Atlante

Vincenzo Piglionica

Nato a Terlizzi (Ba) il 6.9.1987, si è laureato in Scienze Politiche presso la LUISS- Guido Carli di Roma con una tesi sull’adattamento al diritto comunitario e sul recepimento della normativa europea a tutela del consumatore in Italia. Ha conseguito la laurea specialistica in Relazioni Internazionali sempre presso la LUISS nel marzo 2012, discutendo una tesi sulle relazioni internazionali e i negoziati nella Georgia post-sovietica. Il suo campo di studi spazia dall’analisi geopolitica e geostrategica alla tecnica della negoziazione internazionale.

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Tahrir 2.0

Si ritorna a Tahrir. Dopo quasi 30 mesi, forse meno. Corsi e ricorsi storici di vichiana memoria. Piazza Isma’iliyya è diventata Midan al Tahrir – la “Piazza della Liberazione” – già con la rivoluzione del 1919, che premeva per la conclusione del protettorato britannico e la concessione dell’indipendenza, ha visto i figli del Nilo riversarsi in strada con l’orgoglio ferito dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, ha accolto i manifestanti che durante le “rivolte del pane” del 1977 fecero tremare Anwar al-Sadat. Se Tahrir potesse parlare, avrebbe interi capitoli di storia egiziana da raccontare. Soprattutto, la “Piazza della Liberazione” è diventata il luogo simbolo della primavera egiziana e di tutte quelle rivolte che hanno soffiato impetuose sul cuore pulsante della macrocreatura geopolitica bushiana del Grande Medio oriente, da Tunisi a San’a, da Manama fino a Tripoli e Damasco, con le loro marcate specificità che rendono un esercizio fine a sé stesso la discutibile reductio ad unum del fenomeno che dal 2011 spesso si compie. “Non esiste individuo, partito, istituzione o autorità al di sopra o al di là della volontà del popolo. Siete voi la fonte del potere”: con queste parole, il primo presidente civile dell’Egitto repubblicano Mohammed Mursi salutava un anno fa una affollatissima e festante Tahrir, subito dopo la sua elezione. Lode alla rivoluzione e ai suoi valorosi martiri, da parte di un esponente di quella fratellanza musulmana che per onor di cronaca si era mantenuta nelle retrovie nelle prime fasi dei tumulti, avanzando poi pian piano e mettendo in moto la sua formidabile struttura organizzativa. Quel moloch apparentemente granitico che nelle elezioni per la Camera bassa di fine 2011-inizio 2012 aveva conquistato oltre 200 seggi all’interno della coalizione “Alleanza democratica per l’Egitto”, ha tuttavia evidenziato debolezze e commesso alcuni errori strategici. Il processo di penetrazione nei tessuti della politica è stato fin troppo rapido, probabilmente ben al di là di quanto la stessa fratellanza immaginasse; ma la situazione contingente ha persuaso l’organizzazione che si trattasse della scelta giusta da compiere. Come ha ricordato Nathan Brown per Carnegie Endowment, una personalità di grandissima rilevanza nei Fratelli musulmani come Khairat El-Shater aveva affermato che nel futuro della fratellanza c’era l’esercizio del potere di governo, ma che ciò si sarebbe verificato dopo il suo ritiro: l’anno successivo, era il candidato alla presidenza della repubblica per il partito Giustizia e Libertà, che della fratellanza è diretta emanazione, salvo poi essere escluso dalla competizione lasciando spazio a Mursi. Sulla stessa lunghezza d’onda l’analista politico Fareed Zakaria, che ha osservato come i Fratelli musulmani avessero sostenuto di non essere intenzionati né a conquistare una maggioranza parlamentare né a presentare un loro esponente nella corsa presidenziale, promesse entrambe disattese. Attraverso le colonne di questo magazine, lo scorso dicembre si cercava di tracciare un quadro delle proteste che avevano ripreso ad infiammare Tahrir per i decreti dal sapore neofaraonico adottati dal presidente Mursi, che cominciava ad essere appellato come “Mubarak con la barba” e rappresentato con il tipico copricapo dei suoi illustri predecessori di qualche millennio fa. L’esercizio esclusivo ed escludente del potere, che ha poi trovato ulteriore conferma nel blitz per concludere in tutta fretta la redazione del testo costituzionale da sottoporre a referendum confermativo nel dicembre 2012, è incompatibile con la democrazia, e risulta ancor più problematico in un paese che sta compiendo un travagliato percorso di transizione politica. La bassa partecipazione al referendum per la ratifica del testo costituzionale (32,9 per cento), predisposto da un’Assemblea costituente più volte sul punto di essere sciolta dal potere giudiziario ed egemonizzata dalle forze islamiste, avrebbe dovuto lanciare un ulteriore segnale d’allarme, visti anche i risultati del Cairo dove il “no” si è imposto con il 57 per cento. Però ci sono ancora i poveri, quella parte di popolazione che nella fratellanza ha visto una specie di ‘istituzione sociale’ nei decenni oligarchici della cricca mubarakiana, ci sono i fellah, c’è l’Egitto rurale e più profondo in cui la fratellanza fa ancora presa. “Rimarrai sorpreso” mi diceva un uomo d’affari egiziano, invitandomi a ricalibrare l’obiettivo su quanto stava accadendo lungo le rive del Nilo ed evidenziando come anche in quel bacino elettorale apparentemente inattaccabile, i fratelli cominciavano a perdere pezzi. Il movimento Tamarod ha raccolto 22 milioni di firme contro il presidente Mursi, e Tahrir è tornata a riempirsi. Gli antigovernativi si sono fatti sentire anche altrove in Egitto; sembrava di rivivere i momenti della sollevazione anti-Mubarak. L’esercito ha preso in mano la situazione: un ultimatum, 48 ore per adeguarsi alle richieste del popolo. I carri armati color kaki si sono poi riversati nelle strade del Cairo, hanno raggiunto gli uffici della tv di Stato, mentre già cominciavano a contarsi le prime decine di morti degli scontri e della nuova ondata di proteste. Dimissioni o destituzione, annunciava il quotidiano al-Ahram, mentre Mursi sottolineava la piena legittimità del suo mandato presidenziale, frutto del voto ed espressione di una democrazia che avrebbe difeso fino alla morte. L’ultimatum scade alle 17.30 ora locale del 3 luglio, il presidente apre all’ipotesi di un governo di coalizione ma è ormai troppo tardi. Scattano gli arresti domiciliari, Mursi è destituito, il capo dell’esercito e ministro della Difesa generale Abdul Fatah Al-Sisi annuncia la roadmap, che riceve il sostegno di due “istituzioni” che in Egitto hanno notevole peso: il gran imam di al-Azhar Ahmed el-Tayeb e il papa copto Tawadros II. Sono previste la temporanea sospensione della Costituzione, la nascita di un governo tecnico e l’indizione di nuove elezioni, mentre il presidente della Corte costituzionale Adly Mansour svolgerà le funzioni di presidente ad interim. I fratelli musulmani gridano al golpe e sono pronti a farsi sentire. Di golpe guidato dall’esercito effettivamente si è trattato, nelle modalità di esecuzione e anche nella sua simbologia, come testimonia l’occupazione della tv di Stato. Si tratta tuttavia di un evento atipico rispetto alla tradizionale immagine che i colpi di Stato militari hanno lasciato in eredità alla storia: la piazza è in festa, a Tahrir partono i fuochi d’artificio, il popolo è dalla parte di quell’esercito che dopo aver controllato il potere per oltre un anno in maniera assai discutibile ha riguadagnato popolarità. I problemi dell’Egitto non finiranno con la cacciata di Mursi. Il Paese sta attraversando una crisi economica drammatica, ha sperimentato un calo del 3 per cento della crescita rispetto ai livelli dell’epoca Mubarak e il turismo, uno dei settori trainanti dell’economia, è in picchiata, così come le riserve di valuta estera e gli investimenti stranieri. I fratelli musulmani non sono riusciti a dare una risposta alle esigenze degli egiziani, che hanno fatto capire al presidente Mursi che non era più il “loro” presidente. L’opposizione, ancora una volta unita quando l’obiettivo è quello di sconfiggere il nemico comune – si chiami Mubarak o Mursi – dovrà rivelarsi capace di proporre un’alternativa credibile ad una fratellanza il cui futuro rimane per molti versi imprevedibile. E la nuova stagione politica non potrà prescindere da un’impronta maggiormente inclusiva, che punti a coinvolgere nei processi politici e decisionali tutte le diversità che compongono il popolo egiziano. Il giorno più difficile è sempre domani, e lo sarà anche per Tahrir, ma l’Egitto può farcela.

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Novità sul fronte russo-georgiano?

Alla vigilia del ritorno di Vladimir Putin fra le accoglienti mura del Cremlino, la partita nel Caucaso del Sud fra Russia e Georgia si è improvvisamente riaperta. A quasi 4 anni dalla guerra lampo dell’agosto 2008 che ha visto le truppe russe arrivare fino alle porte di Tbilisi in risposta al blitz dell’esercito georgiano nella regione indipendentista dell’Ossezia del Sud, si sono registrati i primi timidi segnali di disgelo fra i due Paesi.

Lo scorso 28 febbraio, tramite decreto, il presidente georgiano Michail Saakašvili ha deciso di abolire unilateralmente il regime dei visti in vigore con la Russia; pertanto i cittadini russi che intendano soggiornare in Georgia per un periodo non superiore a 90 giorni potranno farlo senza bisogno del visto. In questo modo – ha sottolineato Saakašvili – la Georgia si propone come porto sicuro per gli investimenti russi e vuole dimostrare la propria disponibilità a riattivare la “politica della mano tesa” verso Mosca, come già evidenziato con la rimozione del veto all’ingresso della Russia nel WTO nel mese di novembre.
Dietro questa iniziativa c’è una precisa strategia politica: il presidente ultraoccidentalista Saakašvili - fiero avversario di Mosca - sembra infatti aver compreso che il “muro contro muro” con l’ingombrante vicino russo non solo non ha contribuito finora ad avvicinare la Georgia all’Occidente, ma fa esattamente il gioco del Cremlino. E in un sistema spesso ancorato alla logica dei rapporti di forza, la rigida contrapposizione non può che andare a vantaggio del soggetto politicamente più forte.
Il perseguimento della politica della distensione è oramai una improrogabile necessità per la Georgia e tanto il “via libera” all’ammissione della Russia al WTO quanto la rivisitazione unilaterale del sistema dei visti vanno inquadrati in questa prospettiva: l’embargo decretato da Mosca sui vini georgiani e sulle acque minerali di Borjomi nel 2006 pesa infatti come un macigno sull’economia della repubblica caucasica, che destinava al mercato russo circa il 90% delle proprie esportazioni; inoltre circa un milione di georgiani vive e lavora in Russia ma continua ad avere parenti in Georgia, pertanto un regime dei visti più snello renderebbe più agevole la circolazione attraverso i confini delle due repubbliche. Indagini demoscopiche rivelano poi che la stessa opinione pubblica georgiana, pur considerando la Russia la principale minaccia alla stabilità politica ed economica del Paese, ritiene indispensabile un rapprochement con Mosca, senza con questo compromettere la propria marcata propensione filo-occidentale.
E’ proprio questa accentuata proiezione verso Occidente a non essere tuttavia gradita nelle stanze del Cremlino. Una Georgia pienamente integrata nel “club dei Paesi occidentali” (in particolar modo nella NATO) rappresenterebbe per la Russia un inaccettabile cavallo di Troia nel suo “giardino di casa”, quello spazio ex-sovietico cuore pulsante degli interessi geopolitici russi che Mosca considera sua sfera di competenza pressoché esclusiva.
Il Cremlino non è ancora la casa di vecchi autocrati convertiti ai valori della democrazia liberale, ma continua a pullulare di eccellenti strateghi, ed una piena normalizzazione dei rapporti fra Mosca e Tbilisi rientrerà fra le priorità dell’establishment politico russo solo quando la Georgia accetterà la Russia come grande egemone geopolitico della regione. La modifica del sistema dei visti fra le due repubbliche non toglie certamente il sonno ai policy-makers russi, ma rifiutare l’offerta di un primo disgelo nelle relazioni fra i Paesi avanzata da Saakašvili non avrebbe deposto a favore di Mosca.  Il Cremlino ha così rilanciato: la Russia non solo si è detta pronta a modificare il rigido regime dei visti introdotto nel lontano 2000 in risposta alla benevola ospitalità offerta dalla Georgia ai terroristi ceceni nelle gole del fiume Pankisi, ma ha addirittura proposto il ripristino delle relazioni diplomatiche con Tbilisi, interrotte nel settembre 2008 dopo la drammatica guerra di agosto ed il riconoscimento da parte russa dell’indipendenza delle regioni georgiane di Abkhazia ed Ossezia del Sud. Un’offerta formulata appositamente per essere rifiutata, ma tale da far gravare su Tbilisi la responsabilità del rifiuto: uno scaricabarile in piena regola, per quanto nessuno creda realmente alle proclamate buone intenzioni del Cremlino.
Il governo georgiano, forte su questo punto dell’appoggio quasi unanime della comunità internazionale, ha annunciato che i rapporti con la Russia non riprenderanno finché Mosca continuerà a riconoscere l’indipendenza di Abkhazia ed Ossezia del Sud e manterrà aperte le sue ambasciate a Sukhumi e Tskhinvali, “capitali” delle due sedicenti repubbliche.
Nulla di nuovo dunque sul fronte georgiano, ancora instabile come tutto sommato per ora fa comodo alla Russia. O meglio – come ha detto il politologo georgiano Ghia Nodia – “stabilmente instabile”, perché tuttora percorso dai fermenti dei conflitti abkhazo e sud-osseto che hanno determinato la cristallizzazione di uno status quo de facto diverso da quello de jure che difficilmente potrà essere modificato senza l’approvazione dei vertici del Cremlino.
Putin si prepara al terzo mandato da presidente della Russia, nel 2013 la Georgia è invece chiamata a scegliere il successore di Saakašvili, arrivato alla fine della sua esperienza presidenziale. Se i georgiani decideranno di affidare le redini del loro Paese ad un altro leader filo-occidentale o se prenderà forma il sogno del magnate filo-russo Bidzina Ivanishvili che lo scorso novembre si è ufficialmente calato nell’arena politica, è troppo presto per dirlo; ma dopo le consultazioni elettorali in Georgia si disporrà di più elementi per capire quale sarà il futuro della regione e se l’intricatissimo “cubo di Rubik geopolitico” del Caucaso del Sud diventerà finalmente risolvibile.

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Le presidenziali francesi viste da Washington

Chissà quanto i nostalgici della grandeur francese saranno stati felici di rivedere Parigi sotto i riflettori della politica internazionale e la lente d’ingrandimento dei mercati.
Le elezioni presidenziali d’Oltralpe hanno catalizzato l’attenzione di media ed analisti politici, impegnati a valutare gli effetti sugli equilibri europei e sulle misure adottate per affrontare la crisi del debito nel Vecchio Continente di una riconferma di Sarkozy o di un avvicendamento all’Eliseo con il socialista Hollande. Il voto francese si connota dunque come tale solo perché il diritto di elettorato attivo spetta ai cittadini francesi, ma gli scenari che si apriranno dopo il secondo turno del 6 maggio coinvolgeranno l’intera Unione europea e non solo. Un voto per la Francia o per l’Europa?, titolava un suo articolo pubblicato su questo magazine il 23 aprile Antonio Menniti Ippolito, evidenziando come la “propagazione degli effetti” sia conseguenza inevitabile di un mondo sempre più interconnesso e - di fatto - come questa risulti amplificata in un sistema istituzionalmente strutturato quale è l’Unione europea, di cui la Francia è parte integrante fondamentale.
Spettatore interessato agli esiti della competizione francese sono sicuramente gli Stati Uniti, che nel frattempo guardano con attenzione alle decisioni prese in sede europea per fronteggiare la crisi economica. Obama ha più volte spronato i partner europei ad intervenire con decisione per rilanciare l’economia dell’eurozona, nella convinzione che il collasso dei Paesi più esposti determinerebbe un’implosione dell’area della moneta unica con effetti disastrosi anche per l’economia americana in debole crescita. Finora, la scena di Bruxelles è stata dominata dall’asse Merkel-Sarkozy – per la verità decisamente inclinato verso Berlino – che ha imposto la linea del rigore dei conti e di una maggiore disciplina fiscale portando alla firma del fiscal compact da parte di 25 Stati dell’Ue.
Le critiche al patto europeo dei commentatori dell’altra sponda dell’Atlantico sono state durissime, sin dalle prime fasi del negoziato. In un editoriale dall’eloquente titolo “Making it worse in Europe” ( “Peggiorando le cose in Europa” ), pubblicato sul New York Times lo scorso 31 gennaio, si sottolineava come “una saggia leadership (il riferimento è al cancelliere tedesco Merkel, ndr) dovrebbe condurre alla costruzione di un’Unione Europea più forte, aiutando i Paesi in difficoltà a delineare una strategia di uscita dal debito e non spremendoli fino al punto di rottura”. Di tenore completamente diverso ma ugualmente dure sono state le considerazioni dell’economista americano Martin Feldstein, che sul Wall Street Journal ha rimarcato l’indeterminatezza di alcune previsioni dell’accordo e definito il fiscal compact “un gesto vuoto che non sortirà alcun effetto in futuro su deficit e debito”.
Ed è qui che le presidenziali francesi tornano in gioco: come si è detto, in virtù delle interconnessioni fra sistemi politici ed economici nel mondo globale, le risposte europee alla crisi avranno un impatto anche sugli Usa. E il candidato socialista Hollande ha già annunciato che da Presidente non sosterrebbe una ratifica dell’attuale fiscal compact da parte dell’Assemblea Nazionale, perché estremamente carente sul drammatico vulnus europeo, quello dell’assenza di crescita. Affermazione forte, a cui la Merkel ha reagito ribadendo la “non rinegoziabilità” dell’accordo e rispedendo al mittente le accuse che vorrebbero la Germania esclusivamente concentrata sulla disciplina di bilancio; ma che ha portato il Presidente della Bce Draghi a richiamare l’attenzione sull’improrogabilità di un patto per la crescita.
E gli Stati Uniti? Negli interventi sulla crisi europea, Obama ha ostentato fiducia nelle capacità dei leader del Vecchio Continente di uscire dalle secche e rilanciare l’economia, ma i suoi frequenti riferimenti alla necessità di politiche per la crescita sembrano rivelare che le preoccupazioni di Hollande sono condivise dalla Casa Bianca, perché – sono parole di Obama – “alimentare la crescita europea è importante non solo per l’Europa, ma per il mondo intero e per noi negli Stati Uniti”. Probabilmente troppo poco per lanciarsi in tesi ardite sul presunto sostegno del Presidente americano ad Hollande, che pure qualche giornalista francese avrebbe lasciato imprudentemente trapelare per poi essere seccamente smentito dall’entourage di Obama. L’ex senatore dell’Illinois ha in fondo sempre avuto un ottimo rapporto con il presidente Sarkozy, al quale le posizioni filo-americane sono valse l’appellativo di “americain”. Dopo il “minimo storico” nelle relazioni franco-americane per il fermo “no” di Chirac alla guerra irachena, Sarkozy ha lavorato per un riavvicinamento a Washington, dapprima con il rientro francese nel Comando militare integrato della NATO nel 2009 e successivamente mostrandosi fedele ad Obama, che nel gennaio 2011 ha definito la Francia “il nostro maggiore alleato”.
Inoltre, le posizioni di Hollande non collimano con quelle di Obama sulla politica militare: il candidato socialista ha infatti reso noto che, in caso di elezione, ritirerà le truppe francesi dall’Afghanistan entro la fine del 2012, con un anno di anticipo rispetto a quanto previsto da Sarkozy e addirittura due rispetto ai piani della Casa Bianca per le forze americane. Tutto questo, con il summit NATO di Chicago alle porte (si terrà dal 20 al 22 maggio).
La stampa americana sembra certa della vittoria di “Monsieur Normal” Hollande contro lo “showman” Sarkozy, ma le urne invitano sempre alla prudenza. Nonostante i tentativi dei due candidati di incassare un appoggio almeno ufficioso, Obama si è mostrato piuttosto abbottonato sulla questione, anche perché già impegnato nella sua campagna elettorale.
E tutto sommato, chi sarà l’inquilino dell’Eliseo passa relativamente in secondo piano per chi è interessato a restare per altri 4 anni inquilino della Casa Bianca.

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La polveriera siriana ed il Piano Annan

Due mesi, qualche centinaio di morti in più e nessun passo in avanti: si potrebbe riassumere così la situazione nella polveriera siriana dall’entrata in vigore del Piano Annan ad oggi. Non che la cosa sorprenda, ad essere cinicamente sinceri: pochi erano persuasi del fatto che la mediazione diplomatica dell’ex segretario generale dell’Onu potesse portare ad una interruzione delle ostilità. Forti perplessità sull’efficacia del piano predisposto dall’Inviato Speciale per le Nazioni Unite e la Lega Araba erano state espresse dalla stampa internazionale subito dopo la sua elaborazione, anche se per ragioni diverse: attraverso le colonne del New York Times, l’analista politico Aaron David Miller aveva evidenziato come “a dispetto delle buone intenzioni, il Piano Annan non può porre fine alla crisi, ma peggiorarla” e addirittura che ogni suo punto nascondeva insidie che di fatto avrebbero potuto favorire il regime di Assad; mentre Sergei Balmasov lasciava intendere sulla Pravda che tutti i fattori, Piano Annan compreso, giocavano contro il dittatore alawita e che comunque la Siria non si sarebbe salvata. 

