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Francesco Petronella

Giornalista, focus su USA e Medio Oriente. Pugliese di origine, studi di arabo ed ebraico a Napoli e Gerusalemme. Un anno a Roma, oggi a Milano. Collaboratore de Il Foglio, Il Fatto Quotidiano, The New Arab, Amwaj Media.

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Come possono coesistere i due processi di normalizzazione del Medio Oriente?

 

Il vento della normalizzazione continua a soffiare con forza in Medio Oriente. Nondimeno, nei primi mesi del 2023 questa normalizzazione è andata a incardinarsi su due progetti distinti, forse inconciliabili l’uno con l’altro. Da una parte, infatti, resta in piedi la cornice degli Accordi di Abramo – che a partire dal 2020 ha portato Israele a normalizzare le relazioni diplomatiche con Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain, Sudan e Marocco –, ma dall’altra un nuovo riavvicinamento, quello tra Iran e Arabia Saudita, occupa oggi il centro della scena. Vale la pena chiedersi se e quanto le due iniziative possano continuare a coesistere, alla luce sia del contesto regionale che del clima internazionale.

L’amministrazione del presidente statunitense, Donald Trump, ha incentrato interamente la sua politica mediorientale sul riavvicinamento fra lo Stato ebraico e i Paesi arabi, enfatizzando molto le comuni radici abramitiche e semitiche in funzione chiaramente anti-iraniana. Gli EAU, che molto spesso sono i principali ispiratori delle dinamiche regionali, hanno avuto un ruolo determinante in questo senso. Ciononostante, in molti si aspettavano che il compimento del processo di Abramo sarebbe arrivato con la normalizzazione tra Israele e l’altro pilastro della politica statunitense nell’area, cioè l’Arabia Saudita. Tuttavia, a Riyad non si sono ancora mossi in questa direzione. Secondo indiscrezioni di stampa, fattesi via via più insistenti, la leadership saudita vorrebbe in cambio dagli Stati Uniti una contropartita molto importante, forse troppo: la possibilità, cioè, di sviluppare un proprio programma nucleare. A tal proposito vale la pena ricordare che, al netto della politica di edging portata avanti da Teheran in questo dossier, l’unico Paese dell’area a possedere armi atomiche è proprio Israele.

 

E invece, a marzo 2023, l’Arabia Saudita ha compiuto un passaggio impensabile fino a pochi anni fa, avviando la normalizzazione delle relazioni con l’Iran tramite la mediazione cinese. Una mossa, quella di Riyad, arrivata proprio mentre tutti si aspettavano un riavvicinamento saudita con Israele. Probabilmente è ancora presto per valutare appieno la portata del nuovo corso iraniano-saudita, ma ci sono almeno un paio di elementi su cui è possibile riflettere. Il primo è dato dal fatto che la Cina, per la prima volta in assoluto, ha abbandonato il suo approccio meramente economicistico al Medio Oriente impegnandosi in prima linea in un concreto processo diplomatico, tanto che l’annuncio della normalizzazione Arabia Saudita-Iran è stato fatto proprio a Pechino. Il secondo aspetto, come anticipato, riguarda la possibilità per questo nuovo schema di normalizzazione di convivere con il processo di Abramo. Entrambe le questioni, poi, si intrecciano inevitabilmente con le dinamiche non solo regionali ma anche internazionali. Con una Russia sempre più distratta dalla regione per via della guerra in Ucraina e una Cina che per la prima volta veste i panni del mediatore nelle contese locali, c’è da chiedersi come intendano giocare la partita anche gli Stati Uniti, che fino ad oggi sono stati senza dubbio la potenza globale più influente nell’area.

 

Per tentare un’interpretazione di questi fatti occorre partire da un presupposto essenziale. In Medio Oriente e nel Nord Africa un conto è ciò che pensano e fanno le leadership, un altro è il sentire comune della gente. Nel caso della normalizzazione con Israele, ad esempio, non sono mancate forme di protesta anche veementi contro la scelta dei governanti. Quando è stata annunciata l’adesione agli Accordi di Abramo del Sudan, che può essere considerato un Paese piuttosto periferico del mondo arabo, manifestanti hanno bruciato in piazza bandiere dello Stato ebraico. Le élite locali, incoraggiate con forza dagli USA in questi anni, hanno lavorato a lungo per dipingere l’Iran e l’area persiano-sciita come il nemico storico e naturale degli arabi, ma ciò non toglie che le due sponde del Medio Oriente siano accomunate nella comune fede islamica (tanto che Teheran sostiene gruppi militanti antisionisti come Hamas e, soprattutto, il Jihad islamico). Al netto di tutto questo, però, il punto essenziale è che i leader arabi come il saudita Mohammad bin Salman o l’emiratino Mohammed bin Zayed non hanno bisogno di confrontarsi con il consenso, se non in forme molto diverse da quelle democratiche. In questo modo, sostanzialmente, hanno mano libera per esercitare una politica estera smaliziata e scevra da pregiudizi ideologici.

 

Un’analisi dell’Atlantic Council evidenzia un possibile criterio per capire quale progetto di normalizzazione avrà maggior respiro. «Anche se non c’è stata ancora un’inversione formale, il processo di normalizzazione (Accordi di Abramo, ndr) potrebbe non essere sufficientemente maturo per resistere a una stasi prolungata», scrive Sarah Zaaimi, vicedirettrice per le comunicazioni del Rafik Hariri Center. In questo momento, in effetti, la normalizzazione arabo-iraniana sembra avere una spinta propulsiva maggiore rispetto alla distensione con Israele. Basti pensare che dopo il riavvicinamento Riyad-Teheran è stata possibile la riammissione nella Lega Araba della Siria di Bashar al-Assad, esclusa dopo la repressione delle proteste antigovernative nel biennio 2011-12. Inoltre, la guida suprema della rivoluzione iraniana, Ali Khamenei, ha dichiarato di vedere positivamente la possibile normalizzazione delle relazioni persino con l’Egitto. I rapporti fra Teheran e Il Cairo sono interrotti dal 1979, quando l’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat diede asilo allo scià deposto Muhammad Rida Pahlavi.

 

Il processo di Abramo, al contrario, sembra vivere un momento di stagnazione, dopo il grande entusiasmo del biennio 2020-21, complici le incertezze politiche interne a Israele e, soprattutto, la disattenzione di un’amministrazione americana che con Joe Biden si sta concentrando soprattutto sull’Asia-Pacifico e sulla guerra in Ucraina, piuttosto che sul Medio Oriente. L’inazione americana, in questo senso, si è vista plasticamente con la riabilitazione del regime di Assad. Dipartimento di Stato e Casa Bianca hanno blandamente ammonito i partner arabi, facendo saper loro che gli USA non vedono di buon occhio la normalizzazione con Damasco, senza però forzare troppo la mano. Come evidenzia Charles Lister, direttore dei programmi Siria e contrasto al terrorismo del Middle East Institute «per gli Stati regionali che riabilitano il regime di Assad, il calcolo è guidato da un semplice fatto: gli Usa e gli alleati non si vedono da nessuna parte». In questo vuoto, che va di pari passo con l’evidente indebolimento della Russia nella zona, potrebbe pensare di inserirsi efficacemente il dragone cinese.

 

Immagine: Da sinistra, Abdullatif bin Rashid al Zayani, Benjamin Netanyahu, Donald Trump e Abdullah bin Zayed al-Nahyan partecipano alla cerimonia degli accordi di Abramo alla Casa Bianca, Washington DC, USA (15 settembre 2020). Crediti: noamgalai / Shutterstock.com

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Siria, si avvia la normalizzazione dei rapporti con i vicini

 

La strada è stata lunga, tortuosa e piena di ostacoli. Ma adesso, complici le contingenze regionali e internazionali, le cose sono cambiate. La Siria di Bashar Assad si avvia alla normalizzazione dei rapporti con i vicini Paesi arabi, dopo anni di emarginazione iniziati con la sollevazione antigovernativa del 2011. L’ultimo capitolo di questo percorso di riavvicinamento tra Damasco e vari attori regionali si è avuto con la visita in Siria del ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan Al-Saud. Il capo della diplomazia di Riyad è stato accolto dal presidente siriano a Damasco martedì 18 aprile. Stando al resoconto fornito dall’agenzia statale siriana SANA, i due hanno discusso «delle relazioni tra i due Paesi e di altri dossier politici arabi e internazionali, come la cooperazione bilaterale tra la Siria e il Regno dell’Arabia Saudita». Le prime iniziative concrete dovrebbero riguardare la riapertura delle rispettive ambasciate e il ripristino dei voli fra i due Paesi.

 

Pochi giorni prima, il 12 aprile, anche il ministro degli Esteri siriano Faisal Mekdad era stato in visita in Arabia Saudita, su invito del ministero degli Affari esteri del regno arabo, per la prima volta dall’inizio della decennale guerra in Siria. Le parti, spiega una nota di Riyad, hanno avuto «una sessione di colloqui sugli sforzi per raggiungere una soluzione politica alla crisi siriana che preservi l’unità, la sicurezza e la stabilità della Siria».

 

Vale la pena ricordare che il regno del Golfo è stato tra i principali sostenitori di alcuni gruppi e milizie anti-regime sin dai primi anni della guerra civile siriana. Riyad, in particolare, ha supportato economicamente e logisticamente le sigle più orientate all’Islam radicale come Jaysh al-Islam e Ahrar Al-Sham. Le forze governative siriane ‒ spalleggiate da Russia, Iran e varie realtà vicine a Teheran come il partito-milizia libanese Hezbollah – hanno dovuto negli anni fare i conti con questi gruppi armati, soprattutto in alcune aree alla periferia della capitale siriana. Il fatto che oggi Riyad e Damasco esplorino modalità per ripristinare le loro relazioni diplomatiche – interrotte nel 2012 per volere dei sauditi – è decisamente significativo.

Tuttavia, il disgelo siriano-saudita non arriva esattamente come un fulmine a ciel sereno, bensì in un contesto regionale e internazionale ben preciso. L’invasione russa in Ucraina – iniziata il 24 febbraio 2022 – ha concentrato su di sé gran parte delle attenzioni e degli sforzi internazionali. Questo è particolarmente vero per la Russia, principale sponsor del regime di Damasco, che dovendo gestire le operazioni belliche sul fronte ucraino riesce a incidere con sempre meno efficacia nelle sue aree di proiezione geopolitica, come il Caucaso e il Medio Oriente. A livello regionale, inoltre, il riavvicinamento fra Riyad e Damasco si inserisce anche nella cornice dell’annunciata normalizzazione fra Arabia Saudita e Iran, favorita dalla Cina. Teheran, insieme a Mosca, è stata uno dei principali sostenitori del regime di Damasco. L’apertura iraniana verso i sauditi – che come già detto invece supportavano i ribelli – non può che aver favorito il clima per un nuovo approccio fra Riyad e Damasco. I risvolti più importanti dei colloqui tra iraniani e sauditi sono attesi nel dossier Yemen, Paese dilaniato dalla guerra fra il movimento sciita Ansarullah (gli Houthi) e una coalizione internazionale a guida saudita. Ma è molto probabile che i contatti fra Riyad e Teheran abbiano riguardato anche la Siria.

 

A livello regionale, inoltre, l’Arabia Saudita è stata preceduta nel suo riavvicinamento alla Siria da un altro attore del Golfo, ossia gli Emirati Arabi Uniti (EAU). Non bisogna dimenticare, infatti, che quella degli EAU a Damasco è stata la prima ambasciata a riaprire i battenti a fine 2018, esempio seguito anche dal Bahrain. Viceversa, la rappresentanza diplomatica siriana ad Abu Dhabi è sempre rimasta operativa. A marzo del 2022, neanche un mese dopo l’invasione russa in Ucraina, Assad è stato negli EAU, in quella che rappresentava la prima visita del presidente siriano in un Paese arabo dopo più di undici anni. In questa occasione come in altre, il piccolo ma potente Stato del Golfo ha svolto il ruolo di “apripista” nelle dinamiche politiche e diplomatiche regionali.

 

Il prossimo passo della normalizzazione di Assad, secondo diversi osservatori internazionali, dovrebbe concretizzarsi nella riammissione di Damasco nella Lega Araba, da cui è fuori sin dall’inizio della guerra civile. Ciononostante, il consenso per aprire di nuovo le porte della Lega a Damasco non è ancora unanime. Il Marocco, che rifiuta il ritorno della Siria nella Lega Araba, non ha neanche espresso vicinanza a Damasco dopo i terremoti di febbraio e, al contempo, non ha inviato alcun aiuto umanitario al Paese. L’Algeria, uno dei pochi Stati che non ha interrotto le relazioni con la Siria durante il conflitto, è certamente favorevole al suo ritorno nella Lega. Anche la Tunisia è sicuramente favorevole, considerato che il ministro degli Esteri siriano Mekdad è stato in visita anche a Tunisi il 18 aprile per riavviare le relazioni diplomatiche. L’Egitto, dove ha sede la Lega Araba, avrebbe rinunciato alla sua opposizione ad Assad, chiedendo però garanzie concrete su una risoluzione politica al conflitto siriano.

Secondo fonti del Financial Times, tra i Paesi più scettici – se non contrari – alla riammissione di Damasco figurano il Kuwait, la Giordania e – soprattutto – il Qatar. Il primo ministro di Doha, in un’intervista televisiva su Al Jazeera, ha predicato cautela in questo senso. «Non c’è nessuna proposta ufficiale, è tutta speculazione», ha dichiarato Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani. L’appuntamento, dunque, è per il mese di maggio, quando i rappresentanti dei 22 Paesi dell’organismo multilaterale arabo si incontreranno proprio a Riyad per un summit, in cui discuteranno anche del rientro della Siria nel consesso diplomatico regionale.

 

Immagini: Manifesti che ritraggono Bashar Assad in una strada di Damasco, Siria (maggio 2022). Crediti: hanohiki / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Riprendono_relazioni_Iran_Arabia_Saudita.html

Riprendono le relazioni tra Iran e Arabia Saudita. Premesse e implicazioni

 

Iran e Arabia Saudita hanno concordato di ristabilire le loro relazioni diplomatiche e di riaprire le rispettive ambasciate entro due mesi. L’accordo è stato raggiunto venerdì 10 marzo 2023 a seguito di una serie di colloqui a Pechino. I due Paesi avevano interrotto ogni rapporto a livello diplomatico nel 2016, dopo anni di tensioni culminate con l’uccisione in Arabia Saudita del clerico sciita Nimr al-Nimr e un attacco all’ambasciata del regno arabo a Teheran. I media statali iraniani hanno pubblicato immagini e video di Ali Shamkhani, segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dell’Iran, con il consigliere per la sicurezza nazionale saudita Musaad bin Mohammed al-Aiban e il cinese Wang Yi, direttore della Commissione per gli Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Per le foto di rito, i tre erano accompagnati dalle bandiere dei rispettivi Paesi, con un portato simbolico difficilmente trascurabile. Riyad, Teheran e Pechino «hanno espresso il loro entusiasmo nel compiere tutti gli sforzi per migliorare la pace e la sicurezza regionale e internazionale», si legge nel comunicato congiunto divulgato al termine dell’incontro.

 

Probabilmente è ancora presto per formulare un giudizio solido e definitivo sull’intesa. Oltre ad annunciare la ripresa delle relazioni, la nota ufficiale diramata al termine dell’incontro parla di cooperazione a vari livelli: economia, commercio, investimenti, tecnologia, scienza, cultura e sport. È possibile, tuttavia, tracciare un bilancio politico parziale dell’iniziativa, concentrandosi sugli effetti a livello regionale, internazionale e dal punto di vista dei singoli attori coinvolti. Tenendo presente, soprattutto, che la contrapposizione fra Riyad e Teheran è stata, almeno nell’ultimo decennio, una delle dinamiche più determinanti per gli equilibri del Medio Oriente.

Sauditi e iraniani condividono un possibile vantaggio dell’intesa raggiunta. Il ripristino dei rapporti potrebbe consentire a entrambi di alleggerire il proprio impegno in alcuni dossier di politica regionale, concentrandosi su altri obiettivi. Il primo fra tutti è chiaramente lo Yemen, dove Teheran spalleggia il movimento sciita Ansarullah – spesso legato al nome degli Houthi –, mentre Riyad guida una coalizione internazionale a sostegno del governo di Aden, riconosciuto a livello internazionale. L’impantanamento nel Paese arabo, in preda a una delle guerre più sanguinose attualmente in corso, è stato uno dei più gravi errori di politica estera di Riyad, in particolare per l’immagine del principe della Corona, Mohammad bin Salman (MbS, come lo chiama la stampa).

 

I due Paesi si sono trovati storicamente su posizioni opposte anche in altri contesti. Per esempio, il Libano, dove l’Iran sostiene il partito-milizia sciita Hezbollah, mentre l’Arabia Saudita è legata alla minoranza sunnita. O in Siria, dove Teheran ha sempre sostenuto il regime di Bashar al-Assad mentre Riyad, soprattutto all’inizio della guerra, ha fornito supporto economico e logistico a molti gruppi antigovernativi, soprattutto quelli più vicini all’Islam radicale. Per non parlare dell’Iraq, geograficamente destinato a fare da “diga” tra quelli che finora erano, e in parte sono ancora, i due principali antagonisti regionali. Trovare una concertazione in questi dossier, in particolare in Yemen, può permettere a entrambe le parti di tirare il fiato e concentrarsi su altre questioni, anche di politica interna. Per l’Iran, ad esempio, l’intesa può essere uno strumento per occuparsi a tempo pieno del malcontento interno.

 

Nel valutare il possibile futuro assetto regionale bisogna tener certamente presente la questione nucleare. A inizio marzo, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha dichiarato che nel sito di Fordow l’Iran lavora a particelle di uranio arricchite all’83,7% di purezza: un livello molto vicino a quello necessario a produrre armi atomiche. Una traiettoria del genere non può lasciare indifferenti i sauditi. Già da tempo, infatti, la monarchia di Riyad chiede agli USA garanzie per la propria sicurezza, oltre che strumenti per iniziare a sviluppare un proprio programma nucleare, in un primo momento per utilizzo civile. Ciononostante, è possibile che i sauditi abbiano ben chiara una considerazione che invece sembra sfuggire ai policy maker occidentali: l’Iran probabilmente non ha neanche l’intenzione di arrivare all’atomica, quanto piuttosto di giocare a livello diplomatico con quello che molti analisti chiamano nuclear hedging. L’idea è quella di avvicinarsi periodicamente al livello di guardia, per poi utilizzare il tema come leva negoziale.

Un altro vantaggio condiviso fra il regno arabo e la repubblica iraniana è l’apertura di contatti diretti ad alto livello. Questi canali di comunicazione servono a evitare escalation in caso di incidenti. Gli USA, tanto per dirne una, hanno ripristinato dopo il G20 di Bali le linee di comunicazione fra la Casa Bianca e la presidenza cinese. Sempre gli Stati Uniti hanno comunicato apertamente con la Russia durante varie fasi della guerra in Siria, comprese tutte le operazioni turche contro le YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare) curde.

 

A livello internazionale, il fatto più importante è sicuramente dato dal ruolo di mediatore giocato dalla Cina. L’annuncio dell’intesa, vale la pena ricordarlo, è arrivato dopo il viaggio a Riyad del presidente cinese Xi Jinping (dicembre 2022) e dopo la missione a Pechino del presidente iraniano Ebrahim Raisi (febbraio 2023). Fino a questo momento, la Repubblica Popolare Cinese ha mantenuto un approccio marcatamente economicista nelle relazioni con il Medio Oriente, cercando di rafforzare le proprie relazioni commerciali con i più svariati attori regionali: Israele, Emirati Arabi Uniti (EAU), Qatar e anche Arabia Saudita e Iran.

 

Come spiega Jon B. Alterman, in un’analisi per Center of Strategic & International Studies, la mossa di Pechino è soprattutto una questione di prestigio. «Il messaggio non così sottile che la Cina sta inviando è che mentre gli Stati Uniti sono la potenza militare preponderante nel Golfo, la Cina è una presenza diplomatica potente e in crescita. Ciò contribuisce a una narrazione di una presenza globale degli Stati Uniti in netto calo» spiega l’analista. Probabilmente è ancora presto per parlare di un vero e proprio cambio di passo, ma certamente l’intesa è il segnale di un maggior impegno di Pechino sotto il profilo diplomatico. Occorre sottolineare che un’impresa del genere porta con sé sia onori che oneri. Lo sanno bene gli USA, la cui reputazione è uscita a dir poco compromessa dal modo in cui hanno gestito dossier scottanti come Iraq e Afghanistan. Vale la pena chiedersi se e quanto la Cina sia attrezzata per un impegno simile.

 

Concludendo, occorre chiedersi come il riavvicinamento tra Iran e Arabia Saudita sarà percepito proprio dal convitato di pietra della situazione: gli Stati Uniti di Joe Biden e di riflesso il principale partner americano nella zona, lo Stato d’Israele. Sin dai tempi di Donald Trump, gli USA hanno lavorato ad un progetto ben preciso, di cui gli Accordi di Abramo per la normalizzazione tra Israele e vari Paesi arabi erano la cornice politica: creare un fronte unico per contenere la Repubblica Islamica Iraniana. L’ingresso dei sauditi – dopo Bahrain, EAU e Oman ‒ nel “processo di Abramo” doveva essere il compimento di questo disegno. L’Intesa fra Riyad e Teheran, di primo acchito, potrebbe sembrare un ostacolo notevole per questo progetto, se non addirittura la sua pietra tombale. Dal punto di vista di Riyad, però, le cose potrebbero essere molto diverse.

Come spiega l’analista saudita Aziz Alghashian, l’idea che l’Arabia Saudita fosse interessata esclusivamente a Israele come parte di un potenziale fronte contro l’Iran è sempre stata «molto superficiale». Riyad ha dato la priorità a un riavvicinamento con l’Iran rispetto a un avvicinamento aperto con Israele, ma questo non significa che i rapporti tranquilli con Israele cesseranno. Ora, semplicemente, il rapporto con l’Iran è una variabile che fa parte dell’equazione. Gli USA per il momento sono in una fase attendista, ma è ragionevole pensare che l’ingresso della Cina nel gioco diplomatico mediorientale possa andar bene a Washington, purché non minacci la sicurezza di Israele e non contesti il primato americano almeno dal punto di vista militare.

 

Immagine: Le bandiere di Cina, Arabia saudita e Iran. Crediti: Andy.LIU / Shutterstock.com

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Israele, tra instabilità politica e nuovi scoppi di violenza

 

Israele è di nuovo in preda all’instabilità sia sul fronte interno che su quello internazionale, in particolare per i nuovi focolai di tensione in Cisgiordania. La debolezza dei governi di coalizione, che ha portato lo Stato ebraico alle urne per ben cinque volte in soli quattro anni e mezzo, è d’altronde una delle cifre distintive di questa fase della storia di Israele. L’ennesima escalation con i palestinesi, poi, è solo una prova ulteriore di quanto gli accordi di Oslo e la cosiddetta soluzione a due Stati siano ormai un progetto dalla realizzazione quanto mai remota e improbabile.

Il 26 gennaio le Forze di difesa israeliane (IDF, Israel Defence Forces) hanno effettuato un raid nella città di Jenin, in Cisgiordania. Il vecchio campo profughi, che ha dato rifugio a molti palestinesi fuggiti dopo il 1948, è storicamente anche una roccaforte della resistenza nazionale degli arabi di Palestina. Obiettivo del blitz, hanno spiegato le autorità israeliane, erano alcuni obiettivi legati al gruppo denominato Jihad islamico, molto attivo anche nella Striscia di Gaza. Il bilancio dell’assalto si è rivelato il più letale tra quelli effettuati dalle IDF in Cisgiordania negli ultimi due decenni: dieci morti lasciati sul selciato, a seguito di quello che le autorità israeliane hanno ricostruito come un violento scontro a fuoco con i miliziani palestinesi. Nel confronto è rimasto coinvolto anche un ospedale pediatrico: una vetrata è stata sfondata da un lacrimogeno. Le IDF hanno negato che si sia trattato di un’azione intenzionale.

 

L’operazione ha rappresentato la miccia dell’ennesima spirale di violenza. Il 27 gennaio, giornata internazionale dedicata alla memoria della Shoah, sette persone sono rimaste uccise in un attentato compiuto da un ventunenne palestinese a Gerusalemme. Il giovane ha aperto il fuoco sparando a distanza ravvicinata fra la folla, radunata nei pressi di una sinagoga per celebrare lo Shabbat. Il governo dello Stato ebraico ha promesso il pugno di ferro, mentre il terreno di scontro si è ben presto spostato nella Striscia di Gaza. Nei giorni successivi, infatti, le IDF hanno lanciato una serie di attacchi aerei sull’enclave costiera palestinese, soprattutto nella notte tra il 1° e il 2 febbraio: obiettivo, secondo quanto assicurato dalle forze dello Stato ebraico, un centro di addestramento delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato del movimento Hamas.

Dalla Striscia sono invece partiti razzi verso le città a ridosso del confine. Le sirene sono risuonate in particolare nella cittadina di Sderot.

 

La nuova escalation arriva in un momento particolarmente delicato anche per la politica interna israeliana. Benjamin Netanyahu, chiamato a formare il governo per la sesta volta nella sua carriera, è nel mirino dei critici per l’annunciata riforma della giustizia. Secondo il progetto legislativo, le attività della Corte suprema (in ebraico Bagatz) andrebbero subordinate al controllo del Parlamento (la Knesset). La riforma, infatti, prevede che quest’ultimo possa annullare una decisione della Corte con un voto a maggioranza semplice, aumentando il potere dei funzionari eletti sui tribunali. Occorre precisare che Israele non ha una Costituzione, se non la dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948. Le sentenze del massimo tribunale, quindi, hanno rivestito finora il ruolo di principale fonte di elaborazione del diritto israeliano.

L’esecutivo di centrodestra guidato da Netanyahu è stato bersagliato da critiche, e gruppi di opposizione hanno organizzato manifestazioni di protesta contro il progetto di riforma. Migliaia di persone si sono date appuntamento per cinque settimane consecutive, soprattutto per le strade di Tel Aviv. Folle innalzanti bandiere israeliane bianche e blu hanno riempito le piazze con cartelli che etichettavano il nuovo governo come una «minaccia alla pace mondiale». Le proteste sono diventate un appuntamento settimanale ogni sabato sera. In una delle ultime manifestazioni a Haifa, l’ex primo ministro israeliano Yair Lapid ha dichiarato: «Salveremo il nostro Paese perché non siamo disposti a vivere in un Paese non democratico».

 

La situazione in Israele è stata seguita molto da vicino da un osservatore particolare: gli Stati Uniti d’America. Il segretario di Stato USA, Antony Blinken, è stato in visita sia nello Stato ebraico che nei territori palestinesi, dove ha incontrato il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazin, proprio durante la fase acuta delle tensioni. Il capo della diplomazia di Washington ha chiesto a entrambe le parti di intraprendere «passi urgenti» per riportare la calma. Vale la pena sottolineare che in Israele il segretario di Stato ha fatto riferimento, anche se indirettamente, anche alla situazione politica interna. Come ricostruisce un’analisi del quotidiano The Times of Israel, il 30 gennaio Blinken ha lanciato un appello diplomatico, cortese ma inequivocabile e molto dettagliato, al premier Netanyahu affinché «custodisca la democrazia israeliana e riconsideri i termini dell’annunciata riforma giudiziaria».

 

Immagine: Gli israeliani protestano a Tel Aviv contro i piani del nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu per riformare il sistema legale e la Corte suprema, Tel Aviv, Israele (21 gennaio 2023). Crediti: Avi Rozen / Shutterstock.com

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Turchia, le mosse di Erdoğan in Medio Oriente (sullo sfondo della guerra in Ucraina)

 

Non solo azioni di forza, come quella che Ankara si prepara a compiere in Siria contro le milizie curdo-arabe, ma anche un fervente lavorio diplomatico. La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan sta vivendo un momento molto particolare della sua storia, in cui la debolezza economica fa il paio con rinnovati sforzi per rinsaldare, o ripristinare, importanti relazioni a livello regionale. La premessa fondamentale per capire le ultime mosse di Ankara non può che essere rintracciata nella guerra in Ucraina. Il conflitto, scaturito dall’invasione russa del Paese iniziata il 24 febbraio scorso, ha inevitabilmente ridotto le capacità della Russia di incidere sulle dinamiche mediorientali e non solo.

La dimostrazione plastica di questa disattenzione russa al suo “estero vicino” si è avuta il 23 novembre a Erevan, capitale dell’Armenia, dove si è tenuta l’ultima riunione della CSTO (Collective Security Treaty Organization), l’alleanza regionale a guida russa che riunisce i principali attori dello spazio post-sovietico. Il summit si è rivelato una vera e propria doccia fredda per Vladimir Putin. Alcuni fra i delegati non hanno firmato la dichiarazione congiunta al temine del vertice, dai contenuti fra l’altro abbastanza blandi. Leader regionali come il premier armeno Nikol Pashinyan hanno cercato in tutti i modi di evitare la vicinanza di Putin, soprattutto in occasione delle foto di rito. La colpa del Cremlino, secondo i partner di Mosca, è quella di non essere più in grado di esercitare il suo peso per dirimere le contese locali. L’Armenia, in particolare, a fine ottobre è stata attaccata dall’Azerbaigian (appoggiato dalla Turchia), in una momentanea ripresa degli scontri per il controllo del Nagorno-Karabakh, ma Mosca non ha fatto nulla per sostenere o proteggere Erevan.

Lo stesso discorso vale per il Medio Oriente, dove le proteste in Iran e altri eventi recenti vedono fortemente scossa l’impalcatura securitaria di cui Mosca è stata negli ultimi anni il principale interprete. La Turchia, dunque, cerca di inserirsi in questo vuoto, con l’obiettivo di approfondire relazioni bilaterali per vantaggi sia economici che strategici.

Erdoğan è stato immortalato a Doha, in occasione dell’apertura dei mondiali Qatar 2022, durante una storica stretta di mano con l’omologo egiziano Abd al-Fattah al-Sisi. Il portavoce della presidenza egiziana ha fatto sapere che, durante il breve incontro, i due «hanno confermato la profondità dei legami storici tra i due Paesi». Vale la pena ricordare che Ankara e Il Cairo sono in rotta di collisione da quasi dieci anni. Al-Sisi, infatti, è salito al potere nel 2013 a seguito di un colpo di Stato militare che ha deposto il presidente filoturco Mohammed Morsi, espressione della Fratellanza musulmana. I media vicini ai due governi hanno celebrato in pompa magna l’evento, mentre i critici restano scettici. «La foto dei due presidenti che si stringono la mano ha un alto valore come notizia, ma un basso valore a livello di conseguenze», spiega l’ex ambasciatore turco al Cairo, Safak Gokturk, sulle colonne del sito Al-Monitor.

 

Se per i rapporti con l’Egitto è ancora presto per parlare di normalizzazione, diversa è la situazione con i principali Stati del Golfo, ossia Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Al regno hashemita, infatti, la Turchia ha fatto una grossa concessione cedendo al suo sistema giudiziario la competenza sul caso di Jamal Khashoggi, il giornalista dissidente ucciso e smembrato al consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018. Con gli EAU invece i rapporti sono ormai solidi, sin da quando Erdoğan ha visitato il piccolo ma potente emirato del Golfo a febbraio di quest’anno. Nel campo della difesa, Ankara ha fornito agli emiratini una grossa partita di droni – gli stessi che vengono utilizzati in Ucraina – e a inizio dicembre il ministro dell’Interno turco Süleyman Soylu, insieme al suo entourage, ha effettuato una visita ufficiale ad Abu Dhabi, dove ha incontrato l’omologo degli Emirati, Saif bin Zayed al-Nahyan, e il presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed al-Nahyan (MbZ, come lo chiama spesso la stampa anglofona).

 

Fino a qualche anno fa queste comuni interessenze sarebbero state impensabili. La Turchia aveva il suo principale interlocutore nel Qatar, con la Fratellanza musulmana a fare da cinghia di trasmissione. L’obiettivo turco è quello di attrarre capitali e moneta pregiata, di cui il tessuto finanziario di Ankara ha un bisogno disperato. Il Paese, infatti, è ancora in preda a una spirale inflazionistica terribile, sebbene a inizio dicembre la situazione sia leggermente migliorata.

 

La partita più importante, anche in vista delle elezioni presidenziali fissate a giugno 2023, probabilmente è quella siriana. Erdoğan ha attribuito alle YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare) la responsabilità dell’attentato del 13 novembre a Istanbul, in cui hanno perso la vita sei persone. L’esercito turco ha effettuato bombardamenti sulle posizioni curde nell’operazione Spada d’artiglio e si prepara ad avviare una nuova offensiva di terra. Dietro le quinte, però, ferve anche il lavoro diplomatico. Ankara, come confermato dalle autorità turche stesse, ha informato dei raid contro i Curdi le forze russe, che controllano quello spazio aereo, e ha chiesto a Mosca di patrocinare un accordo per rimuovere le YPG da una fascia di 30 km dal confine turco. Nel frattempo, si fanno sempre più insistenti le indiscrezioni su un incontro diretto fra Erdoğan e l’omologo siriano Bashar al-Assad. Si tratterebbe di una svolta non trascurabile, considerato che Ankara ha sostenuto le sollevazioni contro il regime di Damasco nel 2011.

 

Come sottolinea un’analisi del sito statunitense Politico, il governo turco si è messo nella posizione di fare sostanzialmente quello che desidera in Medio Oriente, soprattutto in Siria. Da una parte trae beneficio dal ruolo giocato come mediatore nella guerra in Ucraina, in cui ha favorito l’accordo per l’export di cereali pattuito a Istanbul, dall’altra la “distrazione” russa e statunitense verso l’area finiscono inevitabilmente per far buon gioco alle ambizioni turche. In questo momento, dunque, Washington e Mosca possono probabilmente far valere il loro peso solo per moderare le spinte turche, ma non per fermarle del tutto.

 

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Immagine: Recep Tayyip Erdoğan (7 ottobre 2022). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Le quattro dimensioni delle proteste in Iran

Manifestazioni di protesta continuano a scuotere l’Iran ormai da due mesi, nonostante la violenta repressione da parte degli apparati di sicurezza del Paese. Le dimostrazioni sono cominciate a metà settembre 2022, dopo che Mahsa Amini, una donna curdo-iraniana di 22 anni, è stata arrestata dalla cosiddetta “polizia morale” a Teheran, perché accusata di non indossare correttamente il hijab, una delle tante tipologie di velo usate dalle donne di fede islamica. Secondo quanto appreso, la donna è stata violentemente percossa, è caduta in coma ed è morta pochi giorni dopo. Da quel momento, un’ondata di dolore e indignazione ha spinto un numero crescente di persone a scendere in strada per manifestare dissenso nei confronti del regime e delle sue politiche repressive. Nelle ultime settimane, tuttavia, le proteste si sono evolute in un movimento molto più ampio contro la leadership del Paese. Se in un primo momento, infatti, importanti fasce della popolazione e del tessuto produttivo iraniano non si erano ancora mobilitate, fra i mesi di ottobre e novembre le sollevazioni si sono estese a una parte consistente della popolazione e del territorio del Paese.

 

Dalla morte di Mahsa Amini, manifestazioni di protesta sono state organizzate non solo nella capitale Teheran ma anche a Karaj, Kermanshah, Sanandaj, Shiraz, Ahvaz, Mashhad e Isfahan. Il regime della Repubblica islamica ha adottato sin da subito una narrazione che vuole le proteste come un movimento sobillato e agito da forze esterne: una retorica già ampiamente vista durante le cosiddette “primavere arabe” nel biennio 2010-11. Questa presa di posizione è stata in un certo senso “avvalorata” dagli attentati che hanno accompagnato le proteste, in particolare l’attacco – rivendicato dallo Stato islamico – contro un luogo di culto sciita a Shiraz. Le manifestazioni, tuttavia, sono nella stragrande maggioranza dei casi pacifiche, anche se non sono mancati atti di forza come l’incendio alla casa-museo di Ruhollah Khomeini.

 

Al netto della fredda contabilità della repressione – che secondo l’organizzazione con base in Norvegia Iran Human Rights ha causato finora l’uccisione di più di 300 persone, tra cui minori e donne – la situazione resta molto complessa. Per comprendere quello che sta accadendo sembra più che mai necessario adottare un approccio multidimensionale, tentando di evitare l’incasellamento delle proteste in un facile schema di “lotta contro Dio”, contro l’Islam per come è stato impostato dal regime khomeinista o addirittura come “controrivoluzione” rispetto a quella del 1979. La prima dimensione da considerare è senza dubbio quella generazionale. Come evidenzia un’analisi di Foreign Policy, i grandi protagonisti delle sollevazioni fanno parte della Generazione Z iraniana, detti anche Gen Zers o Zoomers. Si tratta di ragazzi e ragazze abituati a usare i social e Internet, nonostante le frequenti interruzioni della rete nel Paese. Sono loro, coetanei di Mahsa Amini, il nerbo delle manifestazioni e non hanno paura di sfidare un regime che considerano ormai sclerotizzato su posizioni vecchie di decenni. Anche fasce più anziane della popolazione hanno preso parte alle proteste, ma non c’è dubbio che i giovani ne rappresentino, in un certo senso, la vera avanguardia.

 

Il secondo elemento da considerare è quello religioso. Come già detto, l’errore più grave che si possa correre analizzando i movimenti di protesta in Iran è quello di interpretarli come una spinta marcatamente secolarista, che rifiuta in toto l’Islam. Al contrario, la critica che emerge dalle piazze si rivolge alla religiosità pubblica normata e imposta dal regime degli ayatollah. Nei media e nella narrazione occidentale, ad esempio, viene data enorme attenzione alla questione del velo, che è stato al centro del violento episodio che ha coinvolto la stessa Mahsa Amini. Le piazze, tuttavia, non chiedono tanto la rimozione forzata del velo stesso, quanto che quella di indossarlo possa essere una libera scelta. Non bisogna dimenticare che, durante e soprattutto dopo la rivoluzione iraniana del 1979, il velo era diventato uno dei simboli della reazione popolare alla secolarizzazione forzata voluta dal regime degli shah.

 

Il dato anagrafico e quello religioso si intrecciano inevitabilmente con la terza dimensione da considerare, cioè quella politica ed economica. I giovani che animano le proteste sono nati tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Non hanno vissuto la rivoluzione, non hanno idea di come fosse l’Iran prima degli ayatollah, ma sanno cosa è venuto dopo. Alla prima generazione rivoluzionaria, quella che ha fattivamente alimentato la rivoluzione del 1979, è seguita quella dei potentati economico-militari – come le Guardie della rivoluzione islamica – che col tempo hanno preso il controllo di gangli vitali del tessuto produttivo iraniano. La posta in gioco delle proteste, dunque, riguarda enormi interessi economici ed equilibri di potere interni, non il solo rapporto tra religiosità e individuo e la tutela dei diritti.

 

Infine, ma non meno importante, c’è la dimensione internazionale. All’inizio di quest’anno, Karim Sadjadpour, analista del Carnegie Endowment for International Peace, sosteneva in un articolo su Foreign Affairs che le imprese all’estero dell’Iran – compreso l’intervento in Siria e il mantenimento dell’influenza in Iraq – avrebbero portato un prezzo molto alto da pagare in patria. «Alla fine», spiegava, «la grande strategia della Repubblica islamica sarà sconfitta non dagli Stati Uniti o da Israele, ma dal popolo iraniano, che ne ha pagato il prezzo più alto». A questo elemento si aggiunge il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, che strozzano l’economia della Repubblica islamica, facendo crescere inevitabilmente il malcontento e il disagio sociale nelle fasce più deboli della popolazione.

 

Immagine: Gli studenti dell’Università Amir Kabir protestano contro l’hijab e il regime, Teheran, Iran (20 settembre 2022). Crediti: Darafsh [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0), attraverso Wikimedia Commons

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Energia e instabilità politica in Libia

La Libia è nuovamente attraversata da tensioni e sconvolgimenti in campo politico e sociale. All’inizio di luglio, infatti, il Paese nordafricano è stato teatro di una nuova ondata di manifestazioni in diverse località. Dalla capitale Tripoli a Sebha, nella regione meridionale del Fezzan, passando per Bengasi: centinaia di persone sono scese in strada per manifestare il loro dissenso. A Tobruk, sede della Camera dei rappresentanti (unico organismo legislativo eletto nel frastagliato panorama istituzionale libico), i dimostranti hanno persino appiccato il fuoco e dato il via a episodi di razzia e saccheggio. Dietro il malcontento ci sono ragioni politiche, economiche e sociali. Ogni manifestazione, volendo adottare una prospettiva analitica, rappresenta un fenomeno a sé. Uno dei leitmotiv dell’ondata di dissenso è stata sicuramente la crisi nel settore dell’energia elettrica. La Libia, come evidenziato da diversi analisti, si è trovata nel paradosso di dover gestire carenze nel fabbisogno energetico interno – con lunghi blackout in diverse aree del Paese – pur essendo uno degli Stati più ricchi al mondo di gas e petrolio. Le riserve accertate di greggio della Libia, infatti, sono le più imponenti di tutta l’Africa e tra le prime a livello globale. Questa situazione ha portato le autorità libiche a considerare la possibilità di tagliare le esportazioni – soprattutto di gas – verso alcuni partner internazionali per soddisfare le necessità domestiche. Tra questi c’è anche l’Italia, che tuttavia importa dalla Libia una quota che oscilla tra il 2% e il 4% del suo fabbisogno. Le carenze sono dovute a periodiche interruzioni nell’estrazione e nel trasporto di idrocarburi, che spesso si verificano quando le infrastrutture passano dal controllo di un gruppo armato a un altro.

Il dossier energia si intreccia inevitabilmente con la frammentazione e l’instabilità politica, entrambe cifre distintive della Libia dopo la caduta del colonnello Muammar Gheddafi. Secondo una definizione di grande successo tra gli studiosi dell’area, il regime della Jamahiriya aveva sostanzialmente ribaltato il principio della democrazia liberale del “No taxation without representation”, operazione possibile in uno di quelli Stati che vengono definiti rentier. Si tratta di quei Paesi la cui economia dipende in larghissima maggioranza dall’export di un qualche bene. Gli idrocarburi, nel caso della Libia. L’economia del Paese arabo è basata in larga parte sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera, che costituisce il 95% delle entrate. Gheddafi aveva sostanzialmente accentrato tutto il potere politico e decisionale nelle mani del regime ed esautorato ogni organismo elettivo (representation), impegnandosi in cambio a distribuire le rendite petrolifere e ad utilizzarle per fornire servizi e welfare gratuiti (taxation).

Con la caduta del regime, numerosi potentati, gruppi tribali e consorterie hanno guadagnato una propria fetta di potere. Una situazione, che si riscontra ancora oggi, in cui sembra quanto mai difficile ripristinare il monopolio della violenza e della gestione nelle mani di uno Stato centralizzato, forte e coeso. Dopo anni di bipolarismo tra il governo di Tripoli – appoggiato dalle Nazioni Unite – e le autorità della Cirenaica fra cui il generale Khalifa Haftar, oggi la situazione risulta – se possibile – ancora più complessa. Da alcuni mesi, infatti, convivono in Libia due governi paralleli. Il primo è il Governo di unità nazionale libico (GUN), ubicato a Tripoli e guidato dall’ex imprenditore Abdulhamid Dabaibah; il secondo – incaricato a marzo scorso dal Parlamento di Tobruk – capeggiato da Fathi Bashagha (ex ministro dell’Interno e rappresentante di spicco della città-Stato di Misurata).

