cui il fascismo aveva orrore poiché metteva a repentaglio la purezza della razza. La separazione e la segregazione delle razze furono sancite in colonia per costruire una società gerarchica e totalitaria, in cui i bianchi potessero esercitare la loro egemonia. D’altro canto, la violenza caratterizza l’amministrazione coloniale italiana esattamente come quella francese, inglese, tedesca o portoghese. A partire dal 1925 in Libia e successivamente in Etiopia si adottano metodi di repressione brutali, con l’istituzione di campi di sterminio e uso di armi batteriologiche. Una violenza sperimentata in Africa e poi adottata in Italia, analogamente alla brutalità usata in Namibia dai tedeschi, che nel 1904-06 assassinarono circa 100.000 Herero in quelle che sono considerate le prove generali della Shoah. Il discorso di Trieste ci lascia dunque intuire la spaventosa portata globale del progetto fascista, orientato a imporre nella metropoli e nell’impero un ordine egemonico con cui sottomettere, estromettere oppure eliminare neri ed ebrei.

 

Immagine: José Clemente Orozco, I segni dell’oppressione, Instituto Cultural Cabañas, Guadalajara, Messico (2 maggio 2015). Crediti: Alan Levine [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso www.flickr.com