Anche su questo magazine, in un articolo sull’Asse Mosca-Damasco nella “primavera siriana”, avevamo mostrato scetticismo sulle reali possibilità di successo della missione di Annan: sin da aprile, l’inconciliabilità delle posizioni delle fazioni in contrasto sembrava lasciare poco spazio alla speranza di una soluzione politica negoziata del conflitto.

Il 10 maggio, quando il Piano ed il cessate il fuoco erano operativi da circa un mese, un convoglio di osservatori Onu è stato attaccato alle porte della città di Deraa e 8 uomini della scorta sono rimasti feriti: la tenuta dell’accordo vacillava e lo stesso Annan si diceva preoccupato di una ulteriore escalation che avrebbe definitivamente fatto precipitare la Siria nella guerra civile.

Gli spettri più cupi si sono materializzati il 25 maggio, con il massacro di civili (molti dei quali donne e bambini) ad Houla che il Wall Street Journal non ha esitato a definire la “Srebrenica siriana”. La condanna del mondo occidentale è stata unanime e anche Israele ha rotto il silenzio degli ultimi mesi dicendosi “disgustata” per quanto accaduto; dall’altra parte invece la Russia – finora piuttosto generosa verso Assad - ha parlato di responsabilità congiunte di esercito regolare e ribelli. Dal canto suo, il Presidente siriano ha gridato al “complotto internazionale”, si è scagliato contro i “terroristi” responsabili della carneficina di Houla ed ha garantito che i colpevoli saranno assicurati alla giustizia.

Nelle ultime due settimane, la tensione è andata crescendo ed il fronte di opposizione si è detto non più vincolato dal cessate il fuoco, mentre il regime ha formalmente confermato il suo impegno nell’attuazione del Piano Annan. Tra il dire ed il fare c’è però di mezzo un mare procelloso, nel quale gli esperti nocchieri della diplomazia internazionale appaiono disorientati e soprattutto in disaccordo sulla rotta da seguire.

Russia e Cina hanno ribadito fermamente il loro “no” a qualsiasi intervento armato, il Presidente francese Hollande non esclude una soluzione militare avallata dal Consiglio di Sicurezza Onu ma sa bene che Mosca e Pechino alzerebbero le barricate se il tema fosse posto in agenda al Palazzo di Vetro, la Turchia continua a rifocillare i ribelli, gli Usa non hanno intenzione di impegnarsi in un altro teatro di guerra a pochi mesi dalle elezioni presidenziali.

L’ultima proposta lanciata da Obama è quella di una transizione sul modello yemenita, con Assad in esilio ed alcuni esponenti del suo governo alla guida temporanea del Paese. Le condizioni per una soluzione di questo tipo non sembrano tuttavia sussistere: la leadership del Presidente siriano è infatti ancora relativamente solida, una parte neanche tanto esigua della popolazione continua a sostenerlo e le defezioni nell’esercito regolare sono state tutto sommato contenute. L’ipotesi che il dittatore alawita decida di abbandonare “volontariamente” (le virgolette sono d’obbligo in questo caso) la scena come ha fatto lo yemenita Saleh è dunque da escludere per il momento. Perché in futuro possa prospettarsi uno scenario del genere, sarebbe necessaria la costituzione di un fronte internazionale compatto che spinga in tal senso, ma Mosca si convincerebbe a sposare questa linea soltanto se Assad fosse con le spalle al muro.

Nell’impasse attuale si preme dunque per un rafforzamento del Piano Annan, che gli Usa hanno dichiarato di voler continuare a sostenere e Russia ed Unione Europea hanno riconosciuto come “migliore opportunità per far cessare le violenze” nell’ultimo vertice congiunto tenutosi ad inizio giugno a San Pietroburgo.

Come ci ha detto in una conversazione il professor Mark Katz, esperto di questioni medio-orientali, “l’importante è che si dia l’impressione di fare qualcosa anche quando, e anzi soprattutto quando, non si sta facendo nulla”.

I ribelli hanno fatto sapere che, per quanto li riguarda, il Piano Annan è morto. O forse, ci permettiamo di aggiungere, non è mai nato.

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L’ “incubo bielorusso” e il nuovo “sogno georgiano”

“Le elezioni sono state libere e democratiche e i Paesi dell’Europa occidentale potrebbero imparare qualcosa seguendo l’esempio della Bielorussia”. Con queste parole, il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko ha voluto chiudere le polemiche sulle elezioni parlamentari dello scorso 23 settembre, nelle quali i candidati a lui vicini si sono aggiudicati 109 dei 110 seggi disponibili. Viene quasi naturale chiedersi quale sia il nome del singolo parlamentare dell’opposizione alla Camera dei rappresentanti (la camera bassa del Parlamento bielorusso), ma a scanso di equivoci è bene precisare che questo deputato non esiste. Semplicemente, nel collegio di Novobelitsky nel distretto di Gomel, l’unico candidato che si è presentato non è riuscito a convincere il 50% +1 degli aventi diritto di voto a recarsi alle urne per tributargli il loro consenso, e pertanto sarà necessario rivotare.
Le forze di opposizione hanno questa volta deciso di boicottare le elezioni, invitando i loro sostenitori a trascorrere una tranquilla domenica a raccogliere funghi o a preparare una buona zuppa – piatto base della cucina locale – senza darsi troppa pena per andare a votare, essendo l’esito delle consultazioni scontato. La previsione si è avverata, e il presidente potrà così di nuovo contare su una Camera dei rappresentanti interamente a suo appannaggio.
Già pronto alle critiche dell’Occidente che sono puntualmente arrivate, Lukašenko ha voluto sottolineare già prima del voto gli enormi sforzi compiuti dalla Bielorussia per garantire il corretto e trasparente svolgimento delle operazioni elettorali. Sarcasticamente, mentre arrivava al seggio con il suo erede designato – il figlio Kolya di 7 anni -, il presidente ha affermato che “se anche questa volta ci sarà da ridire sulle scelte dei bielorussi, non so davvero quali standard ci sarà chiesto di rispettare nelle prossime elezioni”, ricordando comunque che “qui non si tengono le elezioni per far felice l’Occidente” e che  “il principale architetto del Paese è il popolo bielorusso”.
Le opposizioni sono invece state liquidate come “codardi che non hanno nulla da dire al popolo” e le manifestazioni di protesta caldamente sconsigliate, con la sibillina considerazione che “in questo momento la Bielorussia non ha bisogno di shock o rivoluzioni”.
Dopo il voto, si è ripresentato immancabile lo scontro fra gli osservatori internazionali, con gli inviati dell’Osce che hanno evidenziato come le libere elezioni siano contraddistinte “dalla libertà di parola, di organizzazione e dal diritto di ciascuno a competere per le cariche elettive, garanzie che in questa campagna elettorale non sono state rispettate”  e gli esperti della filorussa Comunità degli Stati Indipendenti che al contrario hanno constatato “la conformità delle elezioni ai principi democratici universalmente riconosciuti” nonché la loro “pubblicità e trasparenza”.
Al di là di qualsiasi valutazione nel merito del voto, Lukašenko sembra comunque poter dormire per il momento sonni tranquilli, forte di un Parlamento che continuerà ad approvare le sue iniziative e protetto da Mosca, con cui Minsk coopera per la nascita dell’Unione eurasiatica che comprenderà anche il Kazakistan.
Diverso è il discorso relativo alla Georgia. Dal gennaio del 2004, il Paese è guidato dal presidente ultraoccidentalista Michail Saakašvili, leader carismatico di quella “rivoluzione delle rose” che nel 2003 pose fine al controverso decennio di presidenza dell’ex ministro degli Esteri dell’Urss Eduard Shevardnadze. Consolidamento democratico e trasparenza nella gestione delle leve del potere, avvicinamento all’Occidente attraverso l’ingresso nella Nato e l’intensificazione dei rapporti con l’Unione europea e soluzione della questione dell’unità territoriale georgiana minata dalle rivendicazioni delle repubbliche de facto indipendenti di Abkhazia ed Ossezia del Sud erano i pilastri del programma di Saakashvili.
Oggi, ad oltre otto anni dall’inizio del sogno democratico georgiano, sono stati compiuti alcuni passi in avanti, ma il personalismo a tratti esasperato ed il pugno di ferro mostrato agli oppositori nel 2007 con la forzata dichiarazione dello stato di emergenza per alcune manifestazioni di piazza non hanno giocato a favore del presidente filo-occidentale. L’ammissione alla Nato, fortemente osteggiata dalla Russia, rimane inoltre per ora un miraggio ed il blitz in Ossezia del Sud nell’agosto del 2008 si è rivelato un fallimento che ha assunto i contorni del dramma quando i carri armati russi – che sostengono gli osseti – sono arrivati alle porte della capitale georgiana Tbilisi.
Alla fine del 2011 ha così cominciato a prendere forma un altro sogno, quello di Bidzina Ivanišvili, plurimiliardario il cui patrimonio equivale a metà dell’intero Pil della Georgia. E “Sogno georgiano” è proprio il nome della coalizione a sostegno di Ivanišvili, uomo che ha costruito in Russia gran parte della sua fortuna economica ed è per questo considerato assai gradito ai vertici del Cremlino. Venuta meno l’ipotesi di estromissione dell’avversario dalla competizione elettorale per la doppia cittadinanza – Ivanišvili è infatti anche cittadino francese e per la legge georgiana poteva essere privato della nazionalità del Paese caucasico – Saakašvili ha puntato proprio sui rapporti fra il suo rivale e Mosca per recuperare consensi, essendo stata la sua immagine ulteriormente offuscata dalla notizia delle torture e degli abusi consumati contro i detenuti nelle carceri di Tbilisi.
Dal canto suo, il leader della coalizione “Sogno georgiano” ha imparato subito il mestiere del politico, mostrando straordinarie doti di equilibrista: riallacciare le relazioni con Mosca non può che essere uno degli obiettivi da perseguire con determinazione, visto che il “muro contro muro” non ha sortito alcun risultato positivo, ma l’adesione alla Nato e l’integrazione con l’Unione europea resteranno priorità assolute nell’agenda di politica estera. In un’intervista rilasciata al settimanale tedesco Der Spiegel lo scorso marzo, Ivanišvili si è definito “l’ultimo uomo libero in Georgia”, uno che “ha sì denaro”, ma il cui capitale più importante è “la fiducia delle persone”. E ai georgiani è piaciuto, visto che nelle elezioni legislative del primo ottobre hanno deciso di tributare alla sua coalizione il 55% dei consensi a fronte del 40% del Movimento Nazionale Unito di Saakašvili.
Il presidente, dopo un primo tentennamento e l’annuncio che il voto nei collegi uninominali era a nettamente a favore della sua forza politica, ha ammesso la sconfitta e dichiarato che il suo partito passerà all’opposizione. 
L'8 ottobre Ivanišvili è stato chiamato a ricoprire l’incarico di Primo Ministro nell’esecutivo bicefalo previsto dalla Costituzione georgiana, che ricorda il modello della V Repubblica francese ma che in virtù della riforma che entrerà in vigore nel 2013 ridimensionerà il ruolo del presidente e trasferirà numerose competenze a Parlamento e Primo Ministro.
Dunque si profila una coabitazione, che avrà come protagonisti Michail l’ultraoccidentalista educato negli Usa e l’amico del Cremlino Bidzina, che però ha già annunciato tramite il suo account twitter che la meta del suo primo viaggio all’estero saranno gli Stati Uniti.
In attesa delle elezioni presidenziali previste per ottobre del 2013, alle quali peraltro Saakashvili non potrà candidarsi per il limite dei due mandati, la partita per il futuro della Georgia è ufficialmente aperta.

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Elogio della flessibilità (obamiana)

Che un maestro della comunicazione come Barack Obama potesse essere “tradito” da un microfono acceso lo avrebbero pensato in pochi, ma le immagini del fittissimo scambio di opinioni fra il Presidente americano ed il suo collega russo Dmitrij Medvedev in occasione del Summit sulla sicurezza nucleare di Seul, hanno fatto il giro del mondo e suscitato un intenso dibattito.
Nel video mandato in onda dall’emittente televisiva “Fox”, Obama dice a Medvedev che “tutte le questioni, in particolare quella missilistica, possono essere risolte”, ma aggiunge di avere “bisogno di più spazio”. Il prossimo novembre, l’ex senatore dell’Illinois correrà infatti per il secondo mandato presidenziale, ma dopo quella data - promette al suo omologo russo - “avrà maggiore flessibilità”. La risposta di Medvedev è concisa ma chiarissima: dice di aver compreso le preoccupazioni del collega e che “informerà Vladimir (Putin).
L’offensiva repubblicana non si è fatta attendere. Il più duro è stato ovviamente Mitt Romney, probabile rivale di Obama nella corsa alla Casa Bianca, che ha definito le parole dell’attuale Presidente “allarmanti e preoccupanti” in considerazione del fatto che “La Russia rimane il nemico geopolitico numero 1”.
Obama ha cercato di minimizzare l’accaduto, prima rifugiandosi nel suo oramai consolidato senso dell’umorismo e successivamente puntualizzando il significato dello scambio di battute con Medvedev, che intendeva evidenziare come questioni assai delicate quali quella della difesa missilistica potranno essere meglio discusse solo quando le nuove amministrazioni dei due Paesi (in Russia si è già votato il 4 marzo, negli Usa si voterà a novembre) saranno al lavoro.
Che si tratti di una mera “spiegazione di facciata” è fuori di discussione, così come è indiscutibile che il Presidente americano sia stato incauto. L’errore di comunicazione di Obama risiede però nell’aver ostentato una certa sicurezza – per la verità piuttosto condivisa soprattutto per la tangibile inconsistenza degli avversari – sulla sua rielezione e nella richiesta di un maggiore spazio d’azione per la sua campagna elettorale all’establishment politico russo, non nell’annuncio di una maggiore flessibilità nei rapporti con il vecchio arcinemico. Putin ha fatto dell’opposizione allo scudo americano antimissile in Europa uno dei cavalli di battaglia nella sua corsa al Cremlino e ha promesso che la Russia avrebbe reagito a qualsiasi provocazione, mostrando i muscoli agli Usa ed accreditandosi nuovamente come leader carismatico di un Paese che vuole farsi sentire sul palcoscenico internazionale. Tramite Medvedev, Obama ha chiesto in sostanza a Putin di concedergli sulla questione qualche “intervento a gamba tesa” contro Mosca, di quelli che molto spesso si riducono a pura retorica ma che tanto piacciono all’opinione pubblica americana. Questo perché, una volta incassata la rielezione e libero da condizionamenti legati ad un eventuale ulteriore mandato, il Presidente americano potrà mostrarsi più flessibile. Una flessibilità che agli americani suona come una resa ad una Russia che continua ad essere inquadrata secondo i preconfezionati schemi della Guerra Fredda; un appeasement insostenibile per chi si è investito della quasi messianica missione di estirpare il male dal mondo, in conformità con il mito dell’ “eccezionalismo americano”. E che la Russia sia una delle manifestazioni del male, un’Unione Sovietica che si è semplicemente sottoposta ad un maquillage politico, è per molti americani un assioma, un principio che tutti sanno essere vero ma che non può essere dimostrato.
Dietro la contestata “flessibilità obamiana” potrebbe tuttavia esserci una profonda comprensione dell’attuale scenario internazionale e del ruolo che gli Usa potrebbero giocare in futuro. Il mito dell’iperpotenza democratica è in declino, vittima di quell’autocoscienza a stelle e strisce che si è sedimentata dopo l’implosione dell’Urss e che ha portato gli Stati Uniti a declinare la loro politica estera secondo i dettami dell’unipolarismo. Gli Usa appaiono oggi mentalmente impreparati ad un mondo marcatamente multipolare in cui gli equilibri geopolitici sono il risultato della composizione di interessi spesso in contrasto ed in cui la flessibilità è una virtù, non certo un problema. La Russia si è opposta alle sanzioni internazionali contro l’Iran ed ha continuato a sostenere il regime di Assad in Siria, ma questo dovrebbe deporre a favore di una più accentuata flessibilità nella politica verso Mosca e non giocare contro di essa. Se lo scudo missilistico in Europa è realmente pensato in funzione anti-iraniana e le principali preoccupazioni degli Usa sono contrastare il progetto nucleare di Ahmadinejead e fermare il bagno di sangue in Siria, è impensabile che questi risultati possano essere raggiunti senza tessere la trama del dialogo con il Cremlino. Flessibilità non significa resa, ma definire un’agenda delle priorità e lasciare spazio all’arte della diplomazia e del negoziato, significa puntare ad obiettivi concreti senza con questo rinunciare al proprio ventaglio di valori, smussare le spigolosità dell’ “eccezionalismo americano”, riconoscere che negoziare non vuol dire mostrarsi deboli, comprendere che il soft power americano (si pensi al ruolo dei social network “made in Usa” Twitter e Facebook nella “Primavera araba”) può molto di più dell’hard power.
Prendendo in prestito le parole dell’economista indiano Rajiv Kumar, significa rendersi conto che “La stella americana sembra cadere non perché gli Usa sono più deboli, ma perché altre stelle stanno cominciando a brillare” e che dunque si pone la necessità di ripensare strategicamente l’America, non più iperpotenza ma ancora  la più importante delle grandi potenze.
L’ultima parola, com’è d’uso nelle democrazie, spetterà comunque agli americani il prossimo novembre.

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Il caso (geo)politico di Ye Shiwen

La rivalità fra Stati Uniti e Cina è tornata ad accendersi. Questa volta però, Pechino non ha rifiutato di rivalutare lo yuan come chiede Washington, né gli Usa hanno dato ospitalità ad un attivista cinese per i diritti umani come Cheng Guangcheng. Le acque della discordia non sono quelle dell’Oceano Pacifico di cui i due Paesi si contendono il controllo, bensì quelle “insospettabili” della piscina olimpica di Londra.

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Ucraina, un anno di guerra

Un anno drammatico, durante il quale la guerra è tornata a manifestarsi con tutta la sua brutalità nel cuore dell’Europa. Infrastrutture colpite, territori aggrediti, città distrutte o irrimediabilmente sfregiate, mentre le bandiere issate sugli edifici più rappresentativi segnalano un cambiamento dello status quo, che si tratti dell’arrivo dell’occupante, del suo ritiro o della sua cacciata. E poi milioni di persone in fuga, a cercare riparo oltreconfine o nelle aree del Paese meno segnate dal conflitto, con il numero delle vittime che giorno dopo giorno continua a salire. Le cifre restano incerte, ma il 5 febbraio l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (OHCHR, Office of the High Commissioner for Human Rights) segnalava 7.155 morti accertati tra i civili: stime evidentemente conservative, a cui occorre aggiungere decine di migliaia di soldati e combattenti che hanno perso la vita in battaglia.      

«Marry me or I will kill you», ossia «Sposami o ti uccido», aveva sintetizzato Thomas L. Friedman in un editoriale pubblicato su The New York Times il 18 gennaio 2022, poco più di un mese prima dell’invasione: perché per Vladimir Putin non potevano esistere alternative a quel matrimonio, come peraltro egli stesso aveva lasciato intendere nel saggio Sull’unità storica di russi e ucraini pubblicato a sua firma sul sito del Cremlino il 12 luglio 2021. Perché per Putin un’autentica identità ucraina nemmeno esisterebbe, e l’Ucraina stessa – come ebbe a dire all’ambasciatore statunitense William J. Burns – non sarebbe neppure un vero Paese, in quanto divisa tra un’anima che guarda all’Europa dell’Est e un’altra veramente russa. E perché Putin, deciso a riaffermare la centralità della Russia nello scacchiere internazionale, non avrebbe mai potuto accettare la definitiva occidentalizzazione di una realtà pienamente rientrante nella sfera di interesse preminente di Mosca, tanto più se si considera quel territorio – come disse egli stesso il 21 febbraio in occasione del riconoscimento delle autoproclamate repubbliche popolari di Doneck e Luhansk – come parte inalienabile della «storia, della cultura e dello spazio spirituale russo».

Occorreva dunque agire in fretta, contando sia sulla solidità delle proprie forze armate che su una resistenza ucraina limitata o comunque facilmente contenibile. L’auspicio era poi che gli Stati Uniti, ancora storditi dal disastroso ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dal rapido ritorno al potere dei Talebani a Kabul, si tenessero abbastanza lontani da un conflitto tutto sommato periferico rispetto alle loro priorità geopolitiche, come accaduto – al di là della condanna formale e di qualche sanzione – in occasione dell’occupazione della Crimea e a fronte dell’attivismo russo a sostegno dei separatisti del Donbass. D’altro canto, se anche Joe Biden avesse deciso di dare seguito alla sua promessa di far pagare alla Russia un prezzo altissimo in caso di invasione, per l’Occidente sarebbe stato difficile ritrovare in nome della difesa dell’Ucraina l’unità perduta: in quel caso, secondo il Cremlino, sarebbe stato infatti sufficiente brandire l’arma di un taglio delle forniture energetiche per assicurarsi da buona parte dell’Europa una sostanziale docilità.