Il governo Dabaibah aveva il compito di traghettare il Paese verso le elezioni legislative e presidenziali che si sarebbero dovute celebrare a dicembre 2021. Questo, tuttavia, non è avvenuto e Dabaibah ha seccamente rifiutato di farsi da parte anche dopo la nomina di Bashagha da parte della Camera dei rappresentanti di Tobruk. A questo panorama politico già estremamente complesso si aggiungono attori come il già citato Haftar, che cerca in tutti i modi di influenzare le dinamiche politiche pur non ricoprendo alcun incarico istituzionale. Periodicamente ritorna alla ribalta il nome di Saif Al-Islam Gheddafi, figlio del defunto rais, che tenta di costruirsi un ruolo nel futuro politico libico, pur gravando su di lui un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte penale dell’Aja nel 2011 per violazioni dei diritti umani.

L’ultima prova dell’intreccio sempre più aggrovigliato tra energia è in politica si è avuta il 12 luglio, con la sostituzione del presidente dalla National Oil Company (NOC). Farhat bin Qadara, ex governatore della Banca centrale della Libia durante il regime Gheddafi, ha preso il posto di Mustafa Sanallah, che guidava la compagnia sin dal 2015. Si è trattato di un’operazione di concerto politico, volta a favorire anche un miglioramento dei rapporti tra il GNU e i gruppi vicini ad Haftar. Bin Qadara, a una settimana dall’inizio del suo incarico, ha annunciato la ripresa delle estrazioni di petrolio in tutti i pozzi del Paese, ma la situazione resta comunque tesa. Il sindaco del comune di Ubari, località nell’estremo Sud della Libia, ha detto al quotidiano Al Hadath che quella in atto resta una «situazione esplosiva», a causa dell’aggravarsi della crisi dei carburanti e per l’assenza di un governo stabile e in grado di controllare anche le zone più remote del Paese nordafricano.

 

Immagine: Una stazione petrolifera in Libia. Crediti: Said Zr / Shutterstock.com

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L’Italia in Israele, per una alternativa mediterranea dell’energia

 

Relazioni bilaterali, cooperazione in diversi campi ad alto potenziale innovativo e, soprattutto, partnership energetica. Sono stati questi i temi centrali della visita del premier Mario Draghi in Israele e Palestina. Il capo del governo di Roma, in Medio Oriente tra il 13 e il 14 giugno, è stato il primo presidente del Consiglio in sette anni a recarsi nello Stato ebraico e nei Territori sottoposti al controllo dell’Autorità nazionale palestinese (ANP). Lo ha fatto in un contesto internazionale inevitabilmente segnato dalla guerra in Ucraina, la peggior crisi diplomatica, economica e umanitaria dai tempi del conflitto in Siria.

Gli effetti dell’invasione russa sul fronte dell’energia sono ormai da mesi la bussola che orienta la rotta diplomatica italiana. L’obiettivo, chiarito esplicitamente da Palazzo Chigi, è quello di «ridurre la dipendenza italiana dalla Russia, diversificando nel minor tempo possibile le fonti di approvvigionamento nel rispetto degli impegni in tema di decarbonizzazione». Nell’arco dei primi cento giorni di conflitto, il premier Draghi e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, hanno compiuto numerose visite di Stato in diversi Paesi produttori di idrocarburi. Dall’Algeria alla Repubblica Democratica del Congo, passando per Angola, Egitto, Qatar e Kazakistan. Senza contare i tentativi di Draghi per convincere il presidente americano Joe Biden a contribuire alla stabilizzazione della Libia, altra possibile fonte per un incremento delle importazioni energetiche.

La visita del premier italiano in Medio Oriente, in questo senso, non è stata un’eccezione. Come evidenziato dall’agenzia Bloomberg, il viaggio di Draghi in Israele – seguito a ruota da quello della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – ha avuto come principale obiettivo quello di rafforzare la cooperazione in campo energetico. Dopo aver incontrato il presidente della Repubblica Isaac Herzog e il suo omologo Naftali Bennett, Draghi ha dichiarato in conferenza stampa che Israele può aiutare l’Europa e anche l’Italia con il gas naturale «e queste sono ottime notizie per il mondo».

Il capo del governo ha sottolineato che Italia e Israele hanno grandi possibilità per lavorare insieme allo sviluppo e all’utilizzo delle fonti gasifere nel Mediterraneo orientale. Lo Stato ebraico – insieme a Cipro e Grecia – è infatti uno dei Paesi mediterranei interessati dal gasdotto EastMed, che permetterà di far arrivare in Puglia – tramite il ramo Poseidon – metano proveniente dai giacimenti del Mediterraneo orientale, scoperti nel 2009. «Vogliamo ridurre la nostra dipendenza dal gas russo e accelerare la transizione energetica, verso gli obiettivi climatici che ci siamo dati», ha spiegato Draghi, che nel corso del suo soggiorno a Gerusalemme ha incontrato anche la ministra dell’Energia israeliana, Karine Elharrar.

Altro attore decisivo per la partita del gas nel Mediterraneo orientale è l’Egitto, che la mattina di mercoledì 15 giugno – alla presenza della presidente von der Leyen – ha firmato un memorandum d’intesa con Israele e Unione Europea (UE) sulla cooperazione in materia di commercio, trasporto ed esportazione di gas naturale verso i Paesi dell’UE. Secondo quanto emerso, le parti si impegnano a lavorare per garantire la fornitura agli Stati UE di gas proveniente da Israele e dagli impianti di liquefazione presenti in Egitto. Il cosiddetto GNL (Gas Naturale Liquefatto) è diverso e più costoso rispetto a quello spostato tramite condotte. Viene infatti trasportato in navi container e riportato allo stato aeriforme una volta arrivato a destinazione.

La missione di Draghi ha avuto anche importanti contenuti politici e culturali. Il premier israeliano Bennett ha annunciato la stipula di un accordo per organizzare un vertice intergovernativo tra Israele e Italia «dopo quasi un decennio di pausa, per sfruttare le opportunità comuni». Draghi è stato dunque in visita allo Yad Vashem, il museo di Gerusalemme dedicato alla memoria della Shoah. Il capo del governo italiano si è poi recato Ramallah, dove ha incontrato il premier dell’ANP, Mohammad Shtayyeh. Nel corso della sua permanenza nei Territori palestinesi, Draghi ha annunciato il varo di sei accordi di sviluppo per un totale di 17 milioni di euro, incentrati su «aree cruciali come la chirurgia pediatrica, l’agricoltura, l’occupazione giovanile e la protezione del patrimonio culturale». Shtayyeh, per parte sua, ha chiesto a Draghi di lavorare a livello internazionale per rilanciare la soluzione a due Stati, come mezzo per raggiungere una pace duratura e definitiva con lo Stato ebraico. Il presidente del Consiglio ha assicurato che la visita «riafferma l’ottimo rapporto tra i nostri Paesi, nonché il fermo impegno dell’Italia nel processo di pace tra Palestina e Israele». 

Come già detto, però, gli incontri istituzionali con le autorità israeliane e palestinesi hanno fatto da contorno al vero tema centrale della visita di Draghi: la spinta per una via mediterranea dell’energia, che consenta all’Europa di affrancarsi – almeno in parte – dalla dipendenza dal gas russo. Non a caso, dando notizia delle missioni congiunte di Draghi e von der Leyen in Medio Oriente, la rivista Time titola senza troppi fronzoli: «Unione Europea al lavoro per creare legami con Israele nel settore del gas e dell’elettricità».

 

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Immagine: La Reading Power Station, centrale termica alimentata a gas naturale, Tel Aviv, Israele (1 maggio 2021). Crediti: Eliricon / Shutterstock.com

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L’incontro Draghi-Biden alla Casa Bianca

Un cessate il fuoco immediato in Ucraina, volto a favorire il rilancio dei colloqui diplomatici tra Kiev e Mosca. È questo il messaggio centrale lanciato dal premier italiano, Mario Draghi, poco dopo essere stato accolto alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. All’inizio del suo intervento di ieri, che ha preceduto il faccia a faccia a porte chiuse con il leader statunitense, Draghi ha sottolineato che la guerra in Ucraina ha reso ancora più solido il legame degli Stati Uniti non solo con l’Italia, coma con l’Europa intera. Vladimir Putin «ha pensato di poterci dividere, ma ha fallito», ha spiegato Draghi in riferimento al presidente russo e all’offensiva contro l’Ucraina iniziata il 24 febbraio scorso. «In Italia e in Europa, in questo momento, i cittadini si chiedono come portare la pace in Ucraina», ha detto Draghi, evidenziando che «la gente vuole porre fine a questo massacro, a questa carneficina».  

Biden, per parte sua, ha puntualizzato che avere una Unione Europea (UE) «più forte» è interesse anche degli Stati Uniti. L’inquilino della Casa Bianca ha riconosciuto a Draghi il merito di aver lavorato per tenere unite la NATO e l’UE di fronte alle sfide poste dall’invasione russa in Ucraina. «C’è una cosa che apprezzo in particolare di te, lo sforzo di tenere unite la NATO e l’UE», ha affermato Biden. «La vostra collaborazione, talvolta a un costo maggiore rispetto ad altri, nell’affrontare Putin e quello che sta succedendo in Ucraina è stata davvero incredibile», ha detto Biden al primo ministro italiano. «Putin credeva davvero di poterci dividere, ma ci siamo fatti avanti insieme», ha aggiunto il presidente americano riprendendo le parole di Draghi.

La proposta di favorire un cessate il fuoco indica una prospettiva piuttosto chiara, in cui gli ucraini non devono necessariamente prevalere e respingere i russi, quanto negoziare con Mosca i termini per concludere le ostilità. Su tale ipotesi è intervenuta la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Mentre il colloquio tra Biden e Draghi era in corso, la responsabile della comunicazione rispondeva ai giornalisti che le chiedevano quale fosse la posizione di Washington di fronte alla possibilità avanzata dal premier italiano. «Gli Stati Uniti continuano a credere che la guerra in Ucraina si risolverà attraverso un processo diplomatico, ma al momento non ritengono la Russia aperta ad un simile percorso», ha affermato Psaki.

La missione di Draghi negli Stati Uniti arriva dopo un periodo altalenante nelle relazioni Italia-USA, il cui inizio è stato certamente rappresentato dalla firma – durante il governo Conte I – del memorandum d’intesa per la Nuova Via della Seta cinese da parte dell’Italia. L’avvicinamento di Roma al progetto della Repubblica popolare – una vera e propria rete geoeconomica di strade, ponti e infrastrutture volta a favorire le relazioni commerciali della Cina – ha suscitato non poche perplessità da parte di Washington. Garrett Marquis, allora portavoce del gruppo di consiglieri per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, a marzo del 2019 affermava che il governo italiano non avrebbe dovuto sostenere il piano infrastrutturale cinese, definendolo senza mezzi termini un «progetto di vanità» da parte di Pechino.

L’arrivo a Palazzo Chigi di Draghi – febbraio 2021 – ha sicuramente fatto riguadagnare all’Italia una maggiore fiducia da parte di Washington, considerato che nel frattempo Biden aveva preso il posto di Donald Trump alla Casa Bianca. Nei primi mesi dell’esecutivo sono stati pubblicati numerosi articoli sulla stampa americana in cui veniva elogiata la figura dell’ex capo della BCE come possibile fonte di stabilizzazione per il nostro Paese. La segretaria al Tesoro dell’amministrazione Biden, Janet Yellen, nelle motivazioni per l’inserimento di Draghi nella top 100 del Times dichiarava senza remore che «Gli Stati Uniti sono grati di avere Mario di nuovo come partner».

A livello geopolitico, l’Italia ha certamente riguadagnato centralità nell’agenda di Washington per via della crisi ucraina, specialmente per quello che riguarda il dossier energia. Diversi esponenti dell’amministrazione Biden – come pure il presidente stesso – hanno assicurato a più riprese che gli Stati Uniti sostengono i Paesi europei nei loro sforzi per ridurre la dipendenza dalle fonti energetiche russe, anche con il possibile invio dagli USA di gas naturale liquefatto (GNL). Negli ultimi tre mesi, la diplomazia italiana ha lavorato sodo con interlocutori come Algeria, Angola e Congo per rafforzare la partnership energetica con il continente africano. Il nostro Paese è tra i più esposti per quello che riguarda il fabbisogno di idrocarburi da Mosca, da cui attualmente importiamo il 43,3% del gas e il 12,5% del petrolio.

In un’ottica geopolitica più allargata, tuttavia, è chiaro che l’Italia vista da Washington non è più quel pilastro centrale per la politica estera americana che è stata durante tutta la guerra fredda. All’epoca, per esempio, Trieste rappresentava idealmente il confine meridionale della cortina di ferro, anche se al di là della barriera c’era la Iugoslavia di Tito e non l’Unione Sovietica. L’Italia era anche il Paese del più grande Partito comunista d’Europa, il PCI, nonché l’avamposto della NATO in uno scacchiere importante come il Mediterraneo, le cui sponde erano spesso in ebollizione. Gli USA di oggi, pur costretti ad occuparsi nuovamente di Europa dai fatti ucraini, hanno lo sguardo sempre più proteso verso il Pacifico e concentrato sulla sfida egemonica con la Cina. In questa nuova configurazione, l’Italia e il vecchio continente nella sua interezza finiscono inevitabilmente per trovarsi in periferia.

 

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Immagine: Da sinistra, Mario Draghi (1 dicembre 2011) e Joe Biden (15 giugno 2021). Crediti: Mario Draghi, © European Union 2011 PE-EP/Pietro Naj-Oleari [Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0)], attraverso www.flickr.com; Joe Biden, Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Summit del Negev, più stretti i rapporti tra Israele e i vicini arabi

 

«È nel deserto del Negev che la creatività e il vigore pionieristico di Israele saranno messi alla prova». Con queste parole il primo premier e padre dello Stato ebraico, David Ben Gurion, spiegava nel 1970 la scelta del kibbutz di Sde Boker come sede del suo ritiro dalla vita politica, dopo aver proclamato la nascita stessa di Israele nel 1948 e averne guidato il governo per quasi un ventennio. Nella stessa località, simbolo del connubio tra sionismo e collettivismo di matrice socialista situata nel cuore del deserto israeliano, ha avuto luogo il 28 marzo un vertice senza precedenti tra il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e rappresentanti dei Paesi coinvolti a vario titolo nei cosiddetti Accordi di Abramo del 2020: Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco.

Al summit hanno partecipato, oltre al già citato Blinken, il ministro degli Esteri israeliano e padrone di casa, Yair Lapid, l’omologo emiratino Abdullah bin Zayed al-Nahyan, il capo della diplomazia del Bahrain, Abdullatif bin Rashid al-Zayani, il ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita e l’egiziano, Sameh Shoukry. La scelta del luogo, come spesso accade nelle arene politiche internazionali, porta con sé una carica simbolica non trascurabile. Accettare Sde Boker come luogo di confronto significa accogliere una prospettiva impensabile fino a qualche anno fa, ossia l’accettazione da parte degli interlocutori arabi dell’esistenza stessa di Israele e del suo radicamento sul territorio.

Dal punto di vista politico, il risultato principale del summit è stato la sua trasformazione da vertice diplomatico straordinario a forum permanente. Si tratterà, con tutta probabilità, di un formato multilaterale destinato a creare una nuova architettura per la sicurezza regionale, basata sostanzialmente su due pilastri: il contenimento dell’Iran e la fine delle frizioni tra Israele e i vicini arabi. Il tutto si inserisce, poi, in un contesto internazionale profondamente cambiato negli ultimi vent’anni. La “guerra al terrore” promossa dagli Stati Uniti dopo gli attentati terroristici del 2001 aveva rimesso il mondo arabo al centro del globo e degli interessi geopolitici. Oggi, al contrario, la grande competizione globale tra USA e Cina sposta inevitabilmente l’Oceano Pacifico al centro dei planisferi. Si tratta di un bipolarismo sfumato, in cui però il mondo arabo si ritrova suo malgrado in periferia. Ma anche di un bipolarismo angusto, in cui la Russia – come evidente dall’invasione ucraina – non ha intenzione di giocare unicamente la parte del gregario. In altri termini, gli Stati Uniti cercano di implementare un nuovo assetto mediorientale – cui potrebbe aggiungersi anche un accordo sul nucleare con l’Iran – per dedicarsi con maggior attenzione al teatro Indo-Pacifico.

Gli interventi dei vari leader, durante la conferenza stampa congiunta al termine del vertice, sono stati tutti caratterizzati da toni ottimistici e positivi. Il marocchino Bourita ha parlato apertamente di «spirito del Negev», inteso come un nuovo tipo di mentalità in cui inquadrare i rapporti con Israele. «Siamo qui oggi perché crediamo veramente e profondamente nella pace, una pace in grado di creare valore», ha affermato il capo della diplomazia del Marocco, Paese che da anni fa vanto della sua tolleranza verso le varie espressioni religiose, compresa quella ebraica. «Lavorare insieme è il modo per superare la narrativa dell’odio e del terrorismo. Prevarremo, non c’è dubbio», ha affermato per parte sua l’emiratino al-Nahyan.

Il vertice del Negev sembra dunque la naturale prosecuzione della politica mediorientale inaugurata durante l’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. L’idea fondamentale di questa dottrina è quella di favorire la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i vicini arabi, di fatto però scavalcando gli altri protagonisti delle dinamiche locali, cioè i palestinesi. Lo spiega in tono quasi perentorio un editoriale della giornalista israeliana Noa Landau sul quotidiano Haaretz, intitolato non a caso “La normalizzazione non farà sparire i palestinesi”.

Una conferma in tal senso sembra arrivare dall’ondata di attentati che nel giro di una settimana – con attacchi in diverse zone di Israele – hanno portato alla morte di undici persone. Un livello di violenza simile non si vedeva dal 2006. Nella serata di martedì 29 marzo un uomo in motocicletta ha aperto il fuoco sulla folla a Bnei Brak, sobborgo alle porte di Tel Aviv abitato in gran parte da Ebrei haredim (quelli che spesso ed erroneamente vengono definiti “ultraortodossi”). Nell’attentato, durante il quale ha perso la vita lo stesso assalitore, sono morte cinque persone: un ufficiale di polizia, due residenti locali e persino due cittadini ebrei di nazionalità ucraina. Autore della strage, stando alle prime ricostruzioni, un ventiseienne palestinese proveniente dalla Cisgiordania di nome Diaa Hamarsheh. Era stato condannato a un anno e mezzo di prigione già nel 2013.

Il premier israeliano Naftali Bennett ha promesso «decisione e pugno di ferro» per rispondere a questa ondata di «terrorismo arabo». La terminologia scelta non è assolutamente casuale. Parlare di “arabi” anziché di “palestinesi” vuol dire negare in nuce la possibilità di una definizione nazionale, anziché semplicemente etnica e linguistica. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen), ha espresso una condanna insolitamente forte rispetto all’attacco terroristico, sottolineando che «l’uccisione di civili palestinesi e israeliani non fa che peggiorare la situazione». Al contrario, il movimento Hamas e il gruppo denominato Jihad islamico hanno applaudito all’assalto, secondo quanto riferito dai media locali. Nel frattempo, decine di persone si sono riunite in un corteo celebrativo a Ya’abad, località nei pressi di Jenin (Cisgiordania), da cui proveniva Hamarsheh.

In altre parole, mentre il treno della normalizzazione prosegue spedito anche tra le sabbie del Negev, i nodi principali di quella che per mezzo secolo è stata “la questione” per eccellenza sono ancora ben lontani dall’essere sciolti. Non si può escludere che i palestinesi, ormai sfiduciati da una leadership che non li rappresenta più e che non ha neanche il coraggio di mandarli alle urne, tornino a cercare nelle armi la via per far sentire la propria voce.

 

Immagine: Yair Lapid (6 marzo 2021). Crediti: Gil Cohen Magen / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/I_molti_significati_visita_Assad.html

I molti significati della visita di Assad negli Emirati Arabi Uniti

 

La visita del presidente siriano Bashar al-Assad negli Emirati Arabi Uniti (EAU), la prima in un Paese arabo dopo più di undici anni, è arrivata come un fulmine a ciel sereno per le cancellerie occidentali, quasi completamente assorte nelle vicende ucraine. Assad è stato ad Abu Dhabi venerdì 18 marzo e ha incontrato l’erede al trono Mohammed bin Zayed al-Nahyan (molto noto nella stampa anglofona come MBZ) e il premier e ministro della Difesa, Mohammed bin Rashid Al-Maktoum. La prima fonte a dar conto della notizia è stata la presidenza siriana, che in vari post su Twitter ha pubblicato alcune foto delle due delegazioni. Gli Stati Uniti sono rimasti «spiazzati» dalla visita di Assad nel Golfo, per dirla con le parole del sito d’informazione statunitense Axios, che cita fonti dell’amministrazione americana. A livello ufficiale, il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Ned Price, ha confermato la «profonda delusione» di Washington per quello che a tutti gli effetti sembrerebbe «un tentativo di legittimare Assad», considerato dagli USA «responsabile della morte e della sofferenza di un numero enorme di siriani, dello sfollamento di più di metà della popolazione nazionale e della detenzione arbitraria e della sparizione di oltre 150 mila uomini, donne e bambini siriani».

Il disappunto di Washington per la mossa di Assad – ma soprattutto per quella degli emiratini – si deve anche alla vicinanza temporale tra la visita e un’altra data importante. Il 15 marzo, infatti, cade convenzionalmente l’anniversario della sollevazione siriana che nel 2011 tentò di scardinare il regime di Damasco. Quest’anno, in occasione della suddetta data, il Dipartimento di Stato ha pubblicato un vigoroso appello al governo siriano affinché ponga fine «a undici anni di morte e sofferenza», stigmatizzando ogni tentativo di restaurare le relazioni diplomatiche con il regime. «Non sosteniamo gli sforzi per normalizzare le relazioni con il regime di Assad e non normalizzeremo le relazioni noi stessi, né elimineremo le sanzioni o finanzieremo la ricostruzione fino a quando non ci saranno progressi irreversibili verso una soluzione politica», si legge nella relativa nota ufficiale di Washington.

Occorre precisare che la visita di Assad negli EAU è solo l’ultimo capitolo di un processo di normalizzazione tra Damasco e i vicini arabi di cui gli emiratini sono stati in tutto e per tutto dei pionieri. Quella degli EAU a Damasco è stata infatti la prima ambasciata a riaprire i battenti a fine 2018, esempio seguito anche dal Bahrain. Viceversa, la rappresentanza diplomatica siriana ad Abu Dhabi è sempre rimasta operativa, tanto da diventare un vero e proprio hub per i maggiorenti siriani vicini ad Assad che nel corso degli anni vi hanno spostato e reinvestito capitali importanti.

A completare il quadro si aggiunge un altro elemento, ossia la condizione non proprio rosea delle attuali relazioni tra Emirati e Stati Uniti. A gennaio, infatti, Abu Dhabi è stata colpita da un attacco condotto dagli Houthi, miliziani yemeniti sostenuti dall’Iran, contro il governo di Abd Rabbu Mansour Hadi (spalleggiato invece dall’Arabia Saudita). Le autorità emiratine hanno «rimproverato» l’amministrazione del presidente americano, Joe Biden, per aver risposto con una certa lentezza e debolezza all’attacco. Sul fronte iraniano, inoltre, gli emiratini giocano una delicata operazione di equilibrismo. Da una parte, infatti, non vedono di buon occhio la possibilità che Washington rimuova dalla sua lista delle organizzazioni terroristiche i Guardiani della rivoluzione iraniana (Pasdaran), ipotesi ventilata a più riprese ma mai ufficializzata. Dall’altra, gli EAU mantengono canali di dialogo aperti proprio con la Repubblica Islamica. I due Paesi intrattengono relazioni diplomatiche, con ambasciate aperte nelle rispettive capitali. Esiste, inoltre, una significativa comunità di iraniani negli EAU, che risiede principalmente nell’emirato di Dubai. A febbraio, inoltre, il capo del Comando centrale delle forze armate USA (Centcom), non è stato ricevuto personalmente da MBZ mentre si trovava in visita ad Abu Dhabi. Un fatto non secondario, considerato che gli EAU sono un partner di primaria importanza nella regione per gli USA sul fronte della difesa. Infine, ma non meno importante, gli emiratini si sono astenuti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite durante il voto di una risoluzione volta a condannare l’invasione russa dell’Ucraina. Una decisione che, certamente, non è passata inosservata agli occhi di Washington.

Poste tutte queste premesse, si può comunque affermare che la visita di Assad ad Abu Dhabi fosse comunque abbastanza inattesa. Ci si sarebbe aspettati, ad esempio, che la crisi in Ucraina avrebbe in qualche modo messo in difficoltà gli sforzi diplomatici del governo della Siria (l’unico assieme a Eritrea, Corea del Nord, Russia e Bielorussia a votare contro la risoluzione delle Nazioni Unite circa l’invasione dell’Ucraina). Ciononostante si può ragionevolmente pensare che la visita fosse preparata da tempo, probabilmente da prima del 24 febbraio. Non va dimenticato, inoltre, che gli EAU giocano un altro ruolo importante nella crisi in Ucraina, quello di “valvola di sfogo” per i capitali russi. Come evidenzia un reportage del sito Middle East Eye, i russi guardano agli Emirati come possibile via d’uscita dalle turbolenze economiche e dalle sanzioni occidentali. Un numero crescente di oligarchi e possidenti russi punta dunque sul Golfo, dopo che l’invasione dell’Ucraina ha lasciato il sistema finanziario di Mosca sull’orlo del collasso.

Per quanto concerne gli scenari, si può dire che gli EAU svolgono spesso il ruolo di “apripista” nelle dinamiche politiche arabe. È stato così, ad esempio, per gli Accordi di Abramo, tramite i quali diversi Paesi dell’area hanno normalizzato le relazioni con Israele. Non è da escludere la possibilità che possa andare in maniera simile anche con la Siria, espulsa dalla Lega Araba dopo la violenta repressione delle proteste nel biennio 2011-12. In questo senso, l’appuntamento più importante è sicuramente il summit della Lega in programma a novembre di quest’anno. Sarà quella, probabilmente, l’occasione per capire se anche in questo caso altri seguiranno la via tracciata dagli EAU per la definitiva riammissione di Assad nel consesso diplomatico regionale.

 

Immagine: Bashar al-Assad (3 dicembre 2010). Crediti: photowalking / Shutterstock.com

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Le ragioni della mediazione israeliana tra Mosca e Kiev

 

Non solo la Cina, che ormai da settimane si propone come mediatore fra Russia e Ucraina per porre fine alla guerra. Non solo la Turchia, che su iniziativa del presidente Recep Tayyip Erdoğan ospita il vertice trilaterale con i ministri degli Esteri di Kiev e Mosca ad Antalya. C’è anche Israele fra i “broker” al centro dei tentativi di far cessare le ostilità in Ucraina tramite la diplomazia. Lo Stato ebraico ha in effetti interessanti carte da giocare al tavolo delle trattative, forte dello smaccato pragmatismo di una classe dirigente che negli anni ha fatto di Israele un attore con buone relazioni con tutti i principali attori coinvolti.

Il governo israeliano presieduto da Naftali Bennet ha mantenuto nei primi giorni del conflitto un profilo piuttosto basso, dal momento che schierarsi apertamente per le ragioni di Kiev o di Mosca poteva contenere non poche controindicazioni. Per quanto riguarda l’Ucraina, i legami con lo Stato ebraico sono solidi e molteplici. Da una parte, infatti, in Israele vive una nutrita comunità ebraica di origine ucraina. Negli anni Novanta, a seguito della dissoluzione dell’URSS, quasi 270 mila componenti della comunità giudaica locale migrarono in Israele forti del diritto garantito dalla “legge del ritorno”. La storia dell’immigrazione ucraina in Palestina è tuttavia molto più antica. Proveniva dall’Ucraina, ad esempio, la famiglia dell’ex premier Yitzhak Rabin, insignito del Nobel per la pace nel 1994 e assassinato da un estremista ebreo l’anno successivo. D’altra parte non tutti gli ebrei ucraini hanno deciso di lasciare le proprie case alla volta del Medio Oriente. Quasi 200 mila di loro vivono ancora in Ucraina, dove le comunità maggiori si trovano a Kiev, Charkiv e Dnipro. Ne fa parte, fra gli altri, lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelenskij. Tra Ucraina e Israele, inoltre, esistono importanti accordi bilaterali nei settori della difesa, della cultura e delle infrastrutture.

Al contempo, Israele ha rapporti assolutamente non trascurabili anche con la Russia. I cittadini di origine russa nello Stato ebraico sono un vero e proprio colosso demografico: 1 milione e 300 mila persone (su una popolazione totale di 9 milioni di abitanti) che costituiscono un blocco elettorale di importanza non secondaria. Dal punto di vista storico vale la pena ricordare che la nascita stessa dello Stato ebraico nel 1948 è stata possibile solo grazie al favore congiunto delle due superpotenze vincitrici del secondo conflitto mondiale: Stati Uniti e, soprattutto, Unione Sovietica. Mosca, già negli ultimi anni del dominio di Stalin, rivolse poi le sue preferenze ai Paesi arabi della regione che tentavano di trovare una propria via al socialismo, mentre Israele lentamente si trasformava in quello che è oggi: il pilastro della politica americana in Medio Oriente. Negli ultimi anni, tuttavia, lo Stato ebraico ha inaugurato importanti forme di cooperazione con Mosca, soprattutto per quello che riguarda la difesa, in funzione anti-iraniana. La Russia, infatti, controlla lo spazio aereo della vicina Siria, dove non di rado l’aviazione israeliana compie raid (quasi sempre notturni) contro obiettivi legati a Teheran. Gli attacchi avvengono in coordinamento con i russi, con l’obiettivo di evitare che le forze dello Stato ebraico colpiscano inavvertitamente unità e infrastrutture di Mosca. L’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in pratica ha dominato gli ultimi 20 anni della politica locale, si è speso molto per consolidare la partnership con Mosca. Incontrandolo nel 2016, il presidente russo Vladimir Putin descrisse Israele e Russia come «alleati incondizionati» negli «sforzi per contrastare il terrorismo internazionale».

Come già detto, però, Israele è soprattutto il centro della politica mediorientale degli Stati Uniti. A questo, probabilmente, si deve il voto favorevole alla mozione di condanna per l’invasione russa durante l’ultima Assemblea generale straordinaria delle Nazioni Unite. La decisione israeliana è stata comunque aspramente criticata da Mosca. L’ambasciata russa a Tel Aviv ha trasmesso al ministero degli Esteri una lettera in cui si esprimeva la «delusione» della Federazione per la posizione adottata da Israele in sede ONU. Si può ipotizzare, però, che il governo dello Stato ebraico abbia sostenuto la condanna – come auspicato da Washington – come scotto iniziale da pagare per aver poi le mani libere nei negoziati con Mosca.

Israele, infine, ha discreti rapporti anche con la Cina. Un fatto che non ha mancato di suscitare le preoccupazioni americane già durante l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump. Pechino è il terzo partner commerciale di Israele a livello globale, il più grande dell’Asia orientale. Il volume degli scambi è aumentato da 50 milioni di dollari nel 1992 a 15 miliardi nel 2013. La Cina ha interessi nel settore delle infrastrutture e della tecnologia (ambito su cui gli USA hanno espresso le preoccupazioni maggiori).

In questo contesto si inserisce l’inaspettata missione diplomatica di Bennett a Mosca e a Berlino del 5 marzo scorso. Il fatto che un ebreo di stretta osservanza come lui si sia mosso durante lo Shabbat è già di per sé indice dell’urgenza dell’iniziativa. Lunedì 7 marzo, inoltre, il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha incontrato a Riga – in Lettonia - il segretario di Stato americano Antony Blinken, con il quale – stando alla relativa nota ufficiale del Dipartimento di Stato – ha parlato non solo di Ucraina, ma anche dei negoziati per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (il JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action). Per Israele, infatti, la partita Ucraina si gioca inevitabilmente su due tavoli: da una parte la soluzione diplomatica del conflitto fra Mosca e Kiev, dall’altra l’intesa sul nucleare le cui trattative hanno luogo a Vienna.

Dopo undici mesi di colloqui, i negoziatori sembrano vicini a raggiungere un punto d’incontro per rilanciare l'accordo, che ha revocato le sanzioni a Teheran in cambio di garanzie sul suo programma nucleare, fino all’uscita unilaterale degli USA nel 2018. Ora i negoziati sono stati complicati da una richiesta dell’ultimo minuto da parte della Russia circa «garanzie scritte» da parte degli Stati Uniti sul fatto che le sanzioni occidentali contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina non andranno a toccare la cooperazione economica e militare russo-iraniana. Washington ha prontamente respinto la richiesta. Blinken ha affermato che tali pretese sono «irrilevanti» e che le sanzioni alla Russia per l’invasione dell’Ucraina «non hanno nulla a che fare con l’accordo nucleare con l’Iran». Israele vede come fumo negli occhi il ripristino dell’intesa sul nucleare e si adopererà, probabilmente, per farne il centro della sua azione diplomatica anche sul conflitto in Ucraina.

 

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Immagine: In primo piano, Naftali Bennett (24 giugno 2021). Crediti: Gil Cohen Magen / Shutterstock.com

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Lo Stato islamico esiste ancora, e cerca un nuovo leader

 

L’uccisione del leader dello Stato islamico (IS), Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, è passata piuttosto in sordina, considerato che è avvenuta a ridosso di altri eventi mediaticamente rilevanti e a pochi giorni dell’inasprirsi delle tensioni fra Ucraina e Russia. Ciononostante, la liquidazione del “secondo califfo” – successore di Abu Bakr al-Baghdadi – permette di capire come si è evoluto il “brand” terroristico dell’IS dopo aver perso la sua dimensione territoriale. Dalla caduta di Baghouz – ultima roccaforte dello Stato islamico nell’Est della Siria – a febbraio 2019 l’esperienza statuale vera e propria dell’IS è da considerarsi de facto conclusa. Tuttavia, il gruppo ha continuato ad esistere e ad operare in forma cellulare e latente, minacciando la sicurezza nella zona a cavallo fra Siria e Iraq. In altri termini, lo Stato islamico esiste ancora, e vale la pena domandarsi che traiettoria prenderà ora che si ritrova nuovamente senza guida e come cambieranno i rapporti con il resto della galassia jihadista.

Per mettere le cose nella prospettiva analitica corretta occorre partire dalla notte fra il 2 e il 3 febbraio scorsi. Poco dopo la mezzanotte uomini delle Forze speciali degli Stati Uniti effettuano un blitz nella località di Atmeh, situata nella regione siriana nordoccidentale di Idlib. Militari americani trasportati in elicottero circondano l’edificio a tre piani in cui sono sicuri si nasconde al-Qurayshi, che muore in una violenta esplosione dopo che due persone al pianterreno erano uscite dall’abitazione, dando seguito all’ordine americano di abbandonare lo stabile. Stando al bilancio fornito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, una ONG con sede a Londra che si avvale di una rete di attivisti sul campo, nel raid hanno perso la vita 13 civili, tra cui 4 bambini (compresa la moglie e i due figli di al-Qurayshi).

Ci sono due particolari degni di nota sui quali vale la pena soffermarsi. Stando alla ricostruzione fornita da Kenneth McKenzie – capo del Comando centrale degli Stati Uniti (CENTCOM, U.S. Central Command) – l’esplosione fatale è stata causata da una bomba – forse una cintura al plastico – fatta deflagrare al terzo piano da Haji Abdullah, nome in codice usato dal Pentagono per identificare al-Qurayshi. I soldati americani, come ha spiegato lo stesso presidente Joe Biden, erano preparati a qualsiasi evenienza, compresa la possibilità che l’obiettivo si togliesse la vita in questo modo. I detriti causati dall’esplosione “sporgono” dall’interno verso l’esterno, un fatto che sembrerebbe confermare che la deflagrazione è avvenuta al terzo piano dell’edificio, dove al-Qurayshi era solito recarsi per fare il bagno.

Il secondo elemento riguarda la località di Atmeh, situata a soli 26 km a nord di Barisha (cittadina in cui il 27 ottobre 2019 fu ucciso al-Baghdadi in un’operazione per certi versi molto simile). Vale la pena sottolineare che la zona è sotto il controllo di gruppi jihadisti diversi dallo Stato islamico, concorrenti sotto molti aspetti. Il governatorato di Idlib, infatti, è nelle mani ormai da anni di gruppi ribelli schierati contro il regime di Bashar al-Assad – cooptati in questi anni dalla Turchia – e dal cartello di milizie jihadiste denominato Hayat Tahrir as-Sham (HTS). Quest’ultima realtà nasce da una costola di Jabhat al-Nusra, a sua volta nata da una branca siriana di al-Qaida.

Come evidenzia un’analisi del Washington Institute for Near East Policy, negli ultimi anni HTS ha tentato di costituire un sistema politico “stabile” nel Nord-Ovest della Siria, anche attraverso la creazione del Servizio di sicurezza generale (GSS). A partire dal 2020, il GSS ha dato notizia di diversi arresti tra le cellule dell’IS nell’area, in particolare di 21 blitz nelle località di Idlib, Sarmin, Salqin, Harem, Jisr al-Shughour, Khan Sheikhoun, Tahtaya, Sarmada, Abu Dali, Mseibin, Zardana, Kafr Naseh e Majdaliya. Tali sforzi, in ogni caso, sembrano non essere stati sufficienti per evitare che non uno, ma ben due capi supremi dello Stato islamico decidessero di nascondersi proprio lì, nella regione di Idlib.

Sta di fatto che, poche ore prima del raid in cui al-Qurayshi è stato liquidato, HTS aveva bloccato le strade che portano al sito del blitz, un fatto che lascia intendere che il gruppo fosse a conoscenza dell’operazione in anticipo. Secondo alcuni analisti, HTS potrebbe addirittura aver fornito informazioni agli americani per andare “a colpo sicuro” e far fuori il leader jihadista. Nel 2019, tra l’altro, HTS non ha in alcun modo interferito con il raid statunitense contro al-Baghdadi, sebbene non sia emersa alcuna prova che il gruppo fosse a conoscenza di dove si trovasse.

Avere una chiara conferma che HTS abbia in un certo senso “venduto” il califfo agli americani – magari con la mediazione turca – è praticamente impossibile. Sta di fatto che il gruppo e il suo leader, Abu Muhammad al-Jawlani, sta cercando già da quasi un paio d’anni di ottenere il sostegno degli Stati Uniti e di altri governi occidentali nel tentativo di farsi rimuovere dalle liste delle organizzazioni terroristiche. Non si tratta, va precisato, di una speranza completamente malriposta. Basti pensare, infatti, che l’ex rappresentante speciale degli Stati Uniti per la Siria, James Jeffrey, aveva pubblicamente definito HTS come «l’opzione meno cattiva tra le varie sul campo a Idlib», una località che rappresenta «uno dei luoghi più importanti in Siria, nonché uno dei più importanti luoghi in Medio Oriente». L’amministrazione Biden, in generale meno attiva sul fronte siriano e mediorientale, si è mostrata finora molto più tiepida in merito.

Che sia avvenuta con la complicità di altri gruppi jihadisti o meno, la morte di al-Qurayshi (nato in Iraq col nome di Amir Mohammed Saeed Abdul-Rahman al-Mawla), dimostra che USA e alleati hanno affinato le tecniche e la capacità di raccogliere informazioni per rintracciare la leadership jihadista ed eliminarla. Rimane, però, il dubbio che questo tipo di approccio sia efficace nel lungo periodo. Tagliare la testa al serpente, infatti, potrebbe non essere sufficiente ad eliminare in toto lo Stato islamico: dopo un primo ed un secondo califfo potrebbe presto arrivarne un terzo. Per ora non ci sono stati annunci ufficiali, ma il sito di approfondimento New Lines Magazine ha ottenuto in esclusiva informazioni riservate secondo cui la guida dell’IS dovrebbe passare a Bashar Khattab Ghazal al-Sumaidai. Conosciuto con numerosi nomi di battaglia, tra cui Ustath Zaid (Insegnante o Professore Zaid), Abu Khattab al-Iraqi, Abu al-Moez al-Iraqi e Abu Ishaq, al-Sumaidai è tornato in Siria dalla Turchia circa un anno fa. Il profilo di al-Sumaidai, spiega l’analista Hassan Hassan, è indicativo di una nuova fase per lo Stato islamico e la sua nuova generazione di leader e rafforza l’opinione secondo cui l’organizzazione sta esaurendo i leader risalenti agli anni di fondazione, 2003-04. Detto questo, sembra avere le carte in regola per dare nuova energia alla base del gruppo e rivendicare la legittimità ancor più del leader precedente (date la sua presunta discendenza diretta dalla famiglia del profeta Muhammad).

 

Immagine: Logo disegnato dai combattenti dell’ISIS su un muro, Aleppo, Siria (18 novembre 2017). Crediti: Mohammad Bash / Shutterstock.com

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Conflitto in Ucraina. Come si è arrivati fin qui

L’attacco ventilato per settimane, preannunciato con insistenza dall’intelligence USA fra lo scetticismo generale e temuto per le sue gravissime implicazioni, alla fine è arrivato: all’alba del 24 febbraio 2022, le forze armate russe hanno dato il via all’offensiva in Ucraina e sembrano averlo fatto da più fronti. Le truppe di Mosca hanno iniziato a bombardare con missili balistici e da crociera diverse infrastrutture strategiche e località del Paese, compresa la capitale Kiev, dove a mezzanotte il sindaco aveva proclamato lo stato d’emergenza. Martellare con i bombardamenti a tappeto solitamente rappresenta il preludio per l’invasione di terra, portata avanti da fanteria e carri armati dopo che l’aviazione nemica è stata messa fuori uso. La situazione è molto fluida e le condizioni rischiano di mutare profondamente di ora in ora, ma quello che sta accadendo in Europa orientale ha radici profonde sia nel passato recente che in tempi più remoti.

I primi sintomi della crisi attuale sono da rintracciare nella rivoluzione ucraina del 2014 e nella conseguente crisi relativa alla Crimea. L’allora presidente Viktor Janukovič, come altri capi di Stato dell’ex blocco sovietico, aveva tentato un avvicinamento all’Unione Europea (UE) per attrarre investimenti e risollevare l’economia del Paese, ancora duramente provata dagli anni della transizione postcomunista. L’UE chiedeva in cambio una serie di impegni sul fronte della lotta alla corruzione e del rispetto dei diritti umani, compresa la liberazione di Julija Volodymyrivna Tymošenko (già primo ministro dell’Ucraina).

Janukovyč decise allora di rivolgersi nuovamente a Mosca, interessata a respingere ogni ambizione di ‘occidentalizzazione’ di Kiev e a mantenere la sua influenza sul cosiddetto “estero vicino”. Ciò scatenò le proteste della parte più mitteleuropea del Paese. Pur nell’inevitabile semplificazione che tale divisione comporta – tutt’altro che netta e in alcune aree del Paese persino di difficile identificazione – l’Ucraina è storicamente caratterizzata da due anime. Una parte guarda all’Europa occidentale – un tempo al mondo teutonico – come spazio e destino comune. L’altra, formata in particolare dalle popolazioni di etnia e lingua russa, continua a vedere in Mosca il punto di riferimento per il proprio futuro. La sollevazione del 2014, che chiedeva fra le altre cose l’abolizione del russo, portò alla rimozione di Janukovyč e all’instaurazione di un governo ad interim.

Mosca non ha mai riconosciuto il nuovo esecutivo, accusando al contrario Stati Uniti e Occidente di aver sobillato e aizzato la rivolta. In risposta a quello che considerava un “colpo di Stato”, il presidente russo Vladimir Putin ha preso il controllo di Crimea e Sebastopoli, annettendo poi tali territori alla Federazione con un referendum plebiscitario ritenuto illegittimo dalla comunità internazionale. Al contempo, i separatisti filorussi della zona chiamata Donbass – che letteralmente indica il bacino meridionale del fiume Donetsk – hanno unilateralmente dichiarato l’indipendenza da Kiev, fondando le autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk (di cui negli ultimi giorni abbiamo sentito parlare molto, ma che non rappresentano il Donbass nella sua interezza).