In una cornice del genere, il tempismo è essenziale: l’operazione doveva essere lanciata al momento giusto e avere durata breve, così da mettere il mondo di fronte al fatto compiuto e inibire alla radice qualsiasi tipo di reazione. Un obiettivo che evidentemente il Cremlino riteneva raggiungibile senza eccessivi sforzi, tanto che già la mattina del 26 febbraio – a soli due giorni dal lancio dell’invasione e a conflitto ancora in corso – compariva per errore sul sito di Ria Novosti un articolo di celebrazione della vittoria, nel quale Putin era glorificato come il leader che aveva assunto su di sé la «responsabilità storica» di non lasciare «la soluzione della questione ucraina alle future generazioni». Quell’editoriale – ritirato in tutta fretta dal web – non si limitava però ad esaltare la ritrovata unità del mondo russo, ma guardava ben oltre rivelando plasticamente le ambizioni da grande potenza di Mosca, capace di sfidare a viso aperto l’Occidente sancendo la fine del suo dominio globale e di accelerare la transizione verso un «nuovo ordine mondiale» finalmente multipolare.

 

Oggi, a distanza di quasi un anno, appare chiaro che molte di quelle previsioni non avevano ragion d’essere. In primo luogo, Putin aveva nettamente sovrastimato le capacità delle sue forze armate, che nonostante i processi di modernizzazione intrapresi dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica si sono rivelate impreparate ad affrontare il conflitto. Anche perché – come ben evidenziato dalla ricercatrice Dara Massicot in una sua analisi per Foreign affairs – Mosca ha deciso di non seguire la sua stessa dottrina militare, che in caso di conflitto tra Stati prevede attacchi aerei e missilistici contro target e infrastrutture critiche del nemico, così da fiaccare le sue resistenze e conquistare obiettivi da mettere in sicurezza in un secondo momento attraverso il dispiegamento di forze di terra. Certo – rileva ancora Massicot – questo non significa che Mosca non abbia colpito target sensibili per l’Ucraina, ma non lo ha fatto il modo sistematico, probabilmente coltivando l’illusione di un conflitto assai rapido che si sarebbe risolto nella rimozione di Zelenskij e nell’insediamento a Kiev di un’amministrazione amica del Cremlino, a cui la conservazione di infrastrutture pienamente funzionanti avrebbe fatto da subito comodo. Contro la Russia poi ha quasi certamente giocato l’estrema segretezza dei piani di attacco, che Putin ha elaborato con una ristretta cerchia di fedelissimi e condiviso solo pochi giorni prima dell’avvio dell’offensiva con i comandanti, i ministri e le truppe, rendendo così estremamente difficile un’adeguata preparazione in vista della guerra.

Mosca aveva poi ampiamente sottovalutato le forze di difesa ucraine, che grazie al decisivo sostegno degli apparati di intelligence e agli armamenti occidentali sono riuscite a resistere, reagire e contrattaccare. E ancora, probabilmente il Cremlino non aveva immaginato di scontrarsi con l’orgoglio di un popolo ferito ma deciso a non arrendersi, perché desideroso di difendere un’identità che il conflitto sta ulteriormente forgiando e consolidando. Da parte sua l’Occidente – che nella propria complessa articolazione ha manifestato sia posizioni più determinate che inviti a una maggiore prudenza – ha mostrato un’inaspettata capacità di risposta unitaria, assicurando pieno sostegno a Kiev e predisponendo un ventaglio di durissime sanzioni contro Mosca. Lungi poi dal sancire il definitivo tramonto di un’alleanza che – nelle parole del presidente francese Emmanuel Macron – si trovava in uno stato di «morte cerebrale», il conflitto ha rilanciato la centralità della NATO, a cui anche la Svezia e la Finlandia hanno chiesto di aderire.

 

Sarebbe impossibile esaurire in poche righe un anno di battaglie e di scontri, di attacchi e di resistenze, di occupazioni e di controffensive. Alcune immagini ed alcuni eventi – dall’orrore dei massacri di Buča, al dramma delle fosse comuni di Izjum, alla distruzione del teatro di Mariupol′ fino alla riconquista ucraina di Cherson a novembre – fanno già parte della storia e raccontano i primi 12 mesi di un conflitto che per ora non vede fine né soluzione, perché Putin non può permettersi una sconfitta e lo stesso Zelenskij – allo stato attuale – pare disporre di margini negoziali molto ristretti, sostenuto da un’amplissima maggioranza che rivendica il ripristino della piena integrità territoriale dell’Ucraina. Mentre sul campo si continua a combattere, ciò che appare sullo sfondo – e restituisce la fotografia di un mondo che sta attraversando una stagione turbolenta – è soprattutto il processo di ‘stratificazione’ di una serie di crisi in corso da tempo, che il conflitto ha contribuito ad acuire, esacerbare, aggravare. Marcello Mocellin ha ricordato, ad esempio, su questo magazine come il 2022 sia stato per l’Europa l’«annus horribilis» dell’energia, a causa di criticità che si erano già palesate in fase pre-bellica e di una dipendenza dalle forniture russe che con lo scoppio della guerra ha messo a nudo tutte le fragilità del settore. D’altra parte, lo shock potrebbe aver definitivamente smosso le acque, imponendo al Vecchio continente una più marcata diversificazione delle fonti di approvvigionamento, un radicale rilancio dei progetti energetici nel Mediterraneo orientale e una ancor più convinta adesione ai piani di transizione verso le rinnovabili: in tale prospettiva, i prossimi anni risulteranno decisivi.

Spesso oscurata dai fatti di cronaca e dalle ripercussioni della guerra sugli equilibri globali, la crisi ambientale scatenata dal conflitto appare inoltre significativa, traducendosi in conseguenze drammaticamente tangibili quali la perdita di biodiversità, l’inquinamento dell’aria dovuto all’impiego degli armamenti, la cancellazione di un importante patrimonio forestale – a settembre oltre 280.000 ettari di boschi risultavano distrutti – e la contaminazione delle acque, tanto da precludere o limitare severamente l’accesso all’acqua potabile a oltre 6 milioni di persone.

Quando poi i Paesi impegnati nello sforzo bellico sono responsabili di più di ¼ delle esportazioni globali di grano, del 20% della produzione mondiale di orzo e addirittura del 75% dell’export di olio di girasole, le conseguenze sulle catene di approvvigionamento alimentare appaiono inevitabili, influenzando – assieme a fattori concorrenti quali la siccità e gli eventi meteorologici estremi – sia l’accesso a beni di prima necessità che l’andamento dei prezzi, tanto più in una fase in cui la crisi pandemica non può ancora considerarsi superata. Il tutto, senza trascurare che la Russia è la principale esportatrice mondiale di fertilizzanti azotati, la seconda di fertilizzanti potassici e la terza di fertilizzanti fosfatici, di fondamentale impiego nelle attività agricole. Non sorprende pertanto che, in tale cornice, diversi Paesi del cosiddetto Sud globale dipendenti dalle forniture russe abbiano innanzitutto posto l’accento sulla necessità di moltiplicare gli sforzi diplomatici per la risoluzione del conflitto, astenendosi dal condannare apertamente Mosca per l’invasione dell’Ucraina sia nelle dichiarazioni pubbliche quanto in occasione dei voti in Assemblea generale delle Nazioni Unite, fornendo così al Cremlino un’apprezzata sponda per affermare che l’isolamento diplomatico della Russia – obiettivo dichiarato di Biden secondo cui Putin sarebbe diventato «un paria» internazionale – in realtà non si sarebbe verificato, nonostante l’importante sforzo sanzionatorio dell’Occidente. Quello stesso Occidente che peraltro, pur continuando ad assicurare cospicui aiuti allo sviluppo, non riesce a scrollarsi di dosso l’eredità del passato coloniale, venendo non di rado accusato dal Sud globale di aver conservato criticabili doppi standard.

Un anno dopo dunque, la guerra continua, e non è detto che si concluda rapidamente al tavolo negoziale o con la sconfitta di uno dei contendenti. La prospettiva di un conflitto prolungato, per quanto a intensità variabile, non è da escludere, perché la posta in palio resta altissima. E nessuno pare intenzionato a cedere.

 

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Immagine: Félix Vallotton, La chiesa di Souain, 1917. Crediti: National Gallery of Art, Washington, D.C.

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Cosa ci dice del mondo il forum di Davos 2023

«Cooperation in a fragmented world». A Davos, in occasione dell’edizione 2023 del World Economic Forum (WEF), le élite si guardano allo specchio e raccontano un mondo che cambia, sollecitando un rinnovato sforzo collettivo per affrontare le sfide della contemporaneità ma evidenziando al tempo stesso come l’assunzione di tale impegno rischi di diventare – senza azioni tempestive – sempre più gravosa e difficile. Perché la cooperazione è necessaria, ma gli scenari sono in perenne evoluzione. Perché le grandi questioni degli approvvigionamenti energetici, del contrasto della crisi climatica, della salute globale dopo la pandemia da Covid-19, dell’innovazione tecnologica e della mobilità sociale richiedono un approccio coordinato, ma gli equilibri internazionali si stanno destrutturando, e non è ancora possibile prevedere in che modo andranno a ricomporsi.

Che la storia fosse giunta a un punto di svolta, i «Davos men» – secondo la fortunata espressione di Samuel Huntington – lo avevano già riconosciuto nella passata edizione della kermesse svizzera: «History at a turning point», tema conduttore che ha ispirato tavole rotonde e discussioni al meeting del 2022, avrebbe tuttavia dovuto rappresentare più un monito che una mera constatazione, un appello alla condivisione degli obiettivi più che una semplice fotografia del presente. E invece, nel corso dell’ultimo anno, le difficoltà non si sono soltanto accentuate e moltiplicate, ma hanno finito per saldarsi ulteriormente fra di loro, generando una lunga catena dei rischi globali dalle conseguenze potenzialmente drammatiche. Non sorprende dunque che, in tale cornice, il Global risks report 2023 pubblicato dal WEF alla vigilia dell’evento di Davos abbia lanciato l’allarme della ‘policrisi’, richiamando un termine impiegato nel 2016 dall’allora presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e ripreso recentemente dallo storico dell’economia Adam Tooze, a rimarcare la profonda interazione tra diverse crisi il cui impatto complessivo potrebbe essere di gran lunga superiore rispetto ai singoli eventi cataclismatici. E per quanto il concetto non sia esente da critiche – come ha evidenziato il settimanale Time, per lo storico Niall Ferguson si tratterebbe di «accadimenti storici» in divenire, mentre Gideon Rachman del Financial Times ha apertamente parlato di «cliché» – appare chiaro che la stratificazione delle crisi imponga decisioni rapide e coerenti, per evitare che si arrivi al punto di non ritorno.

Esemplificativo è stato in tal senso l’intervento al Forum del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che non ha esitato a utilizzare espressioni forti – da «uragano di Categoria 5» a «tempesta perfetta» – e ha richiamato l’esigenza di guardare i problemi dritti negli occhi, se si vuole provare a risolverli. L’elenco è lungo: nel breve periodo, la crisi economica globale preoccupa, e le prospettive per l’immediato futuro non sembrano incoraggianti. Le disuguaglianze – come ribadito dall’ultimo rapporto di Oxfam Survival of the richest – si inaspriscono e il costo della vita sta toccando livelli difficilmente sostenibili, colpendo in particolar modo le categorie più vulnerabili. Le catene di approvvigionamento hanno subito gravissime interruzioni, i prezzi sono in aumento, i tassi d’interesse salgono, l’inflazione cresce e il debito si fa sempre più pressante, soprattutto per i Paesi più deboli. Ancora, l’invasione russa dell’Ucraina – oltre a infliggere terribili sofferenze alla popolazione colpita dal conflitto – ha acuito ulteriormente la crisi sul fronte dei prezzi dell’energia e dei beni di prima necessità, mentre le cicatrici lasciate dalla pandemia devono ancora rimarginarsi e gli interventi per contrastare la minaccia esistenziale dei cambiamenti climatici latitano. Sfide epocali, che metterebbero duramente alla prova anche un mondo caratterizzato da una piena comunione di intenti in tempi propizi. I tempi però – ha osservato Guterres – non sono certamente propizi, e gli attori globali non sembrano intenzionati a remare nella stessa direzione. Di qui, l’amara constatazione: laddove servirebbe cooperazione, ci si scontra con una pronunciata frammentazione. Che in parte, è anche conseguenza ‘inintenzionale’ – e quasi contro-intuitiva – dei processi di globalizzazione, come già Mark Leonard aveva suggerito in The age of unpeace. How connectivity causes conflict (2021): perché i collegamenti che negli ultimi tre decenni hanno annullato le distanze e ‘tenuto insieme’ il pianeta si sono poi trasformati in fattori di polarizzazione, mettendo in luce inaspettate vulnerabilità, creando ulteriori fronti di instabilità e paradossalmente assicurando strumenti – quali sanzioni, restrizioni, interruzioni di forniture – per la potenziale deflagrazione di nuovi conflitti.

 

Per questo, ha colto nel segno Ishaan Tharoor sul Washington Post quando ha osservato che tra i padiglioni e i dibattiti, il grande quesito che aleggia su Davos in questi giorni riguarda il futuro della globalizzazione, in un’epoca di nazionalismi ‘di ritorno’, protezionismi invocati da più parti e rivalità tra grandi potenze, consolidate o in ascesa. E se da una parte Adam Tooze ha ipotizzato per il prossimo decennio una complessiva ridefinizione delle interconnessioni esistenti, escludendo però al tempo stesso catastrofici processi disgregativi dell’economia globale, dall’altra il cancelliere tedesco Olaf Scholz non ha nascosto i rischi legati a nuove frammentazioni o a una vera e propria de-globalizzazione, che pendono come una «spada di Damocle» sul mondo. Quanto alla Cina, gli orizzonti sono chiari: il vicepremier Liu He ha ribadito in Svizzera la ferma opposizione a qualsiasi forma di unilateralismo e protezionismo, confermando invece l’impegno di Pechino per un rafforzamento della cooperazione internazionale in funzione dello sviluppo, della stabilità e della promozione della ri-globalizzazione economica. Per l’Unione Europea (UE) invece, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato il lancio del Green deal industrial plan, un piano fondato su quattro pilastri – regolamentazione, finanziamento, competenze e commercio – con l’obiettivo di assicurare all’UE una posizione di avanguardia assoluta nelle tecnologie pulite e nell’innovazione industriale, perseguendo il target dell’azzeramento delle emissioni. Un’iniziativa che, secondo quanto reso noto, dovrebbe inizialmente essere sostenuta da un rilassamento della normativa sugli aiuti di Stato, per poi portare – nel medio periodo – all’istituzione di un apposito fondo sovrano europeo; ma soprattutto la risposta di Bruxelles all’Inflation reduction act statunitense, che in chiara prospettiva protezionista assicurerà incentivi del valore di 369 miliardi di dollari a supporto della transizione verde.

 

Stando a quanto riportato dagli organizzatori, quest’anno il World Economic Forum ha accolto circa 2700 delegati provenienti da 130 Paesi, tra cui oltre 50 capi di Stato e di governo, 56 ministri delle Finanze, 30 ministri del Commercio, 35 ministri degli Esteri, 19 governatori di Banche centrali, più di 600 amministratori delegati e circa 1500 uomini d’affari. Secondo i numeri, quella che Andrea Rizzi ha definito in un articolo su El País «La grande liturgia del mondo globalizzato» sembra dunque aver confermato – prima facie – il suo successo. D’altra parte anche le assenze pesano, e la mancata partecipazione all’evento dei leader dei Paesi del G7 – eccezion fatta per Olaf Scholz – pare segnalare una minore capacità attrattiva della kermesse rispetto al passato, soprattutto in un momento in cui la crisi sconsiglia ai massimi esponenti politici di farsi ritrarre tra magnati e jet privati.

Come scriveva lo scorso anno Mark Leonard, l’uomo di Davos – le cui fortune sono anche dovute alle interconnessioni create dalla globalizzazione – non è mai stato troppo interessato alla geopolitica, ma al contrario la geopolitica ha mostrato grande interesse per l’uomo di Davos, e oggi sta lentamente plasmando quelli che saranno i futuri (dis-)equilibri globali. Comprimendo sempre di più – tra conflitti esistenti, tensioni emergenti e rivalità della politica di potenza – gli spazi per la cooperazione.

 

Immagine: Logo del World Economic Forum, Davos, Svizzera (18 gennaio 2017). Crediti: Drop of Light / Shutterstock.com

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Quale governo per una Francia divisa?

«Servirà molta immaginazione». Commentando gli esiti delle elezioni legislative, il ministro francese dell’Economia e delle Finanze Bruno Le Maire ha mostrato ottima capacità di sintesi e una significativa dose di realismo: dopo la conferma ottenuta nel mese di aprile, Emmanuel Macron è chiamato oggi a confrontarsi con una situazione inedita, che ricorda molto di più la frammentazione dei sistemi parlamentari che il modello semipresidenziale della Quinta Repubblica. Ensemble! – la coalizione presidenziale che fa perno su La République En Marche! (LREM) – conserva il maggior numero di seggi in Assemblea nazionale, ma i 245 scranni conquistati sono lontani non soltanto dai 350 ottenuti nel 2017, ma anche dai 289 indispensabili per controllare la maggioranza assoluta. Ecco dunque che laddove non arriva la ‘matematica parlamentare’ dovrà arrivare l’immaginazione evocata, attraverso la ricerca di accordi e compromessi. Ancora più esplicitamente: «La maggioranza presidenziale si fonda su idee chiare» – ha dichiarato Le Maire – «perciò invito tutti coloro che si riconoscono in queste idee a sostenerla».

Sin dalle fasi immediatamente successive al voto, quando i primi contatti sono stati attivati, è parso tuttavia evidente che le trattative saranno complesse. Édouard Philippe – già primo ministro di Macron, attualmente sindaco di Le Havre e leader di uno dei partiti della coalizione Ensemble!, Horizons – ha sottolineato l’esigenza di ascoltare il messaggio degli elettori, partendo dalla constatazione che nessun raggruppamento dispone di numeri sufficienti per governare in autonomia: in questa prospettiva dunque, l’orizzonte politico diventa quello di una «grande coalizione» tra forze che si sono fronteggiate alle urne e presentate ai cittadini con programmi diversi, ma che condividono l’obiettivo di assicurare al Paese un esecutivo stabile. Pur non escludendo a priori che un terreno comune di confronto possa trovarsi anche con i socialisti e gli ecologisti, Philippe si è rivolto innanzitutto alla destra neogaullista di Les Républicans (LR) e ai suoi 61 deputati, lanciando la proposta di una «discussione franca e diretta» per un compromesso fondato sulla mediazione. Almeno per ora, l’invito si è scontrato con il rifiuto del presidente di LR Christian Jacob, che non solo ha rimarcato come la forza politica – pur avanzando le sue proposte – intenda rimanere all’opposizione, ma ha anche colto l’occasione per criticare apertamente l’ex primo ministro, sia per l’esperienza di governo giudicata «triste» che per una carriera politica definita «l’incarnazione della linea del compromesso»: un chiaro riferimento al passaggio di Philippe da Les Républicains al fronte macroniano, con l’obiettivo – perseguito assieme al presidente – di ‘svuotare’ progressivamente il partito neogaullista.

Per il ministro delegato ai Rapporti con il Parlamento e la Vita democratica Olivier Véran, tutte le opzioni restano ancora sul tavolo: è infatti possibile un semplice allargamento della maggioranza presidenziale, ma tale processo potrebbe anche inserirsi nel solco del superamento della tradizionale dicotomia centrosinistra/centrodestra, o ancora risultare numericamente molto significativo se le forze politiche decidessero di condividere l’obiettivo di riformare insieme il Paese in un momento difficile. Infine, rimane in campo l’ipotesi delle ‘geometrie variabili’, delle maggioranze cangianti progetto per progetto, con aperture tanto a sinistra quanto a destra, mentre sarebbe da escludere qualsiasi accordo con il Rassemblement national (RN) di Marine Le Pen e con La France insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon, in quanto forze ritenute antisistemiche. «Né con l’estrema destra, né con l’estrema sinistra» – ha sintetizzato Véran – in nome della conservazione di quei valori «che abbiamo promosso durante la campagna elettorale e che portiamo nel cuore».