A settembre di quello stesso anno veniva siglato il protocollo di Minsk, con l’obiettivo di porre fine alle ostilità. Patrocinato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), l’accordo prevedeva oltre al cessate il fuoco immediato anche impegni politici da parte di Kiev nei confronti delle repubbliche separatiste. Il governo ucraino, infatti, avrebbe dovuto favorire un decentramento del potere e concedere una più ampia autonomia. Da allora il conflitto in Ucraina si è trasformato in un confronto a intensità medio-bassa, fino al nuovo innalzamento della tensione iniziato, per grandi linee, a novembre-dicembre 2021.

Vale la pena sottolineare che la questione dell’adesione ucraina alla NATO, più volte tirata in ballo da Putin negli ultimi giorni, pare ricollegarsi più alla percepita ‘sindrome da accerchiamento’ che anima il Cremlino che trovare riscontro nei fatti. Nel 2014 il dissidio riguardava gli accordi fra Kiev e l’Unione Europea – che sono cosa ben diversa – e comunque l’ingresso ucraino nell’Alleanza atlantica non è all’ordine del giorno, come ripetuto fra gli altri dal presidente americano Joe Biden e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz. Nel 2008, infatti, Kiev ha esplorato la possibilità di unirsi alla NATO, ma per farlo le è stato chiesto di effettuare una serie di cambiamenti strutturali che andavano a coinvolgere gran parte dell’impalcatura istituzionale. Stando all’art. 10 del trattato NATO, fra l’altro, l’Alleanza non può accogliere Paesi nei cui territori sono già in corso attività belliche. Lo stesso argomento dell’espansione a est della NATO risulta discutibile sotto il profilo della semantica, dal momento che non è l’Alleanza atlantica ad espandersi come un corpo semovente, ma sono i singoli Paesi a chiedere di aderire a seconda di quelle che considerano minacce alla propria sicurezza.

L’operazione più difficile per capire gli avvenimenti degli ultimi mesi sta proprio nel cercare quello che in inglese si chiama trigger, cioè il fattore scatenante che ha portato la Russia ad accumulare quasi 200 mila unità militari al confine ucraino. Sta di fatto che l’escalation è iniziata proprio in questo modo. Tra i mesi di gennaio e febbraio, Russia e Stati Uniti – insieme ai rispettivi partner – hanno mostrato i muscoli spostando truppe e mezzi nei propri territori, lasciando comunque la porta aperta alla diplomazia. Domenica 20 febbraio sarebbero dovute terminare le esercitazioni congiunte russo-bielorusse nei territori di Minsk, ma al contrario le truppe di Mosca sono rimaste sul posto, lasciando presagire ciò che sarebbe accaduto dopo.

Lunedì 21 febbraio Putin ha pronunciato l’ormai celebre discorso alla nazione in cui formalizzava il riconoscimento delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, annunciando l’invio delle truppe russe in loco con funzioni di peace-keeping. Anche questo un presagio non da poco, considerato che per la comunità internazionale i territori del Donbass continuano a essere a tutti gli effetti sotto la sovranità territoriale di Kiev. Nella serata del 23, infine, i leader separatisti Denis Pušilin e Leonid Pasečnik hanno chiesto al Cremlino assistenza per respingere «l’aggressione delle forze ucraine», passaggio definitivo per dare il via all’offensiva vera e propria.

Non è facile, al momento, capire quale sia il punto di caduta dell’operazione di Putin. L’ipotesi meno peregrina è che punti a strappare pezzi di territorio ucraino-orientale importanti per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione di forza. Alla sua sicumera contribuisce probabilmente la politica di appeasement che l’Occidente gli ha mostrato in questi anni, limitandosi a mere condanne formali sul fronte georgiano – dove Mosca ha riconosciuto l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del Sud –, ammettendo de facto l’annessione della Crimea e tollerando il ruolo russo in Siria al fianco del regime di Assad. Tuttavia, in un contributo su The Atlantic, Anne Applebaum ha evidenziato come «non ci siano Chamberlain in questa storia», con un chiaro riferimento al primo ministro britannico Neville Chamberlain che dopo la conferenza di Monaco del 1938 – e le ampie concessioni assicurate a Hitler – riteneva di aver evitato la guerra. Stavolta l’Occidente ha fatto intendere che gli eccessi non potranno restare impuniti. D’altro canto, secondo le indiscrezioni filtrate sulla stampa europea, la “cerchia ristretta” del presidente non condivide appieno l’approccio putiniano. Tanto che importanti membri del governo, come il ministro della Difesa Sergej Šojgu, sono probabilmente tra gli obiettivi delle sanzioni UE e rischiano di vedere i propri patrimoni personali andare in cenere.

A livello interno, però, Putin ha costruito un sistema tale da evitare la formazione di un contropotere in grado di disarcionarlo con facilità. Dal punto di vista geopolitico, invece, i risultati dell’escalation sono principalmente due. Gli Stati Uniti si ritrovano obtorto collo a doversi occupare massicciamente del vecchio continente, sebbene già dall’amministrazione di Barack Obama stessero tessendo la tela per una politica estera orientata al Pacifico piuttosto che verso l’Atlantico. Dall’altra parte, gli occhi sono puntati sulla Cina: se infatti il Global Times è arrivato a definire Taiwan la «Donetsk cinese», rimarcando come l’Occidente dovrebbe opporsi «al regime secessionista» di Taipei esattamente come sta facendo sul fronte ucraino, Pechino non sembra per ora volersi spingere oltre alcune dichiarazioni vaghe e generiche, conscia di come il concetto di integrità territoriale – in un Paese dove le spinte centrifughe di Xinjiang e Tibet sono monitorate con attenzione – sia per l’establishment comunista difficilmente negoziabile.

 

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Immagine: Un soldato ucraino in uniforme mimetica bianca vicino a veicoli corazzati, Charkiv, Ucraina (31 gennaio 2022). Crediti: Seneline / Shutterstock.com

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Yemen, un conflitto oltre i suoi confini

 

Lunedì 17 gennaio la città emiratina di Abu Dhabi è stata colpita da un attacco tanto violento quanto unico nel suo genere. L’assalto, condotto secondo le prime ricostruzioni con droni esplosivi, ha causato sei feriti e tre morti nella zona dell’aeroporto internazionale. Le vittime sono due operai indiani ed un pakistano che lavoravano all’interno di uno dei depositi della compagnia petrolifera emiratina ADNOC. Non è affatto raro, infatti, che negli Stati del Golfo la manovalanza sia per lo più straniera e proveniente da Paesi in via di sviluppo dell’Asia. L’offensiva è stata rivendicata dal gruppo ribelle sciita Ansarullah, operante in Yemen e spesso associato al nome del clan Houthi. Si tratta della prima volta che i ribelli, sostenuti economicamente e logisticamente dall’Iran, colpiscono direttamente gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che fanno parte della coalizione internazionale a guida saudita impegnata in Yemen contro gli Houthi e a sostegno del governo di Abd Rabbu Mansour Hadi. L’esecutivo, l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha spostato la sua sede nella città meridionale di Aden, dopo che la capitale Sana’a è stata occupata dagli Houthi nel 2014.

Nel corso degli ultimi sette anni, lungo il tragitto di una delle guerre più sanguinose e dimenticate del nostro tempo, gli Houthi hanno più volte preso di mira con razzi e droni obiettivi più o meno strategici situati in territorio saudita. Spesso si è trattato di infrastrutture legate all’estrazione e alla lavorazione dei prodotti petroliferi. Tuttavia, come già detto, questa è la prima volta che i ribelli filoiraniani indirizzano i loro sforzi direttamente – e con successo - contro gli EAU. L’attacco ad Abu Dhabi rischia di bloccare nuovamente gli sforzi diplomatici per porre fine al conflitto con una soluzione politica e negoziata, anziché col clangore delle armi. Secondo funzionari di Riyad – citati dalla stampa del regno ‒ i sistemi di difesa sauditi hanno abbattuto nove droni che i ribelli sostenuti dall’Iran hanno lanciato lo stesso giorno dell’attacco ad Abu Dhabi, ma quelli sulla metropoli emiratina sono comunque andati a segno.

Quella da parte degli Houthi sembra una dimostrazione di forza, il cui messaggio sotteso è che il movimento è in grado di colpire non solo i sauditi ‒ come periodicamente avviene ‒ ma anche gli alleati regionali di Riyad che contribuiscono al confronto bellico in Yemen. La coalizione a guida saudita, dal canto suo, ha prontamente reagito effettuando – martedì 18 gennaio ‒  raid aerei su Sana’a, i più violenti dal 2019, nei quali sono morte almeno venti persone, tra cui alcuni civili. Fra le vittime, riferiscono i media sciiti filoiraniani, figura anche Abdullah Qassim al-Junaid, uno degli alti papaveri del movimento ribelle dello Yemen.

Le reazioni dei principali attori regionali sono state unanimemente solidali verso gli Emirati, tanto che persino Israele – sull’onda della normalizzazione delle relazioni diplomatiche coi vicini arabi ‒ ha offerto sostegno in termini d’intelligence e sicurezza ad Abu Dhabi. Si esclude, naturalmente, l’Iran, che considera gli Houthi non come ribelli da sgominare, ma piuttosto come un gruppo di resistenza islamica di fronte alle angherie dei sauditi.

Il surriscaldarsi della situazione nel Golfo ha importanti riflessi anche in ottica americana. Poco dopo essere entrato in carica, infatti, il presidente Joe Biden ha disposto la rimozione di Ansarullah dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche. L’inquilino della Casa Bianca ha motivato la decisione affermando che tale designazione influiva negativamente sui tentativi di fornire sostegno umanitario al popolo dello Yemen, che oltre ai danni “convenzionali” della guerra deve affrontare anche malnutrizione e condizioni sanitarie a dir poco precarie. Secondo il sito statunitense Axios, che cita fonti del Golfo, il ministro degli Esteri degli Emirati, Abdullah Bin Zayed al-Nahyan, ha chiesto al segretario di Stato americano, Antony Blinken, di designare nuovamente i ribelli sciiti dello Yemen come organizzazione terroristica, sulla scia dell’attacco ad Abu Dhabi. Lo Stato arabo sembra più che mai intenzionato a fare pressione sugli americani in questo senso anche in sede ONU, in particolare nell’ambito del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

In questo contesto non cessano gli sforzi per abbassare la tensione tramite la diplomazia. Mercoledì 19 gennaio il portavoce del dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha fatto sapere che l’inviato speciale degli Stati Uniti per lo Yemen, Timothy Lenderking, in questi giorni sarà impegnato in un tour diplomatico che lo porterà nelle principali cancellerie del Golfo e poi a Londra. L’obiettivo del diplomatico, spiega la relativa nota ufficiale, sarà quello di «rinvigorire gli sforzi di pace in coordinamento con le Nazioni Unite, alti funzionari del governo regionale e altri partner internazionali». Per parte sua, l’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Martin Griffiths, ha fatto appello alla moderazione e alla calma, invitando tutte la parti coinvolte a mantenere lo «slancio positivo» dei colloqui tenutisi in Svezia nell’ormai lontano 2018.

La situazione in Yemen non sembra, per ora, destinata a migliorare. Il conflitto che dal 2015 affligge il Paese arabo colpisce l’intera cittadinanza, ma soprattutto le fasce più a rischio della popolazione, come i minori. Secondo un rapporto di Save the Children divulgato a ottobre 2021, infatti, un quarto delle vittime totali della guerra in Yemen è rappresentato da bambini. I più piccoli, oltre alla fame e alle precarie condizioni sanitarie, devono fare i conti anche con la dispersione scolastica. Il 60% degli alunni la cui scuola è stata distrutta durante i combattimenti ‒ spiega ancora Save the Children ‒ non torna più fra i banchi, rischiando così di lasciarsi sfuggire di mano non solo il presente, ma anche il futuro.

 

Immagine: La grande distruzione causata dalla guerra ha danneggiato la maggior parte della città e dei suoi quartieri, Taiz City, Yemen (12 aprile 2019). Crediti: anasalhajj / Shutterstock.com

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Un Natale blindato in Terra Santa

Rischia di essere un Natale blindato quello a cui si prepara la Terra Santa, dicitura tradizionale con cui i pellegrini cristiani sono soliti indicare Israele, i territori palestinesi e altre aree del Medio Oriente che ospitano luoghi legati alla vita di Gesù di Nazareth. Mercoledì 15 dicembre, infatti, il governo israeliano ha deliberato l’estensione della chiusura delle frontiere agli stranieri fino al 29 dicembre per tentare di contenere la diffusione della variante Omicron del Coronavirus, che ormai conta decine di casi nel Paese. Turisti e pellegrini, quindi, non potranno accedere ai luoghi santi per i giorni precedenti e successivi al Natale. Il governo dello Stato ebraico, inoltre, ha inserito Francia, Spagna, Svezia, Irlanda, Norvegia, Finlandia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Danimarca in quella che viene definita “lista rossa”, in cui si aggiungono a numerosi altri Stati dell’Africa subsahariana. I cittadini israeliani non potranno viaggiare verso i Paesi inseriti nella lista e dovranno mettersi in quarantena in attesa dei risultati di un tampone Covid qualora rientrino dai suddetti Stati.

Ciononostante, esistono eccezioni, dinamiche tali da aver generato anche un certo livello di tensione fra le varie confessioni. È il caso del discusso programma Birthright (diritto di nascita) tramite il quale giovani ebrei da tutto il mondo hanno la possibilità di recarsi in Israele gratuitamente. E potranno continuare a farlo anche in queste settimane, nonostante le restrizioni. In particolare si attende l’arrivo di alcuni gruppi di Ebrei provenienti dagli Stati Uniti. La ministra dell’Interno israeliana, Ayelet Shaked, ha definito queste iniziative «di importanza nazionale» e tali da non potervi rinunciare anche a fronte della preoccupante situazione sanitaria. Vale la pena precisare che i partecipanti al programma Birthright dovranno essere completamente vaccinati e saranno obbligati a restare in gruppo, interagendo solo coi propri compagni di viaggio.

Tuttavia, la cosa ha suscitato non poche perplessità, considerato che per zone come Nazareth e Betlemme – rispettivamente in Israele e in Cisgiordania – il Natale poteva rappresentare una spinta non indifferente per risollevare l’economia locale tramite il flusso di pellegrini dall’estero. «C’è una questione di principio: perché i membri di Birthright, che sono cittadini stranieri, godono di tali esenzioni e i pellegrini cristiani no? L’unica differenza è che sono Ebrei», ha detto un leader religioso cristiano in forma anonima al quotidiano israeliano Haaretz. Anche il custode di Terra Santa, il francescano Francesco Patton, ha espresso il suo disappunto per quella che viene considerata una disparità di trattamento, secondo quanto riportato dall’ANSA.

In un editoriale sul quotidiano britannico Daily Telegraph, invece, Patton ha affermato che in Terra Santa «la nostra presenza è precaria e il nostro futuro a rischio», imputando tale insicurezza per i cristiani a «gruppi radicali» sempre più presenti. La scorsa settimana, i patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui avvertivano del pericolo rappresentato dai gruppi radicali che, secondo loro, mirano a «diminuire la presenza cristiana» nella terra di Gesù. Patton ha osservato che negli ultimi anni la vita di molti cristiani è stata resa «insopportabile da gruppi locali radicali con ideologie estremiste». «Sembra che il loro obiettivo sia quello di liberare la Città Vecchia di Gerusalemme della sua presenza cristiana, anche il quartiere cristiano», ha detto. «I luoghi santi, comprese le chiese, sono stati profanati e vandalizzati, mentre sono stati commessi reati contro sacerdoti, monaci e fedeli» ha aggiunto Patton in riferimento ad alcuni episodi relativi agli ultimi due anni.

Il custode non ha fatto riferimento esplicito alla questione Birthright, ma è chiaro che lo stato di eccezione concesso ad alcuni Ebrei statunitensi si inserisce in un più ampio clima di tensione. Ayelet Shaked, infatti, esponente di spicco del partito Yamina (letteralmente “La destra”), fa parte di quello schieramento politico che spesso strizza l’occhio ai movimenti israeliani più radicali, per i quali l’appartenenza di Israele alla sua terra – e viceversa – è il principio cardine della politica.

Lior Haiat, portavoce del ministero degli Esteri israeliano, ha definito le accuse circa il caso Birthright come «false e pericolose», precisando che la commissione incaricata di concedere visti speciali per entrare in Israele opera «senza pregiudizi, né discriminazioni di razza o religione». «Alcune (tra le ultime richieste approvate dalla commissione) provenivano dalle autorità ecclesiastiche in Israele, inclusi i permessi per l’ingresso di sacerdoti per le prossime festività cristiane», conclude la nota ufficiale. Per il governo presieduto da Naftali Bennett, spiegano vari esponenti dell’esecutivo, l’obiettivo è quello di contenere la variante Omicron e di non perdere il vantaggio epidemiologico acquisito nella lotta contro la variante Delta.

La rivista inglese Arab Weekly dedica un approfondimento all’impatto che le restrizioni avranno sui luoghi santi, in particolare su Betlemme. Situata a soli 10 km da Gerusalemme, la cittadina in cui secondo il Vangelo di Matteo è venuto alla luce Gesù vive il Natale per tutto l’anno, ma nonostante questo si accende ancor più di vita nel periodo delle feste. La gente di Betlemme – la “città del pane” ‒ è abituata ad accogliere un corposo afflusso di turisti a dicembre. Israele, che controlla tutti i punti di accesso alla località, aveva annunciato ad ottobre la riapertura delle frontiere ai turisti stranieri, ma le ultime disposizioni sono andate nella direzione opposta. Prima della pandemia di Covid-19, più di tre milioni di persone visitavano Betlemme ogni anno in media. «Più di un quinto della popolazione della città è impiegata nel turismo e il tasso di disoccupazione è passato dal 23 al 35% a causa della pandemia», ha affermato Carmen Ghattas, portavoce del Comune.

La speranza per Betlemme e per altri luoghi santi è quella di puntare sul turismo interno, confidando che i cristiani delle comunità locali – impossibilitati a recarsi all’estero per effetto delle restrizioni – ne approfittino per riempire le piazze, gli alberghi e – soprattutto – le chiese legate alla vita di Gesù Bambino.

 

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Immagine: La chiesa della Natività, Betlemme, Cisgiordania. Crediti: Victor Lauer / Shutterstock.com

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Le premesse per un’intesa sul nucleare iraniano

Lunedì 29 novembre riprendono a Vienna i colloqui per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano, il cui nome ufficiale è Joint Comprehensive Plan Of Action (JCPOA). L’intesa è stata pattuita nel 2015 da Teheran e il cosiddetto gruppo P5+1, formato da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania (in coordinamento con l’Unione Europea). A maggio del 2018 l’amministrazione dell’allora presidente americano, Donald Trump, ha deciso unilateralmente di sfilarsi dall’accordo, varando un duro regime di sanzioni contro la Repubblica islamica. Oggi, dopo un’interruzione di diversi mesi, il dialogo riprende in un clima d’incertezza, dal quale gli esperti dubitano possa venir fuori alcuno sviluppo particolarmente significativo. Tuttavia, come evidenziano diversi media internazionali, il ritorno al tavolo dei negoziati darà indicazioni importanti su come verranno gestite le relazioni USA-Iran ora che al potere ci sono il presidente democratico, Joe Biden, e il conservatore Ebrahim Raisi, succeduto a Hassan Rohani alla guida dell’Iran ad agosto 2021.

L’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Rob Malley, ha dichiarato il 19 novembre che «il tempo stringe», in riferimento alla possibilità di negoziare un ritorno al JCPOA, precisando che i partner regionali degli Stati Uniti sostengono chiaramente il ripristino dell’intesa. Malley ha aggiunto che, in ogni caso, il presidente Biden non permetterà a Teheran di sviluppare un’arma nucleare. Ned Price, portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha dichiarato il 23 novembre che la posizione degli Stati Uniti è quella del ritorno alla «reciproca conformità» di Washington e Teheran al JCPOA. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha affermato dal canto suo che mentre l’Iran si accinge a tornare al tavolo di Vienna «non c’è bisogno di negoziati», nel senso che gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente revocare le sanzioni imposte nel 2018.

Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che monitora il rispetto da parte dell’Iran del JCPOA, ha dichiarato il 24 novembre che i suoi ultimi incontri e ispezioni in Iran sono stati «inconcludenti» e che il ruolo dell’Agenzia è stato «gravemente minacciato» dalla «decisione dell’Iran di interrompere l’attuazione dei suoi impegni relativi al nucleare nell’ambito del JCPOA». Un rapporto dell’AIEA, rilasciato ad agosto, rilevava che la Repubblica islamica sta arricchendo l’uranio al 60%, ben al di sopra del limite del 3,67% previsto dal JCPOA. Ciononostante, va sempre sottolineato con la dovuta enfasi che per lo sviluppo di armi nucleari è necessario un arricchimento dell’uranio oltre il 90% di purezza.

Gli altri contraenti – rappresentati a Vienna dalle delegazioni di Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Germania – sembrano tutti abbastanza favorevoli ad un ripristino dell’accordo, ferma restando la necessità di impedire lo sviluppo nel nucleare a uso bellico da parte di Teheran, ma la situazione è tutt’altro che semplice. Si fa strada, come ad aprile scorso, la possibilità di un accordo intermedio in grado di accontentare le parti, anche se solo momentaneamente. Barak Ravid, corrispondente per il Medio Oriente del sito statunitense Axios, sostiene che l’idea di un’intesa provvisoria per «rompere il ghiaccio» è tutt’altro che peregrina. Ne ha parlato anche il ministro degli Esteri iraniano Amir-Abdollahian, suggerendo la prospettiva di «un gesto di buona volontà» da parte degli Stati Uniti, rilasciando – ad esempio – 10 miliardi di dollari in beni congelati all’estero e appartenenti all’Iran. Price, tuttavia, ha ribadito che gli USA non sono «disposti a intraprendere azioni unilaterali volte esclusivamente a oliare gli ingranaggi». Una metafora più che eloquente.

Il sito di notizie Al Monitor – di base negli USA – elencava già ad agosto almeno quattro buoni motivi per cui il nuovo presidente iraniano Raisi potrebbe auspicare un ritorno al JCPOA. Il primo, banalmente, è la situazione economica in cui versa la Repubblica islamica: dal 13,4% di crescita del PIL nel 2017 si è passati a due anni consecutivi di contrazione economica, -6,8% nel 2018 e -6% nel 2019, complice la nuova stretta sanzionatoria voluta da Trump. Nel 2020, poi, è arrivata anche la pandemia di Covid-19. Un ritiro delle sanzioni, anche solo parziale, fornirebbe una buona boccata d’ossigeno al tessuto produttivo e sociale iraniano. Il secondo motivo è che l’accordo sul nucleare gode ancora di un certo appeal presso l’opinione pubblica iraniana, che ha eletto Raisi attraverso un voto distaccato e segnato da rassegnazione e scarsa affluenza. D’altronde sono i cittadini comuni, il ceto medio e le classi subalterne, a subire i contraccolpi più violenti del regime di sanzioni. La terza ragione è che Raisi, durante e dopo la campagna elettorale, si è guardato bene dal criticare o peggio condannare apertamente l’accordo sul nucleare. Anzi, ha ribadito ad ogni occasione possibile che «rispetteremo sicuramente il JCPOA nel formato che è stato approvato con nove clausole dal leader supremo, poiché è un contratto e un impegno che i governi devono rispettare». Ultimo, ma non meno importante, l’ex ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif – tra i principali sostenitori dell’intesa – ha lasciato il suo incarico dichiarando che un «framework» per rilanciare il JCPOA era stato quasi raggiunto con gli USA, precisando inoltre di averlo consegnato al nuovo governo. Zarif ha anche affermato che Washington ha accettato di rimuovere la maggior parte delle sanzioni, esprimendo la speranza che i colloqui diplomatici approdino a risultati concreti.

Insomma, le premesse per un ritorno all’intesa ci sarebbero anche. Ma è presto per sbilanciarsi in previsioni che finirebbero per risultare azzardate. Quel che è sembra certo è che dall’inizio dei colloqui si capirà praticamente subito qual è lo spirito e l’atteggiamento che i contraenti intenderanno adottare nel corso di questo ennesimo round di colloqui.

 

Immagine: Il Palazzo delle Nazioni Unite con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica IAEA, Vienna, Austria (23 maggio 2018). Crediti: Ralf Punkenhofer / Shutterstock.com

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Capire cosa sta accadendo in Libano

Quello di Tarek Bitar è un nome che probabilmente non dice molto all’opinione pubblica occidentale e italiana. Ciononostante, comprendere quanto sta accadendo in Libano – dove gli scontri del 14 ottobre scorso hanno provocato 7 morti e almeno 30 feriti – significa anche conoscere la storia e il compito affidato a quest’uomo. Si tratta del giudice incaricato di coordinare le indagini sulla doppia esplosione che ha sinistrato il porto di Beirut il 4 agosto 2020, provocando la morte di 214 persone e il ferimento di altre 7 mila. È un episodio dai contorni ancora non ben definiti. La presenza nel porto della capitale libanese di centinaia di tonnellate di nitrato d’ammonio, un composto chimico spesso utilizzato come fertilizzante, suscita ancora molte domande irrisolte e ben poche risposte.

Come sottolinea un’analisi in merito di Al Jazeera, quando un anno fa le autorità del Paese dei cedri annunciarono che l’indagine sull’esplosione sarebbe stata condotta dalla magistratura libanese – e non da commissioni d’inchiesta internazionali – in pochi pensavano che alti papaveri della politica locale sarebbero finiti nel mirino delle toghe. Bitar è stato incaricato di guidare le indagini a febbraio scorso, in seguito al licenziamento del suo predecessore, il giudice Fadi Sawan, che aveva sorpreso tutti quando aveva accusato direttamente ex ministri come Ali Hasan Khalil, Ghazi Zeiter, Youssef Finianos e l’allora primo ministro ad interim del Libano, Hassan Diab, per la negligenza dimostrata circa i fatti di Beirut. Negli ultimi sette mesi, Bitar ha continuato a perseguire le stesse persone e ha anche puntato il dito contro l’ex ministro Nohad Machnouk. Il magistrato ha anche ripetutamente chiesto di convocare due alti funzionari della sicurezza, il capo della sicurezza generale, il generale Abbas Ibrahim, e il capo della sicurezza dello Stato, il maggiore generale Tony Saliba, ma il ministero degli Interni e il Consiglio superiore della difesa continuano a rigettare tali richieste.

I politici chiamati in causa si sono puntualmente rifiutati di presentarsi agli interrogatori e hanno cercato ripetutamente di rimuovere il giudice dal suo incarico presentando denunce legali, che occasionalmente hanno portato alla sospensione temporanea delle indagini. Sebbene la magistratura abbia finora respinto queste denunce, molti osservatori ritengono si tratti di una tattica per bloccare l’inchiesta, mentre i principali partiti politici hanno anche iniziato a chiedere la rimozione di Bitar.

Nato nel distretto di Akkar, nell’estremità settentrionale del Paese, il quarantasettenne magistrato libanese è diventato il vero pomo della discordia per la politica locale, oltre che il simbolo di una lotta senza quartiere tra i vari partiti che si contendono il potere. Quello che è successo giovedì 14 ottobre, in una Beirut già sconvolta dalla crisi economica, dai blackout elettrici e dalla carenza di carburante, ne rappresenta la dimostrazione plastica. I gruppi sciiti Amal e Hezbollah, il partito-milizia nato nell’ambito della guerra civile libanese su impulso della neonata Repubblica islamica d’Iran, hanno indetto una manifestazione contro la “politicizzazione” dell’inchiesta portata avanti da Bitar. La dimostrazione ha presto lasciato spazio a vere e proprie scene di guerriglia urbana. In un comunicato congiunto, i due movimenti sciiti hanno fatto sapere che i manifestanti sono stati presi di mira da cecchini finora non identificati che sparavano dai tetti vicini al Palazzo di Giustizia, destinazione finale del corteo. In un attimo – con l’intervento dell’esercito e dei miliziani armati legati ai due movimenti ‒ è stato il caos. Il sangue è tornato a macchiare uno dei luoghi simbolo della guerra civile combattuta in Libano tra il 1975 e il 1990, la rotonda di Tayyoune, che divide i quartieri cristiani di Ain el-Remmaneh dalla zona di Chyah, prevalentemente sciita.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Il presidente Michel Aoun ha cercato di raffreddare i toni, assicurando che le indagini proseguiranno senza intoppi fino all’individuazione dei responsabili dell’esplosione al porto di Beirut. Gebran Bassil, leader della Corrente patriottica libera e genero di Aoun, ha accusato di “omicidio” Samir Geagea, leader maronita del partito delle Forze libanesi, in riferimento ai fatti del 14 ottobre. Nabih Berri, presidente del Parlamento libanese e leader del movimento sciita Amal, ha definito le 7 vittime degli scontri «martiri della verità e della giustizia». Il cardinale Bechara Boutros al-Rahi, patriarca della Chiesa maronita, ha chiesto al governo di tornare al dialogo «per riaffermare l’autorità dello Stato».  Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha accusato le Forze libanesi di voler «iniziare una guerra civile», nella quale il «Partito di Dio» non intende farsi trascinare. Ciononostante, la guida religiosa ha assicurato che il movimento Hezbollah può contare su 100 mila combattenti armati e addestrati in Libano per rispondere a qualsiasi necessità. Il primo ministro Najib Mikati, alla guida del Libano da appena un mese, ha invece dichiarato che non convocherà alcuna riunione del governo prima della risoluzione della disputa inerente al ruolo ricoperto dal giudice Bitar.

Al netto delle dichiarazioni politiche, quanto accaduto in Libano sembra far emergere due dati essenziali per comprendere la situazione. Da una parte si dimostra ancora una volta l’inadeguatezza e la rigidità del sistema istituzionale su base confessionale. Nella disputa sul ruolo di Bitar, tuttavia, non si scontrano solo il diritto all’accusa e alla difesa, ma anche il desiderio di impunità di una parte della classe dirigente e la richiesta di giustizia da parte di una buona fetta di popolazione. La divisione dei poteri ne risulta compromessa, l’unità sociale inevitabilmente sfibrata. D’altra parte, il precipitare della situazione rimette paradossalmente le élite libanesi in quella che la rivista Foreign Policy definisce la loro comfort zone, ossia lo scontro settario e la divisione su base confessionale, tramite i quali sono abituate ad esercitare il potere nella frammentaria e partitocratica democrazia mediorientale. In altri termini, si tratta di un viatico per mantenere lo status quo ed evitare che l’inchiesta di Bitar si trasformi in un terremoto capace di scuotere il sistema di potere dalle fondamenta.

 

Immagine: Veduta aerea del porto distrutto da fortissime esplosioni causate da un incendio in un magazzino, Beirut, Libano (5 agosto 2020). Crediti: diplomedia / Shutterstock.com

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La Siria al centro dell’attività diplomatica mediorientale

 

Anche se sparita dai radar dell’informazione occidentale, la Siria continua ad essere al centro delle trame politiche e diplomatiche del Medio Oriente. Sebbene la situazione militare sia sostanzialmente in stallo, dopo dieci anni di sanguinoso conflitto, diversi attori regionali continuano a lavorare verso un obiettivo ben preciso: quello di normalizzare i rapporti con il regime di Bashar al-Assad, isolato da numerosi organismi multilaterali dopo aver represso nel sangue le manifestazioni antigovernative del 2011, sfociate in una cruenta guerra civile negli anni successivi.

Il 1° ottobre scorso, a seguito dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA, United Nations General Assembly) a New York, il ministro degli Esteri siriano Faisal Miqdad, ha constatato che dagli interventi pronunciati dai leader mondiali al Palazzo di vetro emerge una novità importante: l’atteggiamento internazionale verso il governo di Damasco è cambiato. Il capo della diplomazia siriana si è quindi detto soddisfatto dei numerosi incontri tenuti con i ministri degli Esteri a margine dell’Assemblea. Il tema Siria, in effetti, ha giocato un ruolo marginale nell’ambito dell’UNGA. Non è più, infatti, quel pomo della discordia tra attori locali e internazionali che è stato nell’ultimo decennio.

Gli incontri diplomatici e le aperture di questi mesi verso Damasco sembrano dare ragione a Miqdad. Particolarmente intense sono le attività di contatto tra Siria e Giordania. Il 2 ottobre, ad esempio, il quotidiano panarabo di proprietà saudita Asharq al-Awsat, ha diffuso documenti segreti secondo i quali il governo di Amman punta su “un nuovo approccio” verso il vicino siriano. Re Abd Allah II di Giordania avrebbe discusso della nuova strategia anche con i presidenti di Russia e Stati Uniti, rispettivamente Joe Biden e Vladimir Putin. Da Washington, tra l’altro, il sovrano hashemita avrebbe ricevuto anche rassicurazioni sul fatto che Amman non riceverebbe sanzioni qualora normalizzasse completamente i rapporti con Damasco. Non sembra casuale, in questo senso, che a fine settembre la Giordania abbia disposto la riapertura del valico di Jaber-Nassib, al confine con la Siria, dopo la chiusura decisa un anno fa. A confermare, anche solo parzialmente, le indiscrezioni della stampa araba, re Abd Allah ha ricevuto il 3 ottobre una telefonata dal presidente Assad, la prima di questo genere dall’inizio del conflitto in Siria. Nella relativa nota ufficiale, rilanciata dalle agenzie di stampa giordane e siriane, si sottolinea che il sovrano ha ribadito «il sostegno della Giordania agli sforzi per salvaguardare la sovranità, la stabilità, l’integrità territoriale e l’unità della sua gente della Siria». Parole che, fino a un anno fa, ci si sarebbe aspettati solo da alleati di ferro del regime, come Russia e Iran.

Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sono stati il primo Paese arabo a spianare la strada alla normalizzazione di Assad e del suo regime, riaprendo la propria ambasciata a Damasco già a fine 2018. Questo percorso, a tre anni di distanza, continua oggi a vele spiegate. L’agenzia ufficiale siriana SANA ha riferito che Muhammad Khalil, ministro dell’Economia siriano, ha incontrato la sua controparte emiratina Abdallah Tawq a margine di Expo 2020. Le parti hanno discusso delle relazioni bilaterali e commerciali, sostenute da un accordo stipulato nel 2019 tra Damasco e Abu Dhabi. Vale la pena sottolineare che gli EAU, così come Turchia e Arabia Saudita, sono stati tra i principali sostenitori – nel 2011 – delle opposizioni siriane all’estero, in funzione anti-Assad. Il fatto che oggi siano tra i più convinti sostenitori della normalizzazione rappresenta un cambio di rotta molto significativo.

Non sono solo Giordania ed Emirati, tuttavia, a muoversi in favore di Damasco nello scacchiere mediorientale. Anche l’Egitto sembra intenzionato a fare la sua parte per riammettere la Siria nel consesso regionale e in particolare nella Lega Araba, da cui il regime di Assad è stato espulso a novembre 2011. Sempre a margine dell’UNGA di New York, il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, ha incontrato l’omologo siriano Miqdad. Anche in questo caso si è trattato della prima volta per un incontro di questo livello in quasi dieci anni. Shoukry ha dichiarato di aver discusso con il ministro siriano degli step necessari affinché la Siria esca dall’isolamento e riconquisti la sua posizione attiva nel mondo arabo. «Ora che le battaglie militari [in Siria] si sono placate, dobbiamo svolgere un ruolo nel ripristinare la comunicazione […] per ripristinare la posizione della Siria nell’area», ha spiegato Shoukry.

Nonostante quanto affermato dal capo della diplomazia del Cairo, però, la situazione militare in Siria è tutt’altro che placata. Resta fuori dal controllo del regime l’area nordoccidentale di Idlib, soggetta a pattugliamenti congiunti russo-turchi, controllata da milizie anti-Assad e sede del cartello jihadista Hayat Tahrir as-Sham. Nuove forme di insorgenza si manifestano nella regione meridionale di Dar’a, culla della rivoluzione siriana, dove le truppe del regime sono entrate con la forza a inizio settembre per schiacciare le rivolte. Resta irrisolto, inoltre, il nodo delle YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare) curde, utilizzate dagli americani in funzione anti Stato islamico, ma considerate gruppi terroristici dalla Turchia. Alla luce di questo scenario, cui si aggiungono i sempre meno ascoltati appelli delle ONG sulle violenze indiscriminate contro i civili, i tentativi di normalizzare la situazione rischiano di scontrarsi con una realtà sul campo ancora estremamente incerta e complessa.

 

Crediti immagine: Alexander Lukatskiy / Shutterstock.com

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Tra Israele ed Egitto la via della normalizzazione in Medio Oriente

 

Lunedì 13 settembre il premier israeliano Naftali Bennett è stato ricevuto a Sharm el-Sheikh dal presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, in quello che è stato il primo incontro tra i vertici dei due Paesi da dieci anni a questa parte. Il summit tra i due leader è stato caratterizzato da una forte carica simbolica, oltre che da circostanze temporali del tutto particolari. Bennett, infatti, ha incontrato il capo dello Stato egiziano a un anno esatto dalla firma dei cosiddetti Accordi di Abramo – patrocinati dagli Stati Uniti - con cui il 15 settembre 2020 Israele ha normalizzato le relazioni diplomatiche con Emirati Arabi Uniti e Bahrain (seguiti a stretto giro da Sudan e Marocco). L’incontro tra il premier israeliano e il presidente egiziano si inserisce in questo solco diplomatico, in cui la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i vicini arabi sembra procedere a vele spiegate, nonostante vecchi e nuovi focolai di instabilità a livello regionale.

Bennett ha ringraziato al-Sisi per «l’importante ruolo dell’Egitto nella regione», osservando che dopo più di quattro decenni, l’accordo di pace tra Israele ed Egitto «continua a fungere da pietra angolare per la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente». Il premier dello Stato ebraico, capo del primo governo senza Benjamin Netanyahu dopo quindici anni, ha anche sottolineato il «ruolo significativo» che l’Egitto svolge nel «mantenere la stabilità della sicurezza nella Striscia di Gaza», teatro dell’ennesima escalation di violenza a maggio di quest’anno. L’Egitto, sottolinea il quotidiano The Times of Israel, negli ultimi mesi ha cercato di svolgere pubblicamente il ruolo di mediatore responsabile ed efficace tra Israele e Hamas, il movimento-milizia palestinese di ispirazione islamica che controlla l’enclave costiera. Il Cairo, infatti, ha avuto un ruolo centrale nella negoziazione del cessate il fuoco che ha posto fine alle ostilità di maggio tra Israele e Gaza. Al centro della visita anche altri aspetti delle relazioni bilaterali, come l’approfondimento degli scambi commerciali e la cooperazione energetica.

All’incontro tra Al Sisi e Bennett erano presenti anche il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, il capo dell’intelligence, Abbas Kamel, il capo del consiglio di Sicurezza nazionale israeliano, Eyal Holata, e l’ambasciatrice d’Israele al Cairo, Shimrit Meir. A rimarcare la portata storica dell’incontro, i due leader si sono fatti immortalare dalla stampa seduti uno accanto all’altro con alle spalle le bandiere di Israele ed Egitto. Una simbologia non da poco, considerato che il Paese delle piramidi è stato uno dei protagonisti – se non l’attore principale – nelle guerre combattute tra Stati arabi e Israele nel 1948, nel 1967 e nel 1973. L’Egitto è stato la patria di Gamal Abdel Nasser, che forte del sostegno sovietico sognava negli anni Cinquanta il panarabismo in salsa socialista, in cui Israele rappresentava necessariamente il corpo estraneo da estirpare. Oggi, però, i tempi sono molto cambiati. La guerra fredda è finita, il centro del nuovo scontro geopolitico globale – quello tra Cina e USA – si è spostato nel Pacifico. Il Medio Oriente – così come l’Europa – si ritrova alla periferia di questa mutata configurazione e gli attori regionali cercano di plasmare un equilibrio locale lontano dalle faglie ideologiche del passato.

Ciononostante, quello che accade a Washington continua ad avere ripercussioni sul Medio Oriente e sul rapporto tra Israele e vicini arabi. Come sottolinea un articolo di Foreign Policy, la spinta alla normalizzazione data dagli Accordi di Abramo rischia di impantanarsi in una diatriba fra i principali partiti americani. L’attuale presidente, Joe Biden, non ha organizzato eventi o celebrazioni in occasione dell’anniversario degli accordi, sponsorizzati e realizzati sotto l’amministrazione del predecessore repubblicano Donald Trump. I conservatori USA hanno colto la palla al balzo per accusare Biden di essere “troppo tiepido” nel sostenere nuove intese di normalizzazione in Medio Oriente sulla scia di quelle pattuite un anno fa. Vale la pena sottolineare, però, che l’amministrazione Biden è alle prese con dossier impegnativi come il ritiro dall’Afghanistan, l’aumento di casi di Covid-19 catalizzato dalla variante Delta e i danni causati dagli uragani sulla costa orientale degli Stati Uniti. Sia il presidente che il segretario di Stato USA, Antony Blinken, hanno ribadito in ogni occasione possibile il loro sostegno a eventuali nuovi accordi tra Israele e Paesi dell’area, lanciando anche blandi appelli alla ripresa del dialogo tra Stato ebraico e palestinesi.

Quel che sembra certo e dimostrato anche dalla visita di Bennett in Egitto – seguita a quella del ministro degli Esteri Yair Lapid negli Emirati – è che il treno della normalizzazione non pare destinato a fermarsi. Un’analisi della rivista americana Foreign Affairs evidenzia che il nuovo corso delle relazioni tra Israele e Paesi arabi ha superato anche lo stress test dell’ultima escalation a Gaza. Durante le violenze di maggio hanno perso la vita 256 palestinesi e 13 israeliani, 73 delle vittime erano bambini. Ciononostante, da Abu Dhabi, Manama e dal Cairo sono arrivati appelli ad abbassare il livello di violenza, ma nessuna netta presa di posizione a favore dei palestinesi. Se si considera che nel 1974 la Lega degli Stati Arabi ha riconosciuto l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, oggi la via sembra ormai essere un’altra: quella di normalizzare le relazioni tra Israele e vicini arabi scavalcando de facto la claudicante e vecchia leadership palestinese.

 

Immagine: Mappa del Medio Oriente. Crediti: Popartic / Shutterstock.com

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Le conseguenze della disfatta afghana, tra USA, Cina e Russia

 

Nel pomeriggio di domenica 15 agosto 2021 il ministro dell’Interno afghano, Abdul Sattar Mirzakwal, ha annunciato che il governo in carica consentirà la creazione di un “governo di transizione", dopo che nelle ore precedenti il movimento dei Talebani aveva preso il controllo della capitale Kabul, quindi dell’intero Afghanistan. Stando all’agenzia Associated Press, nelle stesse ore il presidente afghano Ashraf Ghani si lasciava alle spalle il Paese, riparando all’estero consapevole di non poter più ribaltare la situazione. Nel giro di una settimana, infatti, i capoluoghi dei principali governatorati afghani sono caduti come foglie di fronte all’offensiva dei Talebani, che hanno colto al balzo l’occasione del ritiro americano e occidentale per riprendere il controllo del Paese centrasiatico. Ghazni, Lashkargah, Herat, Kandahar e infine Kabul, cadute una dopo l’altra come birilli.

Spiegare i motivi e le possibili conseguenze di questa pesante quanto repentina disfatta è operazione assai complessa. Bisogna innanzitutto comprendere quanto sia profonda e radicata nella cultura locale afghana una frammentazione del potere che ha ben pochi eguali sull’intero pianeta. L’Afghanistan è un Paese aspro, montagnoso, difficile da controllare nella sua interezza. Il mosaico di gruppi etnici come Pashtun, Tagiki, Hazara, Uzbeki, Beluci ecc. è solo una rete a maglie larghe sotto la quale il potere passa per le mani di potentati più piccoli, come clan e tribù, che controllano una fetta del monopolio della violenza e dei fattori produttivi (primi fra tutti quelli legati al commercio degli oppioidi).

È in questo contesto che, stringendo patti e alleanze tattiche più o meno lunghe, i Talebani sono riusciti a vivere nel nascondimento per vent’anni, dopo l’invasione del Paese da parte di USA e alleati post-11 settembre 2001, attendendo pazientemente il momento propizio per tornare in scena. L’annuncio del ritiro americano da parte dell’ex presidente Donald Trump a ottobre 2020 ha rappresentato quel momento propizio, anche se è toccato al successore Joe Biden gestire la fase operativa del disimpegno. La resistenza delle forze regolari afghane, formate e finanziate da USA e NATO nel corso degli ultimi due decenni, è stata blanda, talvolta inesistente. Numerosi i casi di defezione e persino di soldati che si sono rifiutati di aprire il fuoco. Connivenza, paura, rassegnazione: è molto difficile stabilire quale sia la ragione dietro questi fenomeni, rivelatisi però determinanti per il successo dell’offensiva talebana.

All’indomani della presa di Kabul sono due i dati su cui vale la pena riflettere. Il primo è l’enorme, forse definitivo, danno arrecato alla credibilità statunitense nell’area e persino a livello globale. Il secondo è il modo in cui le altre potenze regionali e globali, come Cina e Russia, intenderanno giocarsi la partita ora che i Talebani sono di nuovo al potere in uno Stato che ha rappresentato per secoli un nodo essenziale della geopolitica centroasiatica.

La credibilità, pur non essendo un bene tangibile come il petrolio o gli aerei da combattimento, è un asset geopolitico essenziale, specialmente per una superpotenza come gli Stati Uniti. Serve a far capire ad alleati e partner che possono fidarsi, ma anche per far sapere agli avversari che eventuali azioni ostili non restano impunite. Le fotografie della frettolosa fuga da Kabul del personale diplomatico USA, i video di afghani disperati che prendono d’assalto un volo in decollo nello scalo della capitale per poi morire cadendo nel vuoto, pur di non restare nelle mani dei Talebani: sono danni d’immagine enormi per gli Stati Uniti d’America e per la loro credibilità.

Le risposte dell’amministrazione americana, inoltre, appaiono vacue e insufficienti. All’inizio dell’offensiva talebana la comunità d’intelligence USA sembrava persuasa che il movimento intendesse conquistare solo qualche territorio, per poi tornare ai negoziati da una posizione di forza. Previsione rivelatasi molto debole. Di fronte al fatto compiuto, con i Talebani che a grandi falcate prendevano un governatorato dopo l’altro, l’amministrazione Biden si è trincerata dietro il tecnicismo della “missione compiuta”, ricordando – come fatto più volte dal segretario di Stato Antony Blinken e dallo stesso presidente Biden – che l’obiettivo della missione in Afghanistan era quello di liquidare al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, non disarcionare il regime talebano e costruire una nuova statualità. Il destino dell’Afghanistan non rientra, quindi, nelle dirette responsabilità di Washington. Dal punto di vista tecnico può sembrare una risposta credibile, ma non dal punto di vista politico, morale e – appunto – della credibilità.

Cercare motivazioni strategiche e geopolitiche dietro il ritiro americano sembra operazione abbastanza avventata. Sulla decisione USA ha pesato soprattutto la politica domestica: una fetta sempre maggiore dell’opinione pubblica americana era stanca di un conflitto ventennale costato 83 miliardi di dollari e 2.500 vite umane, perse in uno sperduto Paese incastonato tra le montagne dell’Asia. La propaganda trumpiana contro le endless wars, le guerre infinite, e le accuse ai Dem di essere tradizionalmente i “guerrafondai” contrapposti all’isolazionismo dell’“America First” hanno fatto il resto.

Ciononostante le implicazioni geopolitiche saranno probabilmente tante e rilevanti. Vista da Pechino, ad esempio, l’ignominia di cui si sono macchiati gli Stati Uniti in Afghanistan è una manna dal cielo a livello propagandistico. Il Global Times, organo ufficiale del Partito comunista cinese, titola senza filtri «Sconfitta in Afghanistan: una completa umiliazione per gli USA», e aggiunge: «Gli Stati Uniti sono davvero come una “tigre di carta”», la cui sconfitta «è ancora più umiliante di quella dell’Unione Sovietica in Afghanistan negli anni ’80». In un commento riferito all’ex colonia britannica di Hong Kong – dove movimenti pro-democrazia lottano contro la repressione cinese – sempre il Global Times cita l’Afghanistan per “suggerire” agli attivisti di non dare credito alle promesse americane in loro favore. Questione di credibilità, appunto.

La Cina ha, per il momento, un’unica seria preoccupazione, ossia quella legata a possibili emorragie di estremismo islamico dall’Afghanistan nello Xinjiang, regione cinese occidentale popolata dalla minoranza islamica e turcofona degli Uiguri. Ciononostante Pechino sembra voler risolvere il problema per via diplomatica, non con le armi o addirittura prendendo il posto degli USA in Afghanistan. Già a luglio scorso una delegazione talebana visitava Tianjin, megalopoli cinese a sudest di Pechino, per incontrare funzionari diplomatici cinesi che chiedevano rassicurazioni proprio sul fronte uiguro. È la classica strategia della Cina in Asia occidentale: evita meticolosamente di impantanarsi direttamente in scenari di crisi potenzialmente senza uscita e interviene, a bocce ferme, col potere della diplomazia e dell’economia (dicendosi pronta a partecipare alla ricostruzione).

La Russia, invece, dimostra il solito pragmatismo lanciando blandi appelli alla moderazione e dicendosi disposta a dialogare con il nuovo governo di transizione. Anche Mosca si guarda bene dal lanciarsi in un coinvolgimento diretto in Afghanistan, un Paese il cui solo nome evoca ancora una delle peggiori sconfitte della storia sovietica, considerata da alcuni come l’inizio della fine per il blocco comunista. Per i primi tempi, dunque, l’Afghanistan tornato in mano ai Talebani potrebbe restare in una sorta di limbo diplomatico. Una condizione che, al netto delle minacce di isolamento da parte di Unione Europea e ONU, mette il Paese solo relativamente in difficoltà. I Talebani sanno di poter contare sull’appoggio del Pakistan, che a sua volta è il principale partner della Cina nell’area oltre che un Paese che li ha coccolati e protetti per tutto questo tempo consentendo loro di tornare al potere dopo vent’anni di presenza occidentale.

 

Immagine: Una donna con indosso il burqa nella vita quotidiana, Kabul, Afghanistan (23 marzo 2009). Crediti: kursat-bayhan / Shutterstock.com

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“Nuovo Levante”, nasce l’asse tra Iraq, Egitto e Giordania

 

Il 28 giugno scorso si è tenuto a Baghdad un vertice trilaterale cui hanno preso parte Iraq, Egitto e Giordania, rappresentati rispettivamente dal premier Mustafa Al Kadhimi, dal presidente Abd al Fattah al-Sisi e dal re Abd Allah II. Si è trattato dell’inaugurazione di un nuovo asse di cooperazione, soprattutto economica, che la stampa araba ha già definito iconicamente Al-Mashreq al-Jadeed (il Nuovo Levante). È stata la quarta volta che i leader dei tre Paesi si sono incontrati da marzo 2019, la prima sul suolo iracheno. Si è inoltre trattato della prima visita di un presidente egiziano in Iraq da più di 30 anni.

Per tutte queste ragioni, il centro studi britannico Chatham House ha definito il trilaterale come un incontro tra “strani compari regionali” (region’s odd fellows). Vale la pena precisare che l’Iraq ha storicamente avuto importanti relazioni economiche sia con l’Egitto che con la Giordania. Non a caso i tre Paesi, insieme all’allora Yemen del Nord, hanno dato vita a un partenariato economico di brevissima durata chiamato Consiglio di cooperazione arabo (ACC, Arab Cooperation Council), esistito solo per un anno dal 1989 al 1990. La cooperazione economica resta tutt’oggi al centro di questa relazione trilaterale, che si staglia come un triangolo assai scaleno al centro del Medio Oriente. Non mancano, però, le implicazioni geopolitiche e gli obiettivi strategici. 

Come spiega sempre Chatham House, l’Egitto ha perso il suo posto di cosiddetto “centro di gravità” della regione, la Giordania è stata messa da parte durante l’amministrazione dell’ex presidente statunitense Donald Trump e da allora, probabilmente, ha perduto il suo ruolo di interlocutore per la pace in Medio Oriente. L’Iraq, invece, tutt’oggi fatica ad uscire dalla sfera di influenza iraniana che lo ha condotto ben al di fuori dal concerto dei Paesi arabi vicini. Sarebbe riduttivo, però, limitare il nuovo formato trilaterale ad una sorta di contraltare della cosiddetta “Mezzaluna sciita iraniana” che corre tra Iraq, Siria e Libano e di cui, peraltro, ricalca in parte la forma. I tre Paesi, infatti, hanno oggi altre ottime ragioni sia domestiche che regionali per rafforzare la cooperazione in alcuni settori essenziali come energia, sicurezza e difesa.

Lo dimostra, tra le altre cose, che l’incontro tra al-Sisi, Abd Allah II e Al Kadhimi sia stato preceduto, in marzo, da un trilaterale cui hanno preso parte i relativi ministri degli Esteri Sameh Shoukry, Ayman Safadi e Fuad Hussein, accompagnati da nutrite delegazioni di vertici dell’intelligence. Questo significa che oltre la cooperazione economica c’è una chiara portata (geo)politica dietro l’avvicinamento, graduale ma deciso, tra Il Cairo, Amman e Baghdad.

Nell’ottica per cui “l’unione fa la forza”, c’è anche da considerare una componente diplomatica. Con il “Nuovo Levante”, infatti, la Giordania può tentare di riacquisire parte del peso internazionale che ha perso con la normalizzazione tra Israele e Paesi del Golfo come Emirati Arabi Uniti e Bahrain (di cui Amman è stata finora il tradizionale medium per i contatti ufficiosi con lo Stato ebraico e con gli USA). Il premier iracheno Al Kadhimi, dal canto suo, sta cercando di imporsi come grande mediatore regionale, impegnandosi persino nella partita diplomatica più difficile: quella del ritorno al dialogo tra Iran e Arabia Saudita. L’Egitto di al-Sisi, infine, è certamente l’azionista di maggioranza della coalizione per quello che riguarda il peso specifico internazionale e la potenza militare. Il Cairo può riguadagnare il centro della scena politica alla guida dei Paesi arabi “minori”, in contrapposizione alle monarchie del Golfo che dalla loro parte hanno la potenza di fuoco economica garantita dagli idrocarburi.

Il fattore Iran, come si diceva, non è dunque l’unico elemento da considerare nell’analisi dell’asse Egitto-Giordania Iraq, ma ha senza dubbio la sua importanza. I leader arabi, tra cui il premier iracheno Al Kadhimi, hanno capito perfettamente – a differenza di molti analisti e policy-maker occidentali – che l’influenza iraniana sul Paese del Tigri e dell’Eufrate non è data solo dalla presenza di milizie proxy e dalle capacità balistiche che consentono alle forze vicine a Teheran di minacciare obiettivi sensibili. Al contrario, la penetrazione iraniana in Iraq si gioca anche sul terreno dell’economia, delle infrastrutture e del tessuto produttivo. In questo senso, puntellare una forte partnership economica con alleati arabi a ovest può consentire a Baghdad di contrastare l’Iran anche su questo specifico e determinante dossier. 

C’è da chiedersi quale possa essere la reazione di Teheran nei confronti del “Nuovo Levante”. Secondo un rapporto in merito della Brookings Institution, l’Iran e il suo nuovo presidente Ebrahim Raisi potrebbero considerare positivamente la cooperazione economica dell’Iraq con Egitto e Giordania, a patto che in futuro Teheran possa beneficiare a sua volta di questa alleanza sotto il profilo economico. Molto dipenderà dall’accoglienza che il nuovo asse riceverà dagli Stati Uniti di Joe Biden. L’idea, stando alle indiscrezioni della stampa, è di includere nel format altri attori regionali come Libano e Siria. Quest’ultima ipotesi potrebbe finire per scontentare Washington, che considera tutt’oggi il presidente Bashar al-Assad alla stregua di un criminale di guerra, sebbene i toni della nuova amministrazione siano più morbidi rispetto a quelli usati durante l’era Trump. Con la Siria di Assad fuori, tuttavia, gli USA non possono che guardare favorevolmente all’avvicinamento tra Il Cairo, Amman e Baghdad, che inevitabilmente finirebbe per provocare qualche malumore nelle stanze del potere di Teheran.

 

Immagine: Vista satellitare del Medio Oriente. Mar Rosso, Arabia Saudita, Egitto, Israele, Palestina, Iraq e Siria. Crediti: Gli elementi di questa immagine sono forniti dalla NASA. elRoce / Shutterstock.com

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Ra’am, un partito arabo nel governo israeliano

C’è una novità importante nel primo esecutivo di Israele senza Benjamin Netanyahu, esautorato dopo dodici anni ininterrotti di governo. Quella formata da Yair Lapid – incaricato di formare il nuovo governo ‒ è certamente una compagine complessa e, per certi versi, inorganica, di cui fanno parte partiti di destra come Yisrael Beiteinu e Yamina (il cui leader Naftali Bennett sarà premier), i centristi di Yesh Atid, Kahol Lavan, New Hope e partiti del centrosinistra come il Labour e Meretz. Ma la vera novità sta nella presenza, tra le forze politiche che sostengono l’esecutivo, del partito arabo Ra’am.

Si tratta di uno dei movimenti che rappresentano i cittadini arabi di Israele, detti anche arabi israeliani o arabi del ’48 (in riferimento al fatto che dopo la nascita dello Stato ebraico nel 1948 sono rimasti entro i suoi confini e non sono finiti a vivere come rifugiati in Cisgiordania e nei Paesi arabi limitrofi). In un sistema elettorale proporzionale puro come quello di Israele è fisiologico che si formino alleanze composite tra partiti anche molto piccoli per ottenere la maggioranza alla Knesset, il Parlamento monocamerale di Gerusalemme. Nondimeno, il caso di Ra’am e del suo leader Mansour Abbas assume caratteristiche del tutto particolari.

Il nome ufficiale del partito è Lista araba unita, ma è significativo che sia più noto con la dicitura in ebraico Ra’am (HaReshima HaAravit HaMe'uhedet). I partiti arabi in Israele rappresentano in teoria le istanze di 1.890.000 persone di nazionalità palestinese e cittadinanza israeliana, pari al 20,95% della popolazione totale dello Stato ebraico. Ra’am si inserisce nella storia di questi partiti, che iniziò nel momento in cui gli arabi in Israele decisero di partecipare attivamente alla vita politica dello Stato ebraico, operazione giudicata come negativa da altri, in quanto va implicitamente a legittimare lo Stato sionista. Nella storia della partecipazione araba alla politica dello Stato ebraico, tanto per dirne una, si inserisce anche il poeta nazionale palestinese Mahmoud Darwish, membro negli anni Cinquanta di Rakah (HaMiflega HaKomunistit HaYisra'elit), il Partito comunista israeliano.

Quanto a Ra’am, il movimento vide la luce nel 1996 in un’alleanza elettorale con il Partito democratico arabo e la fazione meridionale del Movimento islamico, lo storico partito degli arabi musulmani in Israele la cui branca settentrionale è considerata più estremista (bandita dalla Knesset nel 2015 per la sua vicinanza a Hamas e alla Fratellanza musulmana). Negli ultimi due anni, Israele ha assistito a ben quattro tornate elettorali – nonostante la pandemia di Covid-19 – conclusesi con il primo governo anti-Netanyahu in 12 anni.

Mansour Abbas, pragmatico leader di Ra’am, è un dentista originario di Maghar, nel cuore della Galilea. L’ascesa di Ra’am al governo è in gran parte frutto della sua personale spregiudicatezza, tale da non impedirgli di dialogare con leader sionisti intransigenti come Bennett. Secondo le indiscrezioni, nella fitta trama politica per le nomine nell’esecutivo e nel sottobosco governativo, Abbas punta ad ottenere la presidenza della Commissione Affari interni e Ambiente della Knesset, dove potrà agire su dossier considerati centrali come le politiche abitative e le demolizioni. Prima del voto di fiducia al nuovo governo, domenica 13 giugno 2021, Abbas ha pronunciato un discorso di fronte al Parlamento in cui ha definito con chiarezza la linea che intende adottare.

Il leader di Ra’am ha promesso di reclamare la terra che è stata “espropriata” dagli arabi israeliani. «Reclameremo le terre che sono state espropriate al nostro popolo, questa è una causa nazionale di primo piano», ha detto Abbas in arabo, cosa che la legge israeliana gli consente dal momento che l’arabo è la seconda lingua ufficiale dello Stato. Passando all’ebraico, poi, ha osservato che «veniamo da nazioni diverse, religioni diverse e settori diversi. C’è una cosa che unisce tutti i cittadini di Israele ed è la cittadinanza».

Sembrerebbero parole di un leader moderato, che riconosce in toto l’appartenenza della comunità araba a Israele. Ciononostante, vale la pena sottolineare che a livello ideologico Ra’am si colloca su posizioni conservatrici e vicine all’Islam politico e questo ne fa una sorta di “cugino di secondo grado” del movimento palestinese Hamas, che è innanzitutto un partito (anche se dotato di un’ala militare). Abbas è stato oggetto di aspre critiche all’interno del mondo arabo-islamico, soprattutto a mezzo stampa. Il quotidiano saudita Arab News vede nell’ingresso di Ra’am al governo di Israele una chiara dimostrazione della spregiudicatezza della Fratellanza musulmana e dei movimenti politici da essa discendenti nel cercare il potere a tutti i costi. Anche in uno Stato come Israele «la cui legittimità, e persino il diritto di esistere, è ancora così pesantemente contestata in gran parte del mondo arabo e musulmano», si legge sul quotidiano di Riyad.

Il sito Middle East Eye, che adotta posizioni progressiste, critica Abbas definendolo «un’icona per i sostenitori del colonialismo israeliano», cioè il leader che, accettando di far parte del governo, ha legittimato le politiche dure e di occupazione sposate da molti altri esponenti della stessa coalizione (come ad esempio Ayelet Shaked, del partito Yamina).

Non è facile capire quale piega prenderanno gli eventi, ma i numeri con cui il governo Lapid-Bennett è venuto alla luce parlano chiaro: i voti di Ra’am sono fondamentali per la tenuta dell’esecutivo e questo dà a Ra’am una leva negoziale piuttosto importante nelle future dinamiche politiche. Ciononostante, fuori dai corridoi della Knesset, molti arabi in Israele e, soprattutto, nei territori palestinesi, continuano a contestare l’opportunità stessa che un partito arabo prenda parte ad un esecutivo del genere, considerata soprattutto la sua nutrita componente sionista e nazionalista.

 

Immagine: Un uomo musulmano e un uomo ebreo nella città vecchia di Gerusalemme (28 luglio 2009). Crediti:  ChameleonsEye / Shutterstock.com

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Intanto in Medio Oriente il dialogo riprende

Negli ultimi mesi il Medio Oriente sembra esser stato investito da una sorta di “febbre del dialogo”, per effetto della quale attori regionali finora ostili gli uni agli altri sono tornati a interloquire e a parlarsi. In gioco, però, non c’è solo quella che alcuni analisti considerano la ricomposizione interna all’Islam politico sunnita, dove il fronte Turchia-Qatar si contrappone ad Arabia Saudita e alleati. Nelle ultime settimane si sono visti tentativi di dialogo e apertura anche tra nemici giurati come Iran e Arabia Saudita e persino abboccamenti di Riyad con la Siria di Bashar al-Assad, con il probabile intento di riammettere Damasco nella Lega Araba e nei giochi diplomatici regionali. C’è da chiedersi se e quanto questa rinnovata spinta al dialogo in Medio Oriente abbia a che fare con la politica statunitense nell’area ai tempi dell’amministrazione di Joe Biden.

Procediamo con ordine. Per la prima volta dal 2013, si sono svolti mercoledì 5 e giovedì 6 maggio al Cairo colloqui ufficiali tra Turchia ed Egitto. Le discussioni esplorative si sono concentrate sui passi necessari alla normalizzazione delle relazioni tra i due Paesi, in rotta di collisione da quado un colpo di Stato ha estromesso otto anni fa il presidente egiziano Mohammed Morsi, esponente della Fratellanza musulmana considerato vicino ad Ankara. Le parti coinvolte hanno parlato di colloqui “franchi e approfonditi”, preparati peraltro da una serie di reciproche aperture e dichiarazioni favorevoli nei mesi scorsi. Il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, è stato inoltre in Arabia Saudita lunedì 10 maggio, è la prima volta dall’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi nel 2018. Riyad ha visto di buon grado la destituzione di Morsi nel 2013 e considera la Fratellanza musulmana a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica.

Sempre mercoledì 12 maggio, il presidente iracheno Barham Salih ha confermato indiscrezioni di stampa secondo cui Baghdad ha recentemente ospitato diversi round di colloqui tra Arabia Saudita e Iran, tradizionalmente considerati i protagonisti della più aspra contrapposizione geopolitica del Medio Oriente. Vale la pena precisare che si tratterebbe di contatti a livello di intelligence, cosa non necessariamente sorprendente anche tra Paesi dichiaratamente ostili. Lo stesso premier iracheno Mustafa Al Kadhimi, in carica dallo scorso anno, ha alle spalle una carriera da funzionario d’intelligence e ha tutto l’interesse – dicono i media locali – a porsi come grande mediatore tra Riyad e Teheran. In altre parole, l’intelligence dialoga e lavora con toni e strumenti diversi da quelli della politica, dove la retorica e gli strali reciproci hanno spesso la meglio sul pragmatismo. Lo stesso principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MBS) ha rilasciato di recente dichiarazioni favorevoli verso Teheran. «Stiamo lavorando con i nostri partner nella regione per superare le nostre divergenze con l’Iran», ha detto alla televisione di Stato. Solo quattro anni fa, MBS sosteneva apertamente che il dialogo con l’Iran era invece impossibile: «Come dialoghi con un regime costruito su un’ideologia estremista?», diceva il rampollo di casa Saud.

Lunedì 3 maggio, secondo indiscrezioni dei media legati all’opposizione siriana, una delegazione saudita di alto livello è arrivata nella capitale Damasco e ha incontrato il presidente Assad. Stando a quanto riferito, le parti hanno parlato del possibile ritorno della Siria nella Lega Araba e anche della riapertura dell’ambasciata saudita a Damasco, un passo che gli Emirati hanno compiuto già a fine 2018. Le monarchie del Golfo, compreso il Qatar (sebbene da una posizione diversa), hanno sostenuto a partire dal 2011 i ribelli antigovernativi siriani, specialmente i gruppi armati più islamicamente connotati. Il fatto che ora pensino di approcciare nuovamente il governo di Damasco – alleato di ferro dell’Iran –  è estremamente significativo. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, intanto, è pronto a visitare gli Emirati nei prossimi mesi con l’obiettivo di “riscaldare i legami” tra Teheran e Abu Dhabi, suggeriscono indiscrezioni dei media locali.

Quanto ha a che fare questa “febbre del dialogo” in Medio Oriente con la politica americana nell’area? Se si considera la politica recente, probabilmente poco. Se si considera una prospettiva più lunga, decisamente di più. Alcuni analisti suggeriscono una connessione tra questa rinnovata spinta diplomatica tra gli attori mediorientali e la crescente politica di disimpegno statunitense dall’area. La strategia del “Pivot to Asia”, cioè la proiezione della maggior parte degli sforzi geopolitici USA nel contenimento della Cina, è stata inaugurata da Barack Obama e portata avanti con grande continuità dai successori Donald Trump e Joe Biden. Probabilmente, però, non c’è solo questo dietro la “febbre del dialogo”. Quello a cui assistiamo è un classico scenario post-guerra fredda, in cui gli attori si muovono su linee d’azione improntate al pragmatismo più che all’appartenenza a sfere di influenza di questo o quel soggetto internazionale. Egitto e Turchia, tanto per fare un esempio, giocano entrambi la partita del Mediterraneo orientale con le sue riserve di idrocarburi. In questo contesto, Il Cairo ha finora flirtato e stipulato accordi con la Grecia. Quindi non è da escludere che Ankara prema per far passare l’Egitto dalla propria parte, con un occhio anche al quadrante libico. A questo pragmatismo si deve l’affermarsi di un modus operandi che nella regione risulta nuovo solo in parte. La pacificazione e la normalizzazione dei rapporti possono infatti essere solo l’ultimo step di un percorso, durante il quale due Paesi ostili – Iran e Arabia Saudita ad esempio – possono iniziare a tessere dietro le quinte una tela fatta di contatti semiufficiali per raggiungere obiettivi comuni a breve termine o, appunto, pragmatici. L’acuirsi delle tensioni a Gerusalemme, e in generale tra Israele e Palestina, difficilmente rallenterà questi processi di avvicinamento già in corso. Più probabile che i governanti locali si limitino alle solite condanne di circostanza contro lo Stato ebraico per poi rimettere la questione palestinese al suo posto, cioè in fondo alla loro agenda politica.

 

Immagine: Mappa del Medio Oriente. Crediti: TonelloPhotography / Shutterstock.com

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Nucleare iraniano, evoluzioni diplomatiche e ripercussioni sullo scenario mediorientale

 

I media internazionali parlano timidamente di “passi in avanti” ai colloqui in corso a Vienna per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano, ma sul campo la tensione sembra decisamente aumentata a seguito del blackout che l’11 aprile scorso ha colpito l’impianto di Natanz, cuore del programma atomico della Repubblica islamica. Dopo il blocco della centrale, che il governo iraniano considera senza dubbio effetto di un attacco hacker di matrice israeliana, Teheran ha annunciato l’inizio delle operazioni per l’arricchimento dell’uranio al 60%, ben superiore alla quota del 20% raggiunta prima che nel 2015 venisse siglato il Piano d’azione globale congiunto (noto anche come JCPOA, Joint Comprehensive Plan Of Action, o semplicemente accordo sul nucleare). Lo Stato ebraico, come di consueto, non ha finora rilasciato alcun commento sui fatti di Natanz.

Al netto della preoccupazione destata dai nuovi livelli di arricchimento dell’uranio – ancora comunque lontani dal 90% necessario per la creazione di un’arma atomica – il governo di Teheran ha dato segni di apertura al dialogo, probabilmente per non compromettere i negoziati in corso a Vienna. Il portavoce del governo iraniano, Ali Rabiei, ha precisato che la decisione resta comunque reversibile, considerato che il suo scopo era quello di «mostrare la capacità tecnica di Teheran».

Nella capitale austriaca, intanto, proseguono i colloqui per la reintroduzione dell’accordo, da cui gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente nel 2018 per volere dell’ex presidente Donald Trump. L’obiettivo del precedente inquilino della Casa Bianca era probabilmente quello di arrivare ad un nuovo accordo, in grado di coprire sia la questione del nucleare che il dossier relativo ai missili balistici con cui Teheran potrebbe minacciare – secondo Washington – alleati regionali USA come Israele e Arabia Saudita. L’Iran, che ha ridotto passo dopo passo la propria adesione agli impegni del JCPOA, ha più volte ribadito la propria disponibilità al dialogo, specialmente se gli Stati Uniti di Joe Biden torneranno a rispettare a loro volta gli impegni dell’accordo. La questione dei missili balistici, dal punto di vista iraniano, è fuori discussione. La Repubblica islamica considera il programma come parte integrante e legittima della propria capacità di difesa.

A Vienna si incontrano le delegazioni dell’Iran e del gruppo cosiddetto 4+1 (Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania). Secondo quanto riferisce l’agenzia Reuters, che cita fonti ufficiali iraniane, le parti «hanno compiuto alcuni progressi» sul rilancio del JCPOA, ma al momento si fa strada l’ipotesi non tanto di un ripristino tout court dell’intesa, quanto piuttosto l’idea di un «accordo provvisorio che potrebbe rappresentare un modo per guadagnare tempo verso una soluzione duratura». L’amministrazione del presidente Biden, insediatosi a gennaio scorso con l’impegno a rientrare nell’accordo, si è detta pronta a rimuovere «tutte le sanzioni che sono incoerenti» con l’accordo, senza però precisare quali. Il governo di Teheran, dal canto suo, ha assicurato che non tornerà alla stretta osservanza dell’accordo del 2015 a meno che non vengano rimosse tutte le sanzioni già vigenti o aggiunte da Trump dopo il 2018.

Date queste premesse, i risultati dei colloqui di Vienna sembrano per il momento assai interlocutori. Se le principali parti in causa, USA e Iran, non tenteranno un avvicinamento tra le rispettive posizioni, il ruolo di mediazione degli altri attori diplomatici coinvolti difficilmente risulterà decisivo. In questo senso, l’ipotesi di un accordo provvisorio – ventilata dalle fonti citate da Reuters – sembra tutt’altro che irrealistica. Favorirebbe, infatti, un momentaneo allentamento della tensione in attesa di tempi più favorevoli per un nuovo Piano d’azione globale sul nucleare iraniano, che consenta l’arricchimento dell’uranio al 3,67% sufficiente per la generazione di energia nucleare ad uso civile.

Le evoluzioni diplomatiche sul nucleare iraniano, pur tenendosi a Vienna, si riverberano anche in Medio Oriente. Domenica 18 aprile, infatti, il Financial Times ha pubblicato una notizia a tratti sorprendente, considerati i tradizionali equilibri geopolitici dell’area. Ufficiali di alto livello dell’Arabia Saudita e dell’Iran si sarebbero incontrati a Baghdad, capitale dell’Iraq, per colloqui volti ad appianare le divergenze tra i due Paesi. Il summit di cui parla il quotidiano britannico, citando “tre fonti ufficiali”, arriverebbe a cinque anni dall’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Riyad e Teheran. I sauditi negano con decisione tali ricostruzioni, ma da Teheran arrivano segnali molto diversi. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, si è rifiutato di confermare o smentire la notizia, precisando però che la Repubblica islamica «ha sempre considerato favorevolmente i colloqui con il regno saudita» ritenendoli «vantaggiosi per il popolo dei due Paesi e per la pace e la stabilità regionale». I negoziati, definiti “positivi” dalle fonti citate dal Financial Times, avrebbero visto come mediatore il premier iracheno Mustafa Al Kadhimi, descritto da uno degli ufficiali come «desideroso di svolgere un ruolo nel trasformare l’Iraq in un ponte tra queste potenze antagoniste nella regione». I timidi ma effettivi progressi sul nucleare non lasciano quindi indifferente Riyad, che non esclude un riavvicinamento all’Iran nel caso in cui gli Stati Uniti facciano altrettanto. Vale la pena sottolineare, però, che al centro dell’incontro irano-saudita ci sarebbe stato il dossier relativo allo Yemen, dove Teheran sostiene i ribelli sciiti Houthi contro la coalizione internazionale a guida saudita. Tuttavia, data la concomitanza con i negoziati di Vienna, non si può affatto escludere che di JCPOA si sia parlato anche a Baghdad.

 

Immagine: Centrale elettrica nel sud dell’Iran (gennaio 2019). Crediti: Lukas Bischoff Photograph / Shutterstock.com

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Verso la ricomposizione dell’islam sunnita?

Al contrario del cosiddetto conflitto tra sunniti e sciiti, spesso sovraesposto a livello mediatico e sovrastimato nella sua reale entità, passa sovente in secondo piano un confronto dai toni davvero aspri all’interno dell’islam sunnita stesso. Tuttavia, e forse questo costituisce un buon motivo per parlarne, gli attori che si trovano sulle due parti della barricata di questo conflitto hanno dato negli ultimi mesi importanti segnali di apertura gli uni verso gli altri. Se questo riavvicinamento andrà a concretizzarsi pienamente si potrà parlare della ricomposizione di una frattura che ha influenzato enormemente la politica del mondo arabo-islamico negli ultimi anni.

I due campi del mondo sunnita corrono lungo una linea di faglia che divide due concezioni differenti dell’islam politico (che è cosa diversa rispetto all’islam inteso come fede e spiritualità). Da una parte c’è la Fratellanza musulmana, appoggiata da attori statuali come Qatar e Turchia, dall’altra l’islam conservatore incarnato dall’Arabia Saudita e dai suoi principali alleati regionali. All’inizio dello scorso decennio, con il manifestarsi delle cosiddette “primavere arabe” nel biennio 2010-11, la Fratellanza e i partiti ad essa affini sembravano aver guadagnato uno spazio e un prestigio politico senza precedenti nella storia del movimento. Fondata dall’egiziano Hasan al-Banna nel 1928, la Fratellanza era infatti riuscita ad egemonizzare le piazze in rivolta, rivelatesi spesso acefale e prive di un programma politico preciso.

Fu così che Mohammed Morsi venne eletto presidente egiziano nel 2012, salvo poi essere deposto con un colpo di Stato l’anno successivo. In Tunisia, il partito islamico an-Nahda – sotto la guida di Rachid Ghannouchi – ebbe un ruolo centrale nella transizione dopo la caduta di Zayn al-Abidin Ben Ali, così come nella successiva fase costituente e politica. In Libia, dopo la cacciata e la morte di Muammar Gheddafi, i Fratelli entrarono nel Consiglio nazionale di transizione e si ritagliarono ampi spazi di manovra nella politica degli anni successivi. Quelli citati sono solo i casi più noti ed emblematici. Il successo della Fratellanza – e indirettamente quello di Turchia e Qatar – iniziò a vacillare, anche a livello simbolico, con la caduta di Morsi in Egitto. Da allora i due fronti dell’islam sunnita hanno continuato ad alimentare un clima di tensione, culminato nel 2017 con l’approvazione del cosiddetto “Qatar ban”, tramite il quale Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Doha.

Oggi è possibile postulare l’esistenza di una lenta ma tangibile ricomposizione della frattura tra le due anime del sunnismo a partire da alcuni avvenimenti degli ultimi mesi. Il 5 gennaio scorso, Arabia Saudita, Emirati, Egitto, Bahrain e gli Stati membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) hanno firmato la cosiddetta dichiarazione di Al-Ula che apre di fatto la strada al ripristino dei legami politici ed economici con lo Stato del Qatar. A questo evento si deve, probabilmente, il fatto che Doha ha mostrato un atteggiamento solidale nei confronti dell’Arabia Saudita e del suo principe ereditario, Mohammed bin Salman (MBS), dopo che l’intelligence USA ha divulgato, all’inizio di marzo, il rapporto sull’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Il documento, che ricostruisce l’assassinio avvenuto il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul, punta il dito contro MBS, nei confronti del quale però non sono state imposte sanzioni di alcun tipo. Come già detto, il rampollo di Casa Saud ha incassato il sostegno di tutti i partner del Golfo, compreso l’ex nemico giurato qatariota.

Il 10 marzo la Camera dei rappresentanti libica, riunitasi a Sirte, ha concesso la fiducia a Abdul Hamid Dbeibeh, premier ad interim del neonato Governo di unità nazionale libico (GNU). Imprenditore, ex manager della popolare squadra di calcio libica Al-Ittihad, il nome di Dbeibeh è riuscito a mettere d’accordo i vari attori libici, compresi quelli del Governo di accordo nazionale di Tripoli (GNA) – appoggiato da Turchia e Qatar – e quelli vicini alle autorità della Cirenaica e al generale Khalifa Haftar (supportato da emiratini, egiziani e sauditi). Infine, importanti segnali di riavvicinamento si sono visti tra Egitto e Turchia. Il 6 marzo, il ministro della Difesa di Ankara, Hulusi Akar, ha rilasciato dichiarazioni impensabili solo fino a un anno fa, considerato che Egitto e Turchia sono ai ferri corti sin dall’estromissione di Morsi. «Abbiamo molti valori storici e culturali in comune con l’Egitto – ha detto Akar ‒, riteniamo che potrebbero esserci sviluppi diversi nei prossimi giorni». Prima di lui, in un’intervista ad Agenzia Nova, l’ambasciatore turco a Roma, Murat Salim Esenli, aveva affermato che esistono i punti di convergenza tra il Cairo e Ankara «legati alla stabilità in Nord Africa o in Medio Oriente», con particolare riferimento proprio alla Libia.

In politica internazionale non è facile stabilire quanti indizi siano necessari a costituire una prova, ma i segnali di un certo riavvicinamento tra l’asse Turchia-Qatar e quello guidato dall’Arabia Saudita ci sono tutti ormai. Ancora più arduo è cercare di rintracciare le ragioni dietro questa ricomposizione tra i due campi avversi dell’islam politico sunnita. Da una parte può essere frutto di necessità regionali. I Paesi del Golfo e del Medio Oriente hanno infatti accusato pesantemente il contraccolpo economico della pandemia di Covid-19. La distensione diplomatica potrebbe essere il preambolo per creare nuovi spazi di cooperazione tali da affrontare al meglio la crisi pandemica e, quando possibile, uscirne. D’altro canto potrebbe trattarsi anche di un riallineamento dovuto al mutato contesto internazionale. L’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sembra intenzionata a riaprire le trattative con l’Iran per l’accordo sul nucleare, anche se finora Washington e Teheran appaiono impegnate in un balletto per stabilire chi debba fare il primo passo. I Paesi arabi del Medio Oriente temono forse che questa distensione tra USA e Iran possa in qualche modo sfavorirli, e pertanto cercano di serrare i ranghi in attesa di capire come si concluderà la vicenda.

 

Immagine: Musulmani durante la preghiera del venerdì in strada a causa della pandemia di Covid-19, Alessandria, Egitto (12 febbraio 2021). Crediti: Justina Elgaafary / Shutterstock.com

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Le reazioni al rapporto della CIA su Khashoggi

La pubblicazione del rapporto della CIA sull’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita dissidente ucciso e smembrato il 2 ottobre 2018 nel consolato di Riyad a Istanbul, sembrava destinata a scatenare un terremoto negli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Alla fine, però, la montagna ha partorito un topolino.

Per capire gli effetti del report, che punta il dito contro il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman (MBS) occorre operare una distinzione tra le varie prospettive. Da una parte ci sono le intenzioni dell’amministrazione di Joe Biden, dall’altra le reazioni politiche all’interno degli Stati Uniti. Allo stesso modo vanno distinti i commenti politici e mediatici sortiti dal documento nei Paesi del Medio Oriente da quelli che potrebbero essere (eventuali) cambiamenti significativi derivanti dalla pubblicazione. In questo scenario multidimensionale fa eccezione l’Italia, dove la diffusione del rapporto su Khashoggi è stata seguita in relazione alla vicenda di Matteo Renzi, che a gennaio di quest’anno ha preso parte alla Future investment initiative di Riyad (la cosiddetta Davos del deserto) elogiando il rampollo di casa Saud nel corso di un’amichevole conversazione in diretta TV.

Dal punto di vista statunitense l’obiettivo della divulgazione del report su Khashoggi è chiaro: ricalibrare i rapporti con l’Arabia Saudita e in particolare con MBS. Lo ha precisato più volte la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, e lo conferma il fatto che Biden – per il suo primo colloquio bilaterale ufficiale – abbia scelto come interlocutore re Salman bin Abd al-Aziz Al Saud, non MBS. Quest’ultimo è stato al centro della politica USA in Medio Oriente durante l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump, complice il suo rapporto personale con il genero e consigliere del presidente, Jared Kushner. Resta tuttavia chiara l’intenzione da parte di Washington di non compromettere i rapporti con Riyad, tanto più che le sanzioni USA in risposta al rapporto su Khashoggi non prendono di mira direttamente il principe ereditario, ma vari funzionari dell’intelligence saudita che a vario titolo hanno contribuito all’omicidio del giornalista.

Questo trattamento “morbido” nei confronti di MBS ha suscitato un certo disappunto da parte dei media progressisti e degli ambienti democratici americani. Il New Yorker titola laconico «The sweeping impact of a broken Biden campaign promise», ossia “L’impatto devastante di una promessa elettorale infranta da Biden”. Critiche anche dalla redazione del Washington Post – quotidiano con cui Khashoggi collaborava regolarmente – che giudica eccessivamente simbolica la reazione di Biden alla pubblicazione del report. Ciononostante Biden e il suo team di politica estera – soprattutto il segretario di Stato Tony Blinken e il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan – continuano a puntare su Riyad come uno dei due pilastri della politica USA in Medio Oriente, assieme a Israele. Pertanto, la responsabilità di giudicare il coinvolgimento di MBS nell’affare Khashoggi viene quasi derubricata ad “affare domestico” dell’Arabia Saudita.

Interessante in tal senso è anche il dibattito generato dalla vicenda sui media di Israele, Paese per il quale Khashoggi non ha mai avuto grandi simpatie mentre era in vita. Un’analisi del quotidiano The Times of Israel, evidenzia che l’assassinio del giornalista a Istanbul mette lo Stato ebraico in una posizione piuttosto scomoda, poiché Israele ha bisogno di un’Arabia Saudita forte e affidabile per cementare la coalizione regionale (ufficiosa ma piuttosto solida) progettata in funzione anti-iraniana. «Nessun altro Paese arabo potrebbe sostituire Riyad nella coalizione anti-Iran, ma MBS ha dimostrato di essere estremamente sconsiderato, impulsivo e inaffidabile», osserva l’ex ambasciatore USA in Israele, Ben Shapiro.

Nella regione, invece, era facile aspettarsi che la vicenda venisse strumentalizzata dagli attori locali per attaccare e delegittimare gli avversari. Al contrario, nei Paesi del Golfo – compresi quelli considerati ostili ai sauditi – si è visto un certo sostegno verso Riyad e MBS. L’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, ha avuto domenica 28 febbraio una rara conversazione telefonica con il principe ereditario di Riyad, al quale ha espresso il suo sostegno. Al Thani ha ribadito la necessità di tutelare la sovranità dell’Arabia Saudita, sottolineando che la sua stabilità è “parte integrante” della sicurezza sia del Qatar che del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC). Anche Bahrain ed Emirati Arabi Uniti hanno mostrato il loro sostegno a Riyad dopo la divulgazione del report su Khashoggi. Le autorità di Manama, citate dai media locali, rifiutano «qualsiasi tentativo di minare la sovranità dell’Arabia Saudita». Il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ha invece espresso «fiducia e sostegno alle sentenze della magistratura saudita, che confermano l’impegno del regno ad individuare tutti coloro che sono coinvolti in questo caso».

È ragionevole pensare che gli Stati dell’area non abbiano intenzione di compromettere il lento ma deciso processo di normalizzazione, confermato dalla firma – il 5 gennaio scorso – della dichiarazione di Al Ula (in Arabia Saudita). Grazie a questa intesa può considerarsi concluso l’isolamento del Qatar causato dal cosiddetto Qatar ban”, promosso da sauditi e alleati regionali nel 2017.

Ciononostante, i media sauditi giocano sulla difensiva, sottolineando la vicinanza di Khashoggi all’Islam politico della Fratellanza musulmana e, di conseguenza, al soft power politico e mediatico del Qatar. Il quotidiano saudita Arab News sottolinea che persino dalle colonne del Washington Post sono arrivate ammissioni circa la vicinanza tra Khashoggi e «un dirigente della Qatar Foundation, un’entità finanziata direttamente dal regime del Qatar che è in contrasto con l’Arabia Saudita».

Nel gioco delle parti che spesso caratterizza la politica mediorientale, il grande assente sembra essere l’Iran, i cui media e rappresentanti delle istituzioni hanno riferito e commentato la vicenda Khashoggi con toni piuttosto asettici, sebbene fosse naturale aspettarsi reazioni più veementi contro l’avversario regionale saudita. Nondimeno, potrebbe essere proprio la Repubblica islamica a beneficiare di questo tentativo di riequilibrare le relazioni tra Washington e Riyad. Il Financial Times, tra gli altri, sottolinea che la sostanziale inazione di Biden nei confronti dei Saud e di MBS finirà per incoraggiare l’Iran, Paese con il quale gli USA sono impegnati in una sorta di ping-pong diplomatico per stabilire chi farà il primo passo sulla via di un nuovo accordo sul nucleare di Teheran.