«C’è un problema – ha replicato sarcasticamente Le Pen al ministro –: non è lui, ma il popolo a decidere chi viene eletto. Il suo gruppo non dispone più della maggioranza assoluta, pertanto sarà obbligato a tenere conto degli altri deputati». La conquista di 89 seggi all’Assemblea nazionale – rispetto agli 8 delle consultazioni del 2017 – ha galvanizzato la leader del RN, che nelle settimane successive alla sconfitta presidenziale contro Emmanuel Macron aveva preferito defilarsi. Le rilevazioni dei sondaggisti lasciavano presagire un risultato positivo, ma il successo conseguito – ben superiore alle aspettative – segnala un rilevante passaggio politico, che si sostanzia nell’immagine dello «choc democratico» efficacemente proposta ancora una volta da Bruno Le Maire. Uno choc che, ha precisato il ministro, riflette le profonde preoccupazioni dei cittadini francesi; ad esempio sulla perdita di potere d’acquisto e sul rischio di un generale peggioramento delle condizioni di vita, così come sulla sicurezza: su questi temi – ha rimarcato Le Maire – il governo «ha dato le prime risposte», ma occorrerà procedere in futuro in modo più spedito e risoluto.

Le Pen ha assicurato un’opposizione ferma ma responsabile, rispettosa delle istituzioni, manifestando al tempo stesso la sua soddisfazione per aver centrato tre obiettivi: rendere Macron un «presidente di minoranza», perseguire «la ricomposizione politica indispensabile per la rigenerazione democratica» e dare vita a «un gruppo di opposizione determinante contro i ‘decostruttori dall’alto’ – i macronisti – e i ‘decostruttori’ dal basso, l’estrema sinistra antirepubblicana».        

Dall’altra parte, La France insoumise ha sicuramente tratto beneficio dalla costruzione della NUPES (Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale), il fronte elettorale unitario che ha raccolto al suo interno le diverse anime della sinistra, da quella più radicale a quella socialista, da quella comunista a quella ecologista. Dei 135 seggi conquistati dalla coalizione, 72 sono riconducibili alla forza politica di Jean-Luc Mélenchon, che grazie al 22% ottenuto al primo turno delle presidenziali di aprile – mancando il ballottaggio per soli 420.000 voti – si è presentato in campagna elettorale come volto riconoscibile della nuova alleanza, autocandidandosi primo ministro pur essendo prerogativa del capo dello Stato designare tale figura. L’ambizioso obiettivo di vedersi chiamato ad assumere l’incarico – costringendo così Macron a una coabitazione inedita da quando (2000) la durata del mandato presidenziale è stata ridotta da sette a cinque anni – non è oggi evidentemente alla portata del leader di LFI, e la sua proposta di formare in Assemblea un gruppo parlamentare comune della sinistra – articolato in diverse delegazioni come accade al Parlamento europeo – è stata respinta dagli altri partiti dell’alleanza. Ulteriori distinguo sono stati poi palesati sulla presentazione – preannunciata da Éric Coquerel di La France insoumise – di una mozione di sfiducia contro il governo di Élisabeth Borne, con il primo segretario del Partie socialiste Olivier Faure a rimarcare la necessità di condividere tutte le decisioni assunte a nome della coalizione. La vera sfida per la NUPES riguarda dunque l’immediato futuro, e si giocherà sulla capacità di conservare una piattaforma di dialogo e confronto per dare seguito a un progetto unitario. Un’impresa non semplice per una realtà politica che, come ben sottolineato in una sua analisi dal professor Philippe Marlière, sin dall’inizio non ha fatto mistero delle divergenze politiche esistenti al suo interno, anche su temi particolarmente sensibili come quelli della politica estera.

Dopo due giorni di consultazioni con i rappresentanti delle forze parlamentari, nella serata di mercoledì Emmanuel Macron ha parlato al Paese dall’Eliseo, congratulandosi con gli eletti, sottolineando l’alta astensione – pari al 53,8% al secondo turno – e rimarcando come la composizione della nuova Assemblea nazionale rifletta le profonde divisioni che animano la società francese. Esclusa l’ipotesi di un governo di unità nazionale – che non incontra il favore delle forze politiche e che egli stesso ha affermato di ritenere «ingiustificata» – il capo dello Stato ha dunque dichiarato di considerare possibile la formazione di una maggioranza «più ampia e più chiara», riconoscendo che sarà necessario imparare a «governare e legiferare in modo diverso», perché oggi «nessuna forza politica può fare le leggi da sola».

Per il momento, come da prassi dopo il voto, la prima ministra Borne ha presentato le sue dimissioni, ma il presidente le ha rifiutate per assicurare al governo la piena operatività nei prossimi giorni. A livello sistemico però, le elezioni legislative hanno prodotto una rilevante novità, dimostrando come il «barrage républicain», ossia la ‘diga’, la barriera che tendeva – in un sistema a doppio turno – a frenare l’ascesa delle forze antisistemiche, si è sgretolata, e pare reggere soltanto nel voto presidenziale. Nel nuovo scenario, ha osservato il direttore di ricerca dell’istituto di sondaggi IPSOS France Mathieu Gallard, i tre blocchi politici si presentano come sostanzialmente antagonisti, complice anche una polarizzazione che il fronte del presidente ha finito per alimentare: così, da parti contrapposte, si è materializzata un’ostilità al macronismo che ha fatto venir meno l’urgenza di impedire la vittoria del candidato di sinistra o di estrema destra, rompendo così l’argine repubblicano.

Le prossime settimane serviranno a fare chiarezza. Al momento però, per il presidente en marche, il rischio è quello di rimanere bloccati.

 

Immagine: Emmanuel Macron (21 marzo 2022). Crediti: Victor Joly / Shutterstock.com

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Il viaggio di Biden che guarda al Pacifico

«Yes. That’s the commitment we made». Sì, è l’impegno che abbiamo assunto.

A Tokyo, durante la conferenza stampa con il primo ministro giapponese Fumio Kishida, Joe Biden ha ribadito una posizione già espressa in precedenza, e forse troppo semplicisticamente derubricata a gaffe: se la situazione lo dovesse richiedere, e dunque se la Cina cercasse di prendere con la forza il controllo di Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero pronti a un impegno militare diretto. Come prevedibile, e come già accaduto a fronte di analoga affermazione nell’ottobre del 2021, è arrivata immediata la precisazione della Casa Bianca: quelle parole non preludono ad alcun cambiamento della policy di Washington verso Taipei, tanto che lo stesso presidente ha voluto evidenziare l’assoluta continuità degli orientamenti statunitensi sulla questione. Gli USA restano dunque innanzitutto interessati a preservare la pace e la stabilità tra le due sponde dello stretto di Taiwan, al fine di impedire – ha dichiarato Biden – qualsiasi «cambiamento unilaterale dello status quo». E ancora, mantengono ferma la loro adesione alla One China policy, che riconosce – pur con distinte autorità di governo a reclamare la loro sovranità – l’esistenza di una sola Cina. Ciononostante, il richiamo a quel «commitment» appare ugualmente significativo, tanto da portare analisti e commentatori a interrogarsi sul futuro di quella «ambiguità strategica» che – in assenza di una chiara indicazione sul «che fare» in caso di inasprimento delle tensioni – ha esercitato finora una efficace funzione deterrente: da una parte distogliendo Pechino da propositi bellicosi; dall’altra disincentivando fughe in avanti di Taiwan sulla proclamazione della propria indipendenza. E appare ancor più significativo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, a cui peraltro Biden ha fatto esplicito riferimento in conferenza stampa per lanciare un chiaro messaggio alla Cina: per il presidente degli Stati Uniti infatti, le dure sanzioni imposte dall’Occidente contro Mosca hanno un senso che va ben oltre la stretta attualità del conflitto, tanto da dover essere supportate in vari modi anche a fronte di un eventuale riavvicinamento tra il Cremlino e Kiev. Questo perché – nell’ottica dell’inquilino della Casa Bianca – un loro ipotetico allentamento trasmetterebbe un segnale sbagliato alla Cina, che già oggi starebbe «giocando col fuoco» ma potrebbe a quel punto essere tentata dall’idea di ricorrere all’intervento militare a Taipei.

La replica dell’establishment di Pechino – che ritiene Taiwan parte inalienabile del territorio cinese – non si è fatta attendere: il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha subito manifestato «forte insoddisfazione» e «ferma opposizione» alle parole di Biden, sottolineando come la Cina non ammetta interferenze straniere in affari ritenuti «interni» e non sia disponibile a compromessi o concessioni su questioni riguardanti i suoi «interessi vitali». Di più, l’invito a Washington è ad astenersi da qualsiasi comunicazione che possa inviare un messaggio errato alle «forze separatiste», con il rischio di compromettere la pace presso lo Stretto di Taiwan e le relazioni sino-americane: questo perché la Cina è pronta ad «azioni risolute per tutelare la propria sovranità e i suoi interessi in materia di sicurezza».

Il riferimento di Biden alla questione taiwanese ha parzialmente distolto l’attenzione dal lancio ufficiale dell’Indo-Pacific Economic Framework for prosperity (IPEF), l’iniziativa attraverso la quale Washington – riservando particolare attenzione alle grandi sfide della competitività economica – punta a rafforzare la cooperazione con gli alleati e i partner regionali. Oltre agli Stati Uniti, parteciperanno inizialmente al programma l’Australia, il Brunei, la Corea del Sud, le Filippine, il Giappone, l’India, l’Indonesia, la Malaysia, la Nuova Zelanda, Singapore, la Thailandia e il Vietnam. Secondo quanto riportato dalla Casa Bianca, il framework si fonderà su quattro pilastri fondamentali: un’economia connessa, al fine di cogliere le migliori opportunità e affrontare i principali rischi dell’economia digitale; un’economia resiliente, attraverso interventi mirati e impegni precisi per prevenire pericolose interruzioni delle catene di approvvigionamento; un’economia pulita, da promuovere con adeguate politiche infrastrutturali ed energetiche; un’economia giusta, che si fondi su regimi fiscali equi e combatta le pratiche del riciclaggio di denaro e della corruzione.

L’efficacia dell’IPEF è ancora tutta da verificare, ma la segretaria al Commercio dell’amministrazione statunitense Gina Raimondo aveva già annunciato che il programma non avrebbe rispecchiato i canoni dell’accordo commerciale tradizionale. E proprio questo potrebbe rappresentare un limite non di poco conto. Come infatti rilevato in un commento del diplomatico Daniel Russel per il sito Vox, la strategia elaborata da Biden è estranea tanto alla cornice del Comprehensive and Progressive agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP) – l’accordo commerciale siglato sulle ceneri della Trans-Pacific Partnership (TPP) e a cui la Cina ha chiesto di aderire – quanto all’accordo di libero scambio della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), di cui Pechino è invece già parte. In questa prospettiva – osserva Russel – l’auspicio dei Paesi del Sud-Est asiatico, che di queste iniziative sono parte integrante, sarebbe che Washington assumesse un ruolo di leadership, mettendo sul tavolo proposte concrete e in grado di apportare benefici immediatamente tangibili, come l’accesso agevolato per i prodotti della regione al mercato statunitense. Il rischio dunque è che senza un impegno forte sul fronte del commercio, il framework sia accolto tiepidamente da una parte non trascurabile degli Stati partecipanti, le cui economie – sottolineava sempre per Vox l’analista Michael Swaine – sono oramai sempre più integrate con quella cinese.

Il primo, grande obiettivo della visita di Joe Biden in Estremo Oriente – dal 20 al 24 maggio, con tappe in Corea del Sud e Giappone – è stato comunque raggiunto. Oramai da tempo, gli Stati Uniti hanno infatti declinato il riorientamento delle loro priorità di politica estera, nella consapevolezza – ulteriormente ribadita nel corso delle ultime settimane – che gran parte dei futuri equilibri globali si giocherà nell’Indo-Pacifico. Finora però, Washington non è mai riuscita a dispiegare pienamente la propria strategia nell’area, perché periodicamente richiamata a occuparsi – anche controvoglia – di altri scenari fortemente instabili, dal Nordafrica al Medio Oriente, dal pantano dell’Afghanistan fino all’Europa.

Con questa visita ufficiale – e ancor prima, accogliendo nella capitale il 12 e 13 maggio i leader dei Paesi ASEAN – Biden conferma dunque tutta la sua attenzione verso la regione, mandando un messaggio a Pechino: anche se occupati dal conflitto in corso in Ucraina, gli USA sono ben presenti nell’Indo-Pacifico. E hanno tutta l’intenzione di restarci.

 

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Macron rieletto presidente

Una vittoria attesa ma non per questo scontata, che preserva la Quinta Repubblica e riporta all’Eliseo – per la prima volta dal 2002 – un presidente in carica.

Dopo l’exploit del 2017, quando si presentò sulla scena come novità dirompente nel panorama politico d’Oltralpe, Emmanuel Macron supera di nuovo Marine Le Pen, e con il 58,5% dei voti è rieletto alla presidenza della Repubblica francese. 

Davanti ai suoi sostenitori radunati al Campo di Marte a Parigi, il capo dello Stato festeggia una conferma che arriva «dopo cinque anni di trasformazioni, di momenti felici e difficili, ma anche di crisi eccezionali», ringraziando tutti coloro che gli hanno affidato il compito di guidare il Paese per un nuovo quinquennio. Al tempo stesso però, rivolge un pensiero agli elettori che hanno deciso di tributare il loro consenso alla candidata del Rassemblement national (RN), evidenziando di avvertire su di sé la responsabilità di dare una risposta alla «rabbia» e al «dissenso» che hanno portato «molti nostri concittadini a scegliere l’estrema destra». A campagna elettorale ultimata e urne oramai chiuse, Macron torna dunque a vestire l’abito presidenziale, sollecitando inoltre i suoi supporters a non fischiare Marine Le Pen: il tempo della divisione – è il messaggio che lancia –  è finito, perché «da questo momento non sono più il candidato di una parte, ma il presidente di tutti».

Il discorso macroniano rilancia gli obiettivi del lavoro e del progresso, dell’innovazione e della creatività, proposti come pilastri di un progetto che rimane saldamente ancorato ai valori repubblicani e coltiva l’ambizione di essere «sociale ed ecologico», permettendo così di liberare «le migliori forze accademiche, culturali e imprenditoriali» del Paese. Un progetto – sottolinea ancora il presidente – «umanista e ambizioso», per «una Francia più indipendente» e «un’Europa più forte», da promuovere con convinzione pur salvaguardando le divisioni emerse e le diverse posizioni espresse, nel rispetto di tutti. Di qui, la consapevolezza della necessità di un metodo di governo rinnovato, unita alla promessa di una discontinuità che sappia garantire un migliore servizio «al nostro Paese e ai nostri giovani».

Macron dunque non si nasconde e, anche se rivendica una vittoria su Marine Le Pen più netta di quanto pronosticato da alcune rilevazioni, mostra di non ignorare le fratture che animano la Francia. Da questo punto di vista, le parole al Campo di Marte sono chiare: «So che molti cittadini hanno votato per me oggi non per sostenere le istanze che propongo» – rimarca l’inquilino dell’Eliseo – «ma per contrapporre un argine all’estrema destra. Voglio dire loro che ho coscienza del fatto che questo voto mi obbliga per gli anni che verranno: sarò il custode del loro senso del dovere, del loro attaccamento alla Repubblica e del rispetto delle differenze che sono state manifestate nelle scorse settimane». L’esito del voto pare dunque certificare il successo della strategia comunicativa multilivello adottata da Macron nei 14 giorni tra primo e secondo turno: conscio della necessità di allargare la sua base elettorale – e di doversi rivolgere innanzitutto al 22% di elettori che il 10 aprile aveva votato per Jean-Luc Mélenchon – il capo dello Stato ha infatti cercato in primo luogo di recuperare la connessione sentimentale con una sinistra delusa, visitando alcune roccaforti del leader di La France insoumise e ritornando su questioni politiche care alla gauche, come la riqualificazione dei quartieri più poveri o la promozione di una più spiccata sensibilità ambientale. A questo rinnovato slancio verso sinistra il presidente ha però affiancato quella che il giornalista Michele Barbero ha definito la «ri-demonizzazione» di Marine Le Pen, la cui immagine aveva indubbiamente tratto giovamento dalla presenza nella competizione elettorale di un candidato ultra-radicale come Éric Zemmour. Così, durante il dibattito televisivo che l’ha visto contrapposto alla leader dell’RN, Macron ha denunciato tanto lo scetticismo della sua rivale sul cambiamento climatico – accusa respinta dalla diretta interessata – quanto l’estremismo di alcune sue proposte assai controverse, come quella della «priorità nazionale», da accordare sul fronte del lavoro e dell’edilizia popolare alle famiglie francesi, o il divieto di indossare il velo in pubblico. In sostanza – ha sintetizzato Barbero – il voto ha così assunto i caratteri di un referendum a favore o contro la Repubblica.

Dal canto suo, pur vedendo svanire il sogno della presidenza, Marine Le Pen giudica il 41,5% conquistato al secondo turno una «vittoria eclatante», perché espressione del «desiderio di un contropotere forte a Emmanuel Macron», capace di sostanziarsi in un’opposizione che «continui a difendere i francesi e a proteggerli di fronte all’erosione del loro potere d’acquisto, agli attacchi alle loro libertà, …all’insicurezza, all’immigrazione incontrollata e al lassismo giudiziario». In questo senso, l’esito del voto rappresenterebbe – secondo la leader del Rassemblement national – un messaggio inequivocabile che le élite della Francia e dell’Europa non potranno ignorare e al quale occorrerebbe anzi dare ulteriore forza: di qui, l’annuncio della volontà di proseguire l’impegno politico in prima persona, in vista delle elezioni parlamentari programmate per il 12 e il 19 giugno.

Archiviate le presidenziali, l’attenzione si sposta dunque sulle decisive consultazioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale, la cui composizione potrà influenzare in maniera decisiva il corso del secondo mandato all’Eliseo di Macron, eventualmente anche attraverso una ‘coabitazione’. Non a caso il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian – pur manifestando la propria soddisfazione per il risultato elettorale conseguito dal presidente uscente – ha subito evidenziato l’esigenza di assicurare al capo dello Stato una solida maggioranza parlamentare, mentre l’attuale presidente dell’Assemblea Richard Ferrand si è detto sicuro del fatto che lo «spirito della ragione» di Macron avrà la meglio sullo «spirito di rivalsa» di Marine Le Pen. Quest’ultima però, com’è parso da subito evidente, ha tutta l’intenzione di giocare un ruolo di primissimo piano nella competizione, mentre Zemmour ha rilanciato la prospettiva di una «unione nazionale» che mettendo da parte le differenze dia vita «alla prima coalizione delle destre e dei patrioti», con l’obiettivo di «riconquistare il Paese».

Proiettato con convinzione verso le parlamentari è anche Jean-Luc Mélenchon, che dopo aver accolto con soddisfazione la sconfitta di Le Pen ha definito Macron il presidente «peggio eletto» nella storia della Quinta Repubblica, con una legittimazione derivante dal sostegno del 38,5% dei cittadini iscritti nelle liste elettorali, un’astensione che ha toccato il 28% – dato che non si vedeva dal 1969 – e una rilevante percentuale di schede bianche (4,6%) e nulle (1,6%). Il leader di La France insoumise ha così lanciato la sua ‘candidatura’ all’incarico di primo ministro per favorire l’affermazione di un nuovo «avvenire comune», mentre a sinistra sono già partiti gli appelli a unire le forze in vista delle legislative.

Se ne parlerà tra qualche settimana, con la consapevolezza che nulla è dato per scontato e che nei prossimi mesi il panorama politico francese potrebbe ridefinirsi attorno a nuovi assetti.

Per ora, la conferma di Macron salvaguarda la Repubblica e tranquillizza l’Unione Europea, di cui il presidente francese è convinto sostenitore.

L’impressione però è che con un Paese attraversato da divisioni così significative, la vera sfida per l’inquilino dell’Eliseo cominci adesso.

 

Immagine: Emmanuel Macron (24 marzo 2022). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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Turchia, Europa e democrazia

Arresti, epurazioni, purghe contro i ‘traditori’, militari arrestati e lasciati seminudi a beneficio di obiettivo, migliaia di dipendenti pubblici allontanati, magistrati rimossi, insegnanti sospesi, rettori ‘invitati’ a rassegnare le loro dimissioni. È stata questa la durissima risposta del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ai fatti accaduti nella notte tra il 15 e il 16 luglio, la sua reazione al tentato colpo di Stato che ha riportato per alcune ore la Turchia indietro nel tempo – quando l’esercito garante della stabilità del paese periodicamente interveniva a ‘ristabilire l’ordine’ – e lasciato il mondo con il fiato sospeso, fino al trionfale annuncio che l’azione sovversiva era stata neutralizzata. Verso la fine di una delle notti più convulse della recente storia anatolica, a colpo di mano ormai fallito, era arrivata anche la tardiva presa di posizione delle cancellerie occidentali, che esprimevano il loro sostegno al governo democraticamente eletto mentre Erdoğan si spingeva a definire quel momento di caos ‘un dono di Dio’, perché finalmente sarebbe stato possibile ‘fare pulizia’ all’interno dell’esercito e dei gangli corrotti del potere. Dito immediatamente puntato contro l’organizzazione di Fethullah Gülen, il predicatore in esilio volontario negli USA un tempo sodale del presidente e oggi suo nemico numero uno, reo di aver costituito uno ‘Stato parallelo’ con l’obiettivo di rovesciare il governo: Erdoğan ha chiesto a Washington la sua estradizione, ma il segretario di Stato John Kerry ha ribadito che la richiesta può essere accolta solo esibendo le prove del coinvolgimento di Gülen nell’organizzazione del colpo di Stato.