In conclusione si può affermare che la pubblicazione del report su Khashoggi e le sanzioni USA contro Riyad non altereranno in maniera significativa gli equilibri regionali. Biden, questa l’unica certezza, intende veicolare un messaggio chiaro e univoco contro azioni unilaterali e sconsiderate da parte degli attori mediorientali. Lo dimostra anche il raid americano contro obiettivi filoiraniani in Siria del 25 febbraio, ordinato in risposta al lancio di razzi delle settimane precedenti contro obiettivi della coalizione a guida USA in Iraq. 

 

Immagine: Jamal Khashoggi (13 gennaio 2016). Crediti: Hany Musallam / Shutterstock.com

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Una primavera mutata in tragedia. Dieci anni di guerra in Siria

 

La sollevazione del 2011 contro il regime di Bashar al-Assad in Siria è diventata la più paradigmatica tra quelle passate alla storia col nome di “primavere arabe”. Anziché di paradigma, sarebbe forse più corretto parlare di spauracchio, dal momento che gli autocrati di altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) hanno spesso agitato lo spettro della Siria per ammansire il dissenso da parte dei propri cittadini. Ciononostante, è possibile cogliere anche un altro aspetto paradigmatico a dieci anni dalle sollevazioni di piazza in Siria, ossia l’abbattimento di un muro – fatto di paura, repressione e guerra – che forse sarà possibile solo tamponare, ma non riparare del tutto.

Il 15 marzo 2011 viene convenzionalmente individuato come data di inizio della rivoluzione siriana. Nei mesi precedenti, i cittadini del Paese arabo avevano visto le piazze di Tunisia, Libia ed Egitto rovesciare gli autocrati locali, da Zine El Abidine Ben Ali a Hosni Mubarak passando per Muammar Gheddafi. E così, sugli schermi televisivi e sui social, tramite le mittenti panarabe come al-Jazeera, arrivava anche in Siria il verbo della thawra (“rivoluzione”, in arabo). I motivi del malcontento erano molteplici, alcuni specifici del contesto siriano, altri simili a quelli di altri Paesi. Da una parte la crescita della popolazione a ritmi sostenuti cui corrispondeva una notevole difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro, dall’altra il tasso di disoccupazione giovanile eccezionalmente elevato, il calo delle rendite petrolifere, la crisi del settore agricolo e una perdurante siccità. Il tutto era poi accompagnato da un senso di esclusione dalla vita pubblica e dai centri di potere, blindati attorno al clan Assad tramite un immenso apparato repressivo, formato dalle varie agenzie di intelligence. Repressione del dissenso, con metodi brutali, e desertificazione della vita politica, erano le logiche conseguenze.

Tuttavia, a dieci anni di distanza dalle sollevazioni in Siria, spesso si finisce per dimenticare che, soprattutto nella fase iniziale, i manifestanti di Damasco, Aleppo, Hama e altre località non chiedevano tanto che Assad facesse un passo indietro, quando piuttosto un qualche tipo di apertura riformistica. Nondimeno, quando le concessioni da parte del regime furono giudicate insufficienti, lo slogan delle manifestazioni divenne praticamente un coro unanime: “As-Shab yurìd isqàt al-Nizàm”, ossia “il popolo vuole la caduta del regime”.

Quello a cui si assistette in seguito fu un lento ma inarrestabile scivolare della rivoluzione verso una guerra civile, sfociata in una guerra regionale, sfociata a sua volta in un conflitto di portata internazionale (soprattutto dopo la costituzione nel 2014 del Califfato a opera dello Stato islamico, IS). La repressione si fece brutale, la rivolta si fece armata. Ben presto gli elementi più vicini all’Islam radicale egemonizzarono il fronte antigovernativo. Col sostegno dei suoi alleati – Russia, Iran e il partito-milizia libanese Hezbollah – Assad è poi riuscito a riprendere il controllo di gran parte della Siria, strappando un territorio dopo l’altro al mosaico di milizie ribelli appoggiate – a fasi alterne – da potenze regionali come Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi uniti e Qatar. Ad oggi restano fuori solo il Nordest ‒ controllato dalle Unità di protezione popolare (YPG, Yekîneyên Parastina Gel) a maggioranza curda, che hanno combattuto in prima linea contro l’IS ‒ e l’enclave nordoccidentale di Idlib, presidiata da milizie ribelli filoturche e dal cartello jihadista Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Negli scontri, che spesso hanno avuto come teatro zone urbane densamente popolate, hanno perso la vita mezzo milione di persone, mentre metà della popolazione – tra profughi nei Paesi limitrofi e sfollati interni – ha dovuto lasciare le proprie case.

Oggi, però, nelle zone in mano ai governativi la situazione è tutt’altro che pacificata. Il quadro economico attuale è a dir poco disastroso: nel 2020 la moneta siriana è crollata – in concomitanza con la crisi finanziaria in Libano ‒ portando gli stipendi pubblici ad un livello di totale insufficienza. Le sanzioni internazionali e l’instabilità al confine con l’Iraq – area in cui si trovano gli scarsi e malmessi giacimenti di idrocarburi siriani – rendono impossibile per il governo rispondere adeguatamente al fabbisogno domestico di energia. In altri termini, in gran parte della Siria di oggi i cittadini sono costretti a far la fila per ore prima di ottenere pochi viveri e qualche tanica di benzina. Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (WFP), la crisi economica, la perdita di posti di lavoro aggravata dalla pandemia di Covid-19 e l’impennata dei prezzi hanno provocato in Siria un livello record di insicurezza alimentare: 1,3 milioni di persone non possono sopravvivere senza assistenza. Sean O’Brien, rappresentante del WFP per la Siria, ha osservato che nel Paese in questo momento «l’assistenza umanitaria fa la differenza tra mettere un pasto in tavola e andare a letto affamati».

Un disastro di questa portata ha fatto sì che, come anticipato, la Siria diventasse lo spauracchio preferito dei governi dell’area MENA per intimidire ogni forma di sollevazione. Ai manifestanti che nel 2019 protestavano in Algeria contro il quinto mandato dell’ultraottantenne presidente Abdelaziz Bouteflika, politici e autorità continuavano a ripetere che se insistevano con le rivendicazioni il Paese si sarebbe trasformato in «un’altra Siria». Ciononostante, al netto delle contraddizioni ancora presenti, gli algerini hanno vinto il muro della paura, riuscendo nell’intento di far dimettere Bouteflika e di avviare il Paese verso un percorso costituente. Non a caso ‒ abbinando a quella algerina le proteste che nel biennio 2018-19 si sono viste in Libano, Sudan e Iraq ‒ alcuni analisti hanno parlato apertamente di «seconda ondata» delle primavere arabe.

Il destino della Siria, e di tutta l’area MENA, dipende per buona parte da ciò che farà l’amministrazione USA, con il presidente Joe Biden insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio scorso. Fare i conti con la fase più complessa del conflitto siriano è toccato al suo predecessore Barack Obama, in carica tra il 2011 e il 2016, di cui Biden era vicepresidente. Con lo sguardo odierno si può affermare con un discreto margine di certezza che Obama, nonostante la storica inimicizia tra Washington e il regime di Assad, abbia in un certo senso sacrificato la Siria sull’altare di quello che era il suo principale obiettivo in Medio Oriente, ossia l’accordo sul nucleare con l’Iran stipulato nel 2015 (JCPOA, Joint Comprehensive Plan Of Action). A tal proposito, vale la pena ricordare che il Wall Street Journal ha pubblicato una lettera del 2014 in cui l’allora presidente americano assicurava alla guida suprema dell’Iran – Ali Khamenei – che gli USA sarebbero intervenuti in Siria per combattere lo Stato islamico senza però attaccare frontalmente l’alleato di Teheran a Damasco. A questo stato di cose si deve probabilmente il dietrofront di Obama dopo l’attacco chimico nella Ghouta orientale dell’agosto 2013, definito dall’inquilino della Casa Bianca la «linea rossa» il cui attraversamento avrebbe implicato un intervento americano in Siria.

Gli anni dell’amministrazione di Donald Trump, invece, sono stati per lo più interlocutori. Fatti salvi i raid missilistici contro postazioni governative in risposta agli attacchi chimici di Khan Shaykhun (2017) e Douma (2018), il tycoon di New York ha fatto ben poco per gestire le sorti del conflitto siriano, nella logica trumpiana del disimpegno e della “America First”. Di questo attendismo, però, Trump ha accusato le agenzie e il Pentagono, i quali gli avrebbero impedito di far fuori Assad come invece lui ardentemente desiderava.

Ad un mese dall’arrivo di Biden alla Casa Bianca, si può osservare con una certa facilità che c’è davvero poca Siria negli interventi pubblici del capo dello Stato e degli esponenti del suo team di politica estera, primi fra tutti il segretario di Stato, Tony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Se nei primissimi giorni di mandato l’amministrazione Biden ha congelato i contratti per la vendita di armi all’Arabia Saudita e dei caccia F-35 agli Emirati (entrambi impegnati nella guerra in Yemen), di Siria al momento si parla ben poco. Sullivan, questo è certo, ha avuto un ruolo centrale nei negoziati dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Come ai tempi di Obama, quindi, l’Iran resta il centro della proiezione geopolitica statunitense nell’area, e se Biden – come dice ‒ punta a tornare all’accordo sul nucleare, non è detto che la Siria non resti la pedina da sacrificare per questo obiettivo. In termini pratici, quindi, è probabile che la nuova amministrazione cerchi una concertazione, non uno scontro, con Assad e con i principali attori coinvolti nel conflitto come Mosca e Teheran. Un conflitto, quello ancora in atto, che ricopre di sangue la Siria da ormai dieci anni.

 

Immagine: Bambino siriano che trasporta aiuti umanitari, Idlib, Siria (30 gennaio 2021). Crediti: Mohammad Bash / Shutterstock.com

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Iran, una priorità per Biden

L’apertura di canali con l’Iran per restituire vita all’accordo sul nucleare siglato nel 2015 (il JCPOA, Joint Comprehensive Plan Of Action) è una delle priorità dell’amministrazione Biden. Le ragioni sono molte e si intrecciano con le vicende della regione. La prima e più evidente è evitare che Teheran, uno dei Paesi tradizionalmente nemici degli USA e attore regionale con ambizioni e molti nemici, arrivi a dotarsi di un ordigno nucleare e determini una corsa agli armamenti nell’area più instabile del pianeta. Ad assegnare grande importanza al ritorno al tavolo per ridefinire i termini dell’accordo è tutto il team di politica estera di Biden: il consigliere del presidente per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha giocato un ruolo cruciale nel negoziare quell’accordo e molti altri lavoravano per l’amministrazione Obama che decise di avviare le trattative, dapprima in segreto; l’inviato per l’Iran Robert Malley fu anche lui centrale e la sua nomina segnala l’importanza della questione per Biden.

Il ritorno al tavolo delle trattative sembra dipendere principalmente da una questione: chi tra le due parti farà il primo passo. Le primissime aperture reciproche, in verità, si sono già viste. In un’intervista all’emittente americana CNN, cosa tutt’altro che consueta, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha assicurato che Teheran è pronta a sedersi al tavolo, sottolineando il ruolo che l’Unione Europea (UE) può giocare nel mediare tra Washington e Teheran. Riferendosi a Josep Borrell, alto rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza, Zarif lo ha identificato come la persona adatta a “coreografare” le mosse necessarie perché gli USA rientrino nell’accordo, dopo che l’ex presidente, Donald Trump, ha deciso di uscirne unilateralmente nel 2018. L’uscita unilaterale dall’accordo ha fornito buoni argomenti all’Iran, che imputa proprio a quella scelta il mancato rispetto delle clausole che riguardavano lo sviluppo del programma nucleare e l’arricchimento dell’uranio.

I commenti positivi arrivati dalle autorità iraniane alla vigilia e dopo l’elezione di Biden vanno sicuramente presi per buoni e, soprattutto, letti nell’ottica di un possibile ritorno al JCPOA, di cui oltre a USA e Iran fanno parte anche Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina. In altri termini, l’Iran intravede nell’uscita di scena di Trump la possibile fine di un incubo, come ha chiarito lo stesso presidente Hassan Rohani commentando a novembre i risultati delle elezioni presidenziali vinte da Biden. «Grazie a Dio gli americani e il mondo si sono liberati di Trump», affermava Rohani il 28 novembre scorso, per poi aggiungere che «la fine dell’era del trumpismo» rappresenta «una delle manifestazioni della vittoria dell’Iran, e della sconfitta definitiva del nemico nella guerra economica». L’ayatollah Khamenei ha dettato le condizioni iraniane via twitter (già): «Se vogliono che l’Iran torni ai suoi impegni #JCPOA, gli Stati Uniti devono eliminare tutte le sanzioni. Noi verificheremo e, poi, torneremo ai nostri impegni». Anche Zarif, scrivendo su Foreign Affairs aveva più meno ribadito: abbiamo trattato di nucleare, non cercate di allargare la portata di quell’accordo vincolando il rispetto del JCPOA ad altre cose, tornate alla parola data e noi faremo altrettanto. Per il resto ricordate che l’Iran è un «potente attore regionale con legittime preoccupazioni di sicurezza, diritti e interessi, come qualsiasi altra nazione». Per certi versi il segretario di Stato Blinken ha un punto di vista simile: la trattativa sul nucleare si limita a quello, l’eventuale apertura di altri tavoli con Teheran è un altro discorso.

Le «altre cose» a cui faceva riferimento il capo della diplomazia iraniana riguardano le capacità balistiche di Teheran. Trump, infatti, aveva motivato l’uscita dal JCPOA con la volontà di negoziare un accordo più ampio, riguardante (forse) anche missili a medio e ampio raggio. Questo rientra soprattutto negli interessi strategici di Israele, che con il partito milizia filoiraniano Hezbollah in Libano e altri gruppi vicini alla Repubblica islamica impegnati nella guerra in Siria teme di ritrovarsi a un tiro di schioppo dalle piattaforme missilistiche iraniane.

L’amministrazione Biden sembra aver tenuto in considerazione anche il dossier iraniano nelle ultime iniziative riguardanti la guerra in Yemen, dove Teheran sostiene il gruppo sciita Ansarullah, meglio noto come Houthi, contro una coalizione internazionale a guida saudita. Il 4 febbraio, infatti, il presidente ha annunciato l’interruzione del sostegno americano «ad ogni azione offensiva» relativa al conflitto in Yemen, precisando però che la difesa della sovranità del regno saudita resta una priorità strategica per Washington e annunciando un piano di aiuti USAID (United States Agency for International Development) per le popolazioni colpite.

Leggendo tra le righe, significa che se gli Houthi continueranno a prendere di mira obiettivi nei territori di Riyad – specialmente infrastrutture legate all’estrazione di idrocarburi – gli USA seguiteranno a supportare l’Arabia Saudita, che insieme a Israele continua a essere l’alleato più stretto degli USA in Medio Oriente. Tuttavia, il valore simbolico dell’operazione Yemen è molto alto: da un lato si certifica un elemento di discontinuità con Trump, dall’altra – come già detto – si dà un segnale di apertura all’Iran senza scontentare eccessivamente i sauditi. Il ministro degli Esteri di Riyad, Faisal bin Farhan Al Saud, ha commentato l’annuncio di Biden concentrandosi proprio sulla parte relativa alla difesa degli interessi sauditi: «Il Regno accoglie con favore l’impegno degli USA a cooperare in difesa della sua sicurezza e del suo territorio», ha affermato il capo della diplomazia di Riyad.

A complicare le cose c’è la ferma opposizione di Israele, che vede in Teheran il nemico, specie adesso che con altri Paesi della regione si sono aperti canali diplomatici ed economici. A Israele non piace l’inviato Malley, che lavorò anche a Camp David e criticò lo Stato ebraico per il suo atteggiamento – e come direttore dell’ICG  (International Crisis Group) incontrò dirigenti di Hamas.

La partita è complicata, ma è evidente che sia Teheran che Washington hanno da guadagnare a tornare ad aprire canali di comunicazione. Senza Teheran (o una guerra) la regione non si stabilizza. Un’amministrazione Biden che spinga in maniera risoluta per aprire canali diplomatici potrebbe ottenere qualche risultato. Media importanti riferiscono che anche tra Riyad e Teheran ci sarebbero contatti e qualche giorno fa su The Guardian è comparso un editoriale a quattro mani firmato da un ex diplomatico iraniano e dal fondatore di un importante think tank saudita. 

 

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Immagine: Esposizione sull’energia atomica dell’Iran al Museo della rivoluzione islamica e della santa difesa, Teheran, Iran (29 gennaio 2018). Crediti: Inspired By Maps / Shutterstock.com

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Come cambia l’area MENA fra Trump e Biden

Mentre gli Stati Uniti sembrano bloccati nel limbo postelettorale tra l’amministrazione di Donald Trump e quella di Joe Biden, gli sherpa della politica estera USA continuano a delineare le traiettorie diplomatiche della cosiddetta area MENA (Middle East e North Africa). Allo stesso tempo, i Paesi dell’area cercano di sfruttare la situazione per indirizzare a proprio vantaggio i futuri rapporti con Washington e con gli altri attori regionali. Durante gli ultimi scampoli della presidenza Trump, infatti, si assiste a una serie mutamenti significativi per il Medio Oriente e il Nord Africa, nonostante sembrasse più logico aspettarsi prudenza e qualche forma di immobilismo prima dell’insediamento di Biden.

Nel giro di poche settimane Israele sembra aver intrapreso la strada che porta dritta a una nuova tornata elettorale, la quarta in soli due anni. Benny Gantz, leader del partito Blu e bianco, ha infatti deciso di votare a favore della mozione di sfiducia al governo di coalizione (di cui fa parte) guidato da Benjamin Netanyahu. Dopo l’uccisione dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh ‒ che molti osservatori imputano all’intelligence dello Stato ebraico – Teheran ha approvato una legge che obbliga l’Agenzia dell’energia atomica iraniana a tornare ad arricchire l’uranio al 20%, il livello massimo raggiunto prima dell’accordo sul nucleare del 2015. Arabia Saudita e alleati regionali ‒ Bahrein, Emirati ed Egitto in primis ‒ hanno manifestato segnali di apertura nei confronti del Qatar, isolato dai Paesi del Golfo nel 2017 con il cosiddetto “Qatar Ban”, grazie ai tentativi di mediazione di Kuwait e Stati Uniti (nella persona del genero di Trump, Jared Kushner).  Infine, ma non meno importante, dopo Emirati, Bahrain e Sudan, anche il Marocco normalizzerà le relazioni diplomatiche con Israele, ottenendo in cambio il riconoscimento da parte statunitense della sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale.

Nella maggior parte dei casi si tratta di “treni già partiti”, cioè di partite aperte da mesi – se non da anni – arrivate all’ufficialità in concomitanza con l’avvicendamento fra Trump e Biden. Nel caso del Marocco, ad esempio, le relazioni con Israele sono cordiali ormai da decenni. Nello Stato ebraico vive circa un milione di ebrei di origine marocchina, che formano circa il 15% della popolazione totale del Paese. Viceversa, quella marocchina è una delle comunità ebraiche più antiche, composta da 300 mila membri prima della nascita di Israele nel 1948 e ridottasi a 9.000 dopo quella data (una cifra comunque considerevole, se paragonata agli esodi di ebrei da altri Paesi del mondo arabo). Al pari di quanto avvenuto con gli Emirati, la normalizzazione tra Tel Aviv e Rabat è quindi solo l’ennesimo riconoscimento ufficiale di una situazione de facto. Israele, tra l’altro, ottiene questo risultato senza nessun tipo di impegno (a Emirati e Bahrein aveva promesso di fermare gli insediamenti in Cisgiordania) e il Marocco si ritrova il sostegno USA in un dossier scottante come quello dei Saharawi, il cui movimento indipendentista il Frente Polisario – è appoggiato ufficiosamente dall’Algeria.

«È un altro accordo transazionale che avvantaggia i leader di Stati Uniti, Israele e Marocco su un pezzo di terra che non appartiene a loro», commenta Nabeel Khoury, analista di Atlantic Council. Il Marocco, d’altronde, è considerato vicino all’asse saudita e non a caso negli ultimi mesi Emirati, Bahrain e Giordania hanno deciso di aprire rappresentanze diplomatiche a Laâyoune o a Dakhla, in pieno Sahara Occidentale, normalizzando di fatto il dominio di Rabat su questi territori.

La possibile distensione tra Paesi del Golfo e Qatar segna invece la possibilità di consolidare il fronte anti-iraniano nella regione. Un progetto, portato avanti dall’amministrazione Trump negli ultimi quattro anni, che include la normalizzazione con Israele ‒ unico Paese della regione con armi nucleari ed esportatore di tecnologie per la cybersecurity ‒ e la vendita da parte statunitense degli aerei F-35 agli Emirati. La posizione del Qatar – spinto dagli altri attori regionali ad un’alleanza sempre più stretta con la Turchia – è molto diversa rispetto a quella che Doha aveva all’inizio di questo decennio. La Fratellanza musulmana, di cui Qatar e Turchia sono i main sponsor, sembrava allora il vero “vincitore” delle primavere arabe, essendo riuscita a far salire al potere i propri partiti affiliati in Egitto (con Mohammed Morsi), Tunisia (partito Ennhada) e anche nella Libia post-Gheddafi (dove tutt’ora i Fratelli hanno un posto di riguardo nel Governo di accordo nazionale). La situazione però è drasticamente cambiata a partire dal colpo di Stato del 2013 che ha fatto salire al potere in Egitto Abd al-Fattah al-Sisi. Allentare le tensioni coi vicini può essere l’occasione per Doha di uscire finalmente dall’isolamento e tornare a giocare da protagonista nell’area.

Quanto all’Iran, il parziale “ritorno” al nucleare rappresenta al momento l’unica possibile risposta di Teheran all’omicidio di Fakhrizadeh. Al netto della propaganda bellicosa e violenta dei suoi leader, è davvero difficile pensare che la Repubblica islamica reagisca con operazioni militari di ampio respiro, dato che Ia situazione sul campo resta a vantaggio di Israele e Paesi arabi dell’area. Quel che sembra certo è l’effetto sulla presidenza Biden, che si ritroverà a dover tentare di tornare al dialogo con l’Iran in un clima avvelenato e di difficile gestione.

C’è da chiedersi, infine, cosa ci guadagni il presidente uscente Donald Trump da questo attivismo diplomatico, apparentemente tardivo. In parte, come già detto, si tratta di partite aperte da molto tempo e arrivate a dama solo oggi. D’altro canto però, l’amministrazione del tycoon newyorchese “costringe” la presidenza Biden a muoversi in un framework diplomatico già impostato. Difficile che il democratico, ad esempio, sconfessi pubblicamene l’omicidio di Fakhrizadeh o, per assurdo, sposti nuovamente l’ambasciata USA in Israele da Gerusalemme a Tel Aviv. Vale inoltre la pena ricordare che Trump, secondo molteplici fonti di approfondimento politico USA, già pensa a una nuova candidatura per il 2024 (avrà 78 anni, l’attuale età di Joe Biden). Sarà il momento buono per giocarsi durante la campagna elettorale la carta degli accordi diplomatici raggiunti durante il suo mandato.

In fin dei conti, però, la chiave di lettura migliore è probabilmente quella che si ottiene dalla prospettiva di Israele, Iran e Paesi arabi. Il Marocco, ad esempio, sa che Biden avrebbe probabilmente mantenuto una maggior cautela sulla questione Saharawi: meglio normalizzare con Israele subito e ottenere l’endorsement americano mentre c’è ancora Trump. Allo stesso tempo, gli altri Stati dell’area MENA sondano il terreno e cercano di mettere i paletti necessari per indirizzare sui binari “giusti” i futuri rapporti con l’America di Biden e con gli altri attori della regione.

 

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Immagine: Medio Oriente e Nord Africa. Crediti: Cromagnon / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Tra_Trump_e_Biden_cosa_cambia_per_il_Medio_Oriente.html

Tra Trump e Biden, cosa cambia per il Medio Oriente?

 

Le amministrazioni passano, le alleanze restano. E questo vale anche per gli Stati Uniti d’America, dove l’esito della sfida tra Donald Trump e Joe Biden alle elezioni presidenziali, finirà in generale per incidere poco sulla politica estera USA in certe aree del pianeta, in particolare in Medio Oriente e Nord Africa.

Quando a cavallo tra primo e secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti si affacciarono al Medio Oriente come mediatori e decision makers, l’accoglienza delle popolazioni locali verso il nuovo attore internazionale fu tutto sommato positiva. Gli USA, in apparenza, non erano tra le potenze coloniali, Francia e Gran Bretagna in primis, che tra Ottocento e Novecento avevano occupato, depredato e spartito a tavolino i territori dell’ex Impero ottomano e godevano, quindi, di una credibilità ormai risicata. Anche nella questione israelo-palestinese, che negli anni Trenta già denunciava tutte le tensioni destinate a incancrenirsi nei decenni successivi, gli Stati Uniti venivano visti come un mediatore in fin dei conti affidabile. Basti pensare che il concetto di autodeterminazione, molto importante per i popoli in fase di decolonizzazione, era figlio dei “Quattordici punti” elaborati dal presidente americano Woodrow Wilson alla fine della Prima guerra mondiale. Evidentemente, i popoli del Medio Oriente non immaginavano che gli Stati Uniti – in apparenza lontani geograficamente – avrebbero presto adottato una postura imperiale e globalizzata, in cui l’Oriente arabo ‒ incastonato tra Occidente filoamericano, Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese ‒ sarebbe diventato il centro della nuova proiezione geopolitica a stelle e strisce.

Così, la traiettoria della politica USA in Medio Oriente si è mantenuta coerente nel corso dei decenni, e tale continuerà ad essere con la presidenza Biden o con un eventuale Trump bis. A livello macroscopico, Israele, Arabia Saudita ed Egitto saranno ancora per Washington gli alleati di ferro nell’area, mentre la linea strategica da seguire continuerà ad essere quella del contenimento iraniano. Le possibili differenze, invece, saranno da ricercarsi nei dettagli dei singoli dossier.

Nel caso di Israele e Palestina, ad esempio, è impensabile che Biden cambi radicalmente la politica di sostegno americana allo Stato ebraico, che da Trump ha ottenuto il trasferimento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, oltre che accordi di normalizzazione con Emirati Arabi, Bahrain e Sudan. Ciononostante, Biden ha annunciato durante una raccolta fondi on-line la sua intenzione di stabilire un consolato a Gerusalemme Est, quale piattaforma di dialogo diplomatico con l’Autorità nazionale palestinese (ANP). Il senso dell’operazione è quello di rimettere i palestinesi, o perlomeno la loro leadership, nella condizione di tornare a incidere nelle trattative. Trump, al contrario, ha scelto l’opzione di scavalcare totalmente i palestinesi, dialogando direttamente con gli Stati locali che, in teoria, ne sostengono le parti.

Il fatto che un cambio della guardia alla Casa Bianca non costituirebbe un trauma per Israele è testimoniato da un curioso scambio di battute fra Trump e il premier israeliano Netanyahu in occasione dei nuovi accordi col Sudan. Il presidente USA chiede all’interlocutore: «Secondo te, Sleepy Joe (nomignolo dispregiativo di Joe Biden, ndr) avrebbe mai fatto questo accordo? Io non penso». Raggelante la risposta di Bibi Netanyahu: «Presidente, una cosa posso dirti: apprezziamo l’aiuto per la pace da chiunque in America».

Un altro dossier in cui un’eventuale presidenza Biden potrebbe apportare cambiamenti è quello iraniano. La strategia della “massima pressione”, inaugurata da Trump con l’imposizione di sanzioni e con l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare nel 2018, non sembra aver raggiunto l’obiettivo di far tornare la Repubblica islamica al tavolo delle trattative da una posizione di debolezza. Non ci sarebbe da stupirsi se Biden optasse per un approccio più morbido, senza obbligatoriamente rientrare nel solco tracciato dal nuke deal pattuito da Obama nel 2015. Questo atteggiamento potrebbe avere risvolti non indifferenti anche nella più sanguinosa crisi regionale, quella siriana. Secondo la rivista specializzata National Interest «Joe Biden non è Hillary Clinton, e non sembra avere alcun interesse a rimuovere con la forza Assad né a fornire armi statunitensi all’opposizione anti-Assad oggi dominata dai jihadisti». Più probabile che l’esponente democratico punti ad una politica di appeasement con gli altri attori coinvolti nel dossier come Russia, Turchia e Iran, con l’obiettivo – più pragmatico che politico – di mantenere un presidio militare statunitense a vigilare sui giacimenti di petrolio nell’Est della Siria e al confine con l’Iraq.

Infine, ma non meno importante, con l’amministrazione Trump si è venuta a creare la massima tensione possibile tra Stati Uniti, l’islam politico della Fratellanza musulmana e – di riflesso – con i Paesi che maggiormente lo sostengono: Qatar e Turchia. Nel 2019, il Tycoon di New York esercitava grande pressione perché i Fratelli musulmani fossero inclusi nella black list delle organizzazioni terroristiche, al pari di al-Qaida, IS e Pasdaran iraniani. L’amministrazione Obama, al contrario, si era trovata di fronte alla necessità di dialogare con l’Ikhwan (nome arabo della Fratellanza), nel momento in cui i partiti ad essa affiliati avevano vinto le elezioni post-primavera araba in alcuni Paesi dell’area. È il caso dell’Egitto, dove il partito Libertà e Giustizia di Mohammed Morsi trionfò alle urne nel 2012, salvo poi essere rovesciato l’anno dopo dal golpe che condusse al potere l’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi.

Nel 2017, con il sostegno degli USA, Arabia Saudita, Emirati e Paesi alleati varavano il cosiddetto Qatar ban, al fine di isolare il potente Stato del Golfo e le sue emanazioni legate all’islam politico. I media di Doha oggi auspicano che «Biden eserciti pressioni molto più forti su Arabia Saudita ed Emirati per porre fine al loro blocco sul Qatar» considerato che anche l’amministrazione Trump «ha recentemente intensificato i suoi sforzi diplomatici per incoraggiare una risoluzione, rendendosi conto che il conflitto tra due alleati strategici, Arabia Saudita e Qatar, non è nell’interesse degli Stati Uniti».

La possibile distensione tra i due blocchi dell’islam politico sunnita potrebbe essere una buona carta da giocare anche nella partita con la Turchia. Lo Stato militarmente più potente della NATO, dopo gli USA, versa in una condizione economica disastrosa dovuta solo in parte alla pandemia di Covid-19. Gli attriti recenti con la Francia di Emmanuel Macron – altro membro dell’Alleanza atlantica – e i periodici flirt di Ankara con la Russia di Vladimir Putin – come l’acquisto dei sistemi antiaerei S-400 – rendono la Turchia uno dei nodi più difficili da sciogliere per chi, dopo le elezioni presidenziali, otterrà le chiavi della Casa Bianca.

 

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Immagine: Da sinistra, Donald Trump e Benjamin Netanyahu partecipano alla cerimonia perla firma degli accordi di Abraham, Washington, DC,  Stati Uniti (15 settembre 2020). Crediti: noamgalai / Shutterstock.com

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Il mantra della stabilità nel Mediterraneo

 

Il concetto di stabilità è il principale mantra che guida la politica estera delle cancellerie e delle diplomazie occidentali quando si parla dei Paesi che insistono sulla sponda sud del Mediterraneo. Perseguire questa stabilità significa, in molte occasioni, esercitare l’arte del compromesso con sistemi di governo e di Stato spesso non perfettamente aderenti al modello di democrazia come concepito in al di qua del Mare Nostrum. Tale scelta, quella del compromesso, il più delle volte si rivela tattica, cioè a breve termine, e non strategica, cioè di ampio respiro. Tornano così a manifestarsi focolai di instabilità, violenza politica e, in ultima istanza, di terrorismo.

È il caso dell’Algeria, dove la transizione democratica prospettata dopo le dimissioni ad aprile 2019 dell’ottuagenario presidente Abdelaziz Bouteflika sembra continuare ad arrancare. Le manifestazioni del movimento Hirak, iniziate a febbraio dello scorso anno per protestare contro la ricandidatura di Bouteflika al quinto mandato presidenziale, hanno continuato ad animare le piazze di Algeri e altre città del Paese tutti i venerdì, anche dopo le dimissioni dell’anziano Capo dello Stato. Le restrizioni dovute alla pandemia di Covid-19 sono riuscite solo in parte a celare il malcontento di quelle fasce di popolazione deluse dalla politica post-Bouteflika. Il governo di Abdelaziz Djerad, nominato premier a dicembre scorso dal presidente Abdelmadjid Tebboune, ha colto l’occasione offerta dal Covid per mettere in campo una stretta contro il movimento, incarcerando molti dei suoi sostenitori.

Particolarmente significativa e ripresa a livello mediatico, specialmente negli organi di informazione arabi e francofoni, è la vicenda di Khaled Drareni, giornalista indipendente algerino e corrispondente di Reporter senza frontiere (Rsf) condannato a due anni di carcere. Il pouvoir, il quadro di apparati militari e statali che circondano la presidenza, sembra voler serrare i ranghi fino all’appuntamento più importante: quello del 1° novembre - giorno dell'anniversario dell'inizio della rivoluzione algerina per l'indipendenza (1954-1962) - quando si terrà il referendum sulla nuova costituzione. Il rischio di una nuova ondata di malcontento, però, è dietro l’angolo. Il professor Redouane Bouhidel, docente di scienze politiche ad Algeri, ne è convinto. Sentito da Agenzia Nova, Bouhidel ha affermato che "il governo algerino dovrà affrontare nuove proteste se il disegno di legge non includerà le principali richieste del popolo”.

L’Algeria, però, non è un Paese qualunque. Conteso dalle sfere egemoniche della Francia, ex potenza coloniale, e della Cina, primo partner commerciale (che vorrebbe incastonare Algeri nella Nuova Via Della Seta), lo Stato nordafricano ha conosciuto la violenza islamista del cosiddetto “decennio nero”. Ciononostante, il malcontento dovuto a condizioni economiche incerte, aggravate dalla pandemia di Covid, e la delusione di fronte ad un sistema costituzionale diverso da quello anelato dalle piazze, potrebbero comunque generare rabbia e violenza contro lo Stato post-Bouteflika.

Nella vicina Tunisia, considerata da più parti l’unico esempio di “primavera araba riuscita”, la stabilità e tutt’altro che granitica. Il capo dello Stato Kais Saied, presidente conservatore e assertivo eletto come indipendente rispetto ai partiti tradizionali, ha deciso di concedere la grazia a 307 prigionieri in occasione del 57esimo anniversario dalla partenza delle ultime truppe francesi dalla Tunisia, il 15 ottobre 2020. Questa mossa di apertura giunge dopo l’ennesima ondata di proteste e malcontento, dovuta anche qui alle difficoltà dell’emergenza Covid, cui gli apparati di sicurezza hanno risposto con la solita durezza. Il 4 agosto scorso, ad esempio, l’avvocata Nesrine Guerneh è stata aggredita all’interno di una stazione di polizia a El Mourouj, a sud di Tunisi. Un fatto che ha generato proteste vibranti da parte della categoria. Il presidente dell’Ordine degli avvocati della Tunisia, Brahim Bouderbala, ha affermato che le forze di sicurezza “non hanno dimostrato la professionalità degna di uno Stato democratico".

È uno Stato, quello tunisino, che mostra tutte le fragilità di una democrazia ancora giovane e acerba. La Tunisia è il primo “esportatore” di foreign fighters accorsi a combattere tra le fila dei jihadisti nei teatri di guerra in Siria e Iraq. La regione di Kasserine, al confine con la Libia, è storicamente il bacino di riferimento per l’estremismo islamico nell’area, ad esempio per il gruppo Jound Al Khilafa, affiliato allo Stato Islamico.

Il Paese, inoltre, deve fare ancora i conti col passato. Sebbene nel 2017 sia passata la cosiddetta “legge di riconciliazione”, una sorta di colpo di spugna sui crimini degli affiliati al vecchio regime di Zine El-Abidine Ben Ali, è sensazione diffusa tra le fasce svantaggiate della popolazione che gli ideali della rivoluzione del 2011 – libertà, pane e giustizia sociale - siano stati traditi.

La guida della Tunisia in questa fase delicata spetta al governo di Hichem Mechichi, che ha ottenuto la fiducia il 2 settembre scorso, dopo una concertazione politica tutt’altro che facile tra il movimento islamista Ennahda, il partito liberale Qalb Tunes, e altri partiti minori che alla fine hanno permesso di varare il governo, fortemente voluto dal volitivo presidente Saied.

L’Egitto, al pari di Tunisia, Algeria e Marocco, è uno degli stati dell’area interessati alla crisi in Libia. Tra l’11 e il 13 ottobre Il Cairo ha ospitato i colloqui tra i delegati della Camera dei rappresentanti con sede in Cirenaica e dell’Alto consiglio di Stato libico di Tripoli, istituzioni legate rispettivamente all’autoproclamato Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar e al Governo di accordo nazionale libico di Fayyez al-Sarraj. Il prossimo appuntamento è il Forum per il dialogo politico libico, che si terrà a novembre in Tunisia.

Tuttavia, le fonti di instabilità per il paese del Nilo vengono anche e soprattutto dall’interno. Attivisti per i diritti umani denunciano periodiche campagne di arresti e repressione contro ogni forma di dissenso verso il regime di Abdelfattah al Sisi. Nel mese di settembre, ad esempio, arresti arbitrari hanno avuto luogo nel quartiere di Basatin, nel governatorato di Fayoum, a sud del Cairo, dove diverse famiglie hanno denunciato la scomparsa dei propri figli dopo manifestazioni di protesta contro il governo. Quello delle sparizioni forzate, come dimostra l’incertezza che dopo quattro anni circonda il caso di Giulio Regeni, è un tema scottante per le autorità del Cairo, così come lo è la resistenza jihadista nel Sinai, dove ha luogo una wilaya (provincia) dell’autoproclamato Stato Islamico. Le forze regolari non riescono a venire a capo della situazione, in un quadrante impervio e desertico ma allo stesso tempo strategico, data la vicinanza con il canale di Suez e con il confine israeliano.

Il teatro in cui il mantra della stabilità cela le devastazioni più grandi è sicuramente la Siria. Nel Paese, distrutto da dieci anni di guerra, il germe del terrorismo jihadista e di possibili nuove ondate rivoluzionarie sopravvive dietro la patina di “normalità” che il regime di Bashar al Assad cerca di dare alla vita siriana. Lo Stato Islamico è stato sfaldato nella sua dimensione territoriale, ma è tutt’altro che scomparso. Gli ultimi mesi hanno visto moltiplicarsi nuove, piccole manifestazioni contro il sistema, anche nelle aree tornate sotto il controllo di Damasco. In località come Deraa, nel sud del Paese, cittadini logorati dal conflitto e dalle ristrettezze economiche dovute alle sanzioni e alla pandemia di Covid-19, tornano in piazza come nel 2011 chiedendo un miglioramento delle proprie condizioni.

Proprio in Siria è scomparso il 29 luglio del 2013 padre Paolo Dall’Oglio, una cui frase sembra cogliere al meglio quanto il mantra della stabilità sia fragile di fronte alle dinamiche di terrorismo e violenza politica che dominano la sponda sud del Mediterraneo. “Vi è un circolo ermeneutico infernale - diceva - le paure legittimano la repressione, che crea l’estremismo, che giustifica le paure".

 

Immagine: Algeria, Algeri - 05 luglio 2019: milioni di algerini in piazza per la 20a settimana di protesta contro il governo e contro la corruzione nel paese. Crediti: BkhStudio / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/La_normalizzazione_di_Israele.html

La normalizzazione di Israele, in attesa del voto americano

 

Sono quasi le 4 del pomeriggio quando le ruote dell’aereo LY-971 della compagnia israeliana El Al toccano l’asfalto della pista di atterraggio. La destinazione raggiunta, dopo un viaggio iniziato a Tel Aviv alle 11.30 del 31 agosto 2020, è l’aeroporto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. A bordo del velivolo due delegazioni di Israele e Stati Uniti, guidate da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, e dal consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Meir Ben Shabbat. L’apparecchio espone come insegne le bandiere delle tre nazioni – USA, Israele ed Emirati ‒ e la parola “pace” stampata in inglese, ebraico e arabo sul finestrino laterale del pilota. Il volo viene salutato dai media locali come un momento storico che suggella la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati, primo Paese del Golfo a compiere questo passo e terzo del mondo arabo dopo Egitto e Giordania.

Il percorso di questa distensione tra lo Stato ebraico e il piccolo (ma importante) Paese del Golfo nasce da lontano. Israele ed Emirati cooperano da tempo nello scambio di informazioni per quello che concerne la sicurezza e la difesa, sebbene Dubai e Abu Dhabi abbiano sempre mantenuto una retorica filopalestinese, almeno pubblicamente. Uno dei temi più discussi, anche se le parti sono molto reticenti sul tema, è la vendita agli Emirati dei caccia statunitensi F-35 di quinta generazione. Si tratterebbe di una mossa che, secondo alcuni esperti, minerebbe la superiorità militare di Israele nella regione, tanto è vero che un regolamento degli Stati Uniti richiede esplicitamente che l’amministrazione si consulti con lo Stato ebraico prima di vendere armi a qualsiasi Paese arabo.

Fonti coperte riferiscono al New York Times che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe dato all’amministrazione Trump il nullaosta per vendere armi (e aerei) agli Emirati, ma sull’affaire F-35, un tema molto sensibile per gli equilibri regionali, si susseguono le smentite da entrambe le parti. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan (Mbz per i media occidentali) sottolinea ad ogni occasione possibile che l’accordo con Israele annunciato il 13 agosto “non andrà a scapito della causa palestinese” e che, al contrario, l’impegno assunto dallo Stato ebraico di sospendere le annessioni in Cisgiordania è da salutare come una conquista positiva. 

Quelli dopo lo storico viaggio Tel Aviv-Abu Dhabi del 31 agosto, a cui il 16 settembre farà seguito il primo aereo cargo in volo dallo Stato ebraico agli Emirati ‒ sono giorni di annunci, indiscrezioni e speculazioni su quale sarà il prossimo Paese dell’area ad aprirsi a Israele. Molti osservatori internazionali, confortati dall’insistenza della stampa israeliana, sono pronti a scommettere sul Bahrein. A Manana, capitale della monarchia del Golfo, è stata infatti presentata a giugno 2019 la parte economica del “Piano del secolo” messo a punto dall’amministrazione Trump per la pace tra israeliani e palestinesi. I regnanti del Bahrein, appartenenti alla dinastia Al Khalifa, sono monarchi sunniti in uno Stato a maggioranza sciita (70% della popolazione). Un fatto che mette spesso il Paese al centro della contesa regionale tra Iran e Arabia Saudita. Nonostante la reticenza bahreinita, per i media di Gerusalemme come il portale israeliano Kan 11, l’annuncio di un accordo tra lo Stato ebraico e la monarchia araba ormai non è questione di se, ma di quando.

Altri ipotizzano che il prossimo Paese a tendere una mano a Israele possa essere l’Oman, importante snodo diplomatico per il Medio Oriente, rimasto orfano a inizio anno dell’ottuagenario sultano Qabus bin Said Al Said, definito da Netanyahu «un grande uomo» in occasione della sua dipartita. Il ministero degli Affari esteri omanita commenta il nuovo accordo tra Emirati e Israele dicendo che «soddisferà le aspirazioni dei popoli della regione nel sostenere i pilastri della sicurezza e della stabilità». Decisamente ostile invece è l’atteggiamento del Kuwait, le cui autorità fanno sapere dalle colonne del giornale locale Al Qabas che «La nostra posizione su Israele non è cambiata, saremo gli ultimi a normalizzare le nostre relazioni» con lo Stato ebraico.