Entro i confini anatolici partiva intanto quello che la stampa internazionale ha definito il ‘contro-golpe’ del presidente turco, volto a intaccare in profondità la rete gülenista radicata nelle strutture vitali dello Stato così da poter finalmente portare avanti il progetto di costruzione della ‘nuova Turchia’. Del resto, l’Erdoğan post-golpe è indiscutibilmente più forte di quello pre-golpe.

La repressione ordinata dal presidente è stata duramente contestata da Amnesty International, secondo cui oltre 10.000 persone si troverebbero in stato di detenzione a seguito del tentato colpo di Stato. Inoltre, l’ONG a difesa dei diritti umani asserisce l’esistenza di prove credibili in merito a episodi di tortura, mentre la proclamazione dello stato di emergenza ha portato all’estensione del periodo massimo di detenzione senza la formalizzazione di accuse da 4 a 30 giorni. Prese di posizione – per la verità piuttosto tiepide – sono  arrivate anche dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri, che hanno richiamato Ankara al rispetto dello stato di diritto e fatto presente che un’eventuale reintroduzione della pena di morte – ipotesi che Erdoğan ha esplicitamente contemplato – comprometterebbe il percorso della Turchia verso l’ammissione all’UE.

Come ha poi ben sottolineato Carlo Frappi su questo magazine, quanto accaduto in Turchia nell’ultimo mese – tra golpe e successiva ‘punizione dei traditori’ – si inserisce in un quadro sociopolitico estremamente complesso e riguarda una società caratterizzata da un elevato livello di polarizzazione, in cui la contrapposizione rischia di esacerbarsi ulteriormente accentuando la già pronunciata instabilità turca.

Oggi, le problematiche connesse alla gestione del potere da parte di Erdoğan appaiono mediaticamente più visibili a causa del tentato golpe e della successiva risposta del presidente. È però da tempo che il leader carismatico della politica turca – prima premier e poi dall’agosto 2014 capo dello Stato – è accusato di esercitare le proprie funzioni in modo discutibile; da una parte, secondo i suoi oppositori, perseguendo una politica di strisciante islamizzazione del paese in contrasto con i fondamenti stessi della laicità turca, e dall’altra mostrandosi inflessibile verso qualsiasi forma di dissenso. Tra i casi più eclatanti, su cui anche i media occidentali si sono soffermati, il periodico blocco del sito di video sharing YouTube e della piattaforma di microblogging Twitter, o ancora le tensioni con la stampa e i mezzi di informazione considerati ostili, dal quotidiano Zaman riconducibile alla rete di Gülen e posto nel marzo di quest’anno sotto controllo statale fino alle accuse di rivelazione di segreti di Stato per due giornalisti di Cumhuriyet

Un’immagine dunque diversa da quella dell’Erdoğan leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) che vinse le elezioni politiche del 2002 e salì per la prima volta al potere gettando le basi per una definizione concettuale della ‘democrazia conservativa’, da intendersi non come conservazione dell’esistente, ma come capacità di adattamento allo sviluppo e al progresso, senza perdere la propria essenza e nel quadro di una piena compatibilità tra islam e democrazia. 

Nel loro Islamism, Democracy and Liberalism in Turkey, William Hale ed Ergun Özbudun hanno del resto evidenziato come il manifesto della ‘democrazia conservativa’ fosse denso di riferimenti alla centralità dell’individuo, allo stato di diritto, all’economia di mercato, all’universalità dei diritti umani, all’importanza del dialogo e della tolleranza; ossia quei valori fondanti delle moderne democrazie liberali che Ankara voleva coltivare in vista del suo ingresso nell’Unione Europea. In questo senso, l’avvio formale dei negoziati di adesione della Turchia all’UE nell’ottobre del 2005 rappresentò una chiara testimonianza della direzione intrapresa dal governo dell’AKP, che aveva aperto un’importante stagione di riforme con l’obiettivo di modernizzare il paese e adeguare l’ordinamento agli standard comunitari. Il percorso riformatore – ha sottolineato in un suo articolo del 2006 l’accademico Ihsan D. Daği – conveniva poi allo stesso AKP, in quanto appariva strumentale a una sua piena legittimazione sulla scena politica e al suo consolidamento al potere: alcuni interventi legislativi, nella prospettiva dell’accesso all’Unione, finivano infatti spesso per limitare le prerogative del potere militare, cercando di sottoporlo al controllo del potere civile.

Il cammino verso l’UE tuttavia si arenò. Tra i fattori che determinarono lo stallo, la rigida posizione di Ankara sulla questione di Cipro Nord, con la parte settentrionale dell’isola ancora sotto controllo turco; ma anche le sostanziali obiezioni di alcuni Stati membri – Francia e Germania in testa – preoccupati dall’ingresso nella casa comune europea di una realtà che avrebbe avuto un peso non secondario nei processi decisionali europei. Convincere poi le opinioni pubbliche nazionali – che sanno farsi sentire alle urne – dei vantaggi derivanti dalla partecipazione all’Unione di un paese quasi interamente musulmano, sarebbe stato molto difficile. Dall’altra parte, la proposta di una partnership privilegiata al posto della piena membership lanciata all’epoca da Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, incontrò il netto rifiuto di Erdoğan.

Che il percorso europeo fosse più legato a una dimensione ‘funzionale’ di rafforzamento del potere dell’AKP piuttosto che a una piena adesione idealistica al progetto dell’UE, sembra assai probabile ma è comunque secondario. Oggi, l’Unione Europea è un soggetto politico in crisi, che ha perso molta della sua capacità attrattiva, mentre in Turchia il processo riformatore ha assunto altri contorni, sostanziandosi in un disegno atto principalmente a consolidare ancora di più la posizione di Erdoğan. Negli ultimi anni poi, Ankara ha ricalibrato la sua politica estera, cercando di articolare una visione geopolitica che proiettasse il paese nell’arena delle potenze regionali attive in più contesti, dall’Occidente al Medio Oriente, dai Balcani fino alle repubbliche turcofone dell’Asia centrale. In realtà questa visione, che vedeva nella massima ‘zero problemi coi vicini’ uno dei suoi punti focali, ha subito un pesante ribaltamento quando la Turchia – tra rivalità con l’Iran, tensioni con Israele e aperta ostilità a Bashar al-Assad in Siria – si è ritrovata ad avere ‘molti problemi con tutti i vicini’. Lo sguardo verso l’Europa, nonostante gli attriti concernenti il rispetto dei diritti e la tutela delle libertà fondamentali, non è però mai venuto meno, e anzi nel novembre 2015 le parti hanno deciso di rilanciare il processo di adesione della Turchia all’UE. In fin dei conti, Ankara è in una posizione geopoliticamente strategica, può essere un hub energetico di primaria importanza e fa respirare Bruxelles sul fronte della gestione dei migranti. Inoltre, nella lotta al sedicente Stato Islamico rispetto al quale la Turchia ha mostrato a lungo una certa ambiguità, il suo contributo finisce per essere fondamentale. È probabile che le cancellerie occidentali, nella notte tra il 15 e il 16 luglio, abbiano tifato per i golpisti, ma dichiarando poi di sostenere il governo democraticamente eletto hanno lasciato intendere che comunque con Erdoğan – che sia gradito o meno – si deve trattare. Anche perché, dopo i segnali di distensione con Mosca successivi alle scuse turche per l’abbattimento di un Sukhoi Su-24 russo, è bene restare vigili. Seguiranno probabilmente nuove condanne verbali sul fronte dei diritti umani, ma l’Occidente sa quanto sia importante Ankara per i suoi interessi geopolitici. Forse, se le cose fossero andate diversamente sul fronte del cammino europeo della Turchia nel decennio scorso, oggi la storia sarebbe diversa.

 

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La Russia e il nuovo ordine mondiale

Un mese – anzi, oramai 50 giorni – dall’avvio di un’offensiva a tutto campo fino allo spostamento a est e a sud, probabilmente per il perseguimento di obiettivi militari più limitati.

Un mese – anzi, oramai 50 giorni – di notizie senza soluzione di continuità, di lotta contro il nemico e di fughe dalla guerra, di negoziati mai realmente decollati e di appelli inascoltati.   

Un mese – anzi, oramai 50 giorni – di incertezze sui possibili sviluppi, che oramai non riguardano più solo l’Ucraina – ammesso che siano mai stati limitati solo a Kiev –, ma assumono rilevanza globale.

Riprendendo il titolo di un’analisi di Michael Hirsh pubblicata il 10 aprile su Foreign Policy, è «il mese che ha cambiato un secolo», con la consapevolezza che un ritorno al passato non è possibile, che c’è stato un ‘prima’ e che ci sarà un ‘dopo’, e che al momento quel ‘dopo’ è ancora tutto da definire.

Esistono diverse chiavi di lettura per provare a decifrare le ragioni che il 24 febbraio hanno portato il presidente russo Vladimir Putin a invadere l’Ucraina, dando il via libera a quella che il Cremlino ha chiamato «operazione militare speciale».

Una prospettiva interessante è quella che tende a saldare politica estera e politica interna. Poche settimane prima dell’attacco a Kiev, Kathryn Stoner – vicedirettrice del Freeman Spogli Institute for International Studies presso la Stanford University – rilevava infatti come l’attivismo del Cremlino al di fuori dei confini russi fosse sensibilmente aumentato dopo la rielezione di Putin alla presidenza nel 2012, avvenuta in un clima segnato da manifestazioni di protesta a favore di elezioni libere e trasparenti. Da allora – secondo Stoner – la stretta sul dissenso interno e l’assertività sul fronte internazionale sono andate a Mosca pressoché di pari passo, creando una connessione tra politica domestica e politica estera da cui in ultima istanza dipenderebbe la sopravvivenza stessa del regime. In questo senso, dunque, non sfugge che un’Ucraina geograficamente prossima alla Russia ma politicamente proiettata in direzione dell’Occidente – tanto da costituzionalizzare «l’irreversibilità» del suo percorso verso l’Unione Europea e la NATO – rappresenterebbe per il Cremlino una condizione altamente destabilizzante, e per questo inaccettabile.

Perdere poi pezzi in quella che si considera la propria sfera d’interesse preminente non si concilia con l’ambizione a essere riconosciuti come grande potenza, tanto più se quel ‘pezzo’ che si allontana è stato indicato – con evidenti forzature e riscritture della storia – come intimamente russo. E questo non solo con l’oramai celebre saggio Sull’unità storica di russi e ucraini – pubblicato sul sito del Cremlino il 12 luglio del 2021 – né soltanto in occasione del discorso del 21 febbraio per il riconoscimento dell’indipendenza delle autoproclamate repubbliche popolari di Lugansk e Donetsk, durante il quale il presidente russo ha definito l’Ucraina «una parte inalienabile della nostra storia, della nostra cultura e del nostro spazio spirituale», ma già da prima, dai giorni in cui nel 2008 si discuteva dei primi passi di Kiev verso l’Alleanza atlantica e Putin – ricorda in un suo articolo per il Washington Post David Ignatius – sollecitava l’ambasciatore statunitense William J. Burns a riflettere sul fatto che l’Ucraina non fosse «neppure un vero Paese», perché divisa tra un’anima riconducibile «all’Europa dell’Est» e un’altra «davvero russa».

Non sorprende quindi che nell’articolo erroneamente pubblicato il 26 febbraio da Ria Novosti per salutare una vittoria sul campo che si sperava rapida ma che non era evidentemente avvenuta, trovassero spazio – in una cornice dalla fortissima impronta propagandistica – tanto la celebrazione di Putin come leader che aveva assunto su di sé «la responsabilità storica» di non lasciare «la soluzione della questione ucraina alle generazioni future», quanto la descrizione del futuro assetto dei rapporti tra un ‘mondo russo’ unito nella sua interezza – vale a dire Russia, Bielorussia e Ucraina – e un Occidente in crisi, con il progetto di integrazione europea destinato a sgretolarsi per l’incapacità dell’Europa di emanciparsi dal controllo anglo-americano.

L’articolo – firmato da Petr Akopov – evidenziava però anche una ulteriore dimensione del conflitto, che si sostanziava nell’accelerazione dei processi per l’edificazione di un «nuovo ordine mondiale» finalmente multipolare, «costruito da tutte le civiltà e i centri di potere, naturalmente con l’Occidente (unito o meno) ma non secondo le sue condizioni e le sue regole». Parole, queste, che trovano sostanziale corrispondenza nel videomessaggio con cui il 30 marzo il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov si è rivolto al collega cinese Wang Yi, evidenziando come in una fase particolarmente delicata della storia delle relazioni internazionali la Russia fosse pronta – assieme alla Cina e ad altri Paesi – a promuovere «un ordine mondiale multipolare, giusto e democratico».

Mosca – scriveva sempre Akopov – non aveva infatti solo sfidato l’Occidente, ma anche dimostrato come l’epoca del suo «dominio globale» fosse da considerarsi «completamente e finalmente terminata», riconquistando nel frattempo sia il suo «spazio storico» che il suo «posto nel mondo».

Che la Russia non percepisca sé stessa come mera «potenza regionale» – definizione di Barack Obama che irritò Putin – è evidente dal modo in cui essa si muove da tempo sulla scena internazionale. Come osservato da Julia Gurganus ed Eugene Rumer per il Carnegie Endowment for International Peace, le direttrici della politica estera russa vanno oramai oltre la conservazione di una propria sfera d’influenza o la contestazione dell’ordine securitario europeo post-guerra fredda, obiettivi che pure restano centrali come dimostrato dall’invasione della Georgia nel 2008, dall’occupazione e successiva annessione della Crimea nel 2014 o dal sostegno alle istanze separatiste nel Donbass. Incuneandosi negli spazi lasciati scoperti e sfruttando le vulnerabilità dell’Occidente, la Russia è infatti riuscita a guadagnare terreno anche in altri contesti: lo ha fatto in Medio Oriente, dove è stata decisiva per consolidare il regime di Bashar al-Assad in Siria, e lo ha fatto in Nord Africa, giocando le sue carte in Libia senza disdegnare una certa ambivalenza; lo ha fatto in Africa subsahariana – anche attraverso il dispiegamento dei paramilitari del Wagner group – e lo ha fatto in America Latina, garantendo supporto a regimi ostili a Washington come quelli venezuelano e nicaraguense.

E se il defunto senatore repubblicano John McCain era arrivato a definire la Russia «un distributore di benzina travestito da Paese», Mosca è comunque riuscita a far leva – con i suoi idrocarburi – sui bisogni di molte realtà affamate di energia, Europa compresa.   

Nel «mese che ha cambiato un secolo», il Cremlino ha dovuto fare i conti con una resistenza ucraina probabilmente inattesa, risultati militari evidentemente inferiori alle aspettative e sanzioni significative, imposte da un blocco occidentale compatto come non lo si vedeva da tempo. Di qui, il paradosso di un’operazione che, lanciata con l’obiettivo di accelerare il passaggio verso un nuovo ordine globale, ha finito per rinsaldare le posizioni dell’Occidente attorno alla difesa di valori che costituiscono la sua cifra identitaria e che il Cremlino ritiene oramai in crisi perché obsoleti.

Gli scenari futuri restano però incerti. In occasione del World Government Summit a Dubai, partecipando al panel Siamo pronti per un nuovo ordine mondiale?, il presidente dell’Atlantic Council Frederick Kempe ha citato Henry Kissinger, secondo cui un vero ordine mondiale globale non sarebbe mai esistito e ciò che oggi identifichiamo come ‘ordine’ trarrebbe origine dalla conferenza di pace di Westfalia del 1648, «condotta senza il coinvolgimento o la consapevolezza di gran parte degli altri continenti e delle altre civiltà». Dunque, la vera sfida per l’Occidente risiederebbe oggi nell’invertire la tendenza degli ultimi tempi e conservare quel vantaggio conquistato nel corso del Novecento, per la costruzione di un certo tipo di ordine mondiale globale.

Che quello esistente prima del «mese che ha cambiato un secolo» fosse o meno un ‘ordine’, conta fino a un certo punto. Ciò che sappiamo, è che era già stato messo seriamente in discussione, peraltro non solo dalla Russia.

E oggi, lo è ancora di più.

 

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Macron contro Le Pen, la sfida per l’Eliseo

Il presidente uscente, Emmanuel Macron, che punta a rappresentare «Nous tous» – ossia «Noi tutti», slogan scelto per meglio incarnare l’unità della nazione rispetto all’iniziale «Avec vous» («Con voi») – contro la «Femme d’État», Marine Le Pen, la donna che dall’Eliseo intende – secondo la sua visione – «ristabilire l’autorità dello Stato». In linea con le aspettative – e dopo un primo turno nel quale si sono fronteggiati ben 12 candidati – saranno loro a contendersi domenica 24 aprile la carica più prestigiosa della Repubblica.

Le possibili sorprese, forse più mediatiche che sostanziali, sono andate progressivamente evaporando con il passare delle settimane: dopo il clamore suscitato dalla sua infuocata retorica anti-islam e anti-immigrazione, il polemista di estrema destra Éric Zemmour – al centro della scena quando alle elezioni mancavano ancora diversi mesi – è rimasto vittima delle sue stesse provocazioni, polarizzando radicalmente le opinioni attorno alla sua figura e mostrando un profilo tutt’altro che in linea con il ruolo di presidente. Così, il candidato della Reconquête – il nome del suo partito che riecheggiava la reconquista spagnola – ha finito per perdere quota nelle intenzioni di voto, passando da un potenziale consenso a doppia cifra – tale da insidiare in alcuni frangenti Marine Le Pen – a un deludente 7% delle preferenze, che lo ha relegato al quarto posto della competizione elettorale.

Analogamente, l’iniziale entusiasmo attorno a Valérie Pécresse – chiamata a risollevare le sorti della destra gaullista dopo la vittoria alle primarie del partito Lés Républicains (LR) – ha preso ad affievolirsi quando la candidata si è scontrata con l’oggettiva difficoltà di definire una propria piattaforma politica, schiacciata tra la destra identitaria di Zemmour e Le Pen e il riformismo di Macron, capace di far presa sull’elettorato moderato di centrodestra. Così, complici anche una campagna elettorale poco efficace e una comunicazione non brillante, Pécresse non è riuscita ad andare oltre il quinto posto e un magro 4,8% dei consensi, restituendo al Paese la fotografia di una destra repubblicana in crisi profonda, forse irreversibile.

A cinque anni di distanza si ritorna dunque al punto di partenza, con una sfida al secondo turno analoga a quella delle ultime presidenziali. Gli scenari appaiono però almeno parzialmente diversi da quelli del 2017: da una parte, Macron non è più l’enfant prodige della politica francese ed europea, la giovane speranza sulla quale l’Occidente contava per risollevare le sorti di un sistema apparentemente in crisi esistenziale, dopo due eventi dirompenti come il voto referendario sulla Brexit (giugno 2016) e la vittoria negli Stati Uniti di Donald Trump (novembre 2016). Durante il suo primo mandato all’Eliseo, il leader di La République en marche! (LREM!) ha dimostrato di sapersi muovere con indiscutibile abilità in taluni contesti, trovandosi particolarmente a proprio agio soprattutto negli ambienti europei, ma ha anche attraversato momenti difficili, scontrandosi prima con un’opposizione non trascurabile ad alcune sue iniziative di riforma – come quella sulle pensioni – e poi affrontando la durissima sfida della pandemia da Covid-19.

Dall’altra parte invece, Marine Le Pen ha cercato di intraprendere negli ultimi anni un percorso di maturazione politica, sia rimodulando alcune delle sue posizioni più rigide – come quelle sull’Unione Europea – che mostrandosi più attenta ai temi di maggior interesse per l’elettorato, come la perdita del potere d’acquisto che preoccupava i cittadini francesi già prima dello scoppio del conflitto in Ucraina. Inoltre, la presenza al voto di Éric Zemmour, pur creando una frattura nel fronte della destra identitaria, ha contribuito in maniera decisiva al processo che il giornalista Michele Barbero ha definito di ‘de-demonizzazione’ del Rassemblement National (RN), non più percepito come manifestazione più radicale della extrême droite: per Le Pen, un’occasione propizia per provare ad allargarsi alla destra moderata e giocarsi fino all’ultimo le sue chance.

A fronte di tale evoluzione, non sorprende dunque che il 2 aprile Macron abbia invitato i suoi sostenitori a una «mobilitazione generale», sollecitandoli a non cedere alle sirene dell’astensione e a non dare ascolto «ai sondaggi o ai commentatori che vi dicono che le elezioni sono già finite, che tutto andrà bene!». L’appello del presidente non si è però limitato ai militanti del suo partito, ma ha coinvolto gli elettori di ogni schieramento, «dai socialdemocratici ai gaullisti, fino agli ecologisti», perché si unissero nella battaglia contro «gli estremismi» e il «grande stordimento»: di fatto, una chiamata a raccolta in nome della tutela dei valori fondativi della Repubblica, messa sotto pressione dall’avanzata delle forze anti-sistemiche. In questo senso, la sintesi è stata di assoluta chiarezza: accompagnata da riferimenti alla necessità di «correggere le disuguaglianze alla radice» e di far ripartire «un ascensore sociale ancora troppo rotto» – argomenti cari a una sinistra che con il presidente ha avuto un rapporto abbastanza conflittuale –, la sfida si condensa per Macron nella «lotta del progresso contro l’arretramento, del patriottismo e dell’Europa contro i nazionalisti», secondo una logica che si articola per contrapposizioni. Ai francesi, l’onere della scelta.