L’impressione generale, oltre i proclami e la retorica che contraddistinguono eventi simili, è che gli altri Paesi dell’area mantengano una certa cautela rispetto a possibili distensioni con Israele. C’è da aspettarsi che questa reticenza rimanga tale fino al più importante appuntamento in programma nei prossimi mesi, ossia le elezioni presidenziali americane a novembre 2020. Trump punta molto sulla politica mediorientale e sulla distensione con Israele in chiave propagandistica. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha suscitato non poche critiche in patria, intervenendo in videoconferenza alla convention repubblicana direttamente da Gerusalemme, nel corso di una missione che lo ha condotto in Libano, Israele e Kuwait. L’accusa dei democratici è quella di aver usato, cosa mai successa prima, un impegno ufficiale all’estero per meri scopi elettorali. I Paesi del Medio Oriente, però, sembrano rimanere attendisti. Probabilmente aspettano di sapere chi la spunterà nel rush finale della corsa alla Casa Bianca tra l’attuale presidente Trump e lo sfidante Joe Biden. Certamente non ci si aspetta che il candidato democratico, qualora eletto, cambi in modo radicale la politica americana nell’area. Ma al contempo è poco prudente impegnarsi a fondo nelle trame diplomatiche dell’attuale amministrazione – volte alla strategia della “massima pressione” sull’Iran – se alla fine sarà Biden a vincere le presidenziali.

Ciononostante, l’immobilismo non è uguale ovunque. A quasi un mese dall’accordo Israele-Emirati e a pochi giorni dallo storico volo Tel Aviv-Abu Dhabi, i primi movimenti verso Israele arrivano da un’area apparentemente remota e inaspettata, quella dei Balcani. Il 4 settembre, infatti, Trump ha annunciato che Serbia e Kosovo hanno raggiunto un’intesa per la normalizzazione dei rapporti economici. Parte dell’accordo prevede che il Kosovo riconoscerà Israele, mentre la Serbia sarà il primo Paese europeo a spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come fatto dagli USA a maggio 2018. La parte dell’accordo che conta, in una regione dove gli USA vogliono contrastare la penetrazione russa e cinese, riguarda soprattutto gli aspetti economici. Ma l’inserimento del dossier israeliano nella partita ha comunque la sua importanza, facendo parte della corsa di Trump ad accumulare risultati diplomatici da usare in campagna elettorale contro Biden. Se l’esempio di Emirati, Kosovo e Serbia fosse seguito da un altro Paese arabo-islamico, o magari da più di uno, questo costituirebbe un vantaggio non indifferente per l’attuale inquilino della Casa Bianca.

 

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/magazine/atlante/geopolitica/Elezioni_in_Siria_e_l_illusione.html

Le elezioni in Siria e l’illusione della normalità

 

Il 17 luglio del 2000 in Siria saliva al potere Bashar al Assad, succeduto al padre Hafez dopo la morte di quest’ultimo a 69 anni. Violando per un margine di qualche mese la legge per cui il presidente siriano doveva avere almeno 35 anni, Bashar “ereditò” la presidenza dal padre, riuscendo a scalzare importanti concorrenti come il potente zio Rifaat al Assad. A distanza di vent’anni quasi esatti, il 19 luglio 2020, in Siria si sono tenute le elezioni legislative per rinnovare il parlamento. È la terza volta da quando – a partire dal 2011 – il paese mediorientale è martoriato dalla peggior guerra civile della storia recente.

La Siria di oggi è molto diversa rispetto a quella che a inizio secolo vide il giovane Bashar prendere in mano le redini del paese. Le ultime elezioni per rinnovare l’assemblea parlamentare siriana, però, offrono buoni spunti per tentare un bilancio, inevitabilmente sanguinoso, del ventennio siriano sotto la guida di Bashar.

Con 2.100 candidati a contendersi i 250 seggi del parlamento, 15 collegi e 7.400 sezioni, le elezioni legislative si sono concluse senza troppe sorprese: il Baath, storico partito nazionalista e socialista di cui lo stesso Assad è leader, ha ottenuto assieme ai partiti alleati la maggioranza parlamentare, aggiudicandosi 177 dei 250 seggi.

Il dato più interessante, in Siria come in tutti i paesi retti da governi autoritari, riguarda sicuramente la percentuale di affluenza alle urne. Tenere elezioni legislative in un paese sinistrato da nove anni di guerra, per il regime è innanzitutto un tentativo di legittimazione interna e di normalizzazione a livello internazionale. Per essere legittimato, però, il sistema di potere ha bisogno di un suffragio il più possibile ampio e di una partecipazione al voto ben nutrita. Pertanto, sebbene si sia votato in più aree rispetto alla precedente tornata elettorale, l’affluenza alle legislative del 19 luglio è stata molto bassa. Rimandate due volte a causa della pandemia di coronavirus, le ultime elezioni hanno coinvolto anche aree come al Hasakah, parti di Idlib e al Raqqa che nel 2016 – data della tornata precedente – erano fuori dal controllo di Damasco. Allora, però, l'affluenza alle urne si era attestata al 57% degli aventi diritto, mentre questa volta è crollata al 33,17%, secondo i dati ufficiali della Commissione elettorale riportati dall’agenzia stampa di Stato.

Il Baath, partito di cui in Iraq è stato espressione Saddam Hussein, ha dominato tutti gli appuntamenti elettorali della Siria contemporanea, comprese le presidenziali del 2014 – le prime in forma pluripartitica durante il dominio degli Assad – in cui partito nazionalista e alleati raggiunsero l’88,7% dei consensi. Gli eletti che siederanno tra gli scranni dell’assemblea sono uomini d'affari, maggiorenti e signori della guerra facenti parte della piramide di potere che costituisce il regime di Assad.

La sconfitta di Assad nella sfida per l’affluenza è l’emblema di un paese stanco, distrutto dalla guerra, alle prese con il Covid e in una crisi economica galoppante. Una congiuntura negativa aggravata dall’approvazione recente del Caesar Syria Civilian Protection Act, il nuovo pacchetto di sanzioni con cui gli Stati Uniti hanno colpito le interessenze di Assad e di uomini a lui legati nella struttura di regime. A questo si aggiunge il mezzo milione di morti accertati dalle Nazioni Unite (con stime ferme al 2014), i 10 milionidi siriani - metà della popolazione –  che vivono come profughi interni o come rifugiati all’estero a causa del conflitto. Se si considera, poi, che in Siria ci sono aree che ancora sfuggono al controllo centrale come il nord-est, controllato dalle autonomie curdo-arabe e l’area di Idlib (dominata dalla Turchia e da gruppi ribelli filo-Ankara), ci si rende conto che la parvenza di normalità che le elezioni legislative dovevano dare alla vita del paese si è rivelata una pura illusione.

Non era questo, probabilmente, che i siriani di vent’anni fa si aspettavano, quando dopo la morte di Hafez - capo di Stato duro, violento, sterminatore di Fratelli Musulmani e non solo – videro salire al potere il giovane Bashar. Secondogenito di Hafez e di Anisa Makhlouf – un cognome piuttosto importante quando si parla di Siria – Bashar aveva studiato oftalmologia in Europa e non era destinato alla successione. Questa incombenza ricadde su di lui solo dopo la morte del fratello maggiore Basil, scomparso a seguito di un misterioso incidente stradale. Quello che seguì fu un periodo di speranza ed entusiasmo, rimasto nella memoria come “Primavera di Damasco”. Il dibattito politico, l’associazionismo e le istanze riformiste – dopo decenni di desertificazione della vita politica – venivano non solo tollerati, ma anche incoraggiati dalle autorità. Lo stesso Bashar, assieme alla moglie Asma, partecipavadi tanto in tanto alle assemblee, lasciando intravedere a tutti la possibilità di una apertura democratica.

Com’è noto, soprattutto a partire dal 2011, la storia è andata diversamente. Le manifestazioni di piazza nel contesto delle cosiddette “primavere arabe”, la repressione e la guerra civile diventata guerra per procura hanno portato il paese al collasso. Alle legislative del 19 luglio 2020, il presidente siriano e sua moglie sono stati immortalati ai seggi, vestiti di tutto punto, mentre inseriscono nell’urna le loro schede elettorali. È l’immagine di una normalità illusoria, volutamente mediatica, di un paese le cui ferite fanno fatica a rimarginarsi.

 

 

Immagine: Al-Rakka / Siria - 18 dicembre 2017: Strade dell'ex capitale dell'ISIS. Crediti immagine: Tomas Davidov / Shutterstock.com

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La faida tra jihadisti in Siria e il “terrorismo” in Medio Oriente

 

I recenti avvenimenti nell’enclave di Idlib, l’ultima zona nel Nord-Ovest della Siria fuori dal controllo delle forze fedeli al regime di Bashar al-Assad, dimostrano chiaramente un fatto: dietro categorie come “jihadisti” o “terroristi” sovente si celano realtà molto complesse e stratificate. Spesso in contrasto le une con le altre o, addirittura, in guerra aperta per il predominio sul territorio. Il cartello di milizie che domina l’area di Idlib è Hay’at Tahrir Al-Sham (HTS), nato dalle ceneri di Jabhat al-Nusra (quella che fu la costola siriana di al-Qaida). A giugno 2020, però, una serie di gruppi armati più oltranzisti ha dato il via ad una nuova coalizione per le operazioni militari a Idlib, denominata Stand Firm. La nuova realtà, stando all’atto di fondazione diffuso on-line, comprende tra gli altri il gruppo Coordinamento del Jihad, la Brigata Ansar, che il 7 aprile ha annunciato la sua defezione da HTS, il Fronte Ansar al-Din e l’organizzazione Hurras al-Din, formata a sua volta da centinaia di disertori di HTS.

Si tratta di nomi e sigle perlopiù sconosciuti al grande pubblico, ma restituire anche forse un minimo quadro della complessa rete militare che opera a Idlib è utile a far luce su un dato molto importante quando si parla di Medio Oriente: quando entra in gioco la categoria del “terrorismo” occorre tener presente che si tratta quasi sempre di “un’eterodefinizione”. Ossia, detto in altri termini, bisogna sempre tener presente chi dà del terrorista a chi. Nel caso della coalizione Stand Firm, ad esempio, parliamo di “terroristi che combattono altri terroristi”, se si analizza la cosa dal punto di vista del regime di Damasco e dei russi (che considerano terrorista ogni forma di opposizione, anche la più pacifica). Cioè di ex qaidisti che combattono contro la milizia, HTS, che di al-Qaida è in pratica l’erede diretto.

Dal punto di vista degli osservatori occidentali, spesso si considera l’islam militante di matrice sunnita come una realtà monolitica e indistinta. Al contrario, nel contesto siriano e non solo, molte volte ci si ritrova di fronte a un mosaico di piccoli gruppi che seguono necessità strategiche e belliche peculiari, più che un unico grande framework ideologico.

La nascita dell’operazione Stand Firm è frutto dell’ostilità emersa pubblicamente tra le fazioni più oltranziste e violente del jihadismo siriano che vedono nella milizia dominante HTS un gruppo che ha abbandonato i suoi principi, diventando ostaggio degli accordi internazionali dopo aver permesso alle forze russe di penetrare l’autostrada M4 nell’ambito dei pattugliamenti congiunti turco-russi sanciti durante l’ultimo accordo per il cessate il fuoco. La Turchia, che spesso viene accusata di sostenere indistintamente tutti i gruppi ribelli che controllano Idlib, si è spesa molto invece per contenere le operazioni di Stand Firm, specialmente sfruttando le brigate di ribelli cooptate e armate da Ankara in questi anni come il cosiddetto Fronte di liberazione nazionale (NLF), forse l’erede più diretto di quello che fu l’Esercito libero siriano (FSA). Da questo dissidio tra le formazioni jihadiste di Idlib sono scaturiti scontri aperti, attentati, rappresaglie e, a seconda dei casi e delle località, accordi e tregue concretizzatisi a cavallo tra giugno e luglio 2020.

Facendo tesoro del minimo di complessità restituito dagli ultimi fatti di Idlib, si può tornare sulla questione del “terrorismo” e sull’importanza di contestualizzarla, specialmente nel mondo arabo-islamico. Prendiamo il caso della Libia, dove a contendersi la partita ci sono il Governo di accordo nazionale (GNA) – riconosciuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al-Sarraj – e l’autoproclamato Esercito nazionale libico (LNA) del generale Khalifa Haftar. I due attori libici, come vedremo, si scambiano reciprocamente accuse di supporto al terrorismo.

Il GNA rientra nella sfera d’influenza di Turchia e Qatar, Paesi che sono i numi tutelari della Fratellanza musulmana. Questa organizzazione è considerata un gruppo terrorista da Stati come Arabia Saudita, Bahrain, Egitto, Russia, Siria ed Emirati Arabi Uniti. Paesi che, non a caso, supportano invece l’LNA di Haftar. Quest’ultimo, ad aprile 2019, ha lanciato un’offensiva militare verso la capitale libica Tripoli per strapparla alle forze del GNA. Lo ha fatto, però, utilizzando come pezza d’appoggio ideologica la “lotta al terrorismo”, additando come terroriste – appunto – alcune delle milizie che sostengono l’esecutivo di al-Sarraj (compresi alcuni combattenti siriani filoturchi portati appositamente in Libia da Idlib).

D’altro canto, però, l’LNA di Haftar è considerato vicino all’asse “autoritario” di sauditi, emiratini ed egiziani e nell’esercito di Bengasi figurano anche combattenti legati al movimento madkhalista. Si tratta di una realtà politico-militante vicina all’Arabia Saudita che promuove un islam radicale ma fedele al potere secolare (quello di Haftar in questo caso). In poche parole, anche tra le fila dell’LNA ci sono elementi vicini all’islam radicale. Un altro tipo di islam politico rispetto a quello della Fratellanza, ma comunque radicale.

Tornando in Medio Oriente, poi, lo Stato di Israele considera organizzazioni terroristiche Hamas (gruppo sunnita palestinese nato da una costola della Fratellanza musulmana), il gruppo Jihad islamico (filoiraniano), Hezbollah (partito-milizia libanese e sciita) e tutte le forze legate in qualche modo a Teheran in Libano, Siria e Iraq. Lo Stato ebraico, a sua volta, è definito terrorista in ogni occasione possibile dai vertici iraniani. La Turchia, dal canto suo, considera gruppi terroristici le YPG curde (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare), che assieme alla coalizione internazionale a guida USA hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta al sedicente Stato islamico. Anche in questo caso, per intenderci, parliamo di “terroristi” – dal punto di vista di Ankara – che combattono altri terroristi (quelli dell’ISIS)?

Come già detto, l’unico modo per affrontare coerentemente il tema del “terrorismo” quando si parla di Medio Oriente è tener presente quanto tale categoria sia molto spesso una semplificazione marchiana della situazione, in cui spesso chi definisce terrorista qualcun altro lo fa per delegittimare e portare avanti la propria agenda politica.

 

Immagine: Un combattente ribelle siriano durante la battaglia contro le forze del regime siriano sostenute dall'esercito russo, Idlib, Siria  (7 giugno 2017). Crediti:  MuscleMan29 / Shutterstock.com

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Israele si prepara a nuove annessioni

 

L’annessione a Israele di nuove porzioni della Cisgiordania rappresenta una delle promesse fatte in campagna elettorale sia da Benjamin Netanyahu che dall’ormai ex sfidante Benny Gantz. I due si ritrovano ora insieme al governo d’Israele, a seguito di un accordo complesso che conferisce la premiership all’eterno Bibi Netanyahu e a Gantz il ministero della Difesa, uno dei dicasteri più importanti nell’alveo istituzionale dello Stato ebraico. Sembrerebbe scontato, quindi, che l’annessione ‒ promessa da entrambi gli artefici dell’esecutivo – sia ormai una questione di quando, più che di se. Come ha dimostrato la visita in Israele del segretario di Stato americano Mike Pompeo, gli Stati Uniti sono davvero poco interessati alla vicenda, tanto da rimettere la decisione nelle mani dello Stato ebraico. Lo spirito degli accordi di Camp David e di Oslo, in cui Washington nei decenni ha assunto e giocato appieno il ruolo di mediatore tra israeliani e palestinesi, pare ormai definitivamente tramontato.

Il primo luglio arriverà all’esame della Knesset (il Parlamento israeliano) il progetto di legge messo a punto dal governo per procedere all’annessione di alcune zone della Cisgiordania, in particolare la Valle del Giordano. Sulla scorta di quanto accaduto in passato, ad esempio con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte degli USA, ci si sarebbe aspettati una levata di scudi a difesa dei palestinesi, specialmente nei Paesi del mondo-arabo islamico. Al contrario, le condanne più veementi al progetto di annessione sono arrivate dalle Nazioni Unite, tramite vari moniti del segretario generale António Guterres, e dall’Unione Europea, il cui alto rappresentante per gli affari esteri Josep Borrell ha più volte esortato la leadership israeliana a recedere dai propositi di annessione. In Italia 70 parlamentari del centrosinistra e del Movimento 5 stelle hanno scritto una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte chiedendogli di “condannare” lo Stato di Israele per il progetto di annessione.

Dai paesi arabi e a maggioranza islamica invece è arrivato poco più che il solito coro di condanne rituali e, vigoroso ma poco credibile, l’avvertimento del monarca giordano Abd Allah II. Il sovrano hashemita, infatti, ha evidenziato che qualora Israele proceda all’annessione si creerebbero le condizioni per «un conflitto di grandi proporzioni».

Al netto dell’audacia di tali affermazioni, pare evidente quanto la leadership palestinese sia estremamente isolata in questo momento storico. Tant’è vero che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (ANP), Mahmoud Abbas, non ha trovato soluzione migliore se non quella di minacciare, per l’ennesima volta, di interrompere gli accordi con Israele e USA nel campo della sicurezza. Nashaat Aqtash, professore alla Birzeit University, ha spiegato all’agenzia stampa statunitense The Media Line che le «parole dure» di Abbas non sono affatto una novità. «La domanda ‒  sottolinea Aqtash ‒ è se la retorica verrà tradotta in azioni reali sul campo. Secondo me la risposta è no». L’ANP infatti «ha ripetutamente promesso di porre fine al coordinamento della sicurezza con Israele, ma non ha mai dato seguito a questa minaccia». Si tratta, quindi, di un gioco al rialzo volto più a ricompattare il consenso interno che una mossa concreta come l’annuncio lascerebbe intendere. 

Ma la debolezza e l’isolamento della leadership palestinese non riguardano solo questioni interne, ma anche dinamiche regionali. Infatti, la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e attori regionali di primaria importanza come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU) procede ormai a vele spiegate, specialmente in chiave anti-iraniana. Il 19 maggio, ad esempio, un jet cargo della compagnia emiratina Etihad è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Il velivolo trasportava apparecchiature e medicinali anti-Coronavirus da destinare ai territori palestinesi. La guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha accusato gli EAU di «tradimento», dal momento che il volo umanitario avrebbe «legittimato» lo Stato ebraico utilizzando un aeroporto israeliano per consegnare il carico ai palestinesi.

La vicenda ha aperto un piccolo ma interessante caso mediatico, oltre che politico. Due giorni dopo l’arrivo a Tel Aviv del volo Etihad, alcuni media locali e internazionali hanno diffuso notizie secondo cui l’ANP avrebbe rifiutato gli aiuti emiratini in segno di protesta contro il mancato coordinamento con Ramallah. Il sito Middle East Eye ha riferito del diniego palestinese riportando le parole di Mai Alkaila, ministro della Salute dell’ANP nonché ex ambasciatrice a Roma, secondo cui l’Autorità palestinese avrebbe respinto al mittente gli aiuti anti-Covid. L’emittente russa RT, nella sua versione in arabo, ha riferito la notizia citando “fonti governative” anonime, mentre i media legati al Qatar come Al Jazeera e il quotidiano con sede a Londra al-Araby al-Jadeed hanno riferito delle parole di Alkaila, aggiungendo anche il commento del premier palestinese Mohammad Shtayyeh, secondo cui l’ANP «ha appreso della questione dell’aereo dai giornali», il che implica una totale «assenza di coordinamento con i palestinesi su tale aiuto». Degno di nota il fatto che di questa presunta decisione non v’è traccia sui media locali palestinesi, come ad esempio l’agenzia stampa Wafa. Non si può escludere, dunque, che si tratti di un’operazione dei media vicini alla Fratellanza musulmana (e di riflesso pro-Hamas) per mettere in difficoltà la leadership di al-Fatah al comando dell’ANP e anche dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina).

Quale che sia la verità su questa piccola ma significativa vicenda mediatica, quel che sembra certo è che la questione palestinese è ormai così marginale negli interessi degli attori locali e internazionali coinvolti che il momento per nuove annessioni da parte dello Stato ebraico potrebbe essere giunto per davvero. Le conseguenze potrebbero essere devastanti non solo per i futuri equilibri politici interni, dato lo scollamento sempre più marcato tra la giovane popolazione palestinese e una leadership ancorata a modelli veterosocialisti e panarabi, ma anche e soprattutto per la vita quotidiana della gente comune. Quello che è attualmente in Cisgiordania lo scenario di un arcipelago di territori palestinesi senza alcuna continuità territoriale rischia di diventare una realtà ancora più frammentaria e difficile da affrontare nelle quotidiane dinamiche di lavoro, studio e vita vissuta.

 

Immagine: Veduta di un insediamento ebraico in Cisgiordania. Crediti: Evanessa / Shutterstock.com

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La visita di Pompeo in Israele nella grande partita tra USA e Cina

 

La pandemia di Coronavirus ha congelato praticamente tutti gli appuntamenti internazionali del 2020, costringendo i capi di Stato e di governo delle principali organizzazioni multilaterali ad incontrarsi solo virtualmente per discutere dei temi più svariati. In questo contesto, però, ha fatto eccezione la visita in Israele del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, avvenuta il 13 maggio scorso. Con tutte le accortezze del caso, il capo della diplomazia di Washington si è recato di persona nello Stato ebraico per incontrare Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, principali artefici dell’intesa che darà finalmente un governo a Israele.

Al centro della visita, come sottolineato dai diretti interessati di fronte alla stampa, ci sono stati diversi dossier molto importanti. Innanzitutto, il contenimento dell’Iran in Siria e Libano, una costante geopolitica degli ultimi anni. In secondo luogo, anche se Pompeo e Netanyahu non hanno fatto alcun cenno alla cosa, è probabile che abbiano discusso anche la possibilità che lo Stato ebraico annetta la valle del Giordano e altre zone della Cisgiordania. Tuttavia, Pompeo, in un’intervista al quotidiano locale Israel Hayom, ha glissato sull’argomento, evidenziando che, in ultima istanza, la decisione spetta al governo dello Stato ebraico. Si tratta dell’ennesima dimostrazione di quanto il dossier israelo-palestinese abbia ormai per Washington un’importanza residuale. Al contrario, la visita di Pompeo in Israele si inserisce nella grande partita internazionale tra Stati Uniti e Cina. Lo rileva in maniera cristallina un’analisi del quotidiano locale Jerusalem Post, intitolata Israel caught in the middle of growing US-China tensions, ossia “Israele nel mezzo delle crescenti tensioni USA-Cina”.

È impensabile, infatti, che il ministro degli Esteri della prima potenza mondiale abbia viaggiato per 16 ore in tempi di lockdown unicamente per affrontare i tradizionali dossier di interesse comune tra Washington e Tel Aviv. Solo il “fattore cinese” può spiegare meglio il contesto di questa visita. Israele, infatti, è tra i pochi Paesi al mondo in grado di mantenere un rapporto altamente privilegiato con gli Stati Uniti, specialmente nel campo dell’economia e della difesa, ma di instaurare allo stesso tempo cordiali relazioni con quelli che sono i principali competitor degli USA: la Russia di Vladimir Putin e, soprattutto, la Cina di Xi Jinping.

 «Il punto di contesa più noto tra Stati Uniti e Israele – scrive il Jerusalem Post – è un nuovo terminal del porto di Haifa (nord di Israele, ndr) che sarà gestito da una società cinese a partire dal prossimo anno». Quello sulla costa israeliana è uno dei tanti progetti infrastrutturali tramite i quali Pechino cerca di inserirsi nel tessuto economico e commerciale euro-mediterraneo. Nel 2016, ad esempio, la compagnia di spedizioni cinese Cosco ha acquistato la quota di maggioranza nel porto del Pireo, il più grande porto della Grecia nonché il settimo più grande d'Europa. Un’iniziativa che rientra nel maxiprogetto della Nuova Via della Seta cinese. Il commercio tra Israele e Cina ‒ prosegue il Post ‒ è cresciuto del 402% negli ultimi dieci anni, con un interscambio pari a 14 miliardi di dollari nel 2018, facendo di Pechino il terzo partner commerciale in assoluto dello Stato ebraico. A inizio maggio, inoltre, Netanyahu ha ordinato al comitato per gli investimenti esteri di rivalutare l’offerta della Hutchison Water International (società di Hong Kong) per la gestione di Sorek 2, il più grande impianto di desalinizzazione al mondo. La decisione, dicono le indiscrezioni, è dovuta a pressioni da parte americana.

Più che al commercio e alle infrastrutture, però, la preoccupazione di Washington verso la liaison sino-israeliana si rivolge all’ambito tecnologico. Lo stesso ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, ha sottolineato che dietro la patina degli investimenti infrastrutturali si nasconde il pericolo che la Cina possa ottenere «accesso alle comunicazioni più sensibili». Gli investimenti cinesi in questo settore pongono seri dubbi in materia di sicurezza informatica e di intelligence. Huawei, Xiaomi, ZTE sono i colossi tecnologici più discussi in questo contesto.

Nel punto stampa a conclusione della sua visita, Pompeo ha sottolineato che Israele è «un ottimo partner che condivide informazioni, a differenza di altri paesi». Il riferimento alla Cina è abbastanza evidente.  Le informazioni a cui il funzionario ha fatto riferimento riguardano probabilmente anche l’ambito biotecnologico, un settore in cui Israele è da considerarsi un Paese assolutamente all’avanguardia. Basti pensare agli studi effettuati dai laboratori dello Stato ebraico sul virus della SARS, l’antesignano dell’attuale Coronavirus. Rientra, dunque, nell’interesse di Washington che, qualora Israele faccia progressi in cerca di una cura o di un vaccino contro il SARS-CoV-2, condivida le sue informazioni (solo) con l’alleato tradizionale e non con i cinesi.

In gioco c’è la vera battaglia geopolitica innescata dal Coronavirus, ossia quella della comunicazione. La Cina ha la necessità di rimediare al danno d’immagine dovuto dalla diffusione del virus, additato più volte dal presidente americano Donald Trump come «chinese virus». Il tycoon di New York, come dimostrano le sue uscite polemiche contro Pechino e contro l’Organizzazione mondiale della sanità, punta molto sul tema Covid-19 per vincere le presidenziali del 2020. La corsa alle nuove scoperte sul Covid-19, che passa anche per Israele, è quindi una battaglia fondamentale dello scontro tra Cina e Stati Uniti per l’egemonia del mondo postpandemico.

 

Immagine: Da sinistra, Mike Pompeo e Benjamin Netanyahu in conferenza stampa nella residenza del primo ministro israeliano a Gerusalemme (13 maggio 2020). Crediti: State Department Photo by Ron Przysucha [Public Domain], attraverso www.flickr.com

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Il futuro della Siria, tra alleati esterni e nemici interni

 

Il destino del presidente siriano Bashar al-Assad potrebbe essere influenzato da alcune importanti novità in ambito “familiare”, giudiziario e diplomatico. Le ultime settimane, infatti, sono state costellate da alcuni eventi significativi in grado di condizionare non solo il presidente in sé, ma l’intera struttura di potere che domina la Siria da mezzo secolo. Con la comunità internazionale impegnata a fronteggiare la pandemia di Covid-19, dunque, dietro le quinte si sviluppano dinamiche che potrebbero disegnare la Siria di domani.

Procediamo in ordine cronologico. Il 23 aprile scorso è iniziato il Germania il processo contro il colonnello Anwar Raslan, un ex alto funzionario siriano accusato di aver organizzato e ordinato la tortura di migliaia di prigionieri durante i primi mesi della sollevazione contro il regime, deflagrata nella primavera del 2011. Raslan ha lavorato per anni ai vertici dei servizi di intelligence siriani, finché non ha disertato alla fine del 2012. Arrestato a Berlino lo scorso febbraio, l’ex ufficiale è alla sbarra nella città tedesca di Coblenza, con l’accusa di crimini contro l’umanità. Si tratta di un arresto e di un processo basati sul principio di giurisdizione universale, che attribuisce a un tribunale nazionale la giurisdizione su gravi crimini contro il diritto internazionale, anche quando non sono stati commessi sul territorio del Paese. Come vedremo, si tratta di un precedente importante per il futuro del nizam, la parola araba con cui si indica – letteralmente – il “sistema” di potere nei Paesi arabi. Spesso tradotto con “regime” dai media italiani.

Giovedì 30 aprile Rami Makhlouf, cugino materno di Bashar al-Assad, ha rilasciato una rara dichiarazione pubblica rivolgendosi al presidente a proposito di un ordine di sequestro dei suoi beni. In un video su Facebook, il ricco uomo d’affari ha dichiarato di aver offerto denaro per «assistere le persone» durante il Ramadan, ma di aver ricevuto minacce contro le sue aziende da parte degli apparati di sicurezza del regime. «Dopo le notizie su una donazione che avevamo programmato di fare durante il mese sacro del Ramadan per aiutare il nostro popolo, le cose sono andate fuori controllo», ha affermato Makhlouf. «Ci hanno intimato di fermare il nostro lavoro – ha spiegato il tycoon siriano – semplicemente perché abbiamo osato offrire assistenza pubblica ai bisognosi. Perché più sovvenzioni offriamo, maggiore è la maledizione che riceviamo?». L’accusa su cui si basa l’azione “persecutoria” delle forze di sicurezza sugli asset economici di Makhlouf, è quella di frode fiscale. L’imprenditore, proprietario della società di comunicazioni Syriatel, ha spiegato in video che la sua azienda serve circa 11 milioni di utenti e paga 12 miliardi di sterline siriane (23,4 milioni di dollari) in tasse, oltre che il 50% dei suoi utili al regime.

Lunedì 4 maggio, è risalita invece agli onori della cronaca internazionale una di quelle indiscrezioni che, se confermate, possono cambiare l’assetto geopolitico della Siria, un Paese che a marzo è entrato nel suo decimo anno di guerra civile. Il Consiglio russo per gli affari internazionali (RIAC, Russian International Affairs Council) prevede che la Russia, la Turchia e l’Iran siano in procinto di raggiungere un’intesa sulla rimozione del presidente siriano Assad. L’accordo includerebbe anche un cessate il fuoco definitivo in cambio della formazione di un governo di transizione che includa membri dell’opposizione al regime e delle FDS. Si tratta delle Forze democratiche siriane, unità curdo-arabe dominate dalle YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione popolare) curde, che hanno avuto un ruolo essenziale nel contenere l’avanzata e nel ridimensionare i territori controllati dall’autoproclamato Stato islamico in Siria. A dare la notizia della possibile intesa tra Mosca, Ankara e Teheran per l’estromissione di Assad è il portale on-line Middle East Monitor (Memo), un sito in inglese con sede a Londra che si occupa in modo particolare del conflitto israelo-palestinese. Da molti osservatori internazionali, specialmente da giornalisti e autori dello Stato ebraico come l’editorialista Anshel Pfeffer, Memo è considerato «un’organizzazione anti-israeliana che spaccia teorie della cospirazione», ritenuto particolarmente vicino alle posizioni della Fratellanza musulmana. Si tratta, quindi, di una fonte parziale, con legami più o meno celati con l’islam politico sunnita. Ciononostante, la notizia di un possibile accordo per far fuori Assad, pattuito anche da suoi stretti alleati come Russia e Iran, offre comunque buoni spunti di riflessione sugli scenari aperti nel conflitto siriano.

Tornando al processo avviato in Germania a fine aprile, c’è da sottolineare che i pubblici ministeri tedeschi hanno messo sotto accusa non solo il colonnello Anwar Raslan, ma anche il suo sottoposto Eyad al-Gharib. Entrambi, consegnatisi spontaneamente alle autorità federali rispettivamente nel 2015 e nel 2018, hanno offerto testimonianze importanti sotto almeno tre punti di vista. Il primo è che, per ottenere asilo e protezione nel Paese europeo, Raslan e al-Gharib hanno dichiarato più o meno apertamente di essere nel mirino dei servizi di intelligence siriani. Il secondo è che, durante gli interrogatori, i due funzionari hanno ammesso quasi candidamente di aver perpetrato parte dei crimini di cui sono accusati. Al-Gharib, ad esempio, ha dichiarato in maniera solare di aver arrestato manifestanti durante le sollevazioni di piazza del 2011, di averli arrestati e portati nelle prigioni della sezione 251 di Damasco, una stazione dei servizi di intelligence siriana tristemente nota per analoghi episodi di violenza. Si parla di 4.000 casi di tortura, 58 decessi e 2 casi di stupro o violenza sessuale tra aprile 2011 e settembre 2012.

Il terzo elemento, quello forse più importante, è che il processo contro i due ex ufficiali siriani potrebbe avere importanti implicazioni a livello internazionale. Il Codice penale tedesco sui crimini contro il diritto internazionale, varato nel 2002, consente alle autorità della Germania di perseguire tutti coloro che commettono crimini contro l’umanità, anche se non hanno collegamenti diretti con la Repubblica federale. Secondo Anwar al-Bunni, avvocato per i diritti umani originario di Hama e impegnato da anni nel raccogliere le prove dei crimini di guerra commessi dal regime, il processo contro i due di Coblenza «è solo l’inizio della lunga strada verso la giustizia in Siria, al termine della quale potrebbe arrivare a processo lo stesso Assad». Parlando ai microfoni dell’emittente qatariota Al Jazeera, al Bunni spiega: «Abbiamo già presentato una causa contro di lui [Assad] al procuratore federale tedesco», sottolineando che «le prove raccolte durante il processo di Coblenza sosterranno il nostro caso contro Assad, mettendo l’intero regime siriano» di fronte alle sue responsabilità.

Dal punto di vista internazionale, in sede ONU, la questione dei crimini contro l’umanità commessi durante il conflitto siriano sembra essere ad un punto morto. Carla Del Ponte, già procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, denuncia da anni la «mancanza di volontà politica» per andare a fondo sulla questione dei crimini di guerra in Siria. Per sei anni Del Ponte ha fatto parte della Commissione d’inchiesta indipendente dell’ONU sulla Siria, i cui lavori si sono impantanati a causa dei veti incrociati di Russia e Cina presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel suo libro In nome delle vittime definisce l’esito dell’inchiesta sulla Siria «la più grande delusione della sua vita». Se e quando i processi di Raslan e al-Gharib arriveranno a sentenza definitiva, non è da escludere che la partita possa riaprirsi anche a livello internazionale, vedendo coinvolto tutto “il sistema” e anche il suo vertice. Ossia, il presidente Assad.

Tornando, invece, all’affaire Makhlouf-Assad, quella che potrebbe sembrare una semplice querelle familiare è invece una vicenda densa di peso e di significato se analizzata alla luce del contesto siriano. Come sottolinea Hassan Hassan, analista per Foreign Policy, The Atlantic e The Guardian, Makhlouf e altri personaggi simbolo del nepotismo di regime non appaiono mai in pubblico, o lo fanno raramente. Makhlouf invece alterna un tono mellifluo, quasi sofferente, a picchi di sfida e di durezza nei confronti del potente cugino. Come sottolinea un’analisi del Center For Global Policy (CGP), Makhlouf non è solo parente di Assad, ma anche membro di quello che si può considerare il “cerchio magico” che quest’ultimo ha creato dopo aver preso il potere nel 2000 dopo la morte del padre Hafez. Dal punto di vista finanziario, la famiglia Makhlouf ha svolto un ruolo chiave nel “sistema” siriano. Negli anni precedenti la rivolta del 2011, Makhlouf era diventato la figura più importante della nuova élite imprenditoriale siriana, accumulando una ricchezza che, secondo le stime meno prudenti, si staglia addirittura sul 70% dell’economia siriana. I suoi interessi, infatti, non sono legati solo al settore delle telecomunicazioni, ma anche a infrastrutture, turismo, edilizia e tanti altri comparti dell’economia siriana. La famiglia Makhlouf ha anche intessuto reti di influenza tra ufficiali alawiti, organizzazioni criminali, gruppi paramilitari e figure religiose. In altre parole, Rami Makhlouf è un vero e proprio pilastro del regime di Assad.

L’uscita polemica del tycoon va inquadrata nel clima di crescente disappunto da parte dei russi nei confronti di Assad, del quale il rapporto del RIAC è solo l’ultimo capitolo. Secondo quanto riferisce il RIAC, la Fondazione per la protezione dei valori nazionali, vicina ai servizi di sicurezza russi e all’ufficio del presidente Vladimir Putin, ha condotto un sondaggio di opinione in Siria sull’eventuale permanenza al potere di Assad. Un’operazione che, qualora effettivamente praticata, metterebbe chiaramente sul tavolo l’ipotesi di un futuro scenario politico senza l’attuale presidente. A fine aprile, inoltre, l’Agenzia federale di notizie russa, meno famosa della Tass ma ben ascoltata tra i decision makers di Mosca, denunciava che «la corruzione a Damasco è diventata un problema grave tanto quanto il terrorismo». Quella della corruzione è chiaramente una pezza d’appoggio per picconare l’azione politica di Assad, ritenuto dai russi troppo incline ai desiderata iraniani sul teatro siriano.

Infatti, nella rete diplomatica che regge le sorti del conflitto siriano esiste ormai da qualche anno una spaccatura tra quello che si può considerare il fronte “moderato” – formato da Russia e Turchia – e il fronte “oltranzista” formato da Iran, milizie filoiraniane come Hezbollah e, appunto, il presidente siriano Assad. I primi, avendo considerato l’impossibilità di sciogliere il nodo di Idlib – l’ultima zona della Siria in mano a ribelli filoturchi e milizie jihadiste – spingono per una soluzione politica, chiedendo sostanzialmente a Damasco di concedere qualche apertura politica alle opposizioni. Dall’altra parte, Teheran e il “sistema” siriano spingono per il ripristino dell’integrità territoriale pre-2011 e, soprattutto, per il mantenimento dello status quo a livello politico.

Secondo gli analisti del CGP, Rami Makhlouf è tra gli oppositori più decisi di qualsiasi apertura politica verso le opposizioni o, peggio ancora, verso un governo di transizione. Agli occhi dell’imprenditore, si tratta di una minaccia esistenziale al “sistema” di cui costituisce una chiave di volta, e dunque alla sua sopravvivenza politica e commerciale. Questo lo pone in contrasto con la prospettiva russa e in linea con i propositi di mantenimento della situazione auspicati da Assad e dai partner iraniani. Tuttavia, dietro l’escalation contro gli interessi di Makhlouf potrebbero celarsi nemici interni, incoraggiati dal contesto generale. Tra questi sembra esserci la moglie di Bashar, Asma, intenzionata – secondo i rumors – a impegnarsi in prima fila per la ricostruzione del Paese. L’intervento di membri così stretti della famiglia presidenziale nel tessuto economico locale è una pratica abbastanza diffusa nei “sistemi” del Medio Oriente e del Nord Africa. Basti pensare a Leila Ben Ali, moglie del defunto presidenze tunisino Zine al-Abidin Ben Ali, proprietaria o socia di una vera e propria fortuna finanziaria fino alla sollevazione locale del 2010.

È tuttavia difficile pensare che Asma abbia da sola la forza per schierarsi contro una potenza come Makhlouf. Probabilmente, sostengono alcuni osservatori internazionali, anche altri attori siriani provano disagio per la ricchezza e l’influenza esercitata di Makhlouf sul presidente Assad. Questi “dissidenti”, quindi, potrebbero aver colto la palla al balzo di fronte alle sempre maggiori indicazioni di impazienza da parte di Mosca, cercando di estromettere in qualche modo Makhlouf. «La cosa più preoccupante per l’imprenditore siriano – spiegano gli analisti Faysal Itani e Bassam Barabandi – è che le azioni legali da parte del governo siriano» nei confronti di Makhlouf «non possono essere avvenute senza l’approvazione di Assad». I guai di Makhlouf, quindi, dimostrano che il conflitto ha creato nuovi centri di potere e rinforzato l’influenza delle potenze straniere sulle dinamiche interne al Paese.

La sfida che il presidente siriano dovrà prepararsi a combattere nell’immediato futuro è quella di trovare una posizione bilanciata tra alleati esterni e partner interni, i cui interessi non sono sempre in armonia gli uni con gli altri. Da una parte l’Iran con la sua agenda egemonica dura e pura, dall’altra la Russia che sembra ormai non escludere l’idea di una Siria senza l’ingombrante presenza del suo attuale presidente. Su questa situazione aleggia lo spettro del Covid-19, con un bilancio – aggiornato al 5 maggio 2020 – di 44 contagi e 3 decessi nel Paese. Il tutto mentre la giustizia internazionale, sulla scorta del processo di Coblenza, potrebbe rimettersi improvvisamente in cammino.

 

Immagini: Condizioni educative dei bambini ad Azez, città siriana situata al confine tra Turchia e Siria. I bambini fanno lezione in tenda, con acqua e fango (25 febbraio 2019). Crediti: quetions123 / Shutterstock.com

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I destini interconnessi di Siria e Libia

 

Emergenze come la pandemia di Coronavirus creano connessioni tra gli Stati che risultavano impensabili in condizioni normali. Capita invece, in altre circostanze, che l’emergenza finisca per catalizzare interconnessioni già avviate prima che la crisi irrompesse nelle relazioni tra Paesi. È il caso di Siria e Libia, due tra gli scenari di instabilità regionale che, fino all’esplosione del Covid-19, erano in cima alle agende internazionali per la gestione dei conflitti. Dietro lo spesso sipario della diffusione del virus, che occupa pressoché totalmente lo spazio mediatico di queste settimane, i destini di Siria e Libia si sono fatti via via sempre più interconnessi, tanto che gli attori esterni coinvolti nei due conflitti si ritrovano a gestire entrambi i dossier sullo stesso tavolo.

 

Nel quadrante libico, la Turchia sostiene economicamente e militarmente il Governo di accordo nazionale (GNA) presieduto da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite. L’esecutivo di Tripoli, a partire dal mese di aprile 2019, è cinto d’assedio dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (LNA), guidato dal generale Khalifa Haftar e di stanza nella Cirenaica. Se il GNA vanta l’appoggio, oltre che della Turchia, di Qatar, Italia e – in linea di principio – della comunità internazionale, dalla parte di Haftar si schierano – più o meno apertamente – Arabia Saudita, Egitto, Francia, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Russia.

 

Lo scorso 21 febbraio, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha pubblicamente ammesso, per la prima volta, che Ankara sta impiegando in Libia gruppi di miliziani siriani impegnati fino a quel momento nel loro Paese d’origine nella guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad. Le affermazioni di Erdoğan hanno così confermato una serie di rumors circolati nei mesi precedenti sulla presenza in territorio libico di combattenti siriani filoturchi. D’altro canto – notizia passata abbastanza in sordina – il 23 marzo scorso il GNA ha accusato la compagnia aerea siriana Cham Wings di aver trasportato unità di mercenari – russi o forse legati al partito-milizia libanese Hezbollah ‒ nella città orientale di Bengasi, destinati a combattere al fianco delle forze di Haftar. In altri termini, parliamo di due flussi di personale militare che arrivano in Libia per combattere in schieramenti opposti. E giungono dalla Siria, dove le autorità di Damasco hanno confermato il quinto caso di contagio da Coronavirus. Come sottolinea un approfondimento di Agenzia Nova, il ministro dell’Interno del GNA, Fathi Bashagha ha detto che la presenza di mercenari siriani in Libia potrebbe «causare un disastro sanitario», dal momento che i combattenti potrebbero aver avuto stretti contatti con l’Iran, principale focolaio di Covid-19 in Medio Oriente. Ovviamente si riferiva a quelli inviati dal presidente siriano Assad, non ai ribelli filoturchi che per il GNA combattono.