Come ampiamente previsto, il risultato finale sarà deciso dall’appuntamento elettorale del 24 aprile, al quale Macron si presenta forte del 27,6% dei consensi contro il 23,4% di Marine Le Pen.

Determinante per gli esiti del voto sarà dunque il riposizionamento degli elettori che, al primo turno, hanno espresso la loro preferenza a favore degli altri candidati. Da una parte, Éric Zemmour e il sovranista Nicolas Dupont-Aignan – che si è aggiudicato il 2,1% dei voti – hanno manifestato rispettivamente sostegno a Le Pen e strenua contrarietà a Macron, due atteggiamenti che di fatto in questo caso convergono verso la medesima espressione di voto al secondo turno. Dall’altra, la sindaca socialista di Parigi Anne Hidalgo – ferma a un inappellabile 1,7% – l’ecologista Yannick Jadot (4,6%), Valérie Pécresse e il comunista Fabien Roussel (2,3%) hanno espresso la loro preferenza per Emmanuel Macron, invitando i propri sostenitori a fare fronte comune contro Marine Le Pen. Philippe Poutou del Nouveau partie anticapitaliste (0,8%) non ha dato chiara indicazione di voto a favore del presidente uscente, pur manifestando la sua ferma opposizione alla leader del Rassemblement National, mentre Jean Lassalle (3,2%) di Résistons! e Nathalie Arthaud (0,6%) di Lutte ouvrière hanno lasciato libertà di scelta ai loro elettori.

Infine c’è Jean-Luc Mélenchon, che con il 21,9% dei voti validamente espressi ha superato le aspettative della vigilia e conquistato il terzo posto. Tra la «violenza della delusione» per aver mancato l’obiettivo del secondo turno e l’orgoglio per «aver ridato vigore al polo popolare», il leader di La France insoumise – manifestazione di una sinistra francese oramai postsocialista – ha fatto con chiarezza appello ai suoi sostenitori affinché non diano un solo voto a Marine Le Pen.

Intanto, il 25,1% degli elettori ha deciso di non recarsi ai seggi, in un Paese in cui – secondo una recente indagine per l’Institut Montaigne curata da Olivier Galland e Marc Lazar – solo il 51% dei giovani dichiara di avvertire un profondo attaccamento alla democrazia. Un malessere e una disillusione di cui la politica è chiamata a occuparsi con urgenza. Non solo in Francia.

 

Immagine: Emmanuel Macron (21 marzo 2022). Crediti: Victor Joly / Shutterstock.com

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Equilibri ed alleanze sotto le bombe di Damasco

Il generale Carl von Clausewitz ha scritto che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, sottolineando come la contrapposizione bellica sia in continuità e non in rottura con l’agire politico. Del resto le parole pòlemos e politiké, che in greco antico significavano “guerra” e “politica”, avevano la medesima radice.
Essendoci illusi di vivere nell’epoca che avrebbe abolito la guerra, avevamo dimenticato la profonda interconnessione fra i due fenomeni, ma il conflitto che sta dilaniando la Siria sembra quasi volercela ricordare.  
Kofi Annan si è arreso ed ha rimesso nelle mani di Onu e Lega Araba il suo mandato di inviato speciale: troppo nette le fratture, troppo avanzato il conflitto per pensare che la rivalità fra le fazioni potesse essere risolta con una pseudo-conferenza di pace ed una stretta di mano fra Assad e i ribelli.
Sullo sfondo della guerra civile, si articola poi la competizione fra le potenze regionali desiderose di aumentare la loro influenza nell’area medio orientale.
Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono oramai apertamente schierate a favore dell’Esercito Libero Siriano, che supportano economicamente e logisticamente. Desta sorpresa il fatto che la dinastia dei Saud, alla guida di un paese in cui il consiglio consultivo di nomina regia è l’istituzione più simile ad un’assemblea rappresentativa, abbia così a cuore la democratizzazione della Siria; ma ipotizzando che così nobili sentimenti alberghino nella coscienza del quasi novantenne re Abd Allah, diventa poi inspiegabile la decisione saudita di fornire ai monarchi del Bahrein i carri armati per reprimere le proteste popolari del marzo 2011. 
La logica crudele del ragionamento geopolitico ci induce a pensare che Riyad, da tempo impegnata in una lotta di contenimento dell’espansionismo iraniano in Medio Oriente, sia soprattutto interessata ad un cambiamento dello status quo nella regione: far cadere il regime alawita-sciita di Bashar al-Assad farebbe mancare la terra sotto i piedi all’Iran, che ha nella Siria (paese a maggioranza sunnita) l’unico alleato storico nell’area e che grazie al sodalizio con Damasco mantiene un accesso privilegiato al Mediterraneo e può proiettarsi verso il Libano, dove il regime degli ayatollah finanzia copiosamente hezbollah.
Viceversa, l’instabilità nel vicino Bahrein sciita retto da una monarchia sunnita come quella dei Saud, non è vista di buon occhio a Riyad, che si è sempre dimostrata pronta a calmare i bollenti spiriti della ribellione a Manama. Resterà ora da capire come i petromonarchi sauditi convivranno con questo “disturbo bipolare” della loro personalità geopolitica e soprattutto come potranno mettere a tacere le richieste di un regime meno opprimente che, anche se ancora allo stadio embrionale, stanno prendendo sempre più corpo all’interno dei confini sauditi. In fondo, perché quel che vale a Damasco non dovrebbe valere a Riyad?
Il dinamico e ricchissimo Qatar, invece, sembra voler emergere come protagonista regionale dopo anni di politica estera anonima. Secondo la studiosa della regione del Golfo Jane Kinninmont, il Qatar avrebbe fiutato un trend che ritiene vincente e ha deciso di sostenerlo, prima appoggiando i rivoluzionari in Libia ed ora sostenendo i ribelli siriani. Quanto questa strategia potrà avere successo ed influenzerà i rapporti fra Doha e i suoi vicini, sarà il tempo a dirlo.
Gli equilibri regionali interessano anche alla Turchia, che dall’inizio del “sultanato” di Erdogan ha chiare ambizioni di egemonia regionale sul Medio Oriente in contrasto con le aspirazioni “uguali e contrarie” di Teheran. Sotto questo profilo, la strategia adottata da Ankara in Siria non appare molto diversa da quella saudita, ma la matassa geopolitica che lo stato anatolico è chiamato a sbrogliare è molto complicata: innanzitutto, nelle ultime settimane il flusso di siriani in uscita dal proprio paese si è intensificato e la principale meta di destinazione è la Turchia. Ankara ha assicurato che accoglierà i profughi in cerca di rifugio e protezione, ma ha comunque chiuso i valichi di frontiera con la Siria per “motivi di sicurezza”.
Assai spinosa è poi la questione curda: Assad ha abilmente evitato di inimicarsi la minoranza curdo-siriana nell’ultimo anno di tumulti e di fatto il Kurdistan siriano è ormai nelle mani degli autoctoni, che hanno vanamente aspettato una mano tesa da parte dei ribelli. L’auspicio era che l’Esercito Libero Siriano avviasse una trattativa per definire il futuro status delle regioni del paese a maggioranza curda e si mostrasse disponibile alla concessione di ampie autonomie; ma aperture in tal senso non si sono registrate.
La fazione anti-Assad sa bene che il prezioso alleato turco non accetterebbe alcuna elargizione verso il Pyd, importante attore politico nella Siria nord-orientale, ma braccio siriano del Pkk e per questo guardato con estrema diffidenza ad Ankara. In un incontro con il Presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani, il ministro degli esteri turco Davutoglu ha voluto mettere in guardia tutti gli interlocutori interessati: un rafforzamento del potere politico di chi è considerato “terrorista” non sarà ammesso dalla Turchia, che sarebbe addirittura pronta ad un intervento militare in Siria se i confini anatolici fossero minacciati.
I due principali alleati internazionali di Assad, dal canto loro, rimangono irremovibili sulle originarie posizioni: il presidente russo Putin continua a difendere lo status quo ed ha osservato che la deposizione del dittatore alawita determinerebbe una pericolosa destabilizzazione di tutta la regione. Oltre ad avere interesse a mantenere gli accordi politici ed energetici con gli attuali vertici del regime, il Cremlino teme che i pollini della rivoluzione possano essere portati dal vento sia nel vicino Caucaso russo, dove la ferita cecena potrebbe riaprirsi, che nelle piazze di Mosca e San Pietroburgo, dove i giovani russi si sono già riversati agli inizi dell’anno per protestare contro l’autocrazia dello zar Vladimir pronto a ritornare presidente dopo l’interregno di Medvedev.
Anche l’Iran, dopo la proposta di Kofi Annan di giocare un ruolo strategico nel processo di mediazione politica fra le fazioni, è tornato a spalleggiare Assad: evidentemente, il ruolo di paciere non si addice al regime degli ayatollah.
Nel frattempo, il conflitto ha raggiunto le città di Damasco ed Aleppo, dove i lealisti hanno concentrato i loro sforzi: l’obiettivo sembra essere quello di evitare che la capitale politica ed il principale centro economico del paese cadano nelle mani degli insorti. Dopo una prima fase a favore dei ribelli, i fedelissimi del regime hanno riconquistato terreno ed espugnato alcune delle roccaforti degli avversari, come il quartiere Seyf ad Dawla ad Aleppo. Il conflitto pare oramai nella sua fase più drammatica, quella che non prevede vie d’uscita se non attraverso la vittoria di una fazione e la definitiva sconfitta dell’altra. Nessuno ha più il coraggio di negare che siamo di fronte ad una guerra civile e addirittura Kenneth Pollack del Brookings Institution si è spinto ad affermare che la situazione siriana è sempre meno vicina agli esempi della Primavera araba e sempre più accostabile ai Balcani degli anni ’90. L’impressione è che anche una eventuale deposizione di Assad non determinerebbe la cessazione delle ostilità, perché con margini di negoziazione politica praticamente inesistenti, gli alawiti continuerebbero a combattere per rimanere al comando anche senza un membro della famiglia Assad al vertice della piramide.
Intanto, gli Usa hanno aperto alla possibilità di una no-fly zone nella speranza che questa possa servire ad accelerare la caduta del regime, ma Obama non pare intenzionato ad interventi più incisivi in piena campagna elettorale.
Il dramma siriano così continua, e la sua soluzione pare ancora lontana.
E chiedersi se Clausewitz avesse ragione sulla guerra come continuazione della politica o se essa non rappresenti piuttosto la negazione stessa della politica, ha poco senso di fronte alle migliaia di cadaveri coperti dalla polvere e agli occhi pieni di lacrime dei bambini siriani che sembrano chiedersi e chiederci il perché di tutto questo
 

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Serbia e Kosovo, nel cuore instabile dell’Europa

Una questione politica e territoriale ancora irrisolta, nel cuore instabile dell’Europa. Uno status quo definito da più parti oramai insostenibile ma che si fa fatica a modificare, nonostante le mediazioni e un negoziato giunto a buon punto. Così, le tensioni fra Serbia e Kosovo periodicamente riemergono, riattizzando le braci di una contrapposizione che – dietro il ‘congelamento’ del conflitto – continuano ad ardere e a destare preoccupazione.

«Un confronto breve, certamente non facile…anzi, forse il confronto più duro che abbiamo avuto negli ultimi sei anni»: con queste parole, il presidente kosovaro della Repubblica Hashim Thaçi descriveva alla stampa gli esiti dell’ultimo incontro a Bruxelles con il suo omologo serbo Aleksandar Vučić e con l’alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. Era il 18 luglio, e Thaçi evidenziava come nel corso dei colloqui si fosse discusso delle future prospettive europee, del dialogo tra Priština e Belgrado, della normalizzazione delle relazioni tra i Paesi e del raggiungimento di un accordo definitivo tra le parti. La Serbia – sosteneva il presidente kosovaro – faticava ancora a liberarsi dei retaggi del passato e a metabolizzare l’indipendenza conseguita dal Kosovo, ma nonostante le evidenti difficoltà era ancora possibile vedere la luce in fondo al tunnel. In quell’occasione, anche Vučić si diceva deluso dei risultati del confronto, rimarcando come alla disponibilità mostrata da Belgrado nel promuovere un compromesso accettabile per tutte le parti, non fosse corrisposta analoga apertura da parte di Priština: «L’unico ‘compromesso’ che il Kosovo sta offrendo – dichiarava il presidente – è il riconoscimento della sua indipendenza, ma non funziona così. Non possiamo assolutamente essere soddisfatti». Ciononostante, anche Vučić come Thaçi ribadiva la necessità di proseguire le trattative e di continuare a stimolare il dialogo, con l’obiettivo di giungere a una soluzione per il futuro.

Tra le ipotesi sul tavolo sarebbe anche tornata la controversa questione della ‘partizione’ kosovara, che pure non è mai stata ufficialmente oggetto di discussione nei colloqui di Bruxelles tra Priština e Belgrado. Ad avanzare nuovamente tale proposta sarebbero stati ambienti politici di entrambi i Paesi, secondo una logica di ‘scambio’: da una parte, alla Serbia verrebbero ceduti taluni territori del Kosovo del Nord prevalentemente popolati da serbi, mentre il Kosovo riceverebbe alcune aree del Sud della Serbia dove preponderante è la presenza albanese, come la zona della valle di Preševo, e sostanzialmente vedrebbe riconosciuta la sua indipendenza.

A surriscaldare il clima ha poi contribuito l’approssimarsi del 4 agosto, data fissata come deadline per la presentazione della bozza di statuto dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo, in linea con quanto stabilito da Priština e Belgrado nell’accordo siglato a Bruxelles nell’aprile del 2013. Il 31 luglio, sui social network, l’abate del monastero serbo-ortodosso di Visoki Dečani – situato in Kosovo – aveva fatto riferimento a presunte ‘voci’ circa la volontà di creare appositamente nel Nord del Paese una situazione di caos, alimentare la tensione e provocare reazioni su entrambi i fronti, al fine di favorire l’ipotesi della partizione. Mentre le indiscrezioni si facevano sempre più insistenti, il comandante della Forza congiunta alleata della NATO a Napoli James Foggo assicurava che gli uomini della missione KFOR (Kosovo Force) attiva in Kosovo erano comunque pronti a fare il loro dovere per evitare ogni possibile degenerazione. Per la parte serba invece, era lo stesso presidente Vučić a definire infondate le voci, sottolineando come le politiche di Belgrado rimanessero improntate al perseguimento dell’obiettivo della pace e della stabilità nella regione. Il 3 agosto – dopo una riunione del Consiglio per la sicurezza del Kosovo – era però il primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj a prendere posizione, sollecitando le comunità serbe del Nord a non intraprendere azioni che Priština non avrebbe potuto tollerare, perché contrarie alla legge: dunque, un esplicito riferimento ai rumors secondo i quali le entità serbo-kosovare sarebbero state pronte a proclamarsi unilateralmente autonome in assenza della bozza di statuto. Parso oramai chiaro che la deadline del 4 agosto non sarebbe stata rispettata, interveniva di nuovo sulla questione il presidente serbo Vučić, con una lettera indirizzata ai ‘cittadini di Kosovo e Metohija’: nella missiva, il capo dello Stato evidenziava come – a 1930 giorni dalla firma degli accordi – i timori più volte espressi da Belgrado si stessero concretizzando, perché Priština continuava a non rispettare l’impegno preso sull’Associazione delle municipalità. Vučić denunciava inoltre le ‘sistematiche minacce’ e le ‘voci’ fatte circolare con l’obiettivo di diffondere «instabilità e paura tra i serbi di Kosovo e Metohija» e generare «un clima di sfiducia verso le istituzioni statali serbe, creando una frattura tra i rappresentanti politici dei serbi in Kosovo e un indebolimento della posizione di Belgrado in una fase delicata dei negoziati». Per queste ragioni, il presidente invitava dunque i serbi a non ‘cedere alle provocazioni’ e ad affrontare qualunque sfida in maniera pacifica, mentre Belgrado si sarebbe fatta carico di «proteggere le loro vite e la pace, se necessario». Rivolgendosi poi agli uomini della missione KFOR, Vučić chiedeva garanzie di protezione della diga di Gazivoda, della centrale idroelettrica lì collocata e di altre infrastrutture situate nel Nord del Kosovo, essenziali per le comunità serbo-kosovare e di cui le autorità di Priština – secondo Belgrado – avrebbero potuto cercare di assumere il controllo. Da parte sua, sul suo account Twitter ufficiale, la KFOR assicurava che la situazione attorno alla diga di Gazivoda rimaneva tranquilla e sotto controllo.

Dunque, la tensione resta. In merito alla formazione dell’Associazione delle municipalità serbe, Haradinaj ha garantito che l’apposito gruppo di lavoro si sta concentrando sulla redazione dello statuto, che dovrà però essere conforme alle leggi del Kosovo e alla sua Carta fondamentale, alla luce in particolar modo della sentenza pronunciata nel dicembre 2015 dalla Corte costituzionale kosovara, secondo cui l’accordo per la nascita dell’Associazione è da considerarsi legittimo, ma alcuni suoi punti sarebbero in contrasto con lo spirito della Costituzione.

Mentre l’Unione Europea predica la calma e invita a non cancellare i progressi compiuti verso il raggiungimento di un accordo definitivo, l’ipotesi partizione ricompare nelle discussioni: tra i politici serbi, il ministro degli Esteri Ivica Dačić – che pure ha parlato di ‘posizione personale’ e non attribuibile al governo – ha più volte evidenziato come tale prospettiva non sia da escludere, mentre il presidente kosovaro Thaçi ha dichiarato di essere disponibile al confronto per una «correzione delle frontiere» con la Serbia. Duramente criticato per una posizione che sembrerebbe aprire alla partizione – categoricamente esclusa invece da Haradinaj – Thaçi ha tuttavia voluto precisare che il Kosovo non intende in alcun modo rinunciare ai propri territori. I critici evidenziano inoltre come la strada della partizione sarebbe densa di insidie e pericoli, perché muovendosi di fatto lungo linee etniche potrebbe creare ulteriore instabilità nei già fragili Stati multietnici balcanici.

Nei prossimi mesi dunque, il confronto dovrà proseguire, anche con la mediazione di un’Unione Europea le cui attenzioni saranno con tutta probabilità assorbite dalle imminenti – e potenzialmente assai gravide di conseguenze – elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento.

 

Crediti immagine: da The original uploader was Bobik at Serbian Wikipedia. [CC BY 3.0 rs (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/rs/deed.en) o GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)], attraverso Wikimedia Commons

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Cosa significa essere neutrali come Austria e Svezia

 

«I negoziati non sono semplici per ovvie ragioni, ma c’è la speranza di raggiungere un compromesso». Un cauto ottimismo, quello manifestato dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov; una prudenza che non deve alimentare illusioni sulla rapida chiusura del conflitto, ma segnala comunque qualche passo in avanti, in attesa di ulteriori sviluppi. Il clima – ha confermato Kiev – è parso più costruttivo, tanto che lo stesso presidente ucraino Zelenskij, in un messaggio trasmesso nelle prime ore della giornata di mercoledì, ha dichiarato che le posizioni di Mosca durante le trattative sono state «più realistiche», pur ribadendo che sono ancora necessarie «fatica e pazienza» per arrivare a decisioni prese nell’interesse del Paese. Ad alimentare ulteriormente le aspettative è stato poi un articolo del Financial Times, che citando tre fonti ha riportato significativi progressi sul fronte delle trattative, parlando addirittura di una prima bozza di piano di pace in 15 punti.

Importanti dettagli sull’andamento dei colloqui sono stati forniti dal capo delegazione russo Vladimir Medinskij, che soffermandosi sul tema della neutralità dell’Ucraina ha sottolineato come sia stata avanzata la proposta del modello «austriaco e svedese», ossia di uno «Stato demilitarizzato che conserva un esercito e una marina». Conferme in tal senso sono arrivate dal portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov – che ha rimarcato come una soluzione di questo tipo sia «oggetto di discussione» e rappresenterebbe un possibile compromesso – e ancora una volta dal ministro Lavrov, secondo cui le parti erano addirittura vicine a un accordo su tale questione in termini puntuali e dettagliati, ragionando anche delle ulteriori, necessarie garanzie sulla sicurezza.

I due modelli di neutralità introdotti nel dibattito partono da presupposti storici molto diversi.

Quello svedese non trova espressione nel testo costituzionale o in trattati internazionali, ma è radicato in una tradizione le cui origini risalgono alla seconda decade del XIX secolo, quando Carlo XIVprima da principe erede e poi da sovrano – optò per una decisa ridefinizione degli orizzonti di politica estera e pose le basi per la neutralità del suo regno, convinto che fosse quella la strada migliore per preservare la sovranità e tutelare l’economia. Così, dal 1814, la Svezia non ha preso parte ad alcun conflitto ed è rimasta non belligerante anche durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, pur oscillando in quest’ultimo caso tra il supporto logistico alla Germania nazista e il successivo sostegno agli Alleati. Fallito l’obiettivo di una comune difesa scandinava, Stoccolma decise quindi di dare seguito a quello che era oramai un orientamento di politica internazionale consolidato, e anche in virtù della sua peculiare collocazione geografica – in un’area potenzialmente foriera di tensioni fra blocco occidentale e blocco sovietico – mantenne una posizione di non allineamento, efficacemente espressa nella forma della «non partecipazione ad alleanze militari in tempo di pace al fine di rimanere neutrali in caso di guerra nel vicinato». Dunque nessuna adesione alla NATO, ma conservazione di importanti capacità militari per tutelarsi in caso di attacco (cosiddetta neutralità armata).

Il modello austriaco si inserisce invece pienamente nelle dinamiche del secondo dopoguerra, che finirono ben presto per intrecciarsi con quelle della guerra fredda. Accadde così che l’opzione della «neutralità permanente» divenne l’unica soluzione pratica per concludere il decennio di occupazione alleata, restituire piena sovranità all’Austria e soddisfare le richieste dell’Unione Sovietica, a fronte di un Occidente più scettico ma comunque disposto ad accettare quel compromesso. Dopo la firma il 15 maggio del 1955 del Trattato di Stato per la re-istituzione di un’Austria indipendente e democratica – con il quale le potenze alleate si impegnavano a rispettare l’indipendenza e l’integrità territoriale del Paese – il Consiglio nazionale austriaco adottò un’apposita risoluzione sulla neutralità, sollecitando il governo a predisporre una legge costituzionale per sancire tale status. Il 26 ottobre dello stesso anno il provvedimento fu approvato, stabilendo che in virtù della sua nuova condizione l’Austria non si sarebbe unita ad alcuna alleanza militare né avrebbe consentito la costruzione di basi militari straniere sul suo territorio. Presto, la neutralità sarebbe diventata uno degli elementi distintivi dell’identità nazionale austriaca.

Il quadro non sarebbe tuttavia completo senza una riflessione che tenga conto delle evoluzioni degli ultimi tre decenni. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della contrapposizione bipolare, ci si è infatti interrogati sul nuovo significato che la neutralità avrebbe assunto, ammettendo che di neutralità avesse ancora senso parlare. Decidendo di restare fuori dalla NATO, Vienna e Stoccolma sono rimaste fedeli a una prospettiva di non allineamento declinata come non partecipazione ad alleanze militari; ma dall’altra parte, il dilemma si è inevitabilmente posto durante il processo che ha portato all’ingresso nell’Unione Europea dell’Austria e della Svezia nel 1995, risolvendosi con la compatibilità tra membership dell’Unione e status di Paese neutrale. Il rinnovato scenario internazionale ha però giocato un ruolo in tale dinamica: se il mondo fosse stato ancora diviso in blocchi, il riconoscimento di quella compatibilità sarebbe stato tutt’altro che scontato. Aggiungendo poi a tale cornice il dibattito odierno sulla politica di sicurezza e di difesa comune a livello europeo, ecco che il tema della neutralità si arricchisce di ulteriori complessi risvolti, che meriterebbero una trattazione approfondita.

Ad ogni modo, le formule della neutralità ‘classica’ secondo i modelli svedese e austriaco sono state respinte da Kiev, che pure Mosca aveva indicato come promotrice della discussione. Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Zelenskij, ha infatti evidenziato come al momento l’Ucraina sia «in uno stato di guerra diretta con la Russia»; pertanto il modello di riferimento «può soltanto essere ucraino, con garanzie di sicurezza chiaramente definite» ed alleati forti pronti ad assicurarle.

Né peraltro le trattative potrebbero considerarsi chiuse anche a fronte di un ipotetico accordo sul tema della neutralità, restando ancora irrisolti nodi cruciali come la questione dello status della Crimea e delle repubbliche separatiste del Donbass. E ancora, come rileva il Financial Times, in ambienti ucraini permane il sospetto che il Cremlino non sia realmente interessato a negoziare, ma cerchi solo di prendere tempo per riorganizzarsi e rilanciare l’offensiva. Gli entusiasmi iniziali sono dunque stati presto spenti: Kiev ha precisato che una prospettiva di accordo è ancora lontana.

 

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Immagine: Marinaio della Marina davanti alla bandiera dell’Ucraina durante l’esercitazione multinazionale Sea Breeze 2018, a cui ha partecipato il personale militare della NATO e dei Paesi partner, Odessa, Ucraina (16 luglio 2018). Crediti: Drop of Light / Shutterstock.com

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RIO+20: una tappa del percorso accidentato verso lo sviluppo sostenibile

Se ne è parlato poco, e già questo è indice di quanto discutibili possano essere le scelte editoriali di giornali e televisione, ma si sa che le conferenze internazionali interessano il pubblico e stuzzicano la fantasia degli spettatori molto meno delle mogli e delle fidanzate dei calciatori impegnati negli Europei in Polonia ed Ucraina. Eppure, dal 20 al 22 giugno, si è celebrata a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile, ribattezzata “Rio+20” perché tenutasi a 20 anni dallo storico Summit sulla Terra sempre nella megalopoli brasiliana. Per dovere di cronaca ed onestà intellettuale, occorre sottolineare che molti leader politici occidentali non sembrano essersi premurati di mettere adeguatamente in risalto l’importanza dell’evento e dei temi oggetto di discussione, assorbiti com’erano da altre questioni di notevole rilevanza e complessità come il salvataggio dell’Euro o perché impegnati in campagna elettorale. I Paesi industrializzati, che non hanno mostrato particolare sensibilità verso lo sviluppo sostenibile quando viaggiavano a vele spiegate e nell’attuale contesto di crisi economica si accontenterebbero di riavere lo sviluppo senza badare più di tanto alla sua sostenibilità, hanno preferito lasciare il palcoscenico ad altri attori ed il fatto che fra i Capi di Stato o di Governo del vecchio nucleo G-7 solo François Hollande si sia recato a Rio di ritorno dalla tappa messicana del G-20, lancia un messaggio abbastanza chiaro e dai risvolti geopolitici non secondari.
Le aspettative delle Ong e di quella variegata e composita realtà che viene genericamente indicata come “società civile” erano molto ambiziose, come traspare dai numerosi comunicati sparsi per il Web, ma a fare da contraltare c’era una ossimorica  “inconscia consapevolezza” che i risultati concreti sarebbero stati molto contenuti.
Dalla conferenza “Go sustainable, be responsible!”  organizzata dal Comitato Economico e Sociale Europeo il 7 e l’8 febbraio con la partecipazione di rappresentanti della società civile, erano emerse interessanti proposte per il summit di Rio, successivamente raccolte in un “memorandum”: fra le più importanti, l’elaborazione di un piano concreto per lo sviluppo sostenibile e l’eliminazione della povertà, la definizione di una “road map” per la green economy con obiettivi chiari e adeguati meccanismi di controllo, la profusione di sforzi decisi per il perseguimento dei Millennium Development Goals, la limitazione dello sfruttamento delle risorse naturali. Si accoglievano inoltre positivamente alcune iniziative che gli Stati si impegnavano ad approfondire in Brasile, come la possibilità di pensare a nuovi indici per la misurazione del benessere ridimensionando il valore assunto in tal senso dal PIL o ancora  l’idea di un ombudsman per le future generazioni. Greenpeace Italia chiedeva invece, fra le altre cose, decisioni che imponessero una maggiore responsabilità e trasparenza alle imprese, la garanzia di energia pulita e sicura per tutti anche attraverso l’eliminazione di sussidi a favore dei combustibili fossili e del nucleare, la tutela delle foreste e della biodiversità, l’interruzione dell’uso di sostanze chimiche pericolose.
Le speranze sono andate in gran parte disattese e se da un lato i rappresentanti dei governi hanno invitato a riflettere su quanto fatto, evidenziando le difficoltà di un negoziato così ampio e per di più in una situazione economica globale così delicata, dall’altro la delusione delle associazioni e dei movimenti è stata così forte da portare alla richiesta di revisione del Documento finale della Conferenza nel punto in cui si fa riferimento alla “piena partecipazione della società civile”.
Il testo del Documento, pur presentando alcune interessanti novità come la costituzione di un forum politico intergovernativo universale che sostituirà la Commissione per lo Sviluppo Sostenibile o la previsione dei Sustainable Development Goals da affiancare ai Millennium Development Goals, appare oggettivamente piuttosto debole e va poco al di là di una pur apprezzabile dichiarazione d’intenti. Frequentemente “si riconosce” l’importanza di un tema, “si pone l’accento” su talune problematiche, “si esprime preoccupazione” per i rischi che il Pianeta corre, ma alle prese di coscienza seguono quasi solo mere raccomandazioni e non impegni vincolanti.
Anche il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon ha lasciato trasparire una certa amarezza per gli scarsi risultati del vertice, sostenendo che il Documento doveva essere più ambizioso.
Sotto il profilo degli equilibri geopolitici, si sta vivendo una fase di transizione: i Paesi emergenti – su tutti il Brasile “padrone di casa” – si sono sicuramente dimostrati attivi, ma non sembrano ancora pronti a prendere in mano le redini del gioco. E così, mentre i Paesi industrializzati sono in evidente difficoltà nonostante i tentativi dell’Unione Europea di proporsi come normative power anche nello sviluppo sostenibile con idee degne di essere esplorate, le economie emergenti appaiono in un limbo, con la Cina che da una parte ha presentato al Mondo Tianjin Eco-City, la prima città interamente ecologica, e dall’altra è stata ancora una volta definita da Wen Jiabao nell’intervento alla Conferenza “Paese in via di sviluppo”.
Un aspetto positivo del summit di Rio è sicuramente individuabile nell’accresciuto ruolo giocato dagli attori internazionali non statali, che pur essendo rammaricati per i risultati dell’incontro sono comunque stati fra i protagonisti del dibattito. La governance globale, chiamata ad affrontare e risolvere problemi di rilevanza planetaria, non può fondarsi sui vecchi schemi del sistema internazionale ed il contributo di attori come le Ong e le multinazionali, oramai a tutti gli effetti soggetti della società globalizzata, non può in alcun modo essere trascurato.
I passi in avanti da compiere perché lo sviluppo sostenibile diventi una realtà sono ancora molti e forse questo è il momento più difficile perché la questione riesca a porsi al centro dell’agenda internazionale. Il tempo che rimane non è però molto ed è fondamentale, come ricordava l’ambientalista indiana Vandana Shiva, che non si confonda la “green economy”  con la “greed economy”, ossia l’economia dell’avidità.
Altrimenti si corre il rischio che la profezia di Toro Seduto, che diceva che “quando avremo abbattuto l’ultimo albero, avvelenato l’ultimo fiume e catturato l’ultimo pesce, ci renderemo conto che il denaro non si può mangiare”, diventi una triste realtà.

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Quale governo per la Spagna?

Non abdicheremo alle nostre responsabilità di governo e io non rinuncerò a governare, perché otto milioni di spagnoli ci hanno dato il loro sostegno’. Al termine della riunione del comitato esecutivo del partito, che ha analizzato i risultati del voto, il leader del Partido popular (PP) e presidente uscente del governo Mariano Rajoy non ha mostrato dubbi: forte del consenso del 33% degli elettori che si sono recati alle urne, la guida dell’esecutivo non può che spettare nuovamente a lui.
Sono trascorsi poco più di 6 mesi dal voto del dicembre 2015 che aveva consegnato al paese un Congresso dei deputati balcanizzato, e con le consultazioni della scorsa domenica - sotto il profilo strettamente politico - gli scenari non sono cambiati in modo sostanziale. I popolari sono rimasti infatti prima forza politica di Spagna e hanno addirittura incrementato i loro consensi rispetto alla precedente tornata, passando da 123 a 137 scranni al Congresso; il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) ha difeso il suo secondo posto pur ottenendo il peggior risultato della sua storia e soffrendo una leggera emorragia di seggi (da 90 a 85); Podemos – al voto in coalizione con Izquierda Unida, Equo e altre forze politiche sotto l’etichetta di Unidos Podemos – ha fallito il ‘sorpasso a sinistra’ al PSOE e si è fermato a quota 71 seggi;  i centristi di Ciudadanos sono rimasti quarti ma hanno perso consensi (dal 13,9% al 13,1%) e seggi (da 40 a 32).
Gli esiti del voto confermano una tendenza che le elezioni di dicembre avevano già evidenziato: pur non potendosi ridurre la complessità del sistema partitico del paese al duopolio popolari/socialisti – basti pensare al peso dei partiti del nazionalismo basco o catalano – la Spagna post-franchista è stata caratterizzata da un bipartitismo che si sostanziava nel meccanismo dell’alternanza al governo delle due maggiori forze politiche. Nelle elezioni del 2008, che videro la conferma dei socialisti guidati da José Luis Zapatero, PSOE e PP contavano per oltre l’83% dei voti popolari e disponevano di 323 dei 350 seggi del Congresso dei deputati; mentre nelle consultazioni del 2011 che videro trionfare i popolari di Rajoy, i due partiti conquistarono complessivamente circa il 73% dei voti e 296 seggi. Complici la crisi economica, l’adozione di rigide misure di austerity, l’elevata disoccupazione, gli episodi di corruzione e una montante polemica contro un establishment autoreferenziale, il sistema è stato profondamente scosso, e nello squarcio che si è aperto sono riuscite a crescere forze del cambiamento come Podemos e Ciudadanos. Oggi dunque la dinamica bipartitica – che aveva come suo corollario la costituzione di governi monocolore –  pare destinata per lo meno in via temporanea a tramontare, lasciando spazio a una logica coalizionale cui le principali forze politiche sono chiamate ad adeguarsi. Dopo il voto di dicembre, PP e PSOE rappresentavano solo il 50,7% delle preferenze degli elettori, e pur essendo in quest’ultima tornata cresciuto il loro consenso congiunto (55,7%), in termini di seggi il loro peso si è fermato a quota 222 su 350, valore di poco superiore rispetto ai 213 seggi di dicembre. Numeri sufficienti a formare - peraltro con una certa tranquillità - un governo di grande coalizione, ma che obbligano a ragionare in un’ottica diversa rispetto al passato e chiamano le forze politiche a solcare un terreno sostanzialmente inesplorato. Già dopo le consultazioni di fine 2015, Rajoy aveva aperto all’ipotesi di un esecutivo con i socialisti, ma alla sua proposta Sánchez rispose che la grande coalizione avrebbe avuto ‘poco di grande e poco di coalizione’, dunque non aveva futuro. D’altra parte, i successivi tentativi del leader socialista di formare un governo non hanno avuto miglior sorte, infrangendosi contro il muro eretto da Podemos. E oggi, tra un Rajoy rafforzato dagli esiti del voto e un PSOE indebolito ma comunque rimasto seconda forza politica, i più delusi sembrano proprio Podemos e il suo leader Pablo Iglesias, che – confortati anche dai sondaggi che li davano avanti al Partito socialista – ambivano a diventare azionisti di maggioranza di una potenziale coalizione progressista di governo. Un errore strategico che, a risultati acquisiti, Sánchez non ha mancato di far notare a Iglesias.
Adesso si apre la partita delle trattative, che si preannuncia complessa: Rajoy ha già rilanciato l’ipotesi della grande coalizione con Ciudadanos e il PSOE, ma i socialisti hanno per il momento dichiarato che il leader popolare dovrà cercare l’appoggio di chi gli è ‘ideologicamente affine’; un’altra possibilità è quella – non agevole – del cosiddetto ‘governo di minoranza’, cui viene consentito di insediarsi grazie all’astensione dei partiti di opposizione.
Le prossime settimane saranno decisive, e in un’Europa ancora segnata dalla Brexit, una Spagna con un governo stabile lancerebbe un messaggio di grande importanza.
Cervantes ha scritto che la diligenza è la madre della fortuna: se le forze politiche spagnole saranno diligenti, potrebbero trarne beneficio sia il paese che l’Europa.

 

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Ucraina, l’articolato fronte delle astensioni all’ONU

«È vero, alcuni Paesi europei, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e altri ancora hanno deciso di limitare le relazioni economiche e imposto diverse misure restrittive. Ma questo non significa che la Russia resterà isolata. Il mondo è troppo grande perché l’Europa e gli Stati Uniti possano isolare uno Stato, soprattutto quando questo Stato è particolarmente grande come lo è la Russia».

Così, sabato 5 marzo, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov provava ad allontanare uno spettro assai preoccupante per Mosca, quello dell’isolamento internazionale dopo l’invasione dell’Ucraina. Le sanzioni – di portata ed estensione senza precedenti – hanno già iniziato a manifestare i loro effetti, e le corse agli sportelli dei giorni scorsi sono la testimonianza chiara di una paura diffusa, tanto che lo stesso Peskov – accusando l’Occidente di «banditismo economico» ma assicurando al tempo stesso che la Russia era pronta a una risposta appropriata – non ha potuto negare il significativo impatto delle restrizioni. Per quanto possibile, il Cremlino ha comunque cercato di esprimere un cauto ottimismo, dapprima facendo riferimento a «un certo margine di sicurezza», a un imprecisato «potenziale» e a generici «lavori in corso», e poi appellandosi a quei Paesi che – secondo Mosca – avrebbero un approccio «più equilibrato» rispetto all’Occidente e «un’attitudine più ragionevole verso le dinamiche di sviluppo delle relazioni internazionali».

«Oggi non possiamo dirci attrattivi per gli investimenti, ma i tempi cambiano rapidamente» – ha sentenziato Peskov – e quando «la fase di crescita economica arriverà», la Russia si dimostrerà selettiva: alcuni operatori di specifici settori – ha argomentato il portavoce del Cremlino – saranno riammessi sul mercato, ma altri resteranno fuori, perché il loro posto sarà stato occupato «da compagnie provenienti da altri Paesi».

Dunque Mosca esorcizza ogni prospettiva di isolamento, anche se la presa di posizione internazionale è parsa netta pure dal punto di vista politico: il 2 marzo, infatti, durante l’undicesima sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ben 141 Paesi hanno votato a favore di una risoluzione che «deplora con la massima fermezza l’aggressione della Federazione russa contro l’Ucraina», chiede a Mosca di «cessare immediatamente l’uso della forza nei confronti dell’Ucraina e astenersi da ogni ulteriore minaccia illegale o dall’uso della forza contro altri Stati membri», nonché di ritirare «immediatamente, completamente e incondizionatamente tutte le sue forze militari dal territorio dell’Ucraina nei suoi confini internazionalmente riconosciuti». Accanto alla Russia – ovviamente contraria alla risoluzione – si sono esplicitamente schierate soltanto la Bielorussia, che ha di fatto agevolato l’invasione consentendo alle truppe russe di dirigersi dal suo territorio verso Kiev; la Corea del Nord, che ha attribuito le responsabilità dell’accaduto alla «politica egemonica degli Stati Uniti e dell’Occidente»; l’Eritrea, che negli ultimi anni ha stretto relazioni sempre più intense con il Cremlino, e la Siria di Bashar al-Assad, che deve la sua permanenza al potere anche al provvidenziale sostegno assicuratogli da Vladimir Putin durante il conflitto che ha dilaniato il Paese. Le astensioni sono invece state 35, alcune delle quali di particolare peso.

Pur schiacciante negli orientamenti espressi, il voto in Assemblea generale sollecita comunque una riflessione più approfondita, al fine di indagare diverse posizioni che non risultano immediatamente desumibili dalla granitica maggioranza a favore della risoluzione, ma sono state comunque manifestate dagli Stati in questi drammatici giorni.

Non sorprende ad esempio l’astensione – o l’assenza al voto – delle cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, che nel corso degli anni hanno cercato di perseguire una politica estera multivettoriale finalizzata al mantenimento di buone relazioni con Stati Uniti, Russia e Cina. Se però da una parte la prossimità geografica e i forti legami economici impongono prudenza nei rapporti con l’ingombrante vicino russo, dall’altra sembra che l’iniziativa di Mosca in Ucraina non abbia riscosso particolare successo tra i vicini centroasiatici, probabilmente preoccupati dello spillover sui loro Paesi delle sanzioni occidentali. In tale contesto dunque, mentre il sistema mediatico si mantiene ovattato ed evita qualsiasi riferimento a una «aggressione», il richiamo alla soluzione negoziata tende ad accompagnarsi a varie professioni di equilibrio e neutralità, tanto che i report di Kirghizistan e Uzbekistan – che si sono limitati a riportare il confronto dei loro presidenti con Putin sulla situazione in Ucraina – differiscono sensibilmente rispetto a quelli del Cremlino, secondo cui dai due vicini sarebbero arrivati ‘sostegno’ e ‘comprensione’.  