 

Questi avvenimenti dimostrano ancora una volta che, quando si tratta di Medio Oriente e Nord Africa, si commette spesso l’errore si concentrarsi eccessivamente sul ruolo esercitato nei singoli scenari di crisi dalle grandi potenze globali come Russia, Stati Uniti e Cina. La verità è che, come tipico nei conflitti post-guerra fredda, sono gli attori regionali ad essere maggiormente coinvolti sia dal punto di vista diplomatico che da quello operativo. In Libia e in Siria, infatti, si gioca non tanto uno scontro di interessi tra Mosca, Washington, Pechino, (Parigi e Roma), quanto tra i Paesi dell’area. Da una parte della contesa c’è quello che si può definire il blocco turco-qatariota, che ha il proprio vettore politico nella Fratellanza musulmana (FM), un movimento fondato dall’egiziano Hassan al-Banna nel 1928 che promuove una visione di società e istituzioni in cui l’islam è una fonte essenziale del diritto. Dall’altra parte della disputa c’è l’asse – tutt’atro che monolitico – tra Arabia Saudita, EAU ed Egitto, Paesi che promuovono una visione di islam deferente verso l’ordine costituito. Per quanto concerne i principali contendenti libici, il GNA rientra chiaramente nella sfera d’influenza turco-qatariota ‒ tanto è vero che la FM ha avuto un ruolo da protagonista nella transizione politica post-Gheddafi –, mentre l’LNA di Haftar è considerato vicino all’asse “autoritario” di sauditi, emiratini ed egiziani. Infatti, nell’esercito di Bengasi – che a conti fatti è anch’esso un mosaico di milizie – figurano anche combattenti legati al movimento madkhalista, una realtà legata all’Arabia Saudita che promuove un islam radicale ma fedele al potere secolare (quello di Haftar in questo caso).

 

Occorre precisare, però, che il coinvolgimento diretto di questi Stati non implica automaticamente che altri attori esterni non abbiano interessi in campo, basti pensare all’Italia e alla Francia che in Libia si giocano una partita di capitale importanza per entrambi i Paesi.

 

Quanto alla Siria, gli schieramenti si fanno più complessi e rarefatti, ma occorre comunque delinearli per comprendere appieno le recenti novità. Quando nel 2011 deflagrò la rivolta contro il regime degli Assad, tutti gli attori della regione – a eccezione dell’Iran e dell’Hezbollah libanese – videro di buon grado una possibile estromissione del presidente siriano. La Turchia ebbe un ruolo determinante durante la svolta armata della rivolta, tanto che la nascita dell’Esercito siriano libero – formato inizialmente da disertori che appoggiavano la rivolta – fu annunciata proprio da un gruppo di esuli in Turchia a luglio 2011. Paesi del Golfo come il Qatar da una parte ed EAU e sauditi dall’altra (che pure stanno da parti opposte del conflitto intra-sunnita) iniziarono più tardi a finanziare gruppi ribelli anti-Assad islamicamente connotati come ad esempio Jaysh al-Islam. In altri termini, i Paesi sunniti erano tutti contro il regime di Damasco, ma con il volgere del conflitto a favore delle forze governative le monarchie del Golfo si sono rese conto della disfatta diplomatica e militare nella quale si erano invischiati, senza mai ammetterla pubblicamente.

 

Di fronte a questo smacco, e qui veniamo alle novità, sono riemerse gradualmente ma decisamente le spaccature del mondo sunnita e in particolare quelle tra l’asse turco-qatariota e il resto dei Paesi. Il presunto arrivo di militari dalla Siria in supporto di Haftar ha certamente tutta una serie di implicazioni dal punto di vista sanitario, ma si inserisce in un contesto diplomatico carico di nuovi scenari. L’agenzia ufficiale siriana Sana ha reso noto che il 3 marzo scorso il presidente siriano Assad ha ricevuto una delegazione del governo non riconosciuto libico – quello legato ad Haftar ‒  guidata dal vicepremier Abdul Rahman al-Ahiresh e dal ministro degli Esteri Abdul Hadi al-Hawaij. Il giorno precedente, il ministero siriano dell’Informazione ha fatto sapere che l’ambasciata di Libia a Damasco riaprirà prossimamente i battenti dopo 8 anni, diventando una sede diplomatica che farà riferimento alle istituzioni non riconosciute dell’LNA. Non solo. A metà marzo, il quotidiano di proprietà saudita Asharq al-Awsat ha addirittura rivelato che Haftar in persona ha visitato segretamente Damasco, seguito dal capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel, per coordinare le azioni comuni contro la Turchia. Lo scenario, dunque, è quello di una convergenza tra Haftar e Assad in funzione antiturca, considerato inoltre che Ankara appoggia i ribelli asserragliati nell’area di Idlib, l’ultima della Siria rimasta fuori dal controllo di Damasco.

 

A questo inedito contatto siro-libico potrebbe aver contribuito, e non poco, uno degli attori regionali più attivi dell’ultimo decennio: il rampante principe emiratino Mohammed Bin Zayed al-Nahyan (Mbz). Quest’ultimo, il 27 marzo, ha intrattenuto una conversazione telefonica con il presidente siriano Assad, nella quale ha assicurato che «gli Emirati Arabi Uniti sostengono il popolo siriano in queste difficili circostanze, la Siria non sarà lasciata da sola in queste condizioni critiche». Il riferimento, ovviamente, è alla pandemia di Coronavirus che sta lentamente prendendo piede anche in Siria. Ma la notizia assume particolare rilevanza dopo che, il 27 dicembre 2019, Abu Dhabi ha annunciato la riapertura della sua ambasciata a Damasco. Gli EAU sono stati il primo Paese a riaprire la propria sede diplomatica nella capitale siriana, seguiti dal Bahrein, e – a breve – dal governo non riconosciuto della Libia.

 

Non è da escludere, quindi, che i due leader abbiano discusso anche di Libia, un dossier in cui Mbz può aver facilmente giocato un ruolo di facilitatore nel mettere in contatto Bengasi e Damasco. D’altronde non è un caso che Abu Dhabi si sia guadagnata il ruolo di “piccola Sparta” del Medio Oriente. Sono gli emiratini, infatti, a fornire alle forze di Haftar i droni coi quali conducono raid contro obiettivi del GNA (così come fanno in Yemen nella guerra contro i ribelli Houthi appoggiati dall’Iran). E non è un caso che, come sottolinea un approfondimento del New York Times, «il più potente leader arabo è Mbz, non Mbs», dove Mbs indica il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman. L’attenzione internazionale, in effetti, dedica molto spazio al rampollo di casa Saud per la sua politica spregiudicata e per la durezza con cui mantiene il potere all’interno del Paese, ma a livello di politica estera gli EAU di Mbz hanno dimostrato un grado molto più alto di visione strategica e di assertività geopolitica.

 

Lo scenario, dunque, è quello di un mondo arabo in cui, all’ombra della pandemia di Coronavirus, si possono tessere trame politiche e diplomatiche ancora inesplorate, come quelle tra la Libia di Haftar e la Siria di Assad, con la mediazione di Abu Dhabi. La posta in palio, oltre all’egemonia regionale in funzione antiturca, è il business della ricostruzione postbellica in entrambi i Paesi. La Banca mondiale ritiene che in Siria, i soli danni fisici causati a case e infrastrutture in 9 anni di guerra valgano non meno di 197 miliardi di dollari, ma le stime più pessimistiche arrivano fino a 400. In Libia, stando ai dati del Centro studi Confindustria, le perdite dell’economia in termini di infrastrutture e capitale sono pari a circa 150-200 miliardi di euro. Gli EAU, al pari di altri attori esterni, hanno i capitali necessari per inserirsi anche in queste partite, ovviamente quando la guerra in Siria e Libia sarà finita e quando la pandemia di Covid-19 sarà solo un brutto ricordo.

 

Immagine: Mappa satellitare di Nord Africa e Medio Oriente. Crediti: Capitano Productions Eye / Shutterstock.com. (elementi di questa immagine forniti dalla NASA)

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Israele, una nuova conferma per Netanyahu

Poche novità considerevoli, ma soprattutto un’unica grande conferma dalle elezioni legislative celebrate in Israele lunedì 2 marzo 2020. I cittadini dello Stato ebraico sono andati alle urne per la terza volta nel giro di un anno, dopo che le tornate elettorali del 9 aprile e del 17 settembre 2019 non hanno dato un governo al Paese. Le novità sono rappresentate da piccole ma rilevanti oscillazioni del consenso tra i partiti minori, di destra, di centro e di sinistra. Mentre la grande conferma ha un nome ed un cognome ben precisi: Benjamin Netanyahu, che con il suo Likud ha vinto la competizione elettorale, superando di tre seggi lo sfidante Benny Gantz, del partito di centro Kahol Lavan, arrivato primo nella precedente tornata elettorale. In termini numerici, il Likud è passato dai 35 seggi del voto del 9 aprile 2019, ai 32 delle elezioni di settembre scorso fino ai 36 del 2 marzo. Forte dell’appoggio dei partiti religiosi (Shas, Giudaismo unito nella Torah e Yamina), la coalizione di destra si aggiudica così 58 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano. Solo due seggi dall’ottenere la maggioranza parlamentare necessaria per governare. Al contrario, la preferenza degli elettori verso la coalizione centrista Kahol Lavan è passata dai 35 seggi di marzo 2019 ai 33 di settembre fino ai 32 del 2 marzo. Degno di nota il fatto che l’affluenza è stata più alta rispetto a settembre: 71% a fronte del 69,83% dell’ultima tornata elettorale.

Il dato politico che emerge in maniera chiara è che Netanyahu, da molti dato in svantaggio anche a causa delle sue beghe giudiziarie, ha dimostrato tutta la sua capacità di ricostituire e rendere granitico il proprio consenso. «Netanyahu ha vinto la battaglia della vita». Con queste parole titolava martedì 3 marzo il quotidiano locale Israel Hayom, dedicando un’analisi elettorale alla partita giocata dal leader del Likud. Considerato che Bibi ha ricoperto per la prima volta la carica di primo ministro dello Stato ebraico nel 1996, e che negli ultimi appuntamenti elettorali era dato da molti osservatori come agonizzante, non c’è dubbio che il risultato ottenuto alle urne rappresenti per lui non solo una soddisfazione per il presente, ma anche una garanzia per il futuro. Un futuro da protagonista, nonostante l’incognita del processo che lo vedrà in tribunale già il 17 marzo prossimo.

Altro dato interessante è la flessione nei consensi di Kahol Lavan e del suo leader Benny Gantz. Ex capo di stato maggiore, presentatosi alle elezioni di un anno fa come homo novus della politica israeliana, Gantz era riuscito a proporre efficacemente un soggetto politico all’insegna del centrismo, dell’unità nazionale e della responsabilità. Un’offerta politica che, i numeri parlano chiaro, aveva convinto molti cittadini di Israele, cannibalizzando lo spazio politico dei partiti riformisti tradizionali come il Labour e Meretz. Tuttavia, quella di Kahol Lavan potrebbe rivelarsi una siringa monouso. C’è da chiedersi, infatti, se e quanto la spinta propulsiva della novità portata da Gantz nello spettro politico israeliano possa reggere di fronte ad una perdita di consensi come quella registrata nell’ultima tornata elettorale. Di fronte a sé, il “volto nuovo” della politica locale ha un avversario potente e smaliziato come Netanyahu, che adesso vanta anche una posizione di forza nei suoi confronti.

A metà strada tra le conferme e le novità si attesta il partito Yisrael Beiteinu, guidato dall’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman. Con i suoi sette seggi, il partito laico di destra farà nuovamente da ago della bilancia per la formazione dell’esecutivo. Mentre ancora veniva completato lo spoglio delle schede, Lieberman ha dichiarato che il suo partito «farà di tutto per evitare un’altra sessione elettorale». È difficile capire se il messaggio fosse rivolto a Netanyahu, dato che l’ex ministro della Difesa aveva di fatto rotto con la coalizione del Likud per le divergenze con i partiti ultraortodossi sullo svolgimento del servizio militare. Alle elezioni di settembre, poi, Yisrael Beiteinu aveva optato per la formula “sì con Likud ma senza Bibi”, aprendo la strada ad un governo di salute nazionale mai varato. La novità sta nel fatto che anche il partito di Lieberman ha registrato un esiguo ma interessante calo nei consensi. Si trattasse di un trend, e non di un isolato momento di flessione, questo significherebbe che Yisrael Beiteinu, al pari di Kahol Lavan, risulterebbe il partito con meno interesse ad una quarta tornata elettorale. Un elemento tale, forse, da sbloccare la formazione del governo.

Infine, ma non meno importante, si registra una crescita dei consensi della Lista comune, una coalizione politica formata da partiti che rappresentano gli arabo-israeliani. Forte del suo giovane e rampante leader, il quarantacinquenne Ayman Odeh, la Lista ha ottenuto 15 seggi, 2 in più rispetto alle precedenti elezioni. Questa formazione era nata nel 2019 dall’idea storica di formare governi di coalizione con partiti di sinistra, in modo da scongiurare l’ennesimo governo Netanyahu.  Al solido consenso raggiunto dalla Lista ha probabilmente contribuito anche “l’accordo del secolo” per la pace tra Israele e Palestina, reso noto a Washington nel mese di gennaio. Il piano statunitense, oltre ad aver dato un assist elettorale non trascurabile a Netanyahu, contiene anche un punto controverso che riguarda i cittadini arabi di Israele. Stando al “deal of the century”, infatti, il cosiddetto “triangolo arabo”, il territorio dello Stato ebraico dove la popolazione araba rappresenta la stragrande maggioranza dei residenti, andrebbe “ceduto” al futuro Stato di Palestina. Una disposizione che Odeh e gli arabi di Israele, che costituiscono un blocco elettorale notevole, non hanno visto di buon occhio. Non è da escludere, pertanto, che il piano di Donald Trump abbia favorito un ricompattamento del voto arabo, rendendo più alta anche l’affluenza. D’altro canto Odeh ha portato avanti una campagna elettorale ambiziosa, cercando consensi anche tra l’elettorato ebraico (ad esempio promettendo l’esenzione dal servizio militare agli ebrei ultraortodossi). Inoltre, qualora si formasse uno storico governo Likud-Kahol Lavan-Yisrael Beitenu (senza Bibi?), Odeh otterrebbe lo status di capo dell’opposizione. La legge israeliana prevede che questa figura, un ruolo abbastanza istituzionalizzato, abbia tra gli altri compiti quello di vigilare su alcuni dossier dei servizi di sicurezza e di intelligence. Un po’ come avviene in Italia con il Copasir, il cui presidente viene eletto tra i componenti appartenenti ai gruppi parlamentari dell’opposizione.

Gli scenari che si aprono a questo punto sono molteplici. Da una parte, la coalizione di destra guidata da Netanyahu non ha i numeri per governare, ma c’è da aspettarsi che il presidente della Repubblica Reuven Rivlin dia a Bibi il primo incarico esplorativo per cercare una maggioranza parlamentare. I media locali riferiscono che, dietro le quinte, il premier in carica e i suoi alleati stanno già facendo scouting tra le fila di Kahol Lavan per convincere due o tre parlamentari a passare dall’altra parte della barricata abbandonando Gantz. Quest’ultimo ha confermato che il suo partito sta lavorando per ottenere la maggioranza a sostegno di una legge che impedirebbe a un cittadino con pendenze penali, come Netanyahu, di svolgere la funzione di primo ministro. Il leader di Kahol Lavan aveva proposto una legge simile dopo le elezioni di settembre 2019, ma essa era stata affossata da Yisrael Beitenu, il partito di Lieberman. Fonti politiche hanno riferito al quotidiano The Times of Israel che questa volta Lieberman potrebbe supportare Gantz nell’impresa, sbarrando la strada a Netanyahu per via giudiziaria. Se questo significasse anche un’alleanza politica tra i due, un’eventuale coalizione tra Gantz (e alleati) e Lieberman e l’appoggio della Lista araba avrebbe i 62 seggi sufficienti per governare.

L’esito di questo confronto dipenderà dalla capacità di Lieberman e Gantz di tenersi stretti i peones corteggiati da Netanyahu in queste ore. Bibi, dal canto suo, continua a giocare la sua partita in attacco. Parlando agli alleati della destra, utilizzando la consueta lavagnetta, il premier in carica ha dichiarato di avere “la maggioranza sionista”. «Il campo nazionale sionista vanta 58 seggi – ha dichiarato Bibi – mentre il campo sionista di sinistra 47». Un numero che include Yisrael Beitenu, ma non la Lista di Odeh coi suoi 15 seggi, in quanto partito non sionista. «La Lista unita, che attacca i nostri soldati e si oppone allo Stato di Israele, non fa parte dell’equazione», ha precisato Netanyahu. Odeh ha risposto per le rime tramite un tweet, affermando che Bibi «non saprebbe cos’è la democrazia neanche se la democrazia gli impedisse di formare una coalizione per tre volte». Il riferimento al numero tre riguarda sia le elezioni legislative tenutesi in Israele nel giro di un anno, sia i capi di imputazione di cui è accusato il leader del Likud. Il “Caso 4000” vede il premier accusato di aver preso decisioni normative a beneficio di Shaul Elovitch, allora azionista di maggioranza del gruppo di telecomunicazioni Bezeq, in cambio di una copertura favorevole sul sito di notizie Walla. Nel "Caso 1000" l’accusa sostiene che Netanyahu e sua moglie avrebbero illecitamente ricevuto doni (champagne e sigari) da Arnon Milchan, un produttore di Hollywood, e dall’imprenditore miliardario James Packer. Infine, nel “Caso 2000” Netanyahu risponde all’accusa di aver cercato di negoziare un accordo con Arnon Mozes, proprietario del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, per una migliore copertura mediatica in cambio di una riforma di legge che avrebbe ostacolato la crescita del quotidiano concorrente Israel Hayom. Sarà dunque la storia dei prossimi giorni e dei prossimi mesi a dire se la lunga, controversa e densa esperienza politica di Bibi si chiuderà in Parlamento o in tribunale.

 

Immagine: Benjamin Netanyahu, Tel Aviv, Israele (14 agosto 2019). Crediti: Roman Yanushevsky / Shutterstock.com

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Cosa prevede il piano di pace americano per il Medio Oriente

«I palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione». Recita così un adagio, attribuito al diplomatico israeliano Abba Eban, che molti osservatori hanno prontamente rispolverato dopo che il presidente statunitense, Donald Trump, ha annunciato a Washington i dettagli politico-diplomatici di quello che è stato definito «l’accordo del secolo». Si tratta del piano, messo a punto dall’amministrazione di Washington, per mettere pace tra israeliani e palestinesi. Di fronte all’inquilino della Casa Bianca, in occasione dell’annuncio, erano presenti il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, e rappresentanti di Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, dove a giugno 2019 sono stati presentati gli aspetti economici del ‘deal of the century’.

Nel rendere noto il piano, che in 180 pagine illustra i vari punti della proposta americana, Trump ha sottolineato quanto il progetto sia «vantaggioso sia per Israele che per i palestinesi», dicendosi persuaso che questi ultimi avrebbero accettato. Convinzione evidentemente mal riposta, dato che i vertici palestinesi hanno respinto l’offerta al mittente ‒ almeno a livello verbale – appena dopo l’annuncio di Trump. L’Autorità nazionale palestinese (ANP) e il partito-milizia Hamas – che controlla la Striscia di Gaza ‒ hanno serrato i ranghi nel bocciare l’accordo. In particolare per alcuni aspetti in esso contenuti.

La considerazione fondamentale da cui partire è che non si tratta di un accordo, dato che si configura come un’iniziativa a guida USA elaborata di concerto con una sola delle parti in conflitto, ossia Israele, tanto più che il testo sembra decisamente più ispirato a linee di politica interna statunitense e israeliana che non a una visione lungimirante sul futuro del Medio Oriente. Da un lato Trump desidera rivendicare un successo diplomatico che nessuno dei suoi predecessori – eccetto forse Bill Clinton – ha potuto vantare di fronte all’elettorato americano. Dall’altro, come rileva un editoriale del New York Times, il piano trumpiano per la pace rappresenta un assist elettorale non trascurabile per Benjamin Netanyahu, ancora in corsa per le elezioni israeliane in programma per il 2 marzo prossimo, sebbene invischiato nel processo per corruzione che pende sulla sua testa.

I punti destinati a far inverare il motto di Eban sono molteplici e percorrono praticamente tutto il testo dell’accordo, pubblicato dalla Casa Bianca. Il primo aspetto riguarda la normalizzazione ufficiale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, illegali secondo il diritto internazionale. Il piano, come chiarito da Trump di fronte alle telecamere, prevede che «nessun israeliano o palestinese abbandoni la propria casa». Tradotto in termini pratici, questo significa che gli insediamenti – tema molto caro al movimento dei coloni israeliano – vengono riconosciuti a tutti gli effetti come parte della sovranità dello Stato ebraico. Lo stesso vale per la valle del Giordano, inglobata tout court tra le terre di Israele. Sia Bibi Netanyahu che il suo sfidante Benny Gantz (del partito Kahol Lavan), in campagna elettorale hanno promesso di annettere quest’area qualora eletti. Con il sistema di checkpoint e arterie di collegamento già ampiamente collaudato, l’assetto dei territori palestinesi in Cisgiordania si riduce ufficialmente a quello che la studiosa Olga Solombrino, dell’Università di Napoli L’Orientale, definisce nel suo libro omonimo  «Arcipelago Palestina». Una serie, cioè, di piccole enclave che a macchia di leopardo sono separate da vie di comunicazione e infrastrutture controllate da Israele. Il problema della discontinuità territoriale tra Cisgiordania e Gaza viene  invece “risolto” con la creazione di un tunnel sotterraneo destinato ad attraversare i territori di Israele. Nelle indiscrezioni precedenti l’annuncio ufficiale si parlava invece di un’autostrada sopraelevata, destinata a correre a 30 metri dal suolo israeliano.

Questa infrastruttura dovrebbe essere uno dei punti del piano relativi allo sviluppo economico del futuro Stato palestinese. Questa sezione del documento si pone l’obiettivo di consentire «al popolo palestinese di costruire una società prospera e vibrante». Si parla di 50 miliardi di dollari in nuovi investimenti da realizzarsi in 10 anni, impiegandoli in infrastrutture, sanità e istruzione sia in Cisgiordania che a Gaza. Questo capitale andrà «raccolto attraverso uno sforzo internazionale» non meglio specificato e «inserito in un nuovo fondo amministrato da una banca multilaterale di sviluppo». Sembra chiaro che per “multilaterale”, si intende un organismo finanziario non controllato interamente dai palestinesi.

L’accordo prevede anche che il futuro Stato di Palestina sia dotato di istituzioni finanziarie indipendenti e trasparenti, in grado di sostenere linee di credito e di impegnarsi in operazioni di mercato internazionale allo stesso livello degli omologhi sistemi occidentali.

Per quanto concerne altri aspetti geografici, il testo precisa che «Israele manterrà la sovranità sulle acque territoriali» definite vitali per la sicurezza e la stabilità della regione. Questo implica la conferma dello status quo anche per quello che concerne il mare che bagna la Striscia di Gaza, controllato de facto dallo Stato ebraico. Non solo. Anche lo spazio aereo, compreso quello che sovrasta la Cisgiordania, resterà sotto il controllo israeliano. «La distanza tra il fiume Giordano e il Mediterraneo – si legge nel testo ‒ è approssimativamente di 40 miglia. Un moderno aereo da combattimento può coprire quella distanza in meno di tre minuti». Pertanto «se lo Stato di Israele non mantenesse il controllo dello spazio aereo della Cisgiordania, non avrebbe tempo sufficiente per difendersi da velivoli o missili ostili in arrivo».

Nonostante i ridimensionamenti sinora descritti, nel corso del suo annuncio a Washington Trump ha sottolineato con particolare enfasi il fatto che i palestinesi si ritroverebbero con «il doppio dei territori» rispetto ad ora. Il riferimento è a due snodi periurbani a ridosso del confine israelo-egiziano, ben illustrati dalla mappa pubblicata in tre lingue – inglese, arabo ed ebraico – dal profilo Twitter del tycoon di Washington. A questi territori va aggiunto il cosiddetto “triangolo arabo”, composto dalle località di Kafr Qara, Ar’ara, Baha al-Gharbiyye, Umm al Fahm, Qalansawe, Tayibe, Kafr, Qasim, Tira, Kafr Bara and Jaljulia. Queste cittadine, parte di Israele dal 1948, costituiscono il territorio dello Stato ebraico dove la popolazione araba rappresenta la stragrande maggioranza dei residenti. Questi cittadini, che in Israele hanno diritto all’elettorato attivo e passivo, vengono potenzialmente “ceduti” al nuovo Stato palestinese. Quello che sembrerebbe un naturale “ritorno” ad una patria palestinese, in realtà potrebbe configurarsi come la liquidazione parziale di un blocco elettorale ‒ quello arabo-israeliano – tradizionalmente ostile a Netanyahu e al Likud (di cui Bibi è il leader politico).

Uno dei punti più controversi del piano, e sul quale il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas è stato categorico, riguarda lo status di Gerusalemme e dei suoi luoghi sacri. «La libertà di accesso a tutti i siti religiosi di tutte le fedi in entrambi gli Stati dovrebbe essere concordata e rispettata dalle parti». È quanto si legge nel testo della proposta statunitense. Il piano parla di «tutti i siti», aperti a «tutte le fedi». Questo elemento, applicato al caso di Gerusalemme, potrebbe avere implicazioni importanti. Come sottolinea un approfondimento a cura di Agenzia Nova, la città è definita «tre volte santa», in quanto sede di luoghi considerati sacri da cristiani, ebrei e musulmani. Migliaia di persone di fede ebraica si riuniscono per pregare di fronte al muro occidentale, detto erroneamente “muro del pianto”, che delimita il terrapieno sul quale insiste la spianata delle moschee. La moschea di al-Aqsa e la Cupola della roccia, che dominano la spianata, rappresentano il terzo luogo più sacro dell’islam dopo La Mecca e Medina. Stabilire il libero accesso a quest’area anche per i cristiani e, soprattutto, per gli ebrei significa creare potenziali fonti di scontro e conflitto. Basti pensare che il 28 settembre del 2000, l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon, salì sulla spianata accompagnato da una scorta armata, a simboleggiare la piena sovranità israeliana su quel luogo. Il gesto di Sharon scatenò una serie di reazioni da entrambe le parti in conflitto, dando inizio a quella che fu la seconda intifada. Provocazioni simili si sono viste anche negli anni successivi, lasciando la città sempre in bilico tra una fase di violenza e l’altra.

Il piano, inoltre, ribadisce il riconoscimento di Gerusalemme come «capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele», sulla scia di quanto già stabilito con lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv alla “città tre volte santa” nel 2017. Ai palestinesi, stando al “piano del secolo”, resterebbe la cosiddetta “Gerusalemme Est”, oltre il muro di separazione, con le località di Kafr Aqab, la parte orientale di Shuafat e Abu Dis. Questo surrogato di capitale, suggerisce l’accordo, «potrebbe essere chiamato al-Quds o con altro nome stabilito dai palestinesi».  Chiamare al-Quds – in arabo “la santa” – qualcosa di diverso dalla Gerusalemme storica, casa dei luoghi sacri dell’islam, è un’opzione imponderabile per i palestinesi e per gran parte del mondo arabo-islamico.

Altra parte nebulosa dell’accordo è quella che riguarda la gestione dei rifugiati palestinesi all’estero, molti dei quali si trovano in Siria, Libano, Giordania e Paesi del Golfo. La risoluzione 194 delle Nazioni Unite, ratificata nel 1948 dal Consiglio di sicurezza ONU, ne sancisce il diritto al ritorno nei territori che oggi fanno parte di Israele. Per questo motivo quasi metà dei rifugiati palestinesi è attualmente apolide. Il piano di Trump prevede tre possibilità per affrontare questo dossier. La prima è l’assorbimento dei rifugiati, cioè l’acquisizione della cittadinanza, in quello che dovrebbe essere il nuovo Stato di Palestina. La seconda è che acquisiscano la cittadinanza negli attuali Paesi ospitanti, a condizione che questi diano il proprio consenso. La terza opzione fa riferimento ad un meccanismo di accettazione di 5.000 rifugiati ogni anno, per un massimo di 10 anni (50.000 rifugiati in totale), da parte dei Paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (OIC). A condizione, anche in questo caso, che tali Paesi diano il proprio consenso sulla base di accordi bilaterali con il futuro Stato di Palestina, dal momento che la risoluzione 194 delle Nazioni Unite ne sancisce il diritto al ritorno nei territori che oggi fanno parte di Israele. Le esigenze dei vari attori da mettere d’accordo, più una sostanziale richiesta di rinuncia al retaggio nazionale palestinese, rendono assai complessa la realizzazione di questa parte del piano.

Come avvenuto dopo il riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele, l’annuncio di Trump è stato bersaglio di un’ondata di condanne da parte di Turchia, Iran, Giordania e dal partito-milizia libanese Hezbollah. Si sono mostrati possibilisti, invece, Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Unione Europea. Ma si tratta di un rituale ormai collaudato, difficilmente destinato a dar luogo a risvolti pratici sul piano politico e diplomatico. Nella seconda metà del XX secolo, quella israelo-palestinese è stata la questione per eccellenza. Oggi, con vicini ingombranti come la Siria, lo Yemen e l’Egitto diviso tra crisi libica e terrorismo nel Sinai, il dossier scivola in fondo alle agende internazionali. Lo sa bene Trump, consapevole anche del fatto che i palestinesi non accetteranno mai il piano, anche se hanno 4 anni di tempo per decidere. Il presidente USA si accontenta della photo-opportunity, dello spot elettorale, e dell’“instabilità controllata” che ormai in Medio Oriente rappresenta il normale ordine delle cose. Se il piano è quello sinora descritto non c’è da meravigliarsi che la profezia di Eban, i palestinesi non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione, debba necessariamente avverarsi. Le “opportunità” per i palestinesi, infatti, sembrano fin troppo risicate rispetto ai costi da sostenere.

 

Immagine: Da sinistra, Donald Trump e Benjamin Netanyahu (2 ottobre 2017). Crediti: The White House from Washington, DC [Public Domain Mark 1.0], attraverso flickr.com

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L’uccisione di Qasem Soleimani: il contesto e gli scenari possibili

Il “martire vivente”. Era con queste parole che spesso Ali Khamenei, ottantenne Guida suprema della rivoluzione iraniana, si riferiva a Qasem Soleimani, il generale iraniano ucciso in un attacco aereo statunitense a Baghdad la notte tra il 2 e il 3 gennaio 2020. Dal 1998 Soleimani era il comandante della Forza Quds, un’unità speciale delle guardie della rivoluzione islamica (pasdaran), responsabile delle operazioni militari all’estero. Nato nel 1957 a Kerman, nell’Est del Paese, Soleimani è stato l’uomo che ‒ spesso dall’ombra – ha costruito pezzo per pezzo un’egemonia territoriale di cui l’Iran non godeva, probabilmente, dai tempi della dinastia safavide. L’epiteto coniato per lui da Khamenei, il “martire vivente”, sembrava preconizzare che Soleimani sarebbe morto di morte violenta, abbattuto dai nemici. Allo stesso modo, e più realisticamente, la possibilità che venisse eliminato proprio in questi giorni, in un contesto fluido e delicato come quello iracheno, non era affatto da escludere.

Il Paese dei due fiumi, infatti, dal mese di ottobre 2019 è testimone di un’imponente ondata di manifestazioni contro il carovita, la corruzione e, in maniera non secondaria, contro l’ingerenza iraniana negli affari interni iracheni. Il premier Adel Abdul Mahdi, piuttosto vicino agli interessi di Teheran nell’area, è stato costretto alle dimissioni sotto la spinta delle piazze e su pressione di importanti figure politiche irachene. Tra essi spiccano Moqtada al-Sadr, capo della milizia Esercito del Mahdi, nonché leader più suffragato durante l’ultima tornata elettorale, e l’ayatollah iracheno Ali al-Sistani, fondatore de facto delle Unità di mobilitazione popolare (PMU, Popular Mobilization Units), ritenute il braccio operativo di Teheran in Iraq. Le manifestazioni sono diventate ben presto oggetto di una repressione chirurgica e brutale da parte degli apparati di sicurezza, ma anche di forze armate non istituzionali che prendono di mira i militari stessi. Il passo indietro di Abdul Mahdi, ancora oggi in carica sebbene dimissionario da fine novembre 2019, non è bastato tuttavia a calmare le piazze, esasperate dall’instabilità che dal 2003 avvolge il Paese.  

È in questo contesto che si inserisce la spirale di violenza culminata con la morte di Soleimani per mano americana. Il 27 dicembre, infatti, una base militare statunitense nella zona di Kirkuk, nel Nord dell’Iraq, è stata attaccata da uomini in armi. L’assalto ha provocato la morte di un appaltatore della difesa statunitense (contractor) e il ferimento di altri quattro militari. Il 30 dicembre, per tutta risposta, le forze statunitensi hanno eseguito un raid contro posizioni delle brigate hezbollah (anch’esse filoiraniane) nel Nord-Ovest del Paese, provocando la morte di venticinque miliziani. Le cose sono sembrate precipitare il 31 dicembre, quando una folla composta da migliaia di civili, riuniti per il funerale dei combattenti caduti, è penetrata nel perimetro dell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad, nel cuore della cosiddetta “Green zone” della capitale. Immagini condivise sui social network dai manifestanti stessi li ritraggono mentre chiedono agli americani di andar via dal Paese, inneggiando all’Iran e all’uomo simbolo di Teheran dentro e fuori dalla patria, il generale Qasem Soleimani. Sui muri della guardiola presa d’assalto dai dimostranti compaiono scritte eloquenti che recitano: “Soleimani è il mio comandante”.

È stata questa, probabilmente, la scintilla che ha dato il via all’azione di Washington contro il numero uno di Teheran fuori dai confini iraniani. D’altronde i movimenti di Soleimani in Iraq erano noti da tempo e le occasioni per colpirlo di certo non erano mancate, tanto che già ad ottobre il comandante della Forza Quds era sfuggito ad un complotto volto ad assassinarlo. Vista dagli apparati di Washington, inoltre, l’eliminazione del generale rientra nelle normali azioni volte a colpire esponenti di organizzazioni terroristiche dato che i pasdaran – a partire dall’aprile 2019 – sono inseriti nella lista stilata dal Dipartimento di Stato americano. Nell’attacco, assieme a Soleimani, ha perso la vita anche Abu Mahdi al-Mohandes, vicecomandante delle PMU sostenute dall’Iran e inglobate nell’esercito iracheno. Una morte sicuramente meno ripresa a livello mediatico, ma non per questo meno rilevante dal punto di vista politico-militare.

È operazione assai complessa descrivere quello che la morte di Soleimani significa non solo per gli equilibri geopolitici dell’area, ma anche a livello simbolico e di sentimento popolare. Il comandante della Forza Quds, infatti, era un leader magnetico e carismatico, cui una grossa fetta del mondo sciita (e non solo) guardava con ammirazione e rispetto. Risulta altrettanto complesso, ma non del tutto impossibile, valutare invece i possibili scenari aperti dalla morte del generale iraniano.

A differenza di altre prove muscolari simili intraprese in passato da Washington, in questo caso sembra che l’amministrazione Trump abbia lavorato di concerto con Pentagono, agenzie e apparati del cosiddetto deep state americano. Spesso costretti, negli ultimi anni, a ridimensionare dichiarazioni e prese di posizione talvolta sopra le righe da parte del tycoon di New York. È probabile che questa inedita unanimità di intenti si debba ad un forte risentimento da parte degli ambienti militari statunitensi verso Soleimani. Un risentimento che rientra financo nell’ambito personale. Il comandante iraniano, come già detto, ha fatto di pragmatismo e spregiudicatezza l’arma che ha ritagliato all’Iran spazi egemonici in Siria, Yemen e Iraq che risultavano inimmaginabili fino a un decennio fa. Oltre a dare un contributo essenziale per mantenere in sella il regime di Bashar al-Assad e a contenere l’espansione dello Stato islamico nell’area.

A questo si deve aggiungere che probabilmente a Washington è stata fatta un’analisi dei costi e dei benefici abbastanza solida e collegiale. L’Iran risponderà senza dubbio in maniera veemente all’uccisione del secondo uomo più importante del Paese, ma al netto di sensazionalismi e pronostici azzardati, Teheran conosce perfettamente i rischi di uno scontro aperto con Washington e alleati regionali, Israele e Sauditi in testa. D’altronde l’affermazione nell’area di Hezbollah, pasdaran e altre forze in qualche modo legate all’Iran è stata possibile proprio sposando la logica della guerra asimmetrica, del conflitto in piccolo e in casa d’altri, non del confronto aperto con attori più potenti e meglio armati.

È probabile, quindi, che la Repubblica islamica si limiterà a una rappresaglia limitata, ad esempio attraverso attentati mirati contro importanti personalità militari statunitensi nel Golfo e nel resto della regione. Non è da escludere il verificarsi di sequestri a danno delle navi che transitano nello Stretto di Hormuz, un collo di bottiglia attraverso il quale passa il 20% del petrolio commercializzato a livello mondiale. Se però Soleimani era un simbolo, una risposta altrettanto simbolica alla sua morte potrebbe accontentare il sentimento popolare, specialmente se accompagnata dalla giusta dose di propaganda antiamericana e, en passant, antisraeliana. Come spesso accade sui tavoli della geopolitica, in questo tipo di calcolo resta ovviamente escluso il costo in termini di vite umane civili e di sofferenze per popolazioni già martoriate come quelle di Iraq e Iran.

Per quello che concerne le conseguenze ‒ e le motivazioni ‒ di matrice elettorale, occorre focalizzare l’attenzione certamente sul lato americano, dato che nel 2020 si terranno le presidenziali, ma anche su quello iraniano. In maniera fin troppo semplicistica, infatti, molti osservatori hanno interpretato l’uccisione di Soleimani come l’affondo di Trump per ottenere di nuovo le chiavi della Casa Bianca. Al netto del fatto che l’eliminazione di Soleimani, per quanto personalità di spicco, probabilmente non avrà lo stesso impatto mediatico che ebbero sull’opinione pubblica d’Oltreoceano la morte di Osama Bin Laden e Abu Bakr al-Baghdadi, è sulle elezioni iraniane che potrebbero vedersi effetti altrettanto importanti. A febbraio, infatti, i cittadini della Repubblica islamica torneranno al voto per rinnovare il Parlamento. Poiché i negoziati sul nucleare languono penosamente nonostante i contatti diplomatici siano costanti (anche grazie alla mediazione giapponese), i moderati di Hassan Rohani potrebbero trovarsi in seria difficoltà. Pur in un contesto di malcontento diffuso per la situazione economica del Paese – svalutazione, caro benzina, sanzioni – la storia dimostra che quando la Repubblica islamica subisce attacchi dall’esterno, il suo popolo tende a fare quadrato attorno alle frange politiche più conservatrici e oltranziste. A partire da quelle élites economico-militari che gravitano attorno ai pasdaran, le stesse che Washington cercherebbe in teoria di estromettere e strozzare con sanzioni ed embargo. Non è da escludere, dunque, che paradossalmente i falchi di Teheran possano trarre beneficio dagli ultimi avvenimenti, istallandosi al potere proprio sull’onda emotiva innescata dalla morte del “martire vivente” Qasem Soleimani.

 

Immagine: Qasem Soleimani (secondo da destra) in un manifesto durante una sfilata militare della Forza Quds, Teheran, Iran (31 maggio 2019). Crediti: saeediex / Shutterstock.com

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Le proteste in Iraq e Libano scuotono gli equilibri geopolitici regionali

Le proteste in Iraq e Libano potrebbero ottenere risultati che la strategia trumpiana della “massima pressione” sull’Iran non è stata in grado di raggiungere. Così titola un’analisi del Washington Post, a firma Ishaan Tharoor, in cui si sottolinea come le imponenti manifestazioni di piazza iniziate a ottobre 2019 nei due Paesi arabi potrebbero far perdere a Teheran parte dell’influenza che con fatica ha cercato di costruirsi in Medio Oriente. Nonostante, infatti, la Repubblica islamica abbia messo in campo sforzi ciclopici ‒ in campo militare e non solo – per tutelare i propri interessi egemonici in teatri di crisi come la Siria e lo Yemen, in questo momento rischia di perdere mordente in due Paesi, Libano e Iraq, che finora Teheran riteneva “sicuri”.

L’ideologia portante dei “falchi” di Washington vuole che l’accordo con l’Iran, da cui gli States sono unilateralmente usciti nel 2018, non stesse funzionando non tanto perché Teheran non mantenesse i propri impegni sul nucleare in sé, quanto piuttosto perché l’accordo sul potenziale atomico iraniano sembrava aver dato implicitamente luce verde a Teheran affinché desse prova di una rinnovata assertività regionale con “mezzi convenzionali”. Obiettivo, non raggiunto, della “massima pressione” era quindi quello di ridimensionare le mire regionali di Teheran. Cosa che invece le proteste in Libano e Iraq potrebbero effettivamente realizzare.

Il Paese dei cedri sta assistendo a una massiccia ondata di proteste da quando, il 17 ottobre, il governo locale ha annunciato l’introduzione di una tassa sulle telecomunicazioni, in particolare su WhatsApp, per tentare di rimpinguare le esangui casse dello Stato. Con un debito pubblico pari al 150% del PIL, il salario medio al di sotto dei 300 dollari al mese e la ricchezza del Paese detenuta per un quarto dall’1% della popolazione, il Libano sembrava aver unicamente bisogno della proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. Il ritiro della “WhatsApp tax”, tuttavia, non è bastato a calmare i manifestanti, che infatti hanno continuato a presidiare le strade chiedendo alla classe politica tutta di fare un passo indietro a favore di un governo di tecnici, prima di tornare alle urne. Il primo ministro Saad Hariri si è dimesso lo scorso 29 ottobre ed ora si attendono le mosse del presidente della Repubblica, Michel Aoun, per la formazione del nuovo esecutivo.

Diversamente sono andate le cose in Iraq, dove in un mese di protesta e repressione, stando ai dati forniti dall’Alta Commissione indipendente irachena per i diritti umani, oltre 300 persone hanno perso la vita e 15.000 sono rimaste ferite. Disoccupazione, corruzione e mancanza di servizi sono alla base delle rivendicazioni delle piazze di Baghdad e altri capoluoghi dell’Iraq meridionale – a maggioranza sciita ‒ come Bassora. Blocchi stradali, chiusure di ponti strategici e interruzione dei servizi nel porto di Umm Qasr non hanno fermato i manifestanti, che ancora attendono risposte concrete dal governo di Adel Abdul-Mahdi.

Al netto delle marcate differenze tra i due Paesi – superficie, tipo di economia, composizione demografica, impalcatura istituzionale – non mancano talune affinità tra le sollevazioni di piazza irachene e libanesi delle ultime settimane. In entrambi i casi, infatti, il malcontento popolare si basa su rivendicazioni di stampo economico, ma la protesta assume connotati chiaramente politici. Sembra che, agli occhi dei cittadini di Iraq e Libano, il miglioramento delle loro condizioni economiche non possa prescindere dal rinnovamento dell’intera classe politica che ha governato i due Paesi almeno nell’ultima decade.

La politica interna di Libano e Iraq, però, è difficilmente analizzabile senza focalizzare il rapporto che Beirut e Baghdad intrattengono con la Repubblica islamica d’Iran,  guida e nume tutelare di partiti e movimenti sciiti in tutta la regione.  Agli osservatori più attenti, in questo senso, non è sfuggito il fatto che in Libano i manifestanti sono scesi in piazza non solo a Beirut, ma anche in località come Nabatiye e Baalbek, considerate storicamente roccaforti del partito-milizia sciita Hezbollah, la longa manus dell’Iran nel Paese dei cedri (e in Siria). Se il governo di Hariri, sostenuto da Hezbollah, è il simbolo della corruzione, abbatterlo senza rivedere complessivamente la scena politica libanese – di cui Hezbollah è attore protagonista – risulta assolutamente insufficiente. Per quanto, dunque, il “Partito di Dio” abbia tentato in un primo momento di minimizzare le proteste – e poi di infiltrarle e reprimerle assieme agli alleati sciiti di Amal – le piazze gridano anche contro di lui e quindi, indirettamente, contro l’Iran.

Questo grido si fa chiaramente più nitido in Iraq, dove lo slogan «Iran barra!» – «Iran fuori!»  è diventato il simbolo di proteste che, oltre che sul carovita e sulle condizioni finanziarie, puntano il dito contro le ingerenze di Teheran negli affari iracheni. Con l’influenza politica, l’infiltrazione economica e l’azione di gruppi paramilitari come le Unità di mobilitazione popolare (PMU, Popular Mobilization Units), Teheran tiene i piedi ben piantati nel Paese dei due fiumi, l’unico lembo di terra che separa fisicamente l’Iran dal suo nemico giurato nell’area, il regno dell’Arabia Saudita.

Un ridimensionamento del ruolo di Teheran e delle sue forze proxy sia in Iraq che in Libano è quanto di più auspicabile ci possa essere per gli Stati Uniti, che pertanto non hanno tardato a fare un passo avanti. Il 9 novembre, infatti, il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha dichiarato che gli Stati Uniti «devono aiutare i popoli di Iraq e Libano a sbarazzarsi dell’influenza dell’Iran». Ma non si è fatta attendere neanche la replica di Samir Geagea, capo del movimento cristiano maronita delle Forze libanesi. «Grazie mille Pompeo – ha scritto Geagea su Twitter ‒ ma il popolo libanese non ha bisogno di aiuto per uscire dalla crisi economica e sociale».

Al netto della replica piccata del politico libanese, sembra comunque chiaro che a Washington vedono di buon occhio le manifestazioni libanesi se queste possono fungere da grimaldello contro Iran ed Hezbollah. E lo stesso vale per le piazze irachene. Un “passo indietro” di Teheran da due Paesi così importanti significherebbe per gli Usa la possibilità di rassicurare gli alleati regionali. Da una parte i sauditi, che con l’Iran finora hanno de facto perso le partite in Yemen e Siria, dall’altra Israele, che vede in Teheran e nei suoi vettori di politica regionale – Hezbollah e Pasdaran – minacce esistenziali. Con il ritiro americano dalla Siria nordorientale, che ha dato il via libera all’operazione turca “Fonte di pace” a danno delle Unità di protezione popolare (YPG, Yekîneyên Parastina Gel) curde  ‒ ex alleate di Washington ‒ da Riyad e Tel Aviv non possono che levarsi assillanti preoccupazioni sull’affidabilità statunitense. Sebbene la partnership tra USA e Curdi fosse tattica, mentre quella con Israele e Arabia Saudita è strategica, una “deiranizzazione” di Iraq e Libano darebbe a sauditi e israeliani vantaggi e garanzie di stabilità non indifferenti.

Quale che sia il futuro scenario di un Medio Oriente “meno iraniano”, sta di fatto che un Libano e un Iraq svincolati da Teheran sarebbero davvero quel risultato che l’amministrazione Trump non è riuscita a raggiungere in quasi tre anni di sanzioni, bluff, incontri a sorpresa e alterchi a sfondo nucleare con la Repubblica islamica. All’Iran, questo è certo, non bastano pragmatismo, assertività e profondità strategica per conservare la tanto agognata egemonia regionale. Servono anche i mezzi, specialmente economici. Quegli stessi mezzi che invece, ironia della sorte, i sauditi hanno in abbondanza senza però saperli far fruttare in maniera strategica.

Tuttavia, nelle piazze di Baghdad, Karbala, Tripoli, Beirut e altre località non sono in gioco solo equilibri geopolitici, ma anche vere e proprie mutazioni del contratto sociale. Similmente a quanto accaduto nel 2011 con le Primavere arabe, i cui slogan non a caso sono riecheggiati anche in Libano e Iraq negli ultimi mesi, gli arabi manifestano contro i regimi corrotti e clientelari che li governano, e che spesso usano il mantra della “stabilità” per legittimare la repressione agli occhi dell’Occidente. Ma ci sono due importanti differenze con le sollevazioni di inizio decennio.

La prima è che i politici locali hanno agitato più volte lo spauracchio di ingerenze esterne per scoraggiare i manifestanti, ma tali esternazioni non hanno minimamente attecchito tra la popolazione, che ha continuato imperterrita a presidiare le strade. La seconda riguarda il fattore settario. Nel 2011 esponenti di spicco delle chiese orientali, in Libano come in Siria e in Egitto, invitavano i fedeli a diffidare delle proteste, viste come un possibile strumento dei partiti islamisti per prendere il potere, e a supportare gli autocrati locali (da al-Sisi ad Assad) come unica possibile tutela nei confronti dei cristiani. Oggi la situazione è molto diversa. Lo dimostra, tra le altre cose, la presenza del cardinale Louis Sako, patriarca caldeo, tra i manifestanti di Baghdad. E lo dimostra il fatto che in Libano, come già detto, sciiti, sunniti e cristiani scendono in piazza spalla a spalla oltre ogni divisione confessionale.

In altri termini, il fattore settario ‒ spesso usato dai governi locali come strumento di divide et impera ‒ non funziona più come una volta. Iracheni e libanesi chiedono diritti, pane e giustizia sociale. E lo fanno con una sola voce. Da queste piazze potrebbe nascere quello che il vaticanista Riccardo Cristiano definisce «il Medio Oriente dei cittadini», anziché dei sudditi tutelati da regimi corrotti e repressivi. Spetta all’Occidente, eventualmente, apprendere questa preziosa lezione: forse è finito il tempo in cui bastava affidarsi a regimi autoritari, sebbene quelli di Iraq e Libano lo siano meno rispetto ad altri, in cambio di un po’ di stabilità in più.

Seguitare a camminare in questa direzione vuol dire rimettere in atto quei meccanismi che hanno portato alla crisi di governance di questi anni, all’insicurezza e al terrorismo. La morte di Abu Bakr al-Baghdadi, ad esempio, non implica la fine del Califfato, come probabilmente testimonia l’attentato contro cinque militari italiani nel Nord dell’Iraq il 10 novembre. Al contrario, come sostiene un editoriale di Foreign Policy firmato da H.A. Hallyer del Royal United Services Institute, nell’autoritarismo e nella corruzione dei governi arabi sussistono ancora pienamente le condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo del terrorismo jihadista e dell’autoproclamato Stato islamico.

 

Immagine: Piazza dei martiri durante la Rivoluzione libanese, contro l’attuale governo e contro la corruzione nel Paese, Beirut, Libano  (28 ottobre 2019). Crediti: diplomedia / Shutterstock.com

 

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Offensiva turca in Siria, gli scenari regionali e globali

«Questa è una guerra strana, una guerra sporca». Karim Franceschi è un giovane italiano che ha combattuto lo Stato islamico in Siria tra i volontari internazionali accanto alle milizie curdo-arabe. Rispondeva con queste parole ai suoi commilitoni quando gli ponevano un’unica, ma pressante domanda: perché loro - internazionalisti, socialisti, libertari e di sinistra - collaboravano con l’Occidente capitalista e in particolare con gli Stati Uniti? Gli eventi della prima settimana di ottobre sembrano aver dato una risposta definitiva a tale interrogativo. Quella tra Stati Uniti e FDS (Forze Democratiche Siriane), unità curdo-arabe dominate dalle YPG (Yekîneyên Parastina Gel, ‘Unità di protezione popolare’) curde, era un’alleanza tattica, non strategica. Destinata, dunque, ad esaurirsi una volta raggiunto l’obiettivo comune di medio-breve termine: la sconfitta dell’autoproclamato Califfato in Siria e Iraq.

L’annuncio da parte del presidente Donald Trump del ritiro americano dalla Siria settentrionale, consegnata de facto dal regime di Bashar al-Assad alle YPG a partire dal 2012, ha dato luce verde nell’area all’operazione turca ribattezzata Fonte di pace. Obiettivo dell’iniziativa militare di Ankara è quello di spezzare la continuità territoriale curda al confine con la Turchia, che considera le YPG gruppi terroristi, e ricollocare nell’area una parte dei 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani in territorio turco. Questa zona della Siria è da sette anni nelle mani delle YPG legate al PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, ‘Partito di unione democratica’) nonché costola siriana del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, ‘Partito dei lavoratori del Kurdistan’) curdo-turco. Forti dell’appoggio aereo della coalizione internazionale a guida americana, le milizie curdo-arabe hanno resistito all’avanzata dei jihadisti dell’Isis per poi passare al contrattacco fino a conquistare Raqqa (novembre 2017), in un’offensiva conclusasi a febbraio 2019 a Baghuz. Nelle aree passate sotto il loro controllo, da Kobane a Tell Abyad, da Tell Halaf a Ras al-Ayn, le YPG hanno impiantato il modello politico del confederalismo democratico, teorizzato dal leader curdo-turco Abdullah Öcalan.

Il cambio di rotta sulla Siria voluto da Trump, e annunciato dopo una telefonata con l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan, è stato oggetto di aspre discussioni tra le alte sfere di Washington, tanto che Difesa e Pentagono hanno successivamente ridimensionato l’entità del disimpegno americano nel Paese. Sta di fatto che il messaggio ad Ankara è arrivato forte e chiaro: nel giro di 48 ore aerei F-16 e artiglieria turchi hanno bombardato una serie di postazioni delle YPG per aprire la strada all’avanzata delle truppe di terra oltre il confine turco-siriano. Al fianco delle forze turche combattono anche gruppi di ribelli siriani anti-Assad, cooptati da Ankara come gruppi di supporto contro le YPG.

Tra le cause che potrebbero celarsi dietro l’annuncio di Trump - non del tutto inatteso, dato che del disimpegno americano in Siria si parla da quasi due anni – potrebbero esserci un paio di ragioni legate alla politica interna americana. La prima è che il ritiro del contingente Usa dalla Siria rappresenta un argomento molto spendibile in termini elettorali, specie in vista delle presidenziali del 2020. «Our boys, our young women, our men. They’re all coming back» dichiarava l’inquilino della Casa Bianca già a dicembre 2018. In secondo luogo, la mossa trumpiana potrebbe essere anche una strategia per sparigliare un po’ le carte del dibattito pubblico, distogliendo l’attenzione da dossier scottanti come il Russiagate, l’inedito caso Ucraina e i contatti pericolosi del procuratore generale William P. Barr coi governi di Australia e Italia. Di fronte alle preoccupazioni manifestate a livello internazionale, poi, Trump ha assicurato che se l’esercito turco – il più potente del Medio Oriente – dovesse spingersi troppo oltre in termini di violenza e vittime civili, Washington avvierebbe ritorsioni di natura economica verso Ankara.

Quali che siano le cause, però, ciò che più conta in questa fase sono le conseguenze dell’iniziativa portata avanti da Trump e dalla campagna turca Fonte di pace. La terza in territorio siriano dopo le operazioni Scudo dell’Eufrate del 2016 e Ramoscello d’ulivo del 2018, entrambe condotte dalla Turchia sempre in funzione anti-YPG. L’esito del nuovo confronto tra l’esercito turco e le forze curdo-siriane è meno scontato di quel che potrebbe sembrare. Le YPG curde, inglobate nelle FDS, sicuramente soffriranno l’assenza di copertura aerea da parte degli Stati Uniti, ma ciò non toglie che tali formazioni sono oggi meglio equipaggiate e addestrate di quanto non fossero nel corso delle operazioni turche precedenti. All’orizzonte, dunque, potrebbe profilarsi una guerra lunga e logorante, non il Blitzkrieg auspicato da Ankara. A livello militare, poi, le YPG potrebbero tentare un riavvicinamento tattico al regime di Assad, intenzionato più che mai a contrastare i ribelli anti-governativi che combattono assieme ai turchi.

Non è da escludere, inoltre, che l’idea di impantanare la Turchia in un simile scenario possa configurarsi come uno degli obiettivi di Trump, che ottiene in questo senso anche un altro risultato: mettere i turchi contro Russia e Iran, i due Paesi che con Ankara formano il terzetto di Astana. Si tratta di un meccanismo decisionale, parallelo e concorrente rispetto a quello delle Nazioni Unite, tramite il quale i tre Stati hanno praticamente deciso le sorti della Siria a partire dal 2017. Il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov, da questo punto di vista, ha confermato di non aver ricevuto alcuna informazione dagli Stati Uniti sull’imminente ritiro, lasciando intendere il disappunto di Mosca per la mossa di Trump. Mentre il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha espresso la contrarietà della Repubblica islamica a qualsiasi operazione militare della Turchia nel Nord-Est della Siria. Sia Mosca che Teheran, inoltre, ripetono costantemente il mantra della “integrità territoriale siriana”, lasciando intendere che il progetto di una safe zone a nord del Paese sotto l’influenza turca non è cosa gradita ai loro occhi.

Tra russi e iraniani, entrambi impegnati in Siria al fianco di Assad, c’è da aspettarsi che i primi mantengano un atteggiamento più morbido verso l’impresa turca anti-YPG, specialmente ora che Ankara è così aperta al dialogo con Mosca da aver ufficializzato l’acquisto dei famigerati sistemi anti-missile S-400, suscitando disappunto tra i corridoi di Washington verso l’alleato NATO. L’Iran ha qualche ragione in più per guardare con preoccupazione alla situazione sul campo, dato che Teheran e Ankara, pur facendo parte del suddetto meccanismo di Astana, nell’area hanno agende egemoniche opposte e – per molti versi – inconciliabili.

Le conseguenze del ritiro americano - ridimensionato nel giro di poche ore ad un semplice «spostamento di 50-100 militari» statunitensi in altre zone della Siria – potrebbe sortire effetti considerevoli non solo a livello regionale, ma addirittura globale. Su qualsiasi tipo di interferenza europea, ad esempio, pende la spada di Damocle dei milioni di rifugiati siriani in Turchia, che il presidente Erdoğan ha più volte minacciato di lasciar partire verso il vecchio continente. A questo si aggiunge il fatto che, qualora Fonte di pace abbia successo, passerebbero in mano turca anche tutti i prigionieri, attualmente custoditi dai Curdi, che una volta facevano parte dello Stato islamico. Non si tratta solo di ex combattenti, ma anche di donne e bambini “figli di Daesh”, spesso provenienti da Paesi occidentali. Non è da escludere che Erdoğan, col solito pragmatismo, utilizzi anche questa carta per incrementare il proprio leverage verso i partner europei.

Le reazioni delle cancellerie occidentali, in effetti, sono state piuttosto tiepide fino a questo momento. «Azioni unilaterali – ha dichiarato il capo della diplomazia italiana Luigi Di Maio ‒ rischiano di pregiudicare i risultati raggiunti nella lotta contro la minaccia terroristica, a cui l’Italia ha dato un significativo contributo, e destabilizzare la situazione sul terreno». Inoltre, a livello globale, grossi punti interrogativi potrebbero farsi largo nei prossimi giorni non tanto tra i nemici storici degli Stati Uniti, quanto tra i loro alleati. Ilham Ahmed, copresidente del Consiglio democratico siriano (ombrello politico delle FDS), in un editoriale sul Washington Post ha definito la condotta di Trump come un vero e proprio tradimento a danno dei Curdi. Occorre precisare, tuttavia, che identificare l’intero popolo curdo con le YPG, o con il partito politico di cui le YPG sono il braccio armato, rappresenta una semplificazione grossolana (e tuttavia abbastanza diffusa nei media occidentali e italiani).

È legittimo chiedersi come reagiranno, di fronte a questo “tradimento”, gli alleati Usa nella regione e in altri quadranti geopolitici. Lo Stato di Taiwan, ad esempio, resiste con tenacia alle lusinghe (e alle minacce) della Cina, che considera il Paese insulare una propria provincia a tutti gli effetti. L’indipendenza di Taiwan da Pechino, cruciale per gli equilibri di forza sino-americani nel Pacifico, si basa sul supporto di Washington verso Taipei in funzione anti-cinese. Se gli Usa si sono dimostrati un partner inaffidabile con gli (ex) alleati delle YPG, nulla vieta di pensare che altre relazioni militari positive – come quella con Taiwan – possano un giorno venir meno in nome di nuovi obiettivi strategici o – più prosaicamente – elettorali.

 

Immagine: Operazione militare turco-siriana ad Afrin, Siria (23 febbraio 2018). Crediti: quetions123 / Shutterstock.com

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La Tunisia al voto

Domenica 15 settembre il popolo tunisino tornerà alle urne per il primo turno delle elezioni presidenziali. Dopo la morte del novantaduenne presidente Béji Caïd Essebsi – venuto a mancare lo scorso 25 luglio – ben ventisei candidati puntano allo scranno più alto delle istituzioni del Paese nordafricano, in una tornata elettorale che – occorre precisare – arriva a scadenza naturale del mandato presidenziale, con Essebsi che aveva già reso noto di non essere intenzionato a cercare la rielezione.

Alla luce dell’elevato numero di aspiranti presidenti, appare improbabile che il nome del nuovo capo dello Stato si sappia già dopo il voto di domenica. Questo primo turno servirà dunque innanzitutto a scremare le candidature e stabilire chi saranno i due rivali che si sfideranno nel ballottaggio previsto per il mese di novembre. Nel frattempo, i tunisini torneranno alle urne a ottobre per eleggere l’Assemblea dei rappresentanti del popolo, l’organo legislativo della Repubblica di Tunisia.

Le due competizioni elettorali si compenetrano e si influenzano reciprocamente a livello politico, e dal loro esito dipenderà il destino dell’unico Paese in cui la transizione democratica post-primavera araba sembra aver portato a un esempio di governance stabile. Accostata agli scenari di Libia, Siria ed Egitto, la Tunisia uscita dalla Rivoluzione dei gelsomini sembrerebbe dunque finora un caso di successo, nonostante la situazione di perenne emergenza economica che caratterizza il Paese. Occorre poi sottolineare che l’esito – quanto mai incerto – dell’imminente tornata elettorale presidenziale avrà anche un impatto considerevole sui partiti politici che finora sono stati protagonisti della transizione, in particolare il movimento centrista Nidaa Tounes (Appello alla Tunisia), e il partito d’ispirazione islamica Ennahda (Rinascita).

La folta schiera di candidati alla presidenza della Repubblica sembra un esito naturale per un Paese che sin dai tempi del padre della patria Habib Bourguiba e del successore Ben Ali ha visto un forte accentramento dei poteri nella figura del presidente. Ed è proprio sui poteri e sulle prerogative del presidente che si gioca gran parte del dibattito politico. Se da una parte il vento della primavera araba ha gradualmente ridimensionato il ruolo del presidente nella gestione dello Stato tunisino, dall’altra tra i candidati per le elezioni del 15 settembre c’è chi propone un rafforzamento della più alta figura istituzionale tunisina.

È il caso di Abdelkarim Zbidi, attuale ministro della Difesa spalleggiato da Hafedh Caïd Essebsi, figlio del defunto presidente, secondo cui l’attuale impalcatura istituzionale presenterebbe alcune debolezze e contraddizioni. «Questo è irragionevole ‒ ha dichiarato Zbidi di recente all’agenzia Reuters ‒. La mancanza di efficienza in questo sistema ibrido interrompe la ripresa economica e la transizione democratica». È dello stesso avviso anche Abir Moussi, una delle due candidate donne alla presidenza, già esponente del deposto regime benalista.

Tra i nomi dei candidati spicca quello dell’attuale primo ministro Youssef Chahed, quarantenne ingegnere agricolo, al cui destino sembra legato anche quello del fronte laico centrista. Chahed si presenta come candidato di Tahya Tounes (Viva la Tunisia), nato da una scissione interna a Nidaa Tounes, il partito che dal 2012 cerca di tenere insieme istanze secolari, riformiste e socialiste in risposta all’islam politico di Ennahda. Il partito, dopo una serie di convulsioni e scissioni interne, si presenta ora profondamente frammentato. Sta di fatto che, complice la morte di Essebsi, la celebrazione delle presidenziali prima delle parlamentari potrebbe consentire a Chahed di svincolare il proprio destino da quello del partito. In altri termini: anche se Tahya Tounes dovesse andar male alle elezioni parlamentari, questo avverrà quando il destino di Chahed sarà in parte già segnato: escluso dalla competizione o uno dei due finalisti designati per il secondo turno.

Altro candidato con un’esperienza istituzionale alle spalle è Mehdi Jomaa, premier tunisino dal 29 gennaio 2014 al 6 febbraio 2015. Mentre un outsider d’eccellenza, che molto ha fatto parlare di sé nei mesi precedenti la tornata elettorale, è Nabil Karoui, definito dal Financial Times «il Berlusconi tunisino». Karoui, magnate delle telecomunicazioni, è stato arrestato il 23 agosto scorso per frode fiscale e riciclaggio di denaro. Per questa ragione è attualmente detenuto nel carcere di El Mornaguia e non ha potuto quindi partecipare ai dibattiti televisivi che – per la prima volta nella storia del Paese – hanno visto i candidati confrontarsi e spiegare i loro programmi elettorali di fronte alle telecamere.

Al pari di Nidaa Tounes, anche il partito di ispirazione islamica Ennahda – fondato da Rashid Ghannushi – si presenta diviso alle elezioni presidenziali. Dalle sue file – tra ex e militanti ancora tra i ranghi del partito – vengono due dei ventisei candidati. Il primo è Abdelfattah Mourou, avvocato di Tunisi dotato di grande eloquenza e capace di attrarre voti anche esterni al classico bacino elettorale di Ennahda. Anche Mourou, parlando ai microfoni del portale di notizie in lingua inglese Middle East Eye, si è espresso in favore di un possibile rafforzamento delle funzioni presidenziali.  «Il grande dilemma – ha dichiarato – è che i poteri esecutivi sono divisi tra due persone: il capo dello Stato e il capo del governo». Sempre da Ennahda proviene Hamadi Jebali, primo ministro dal 2011 al 2013. Altro candidato indipendente di area conservatrice è Kais Sayed, professore di diritto costituzionale e homo novus del panorama politico tunisino.

L’altro nome illustre, proveniente invece dal partito di centrosinistra Congresso per la Repubblica (CPR, Congrès pour la République) è quello di Moncef Marzouki, già presidente della Repubblica all’epoca della Costituente e imponente figura della transizione democratica.

A sinistra dell’arco politico di Tunisi, il Fronte popolare, vicino all’area politica del marxismo e del nazionalismo arabo, presenta due candidati: Hamma Hammami e Mongi Rahoui. Entrambi isolati ed entrambi con scarse possibilità di accedere al secondo turno.

Alla luce di questo scenario così incerto e frammentato, dunque, sembra aver ragione il giornalista ed esperto dell’area Thierry Brésillon quando dice che «Sarà davvero un genio chi riuscirà a indovinare quale presidente uscirà dalle urne». Infatti, al netto di candidati indipendenti ed esponenti di partiti minoritari, i due unici possibili egemoni del panorama politico tunisino – gli islamisti di Ennahda e i secolaristi di Nidaa Tounes – presentano forse troppi candidati per rintracciare i voti di un bacino elettorale che sembra fin troppo ristretto.

Domenica, dunque, 8 milioni di tunisini saranno chiamati a orientarsi in questo complesso appuntamento elettorale per scegliere il candidato che prenderà il posto di Essebsi al Palais de Carthage. A vigilare sulle operazioni di voto, oltre alla Commissione superiore indipendente per le elezioni (ISIE, Instance Supérieure Indépendante pour les Élections) ci sarà anche una Missione di osservazione elettorale (MOE, Mission d’Observation Électorale) inviata a Tunisi dall’Unione Europea. Questa presenza europea sta a dimostrare quanto le sorti del Paese dei gelsomini siano importanti per il vecchio continente, specialmente per dossier legati alla cooperazione e alla sicurezza. La Tunisia, ad esempio, è il primo ‘esportatore’ di foreign fighters confluiti in questi anni tra le file dello Stato islamico. Gruppi estremisti, inoltre, sono molto attivi in alcune aree del Paese, specialmente nella regione di Kasserine, a ridosso del poroso confine con la Libia. Questa presenza europea alle urne compensa, forse solo in parte, una certa latitanza da parte dei singoli Stati membri rispetto alle elezioni tunisine.

In questo contesto, è particolarmente controversa la quasi totale indifferenza dell’Italia verso il processo elettorale nel Paese nordafricano, uno Stato con cui il Bel Paese intrattiene rapporti storici e consolidati dal punto di vista economico, commerciale e culturale. Di questo disinteresse approfittano altri attori internazionali come la Francia, che sull’Africa ha un’agenda ben consolidata, oltre a Turchia e Qatar che supportano, più o meno ufficialmente, partiti di ispirazione islamica come Ennahda.

La Tunisia, similmente a quanto accade in Egitto e altri Stati dell’area, mostra una crescente disaffezione per il voto. Le elezioni municipali del 2018, con un tasso di partecipazione del 33,7%, hanno dato di ciò una dimostrazione plastica. Un’altra sfida da vincere, quindi, sarà quella dell’affluenza, importante indice della legittimazione popolare del futuro presidente.

 

Immagine: Bandiera tunisina appesa in Tunisia. Crediti: Sviluppo / Shutterstock.com

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Le mosse di Israele nella partita contro l’Iran

«L’Iran non gode di immunità in alcun luogo. Israele agisce e agirà ovunque sia necessario». Con queste parole, pronunciate in conferenza stampa a Kiev il 20 agosto scorso, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rispondeva ai giornalisti che gli chiedevano se ci fosse la mano di Israele dietro il raid aereo che la sera prima aveva colpito una struttura militare a nord della capitale irachena Baghdad. Obiettivo dell’incursione, un deposito di armi appartenente alle Unità di mobilitazione popolare (PMU, Popular Mobilization Units), milizie paramilitari legate all’Iran e confluite nell’esercito regolare iracheno a luglio di quest’anno.

Le autorità irachene, che nelle prime ricostruzioni ufficiali avevano parlato di ‘combustione spontanea’, hanno successivamente ammesso implicitamente che si trattava invece di un atto ostile proveniente dall’esterno, per poi puntare il dito direttamente contro Israele. Lo Stato ebraico, con l’appoggio logistico degli Stati Uniti, avrebbe introdotto quattro suoi droni in Azerbaigian in modo che effettuassero sortite direttamente in territorio iracheno contro le milizie sciite locali. Ne è convinto Abu Mahdi al-Mohandis, vicecapo delle PMU, le cui posizioni sono state in seguito ridimensionate da Faleh al-Fayyad, presidente dell’organizzazione. Quest’ultimo, pur chiarendo che la versione al-Mohandis non rappresentava la posizione ufficiale delle PMU, non l’ha tuttavia smentita stricto sensu.

L’attribuzione della responsabilità dell’attacco a Israele è poi gradualmente diventata la posizione ufficiale, specialmente dopo che il New York Times – citando fonti di intelligence occidentali e locali – ha confermato che dietro le operazioni in Iraq c’è Israele. Lo Stato ebraico, sostiene il quotidiano statunitense, avrebbe anche messo al corrente Stati Uniti e Russia dell’imminente incursione in territorio iracheno contro obiettivi legati all’Iran.

L’attacco del 19 agosto, di cui le parole di Netanyahu a Kiev sembrano confermare la paternità israeliana, non sarebbe il primo in ordine di tempo in territorio iracheno. Risale a un mese prima, 19 luglio, un altro possibile attacco ad una base delle PMU in Iraq, effettuato in questo caso non tramite droni senza pilota, ma con i classici cacciabombardieri stealth F-35 in dotazione all’aeronautica israeliana, i quali, forti del fatto di non essere intercettabili dai radar iracheni, avrebbero colpito un deposito di razzi in una base delle milizie sciite a nord di Baghdad.

Qualora la responsabilità degli attacchi in questione fosse davvero di Israele, si tratterebbe di un potenziale punto di svolta negli equilibri strategici e geopolitici del Medio Oriente. Ufficialmente, infatti, Israele non effettua attacchi aerei in Iraq dal 1981, quando nell’ambito della Operazione Babilonia l’aviazione di Tel Aviv distrusse il reattore nucleare iracheno di Osiraq, di provenienza francese. Pur essendo vero che, nell’ottica del contenimento dell’influenza iraniana nella regione, per lo Stato ebraico è prassi consolidata colpire obiettivi filo-Teheran in Siria, Libano e nella Striscia di Gaza, le recenti operazioni in territorio iracheno rappresenterebbero una novità di rilievo.

L’allargamento delle operazioni aeree israeliane in Iraq arriva in un contesto regionale già di per sé teso. Se da un lato, infatti, la visita a sorpresa del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif al G7 di Biarritz aveva lasciato intravedere possibili spiragli per una ripresa del dialogo USA-Iran sul JCPOA (Joint Comprehensive Plan Of Action) ‒ l’accordo sul nucleare da cui l’amministrazione Trump ha deciso unilateralmente di uscire nel 2018 ‒, dall’altra la conclusione dei lavori ha fortemente ridimensionato le aspettative. Di fronte alla richiesta di Teheran di eliminare le sanzioni come precondizione per la ripresa delle trattative – si era parlato persino di un faccia a faccia tra Donald Trump e il presidente iraniano Hassan Rohani – il diniego americano è stato secco e incontrovertibile.

Tuttavia, la partita tra USA e Iran, in cui Israele sembra interpretare il ruolo della ‘mina vagante’, non si gioca solo ai tavoli diplomatici, ma anche sui campi di battaglia. E di questo si è avuta ulteriore prova il 25 agosto sul fronte libanese, dove un drone è precipitato e un altro è esploso a Dahieh, alla periferia meridionale di Beirut a maggioranza sciita. Un’incursione, indirizzata contro obiettivi del movimento sciita filoiraniano Hezbollah, che il presidente libanese Michel Aoun non ha esitato a definire «una dichiarazione di guerra» da parte di Israele.

Lo Stato ebraico, per prassi, non rivendica mai questo tipo di operazioni, ma eventualmente nega blandamente o lascia intendere che gli attacchi rientrano nei suoi interessi, come nel caso del raid in Iraq del 19 agosto. Sempre nella notte del 25, però, il premier israeliano Netanyahu ha ammesso che l’aviazione israeliana ha bombardato un deposito di missili di precisione di provenienza iraniana vicino a Damasco, in Siria. In questo quadrante, Iran e forze proxy come Hezbollah e Guardiani della rivoluzione (Pasdaran) supportano il regime di Bashar Assad, alleato regionale di Teheran. Questi attacchi contro Hezbollah e strutture legate ai Pasdaran iraniani in Siria, Libano e Iraq, contengono un messaggio ben preciso sia verso Teheran che verso i principali attori internazionali, Stati Uniti e Russia in primis: Israele considera una minaccia esistenziale la permanenza di forze iraniane o filoiraniane a ridosso dei propri confini e non si farà scrupoli ad agire «ovunque sia necessario», per dirla con le parole di Netanyahu.

La tensione sembra destinata a salire, se si tiene conto del fatto che il cosiddetto fronte anti-Iran progettato dall’amministrazione Trump per mettere Israele e alleati regionali USA come Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita dallo stesso lato della barricata, inizia a manifestare crepe sempre più profonde. Ciò è parso evidente nel caso del dossier Yemen, dove la coalizione internazionale a guida saudita che combatte i ribelli filoiraniani Houthi è rimasta orfana del contributo degli Emirati. Il piccolo stato del Golfo, infatti, sembra ora propendere più per una divisione del Paese tra nord e sud simile a quella precedente al 1990, piuttosto che per la sopraffazione militare degli alleati di Teheran.

Parallelamente, e in maniera ufficiosa, Abu Dhabi ha seguito l’esempio del Qatar tentando un riavvicinamento diplomatico con l’Iran, nemico giurato dell’(ex) alleato saudita. Non è un caso, in questo contesto, che la cosiddetta ‘NATO araba’ sia stata definita in un editoriale per Foreign Policy dell’analista Hassan Hassan «una squadra di fuoco circolare», ossia un plotone di esecuzione i cui soldati si ammazzano tra di loro nel momento in cui premono il grilletto. Queste insofferenze interne al ‘fronte anti-Iran’, oltre ad aumentare la tensione regionale, rischiano di mettere seriamente in dubbio anche il ‘Piano del secolo’ messo a punto dall’amministrazione americana, con la regia di Jared Kushner e del principe saudita Mohammad bin Salman, per risolvere il conflitto israelo-palestinese.

Sullo sfondo della crescente instabilità, due appuntamenti elettorali importanti rischiano di influenzare in maniera determinante le dinamiche regionali. Il 17 settembre, infatti, tornerà alle urne Israele, dopo che Netanyahu non è riuscito a formare un esecutivo all’indomani delle elezioni di aprile. Il tema della sicurezza, com’è noto, rappresenta un argomento chiave per la ricerca del consenso nello Stato ebraico. Con l’avvicinarsi delle elezioni, dunque, non è da escludere che il governo dimissionario di Tel Aviv – in cui attualmente Netanyahu occupa anche la posizione di ministro della Difesa – possa imprimere un’accelerazione nelle operazioni anti-Iran in tutte le direzioni possibili, compreso – da ultimo – l’Iraq.

Infine, ma non meno importante, si avvicina anche l’appuntamento delle presidenziali americane del 2020. Israele teme che Trump sieda al tavolo delle trattative per il JCPOA troppo presto, facendo all’Iran concessioni ‘troppo generose’ dal punto di vista di Tel Aviv. L’obiettivo del Tycoon di New York, sostengono gli ambienti conservatori statunitensi, sembra però essere un altro. La vulgata della destra americana vuole che l’accordo con l’Iran non stesse funzionando non tanto perché Teheran non mantenesse i propri impegni sul nucleare in sé, quanto piuttosto perché l’accordo sul potenziale atomico iraniano sembrava aver dato implicitamente luce verde a Teheran affinché desse prova di una rinnovata assertività regionale con ‘mezzi convenzionali’. L’impegno iraniano in Siria, Iraq e Yemen sarebbe la dimostrazione plastica di questa teoria. Lo scopo di Trump, dunque, non sarebbe quello di tornare all’accordo del 2015, ma di utilizzare la strategia della ‘massima pressione’ per mettere Teheran in una posizione di debolezza tale da accettarne uno nuovo, migliore di quello pattuito da Obama, e quindi più spendibile a livello elettorale con l’opinione pubblica statunitense.

Qualora questo corrisponda al vero, il percorso per far tornare Washington e Teheran al dialogo rischia di essere lungo e tortuoso. Pertanto, nell’attesa che una delle parti in causa faccia il primo passo, c’è da aspettarsi che Israele continui a inserirsi in questo vuoto decisionale contrastando l’Iran a livello regionale col solito muscolare pragmatismo.

 

Immagine: Benjamin Netanyahu (20 agosto 2019). Crediti: paparazzza / Shutterstock.com

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Presentato a Manama il progetto USA di “normalizzazione” della questione israelo-palestinese

La parola araba tatbi῾ suona assai familiare tra le popolazioni del Medio Oriente che parlano questa lingua, in particolare tra i palestinesi. Significa ‘normalizzazione’ e viene spesso utilizzata per identificare l’accettazione in quanto normale di ciò che normale non è affatto. Il summit di Manama, capitale del Bahrain dove si è tenuta la due giorni di presentazione del ‘piano del secolo’ di Donald Trump per Israele e Palestina, ha assunto tutti i connotati del tatbi῾, cioè della normalizzazione intesa come accettazione dello status quo in cambio di dollari sonanti.

Destinatari di questo messaggio inequivocabile sono stati proprio i palestinesi, cui Donald Trump aveva promesso «qualcosa di buono» ad agosto 2018, dopo aver riconosciuto – a maggio – la sovranità israeliana su Gerusalemme trasferendovi l’ambasciata statunitense situata fino a quel momento a Tel Aviv.  Un’iniziativa che implica il riconoscimento della città ‘tre volte santa’ quale capitale dello Stato ebraico, che in verità la considera tale in virtù della legge fondamentale del 1980.

Nella capitale del Bahrain, alla presenza di funzionari e delegati diplomatici – per la verità non di primissimo piano – sono stati presentati gli aspetti economici del ‘deal of the century’ messo a punto da Jared Kushner, genero e consigliere dell’inquilino della Casa Bianca, per mettere fine a quella che da decenni è la ‘questione’ mediorientale per antonomasia: quella israelo-palestinese.

L’evento, intitolato Peace to prosperity, ha dato l’idea di un’operazione difficilmente destinata al successo sin da quando ha aperto i battenti martedì 25 giugno. Anzi, che le ragioni per essere ottimisti fossero poche era parso chiaro già prima dell’inizio dei lavori, con la degradazione dell’evento da ‘conferenza’ a ‘workshop’, complice la constatazione del basso livello delle delegazioni presenti. La due giorni ha visto presenti diplomatici e uomini di affari vicini ai governi arabi di Giordania, Qatar, Marocco, Arabia Saudita, Egitto, i padroni di casa del Bahrain e un team tecnico dell’Unione Europea. L’iniziativa è stata invece boicottata dai diretti interessati: palestinesi – tanto ANP quanto Hamas – e Israele. Assenti anche Kuwait, Iraq e Siria.

«Questo workshop è per voi!» ha dichiarato Kushner all’apertura dei lavori rivolgendosi ai palestinesi. «Il mio messaggio – ha proseguito – è che il presidente Trump e l’America non vi hanno abbandonato… La visione che abbiamo sviluppato – ha concluso – se eseguita correttamente porterà ad un migliore futuro per il popolo palestinese, un futuro di dignità, prosperità e opportunità».

In sintesi, a Manama si è parlato di investimenti economici e di infrastrutture in Palestina per un ammontare di 50 miliardi di dollari. L’obiettivo annunciato è quello creare un milione di posti di lavoro per i palestinesi e costruire vie di comunicazione per collegare Gaza e Cisgiordania: è il caso – stando alle indiscrezioni – della futura autostrada a 30 m d’altezza che congiungerà i due territori passando letteralmente sopra Israele.

Il summit in Bahrain è servito sostanzialmente a sondare il terreno tra gli alleati regionali di Washington per capire chi di loro sia disposto ad investire nel progetto.

Sin dalle prime ore del vertice, in linea con quanto accaduto nei giorni precedenti, il ‘workshop’ di Manama è stato accompagnato da proteste in tutti i territori palestinesi, con manifestazioni a Nablus, Betlemme, Hebron e Gerico, e addirittura con uno sciopero generale a Gaza. L’OLP, dal canto suo, ha bocciato l’iniziativa come «una formula che nessun popolo dignitoso può accettare», la quale «cerca di vendere il miraggio di una prosperità economica per il popolo palestinese fintanto che accetta e sostiene la perpetua prigionia».

In altri termini: la normalizzazione dello status quo (tatbi῾) in cambio di sovvenzioni economiche, in una negoziazione completamente monca della sua parte politica. D’altronde non poteva andare diversamente, dato che Israele tornerà alle urne il 17 settembre prossimo dopo che Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare il nuovo esecutivo all’indomani delle elezioni del 9 aprile scorso. Ma anche dall’altra parte del muro di separazione le cose non vanno molto meglio. Mahmoud Abbas, presidente dell’ANP dal 2005, non gode più di un consenso così granitico da garantirgli un sicuro successo elettorale in caso di elezioni. La sua legittimità ne risulta, di conseguenza, inevitabilmente compromessa.

Poste queste condizioni, era impossibile affrontare i nodi politici della questione senza interlocutori politici degni di questo nome. E così il dato economico ha prevalso nell’agenda di Manama, ma non ha convinto gli osservatori internazionali né i diretti interessati.

Degno di nota il fatto che all’evento, quasi a sottolinearne l’impianto economicistico, erano presenti anche la presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde e il presidente della FIFA Gianni Infantino. Se la prima ha certificato la bontà, almeno nelle intenzioni, della road map economica partorita da Kushner, il secondo ha sottolineato l’importanza dello sport e dei Mondiali in Qatar del 2022. Il nuovo stato di Palestina, secondo Infantino, dovrebbe investire parte dei fondi previsti dal ‘piano del secolo’ in strutture sportive ed anche partecipare alla Coppa del Mondo nell’emirato.

L’aspetto politico, dunque, si appiattisce su quello economico: un gioco che agli arabi non piace. Giordania e Libano, tramite le parole di re Abdallah e del premier Saad Hariri, hanno espresso vicinanza incondizionata ai palestinesi di fronte a condizioni ritenute inaccettabili.

Il lato politico del ‘deal of the century’ viene procrastinato – ufficialmente – a dopo le elezioni israeliane. Ma già due mesi fa, in realtà, il quotidiano Israel Hayom aveva pubblicato alcune indiscrezioni sul resto del piano.

Si parla della nascita di un nuovo stato chiamato Nuova Palestina, sulla base di un accordo tripartito che sarà firmato tra Israele, OLP e Hamas. Tale Stato comprenderà Striscia di Gaza e Cisgiordania, insediamenti israeliani esclusi (e qui sta la normalizzazione).

Gerusalemme non sarà divisa tra Israele e il nuovo Stato, ma i palestinesi che la abitano saranno cittadini della neonata entità nazionale. Il controllo municipale resterebbe allo Stato ebraico e le due comunità, in teoria, si impegnerebbero a non acquistare case e suoli degli altri.

La Nuova Palestina, questo pare acclarato, potrà avere solo una forza armata civile (polizia) e non un esercito autonomo. Dopo aver firmato l’accordo, Hamas dovrebbe consegnare tutte le sue armi all’Egitto e i leader del movimento verrebbero pagati dagli Stati arabi mentre verrà creato il nuovo governo. Si prevede la celebrazione di elezioni entro un anno dall’istituzione della Nuova Palestina. Gaza, inoltre, beneficerebbe di un nuovo aeroporto da costruirsi su un terreno messo a disposizione dal Cairo, con divieto per i civili di abitarvi.

Infine, ma non meno importante, Arabia Saudita e altri partner statunitensi – l’accordo vede in Mohammad bin Salman uno dei suoi ispiratori – pagherebbero ingenti somme a Libano e Giordania (e Siria?) affinché concedano ‘forme di cittadinanza’ ai profughi palestinesi, un’ipotesi in evidente contrasto con la risoluzione 194 delle Nazioni Unite per il ritorno dei profughi.

Tanti dunque i punti oscuri su cui non è stata fatta chiarezza durante il seminario di Manama. Un evento, difficile non farci caso, con un convitato di pietra d’eccezione: la Repubblica islamica d’Iran. Teheran, che appoggia gruppi ostili a Israele come il Jihad islamico ed Hezbollah, in questo momento è il vero centro della proiezione geopolitica statunitense nella regione. Oggetto di sanzioni – e nel cuore di un’escalation per il momento solo congelata – l’Iran è stato davvero l’assente eccellente nella capitale del Bahrain.

Forse però qualche spiraglio per future trattative c’è. Come ha scritto l’ex inviato speciale statunitense in Medio Oriente Dennis Ross in un editoriale per Foreign Policy  «Il piano di pace non sarà “l'accordo del secolo”, ma ci sono passi intermedi che funzionari americani e leader arabi potrebbero intraprendere per aiutare a stabilizzare Cisgiordania e Gaza». Sembra averlo preso in parola l’Oman, che ha annunciato l’apertura di un’ambasciata a Ramallah, in Cisgiordania. Noto come Paese particolarmente incline alla diplomazia, l’Oman sembra voler dare un doppio messaggio: da una parte, da buon Paese arabo, conferma il supporto ai palestinesi, ma dall’altra apre alla fase politica del ‘piano del secolo’, perché stabilire una sede diplomatica vuol dire riconoscere che quel dato territorio è uno Stato – o è destinato a diventare tale – e non solamente un surrogato statuale.

Ancora troppo poco, ma qualcosa pare muoversi. La strada della normalizzazione (tatbi῾) rimane però ancora molto, troppo lunga.

 

Immagine: Al centro, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, si reca al South Lawn della Casa Bianca per imbarcarsi su Marine One, Washington, D.C. (4 agosto 2017). Crediti: Michael Candelori / Shutterstock.com