Della rilevante astensione e dei dilemmi della Cina si è già parlato su questo magazine (qui), ma accanto alla posizione di Pechino si segnala anche quella – peraltro non inattesa – dell’India, che si è astenuta tanto in Consiglio di sicurezza quanto in sede di Assemblea generale. Su tali orientamenti pesano evidentemente tanto gli storici rapporti con Mosca – che di New Delhi è ampiamente il principale fornitore di armamenti – quanto ragioni di contingenza geopolitica, legate alla necessità di evitare uno strappo che avrebbe potuto comportare un ulteriore, pericoloso avvicinamento della Russia a Pechino. Per questo coglie nel segno l’analisi di Rahul Roy-Chaudury ed Emile Hokayem pubblicata dall’International Institute for Strategic Studies, nella quale si rileva come l’India abbia sì criticato indirettamente il Cremlino rimarcando la necessità di rispettare «la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati» – affermazione comunque utile a ribadire la posizione di New Delhi nelle dispute che la riguardano direttamente – ma non abbia rinunciato a una sostanziale neutralità. Con tanto di apprezzamento di Mosca, che non a caso ha definito la posizione indiana «equilibrata e indipendente».

Neppure il Pakistan – che come Cina e India si è astenuto in Assemblea generale – ha poi apertamente condannato l’invasione russa dell’Ucraina, con il primo ministro Imran Khan che nonostante i tumultuosi eventi in corso ha ugualmente deciso di recarsi in visita a Mosca il 23 e 24 febbraio, nelle ore in cui la Russia lanciava la sua offensiva contro Kiev. Anche in questo caso, pesano valutazioni di carattere economico – si pensi alla collaborazione russo-pakistana sul gasdotto Pakistan Stream Gas Pipeline – e di natura eminentemente geopolitica, con Islamabad poco propensa a scontrarsi con un Paese che conserva rapporti ancora solidi con il suo principale rivale regionale, l’India. Non a caso, alla lettera firmata dai rappresentanti di 22 missioni diplomatiche in Pakistan per sollecitare una presa di posizione netta in Assemblea generale contro Mosca, Khan ha risposto stizzito che «Islamabad non è schiava di nessuno», chiedendo poi retoricamente se analoga lettera fosse stata inviata a New Delhi.      

Quanto al Medio Oriente poi, si segnala in particolar modo l’astensione dell’Iran, che, come rilevato in un breve commento da Alex Vatanka in un più ampio report del Middle East Institute, non può permettersi di perdere il sostegno del Cremlino nelle diverse partite geopolitiche che lo vedono coinvolto, né pregiudicare la cooperazione con Mosca nei campi del commercio, degli investimenti e della sicurezza. La strada di una risoluzione pacifica del conflitto resta ovviamente quella da privilegiare, ma sulle responsabilità la repubblica degli ayatollah non ha dubbi: esse sono da attribuire alle interferenze degli Stati Uniti nelle questioni interne dell’Ucraina e a decenni di espansione verso est della NATO.

Anche fra i Paesi del Golfo, che pure hanno appoggiato la risoluzione in Assemblea generale, si è registrata una certa ritrosia a esprimere posizioni nette, soprattutto – ha evidenziato Gerald M. Feierstein nella già citata analisi del Middle East Institute – nell’ottica di un equilibrio tra la conservazione degli storici rapporti con gli Stati Uniti e l’ulteriore consolidamento di quelli con la Russia, anche per la comune partecipazione di alcuni Paesi della regione e di Mosca al formato OPEC+ dei produttori di petrolio. Significativa appare peraltro in tale contesto la decisione degli Emirati Arabi Uniti (EAU) di appoggiare la risoluzione presentata in Assemblea generale ma di astenersi, nei giorni precedenti, in sede di Consiglio di sicurezza: probabilmente un messaggio – quello di Abu Dhabi – direttamente rivolto agli Stati Uniti, al fine di manifestare una certa insoddisfazione per lo scarso sostegno ricevuto in seguito agli attacchi sferrati contro gli EAU da parte dei ribelli sciiti Houthi.   

Quanto a Israele e alla Turchia – anch’esse favorevoli alla risoluzione dell’Assemblea generale –  sono poi noti i tentativi di mediazione messi in campo, a segnalare una posizione complessa, tesa a non compromettere taluni canali attivi con Mosca.

Spostandosi invece in Africa, si rileva come 17 Paesi abbiano deciso di astenersi, accanto a quelli che neppure hanno partecipato alla votazione. Oltre alla tendenza di alcuni Stati a preservare la loro asserita neutralità, sembrano diverse le ragioni che hanno portato a tale scelta, dai buoni rapporti economici con Mosca – come nel caso del Sudafrica, secondo cui la risoluzione non conteneva sufficienti elementi per far avanzare la pace – fino ai vincoli militari del Cremlino con alcuni Paesi quali la Repubblica Centrafricana. Alla ricerca di un complesso ‘equilibrismo diplomatico’ sono poi parsi anche l’Egitto e la Tunisia, che pur avendo sostenuto la risoluzione restano di fatto neutrali, nonché l’Algeria – che però si è astenuta – e il Marocco, che non ha partecipato al voto: in questo caso, la dipendenza dalle importazioni di grano – di cui Russia e Ucraina sono importanti produttori – e le implicazioni che il conflitto potrebbe avere sull’accesso a tale bene e sul suo prezzo, hanno consigliato prudenza.

Ben più condivisa a livello continentale è stata invece la denuncia del trattamento discriminatorio subito dagli africani nell’accesso all’assistenza umanitaria nel conflitto in corso.

In America Latina, ad astenersi sono stati alleati consolidati di Mosca come Cuba e Nicaragua, guidati più dal principio secondo cui «Il nemico del mio nemico (gli USA) è mio amico» che da reale affinità ideologica con il Cremlino. D’altro canto l’astensione – espressa anche da El Salvador e dalla Bolivia – potrebbe in questo caso lasciar trasparire una posizione meno graniticamente filorussa che in passato, soprattutto se le sanzioni imposte dall’Occidente dovessero far crollare economicamente Mosca: in questo scenario, precludersi qualche tenue spazio per il dialogo con Washington potrebbe non essere saggio. Il Venezuela – che si colloca dichiaratamente nel campo pro-Russia – non ha invece potuto votare perché non in regola con i pagamenti dei suoi contributi all’ONU.

Gli altri Paesi del continente hanno aderito alla risoluzione dell’Assemblea generale, ma anche qui non sono mancati alcuni distinguo; su tutti quello del presidente del Brasile Jair Bolsonaro, che ha giudicato ‘indiscriminate’ le sanzioni occidentali contro la Russia. Una posizione probabilmente dettata dalla personale ammirazione per Putin, ma anche dalla dipendenza del suo Paese dai fertilizzanti russi. Quanto all’Argentina poi, l’adesione a posizioni di più dura condanna è arrivata solo dopo qualche giorno, complici le buone relazioni tra Buenos Aires e Mosca che hanno portato addirittura il capo dello Stato Alberto Fernández – nel mese di febbraio – a dichiarare di voler rendere il suo Paese la «porta d’ingresso» della Russia all’America Latina.

Difficile, per il momento, che queste articolate posizioni contribuiscano in modo decisivo a tirar fuori il Cremlino da una situazione di sostanziale isolamento e, soprattutto, dalle ristrettezze economiche legate alle sanzioni dell’Occidente. Ancora una volta però, pare confermata la tesi per cui – anche in politica internazionale – i principi devono dialogare con gli interessi. Finendo talvolta per litigarci.

 

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Immagine: Sala dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Manhattan, New York City, Stati Uniti (14 febbraio 2018). Crediti: Felix Lipov / Shutterstock.com

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Sviluppo (e vaccini) nel vertice UE-Unione Africana

 

«Spero che la mia presenza all’Unione africana possa inviare un messaggio politico forte… Per noi, per l’Unione Europea, siete più di un semplice vicino… siete un partner su cui contare, e con cui sono ansiosa di collaborare nello spirito di una vera partnership fra uguali».

 

Addis Abeba, quartier generale dell’Unione Africana, 7 dicembre 2019. Ursula von der Leyen – da una settimana ufficialmente al vertice della Commissione europea – spiegò così le ragioni che l’avevano portata a scegliere «la casa di tutti gli africani, dal Cairo a Città del Capo» come meta del suo primo viaggio ufficiale al di fuori dei confini europei.

Lo fece parlando del «continente che ospita alcune delle economie che stanno crescendo più rapidamente al mondo». Lo fece riconoscendo le sue «immense ambizioni e aspirazioni», ma anche i suoi «immensi bisogni». E lo fece individuando nel «sogno della pace e della prosperità economica» la comune radice da cui erano nate le due Unioni, quella Europea e quella Africana, con la consapevolezza che «solo l’unità poteva rendere forti i nostri continenti in un mondo che cambia».

Durante la visita, von der Leyen ebbe modo di ribadire le priorità dell’Unione Europea (UE) per l’immediato futuro, dal contrasto del cambiamento climatico alle necessarie trasformazioni in vista della nuova era digitale, sottolineando come in tali ambiti fossero possibili fruttuose collaborazioni. Il «messaggio politico forte» risiedeva però innanzitutto nella prima, concreta testimonianza del ‘nuovo corso’ che la presidente aveva in mente, condensato nella nota formula della ‘Commissione geopolitica’ come avanguardia di un’Unione Europea finalmente protagonista della realtà globale, e quindi pronta ad affrontare le grandi sfide che aveva davanti. Un obiettivo sicuramente ambizioso, che sollecitava però tanto uno sforzo comune nel superamento delle divisioni statuali sul fronte della politica estera, quanto un radicale cambio di paradigma, con l’UE capace di dotarsi di un’autentica visione strategica.

In un policy memo dell’ottobre 2019, l’European Centre for Development Policy Management sottolineò come tale approccio fosse di particolare importanza proprio nella definizione delle relazioni con l’Africa, superando la vecchia logica del rapporto ‘donatore-destinatario’ per instaurare una vera partnership fra pari.  

Il sesto summit tra i capi di Stato e di governo dei Paesi UE e dell’Unione Africana – inizialmente programmato per ottobre 2020, poi rinviato a causa della pandemia da Covid-19 e quindi svoltosi a Bruxelles gli scorsi 17 e 18 febbraio – rappresentava un’occasione per compiere un passo concreto in questa direzione, andando oltre quella retorica che già nella Joint Africa-EU Strategy del 2007 faceva riferimento all’esigenza di una ‘partnership strategica’. Tale obiettivo era peraltro esplicitato nella comunicazione congiunta al Parlamento e al Consiglio UE Verso una strategia globale per l’Africa, predisposta nel marzo 2020 in vista del vertice, laddove si riconosceva come «l’interesse di molti interlocutori nei confronti delle potenzialità del continente africano» sollecitasse l’Europa ad «adattare le modalità del proprio impegno con l’Africa, garantendo che il suo posizionamento sia in linea con i nostri interessi reciproci». In questa prospettiva, dunque, si rilevava come il partenariato a lungo termine dovesse «tradursi anche in una forte alleanza politica», perché «legami politici, economici e culturali più saldi tra l’Europa e l’Africa sono cruciali in un mondo multipolare nel quale l’azione collettiva è indispensabile».

A poche settimane dal vertice, le parole d’ordine da parte europea erano state chiare: nel mese di gennaio, durante un confronto su clima ed energia nella partnership fra Europa e Africa, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel aveva sottolineato l’esigenza di lavorare per l’instaurazione di «un nuovo paradigma, un nuovo approccio, una nuova alleanza», mentre Emmanuel Macron – presentando le priorità della presidenza di turno francese dell’UE – aveva rilanciato l’iniziativa del New deal economico e finanziario con l’Africa, come base per ravvivare una relazione «alquanto stanca» fra le parti.

Un linguaggio – quello dell’urgenza della novità e della rivitalizzazione dei rapporti – che fa capire come non mancasse la consapevolezza dei limiti palesati e degli errori commessi in passato.

Nel corso dell’ultimo biennio poi, come rilevato da David McNair in un’analisi per il Carnegie Endowment for International Peace, non sono mancati i motivi di attrito, dall’opposizione europea alla sospensione dei brevetti sui vaccini anti-Covid-19 – che ha portato il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa a denunciare l’«apartheid vaccinale» praticato dai Paesi ricchi – fino alla chiusura dei confini dopo la scoperta della variante Omicron, passando per il fallimento dell’obiettivo dei 100 miliardi di dollari annui che gli Stati ad alto reddito avrebbero dovuto mobilitare verso i Paesi più poveri per mitigare gli effetti del cambiamento climatico.

Più in generale, permane poi l’impressione di una sostanziale difficoltà a tradurre gli impegni assunti in concrete decisioni politiche. In proposito, il messaggio lanciato durante il summit dal presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat è stato inequivocabile: se da una parte non si può non apprezzare la condivisione di obiettivi e ambizioni su nuovi finanziamenti, connettività, digitale, transizione energetica, clima, agricoltura e sviluppo sostenibile, integrazione economica, produzione di vaccini, dall’altra non ci si può fermare alle «accattivanti formule meramente teoriche», che scontano il limite di non riuscire a mostrare i benefici concreti dell’asserita convergenza euro-africana.

Per questo, prima ancora di entrare nel dettaglio delle specifiche iniziative settoriali da intraprendere, occorreva innanzitutto sciogliere un nodo fondamentalmente politico, ben sintetizzato ancora una volta da Moussa Faki: «Sarà questo il vertice di una partnership rinnovata e rivitalizzata grazie a decisioni innovative e coraggiose, alimentata da un nuovo pragmatismo capace di generare progetti concreti, strutturali e dall’elevato potenziale trasformativo? Sarà questo vertice in grado di ricostruire le relazioni Europa-Africa, le cui solide basi necessitano di un adattamento alle vertiginose evoluzioni globali?».

La dichiarazione finale, che lancia l’impegno verso una visione comune per il 2030, lascia intendere che alcuni risultati sono stati raggiunti, pur restando diverse questioni ancora sul tavolo. A tal proposito, una buona sintesi è stata proposta da African business, che ha rilevato come la promessa di investimenti per 150 miliardi di euro entro il 2027 attraverso l’iniziativa Global gateway – inquadrata come la risposta europea alla Belt and Road Initiative cinese – sia sicuramente positiva, così come risultano apprezzabili gli impegni assunti per assicurare almeno 450 milioni di dosi di vaccino anti-Covid-19 entro la metà del 2022 e mobilitare risorse per 425 milioni di euro per accelerare le vaccinazioni, oltre che garantire un’adeguata distribuzione delle dosi e la formazione dei medici nelle capacità di analisi e sequenziamento. Tuttavia, le speranze africane per una temporanea sospensione dei diritti di proprietà intellettuale sui vaccini restano per ora deluse, e anche sulla riallocazione a favore dei Paesi africani dei diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale, gli Stati membri dell’UE – che hanno già promesso un impegno per 13 miliardi di dollari – sono stati genericamente sollecitati a fornire un ulteriore contributo.

Al di là degli altri fondamentali temi di confronto – dalla cooperazione per la pace e la sicurezza, alla partnership sulle migrazioni e la mobilità, fino alla promozione del multilateralismo – ciò che in talune situazioni pare emergere è la difficoltà a ‘mettere insieme i pezzi’, ricomponendo le differenti priorità in posizioni comuni: in questo senso, sia African business che Mahaut de Fougières e Cécilia Vidotto Labastie in un loro contributo per l’Institut Montaigne hanno rilevato come le parti abbiano una diversa visione sul futuro del gas, il cui consumo secondo Bruxelles dovrebbe essere progressivamente ridotto, ma che per l’Africa risulta una risorsa indispensabile. E ancora – hanno evidenziato sempre Mahaut de Fougières e Cécilia Vidotto Labastie – se per l’Unione Europea la trasformazione digitale è essenziale, essa rappresenta un’opportunità di grande rilevanza anche per i Paesi africani, che però devono fare innanzitutto i conti con il fatto che 600 milioni di persone nel continente non hanno accesso all’elettricità. Quanto alle migrazioni poi, l’approccio è profondamente differente, con gli Stati europei preoccupati innanzitutto di contenere i flussi illegali e quelli africani di sottolineare l’imprescindibilità di ulteriori sforzi per far crescere le loro economie, se davvero si vuole assicurare ai giovani del continente una prospettiva di futuro che li convinca a non abbandonare i loro Paesi.

Eppure, nonostante gli evidenti limiti, sembrano esserci alcune ragioni per un cauto ottimismo, perché a livello europeo sembra essere davvero maturata la consapevolezza che il rapporto con l’Africa deve fondarsi su presupposti rinnovati. Del resto, Moussa Faki non ha mancato di sottolineare come il continente stia «sviluppando diverse partnership che non hanno né la stessa storia né gli stessi scopi della partnership con l’Europa», ma che per l’Africa non sono «meno rilevanti e vantaggiose, e per questo sono degne di rispetto e considerazione». La presenza cinese è una realtà oramai ampiamente consolidata, ma anche altri attori – dalla Russia alla Turchia, dall’India ai Paesi del Golfo – hanno manifestato esplicitamente il loro interesse per il continente africano.

Se dunque l’Unione Europea vuole davvero contare, deve dimostrare di poter offrire all’Africa opportunità di crescita e sviluppo che gli altri non sono in grado di garantire.  

 

Immagine: La stazione della metropolitana leggera di Lem Hotel ad Addis Abeba, Etiopia (4 aprile 2019). Crediti: Matyas Rehak / Shutterstock.com

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Se il punk rock si oppone al regime...

Il tempo delle dolci melodie anti-regime degli Inti Illimani è finito: adesso la protesta politica viaggia sulle dure note del punk rock delle Pussy riot, collettivo femminista russo dalla forte connotazione anti-putiniana. Partiamo dal principio: il 21 febbraio 2012, alla vigilia delle elezioni che avrebbero segnato il ritorno al Cremlino di Putin dopo il quadriennio presidenziale del delfino Medvedev e in un clima già incandescente per le proteste di piazza a San Pietroburgo e Mosca contro il “presidente-zar”, alcune ragazze con il volto coperto da un passamontagna entrano nella Cattedrale moscovita di Cristo Salvatore ed intonano una “canzone-preghiera” punk. Non confidando in un esito positivo delle consultazioni elettorali, le attiviste invocano nel testo del loro brano un aiuto dall’alto dei cieli: se il popolo russo non può sbarazzarsi di Putin, non rimane che sperare nella Madonna. Ma le Pussy riot non si fermano qui; sono un fiume in piena e non risparmiano neanche il patriarca della Chiesa ortodossa russa Cirillo I, reo di “credere più in Putin che in Dio”. La registrazione della performance fa il giro del web – e quindi del mondo – ed immortala l’attacco frontale contro le due “istituzioni” più importanti della Russia: Vladimir Putin, oramai sempre più “istituzione in sé” al di là degli incarichi ricoperti; e la Chiesa ortodossa, che fila d’amore e d’accordo con l’inquilino del Cremlino ed è arrivata recentemente a definirlo “un dono del cielo”. La reazione del patriarca Cirillo I è giunta un mese dopo il misfatto, ad elezioni oramai concluse, e le sue parole sono state di inappellabile condanna: “Non esiste futuro se i luoghi sacri vengono profanati e se la profanazione viene giudicata positivamente da qualcuno e vista come una giusta forma di protesta politica, un’azione appropriata o uno scherzo innocente”. Un messaggio che suonava come un caloroso invito ai giudici – o meglio al succitato “dono del cielo” – a mostrarsi inflessibili e a comminare una punizione esemplare verso chi si era macchiato di “teppismo a sfondo religioso”. Putin, certamente non balzato agli onori della cronaca per la sua tolleranza nei confronti dei dissidenti politici, pareva tuttavia preso fra due fuochi: da un lato, le pressioni della Chiesa ortodossa e l’offensiva lanciata nei suoi confronti a ritmo di punk rock lo inducevano ad usare il pugno di ferro; dall’altro, il timore di compromettere ulteriormente la sua immagine internazionale gli consigliava di usare prudenza e di adottare un approccio più soft. Di qui il compromesso: l’auspico era che i giudici – assolutamente indipendenti e non influenzabili, non si facciano pensieri maliziosi – si mostrassero clementi ed optassero per una pena leggera. Detto, fatto: le tre ragazze arrestate sono state condannate il 16 agosto a due anni di reclusione, quando ne rischiavano sette. Dall’Occidente si sono immediatamente levate le critiche: l’ambasciatore americano a Mosca ha parlato di “sentenza sproporzionata” e l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea, ha definito la condanna “profondamente inquietante”. Commenti dello stesso tenore sono arrivati dalla cancelleria di Berlino e da Parigi, mentre la Casa Bianca ha avanzato dei dubbi sul sistema giudiziario russo pur riconoscendo che la protesta inscenata dalle Pussy riot può aver urtato la sensibilità dei credenti. Sostegno alle attiviste è arrivato anche da moltissimi artisti e cantanti, da Madonna, a Yoko Ono, a Sting, a Paul McCartney. In Russia, invece, l’opinione pubblica appare divisa: una cospicua fetta della popolazione, pur riconoscendo tutti i limiti del regime, si è infatti sentita profondamente ferita da un gesto percepito come “atto di violenza” verso un luogo sacro piuttosto che come eclatante manifestazione di dissenso. Addirittura, nel Paese non sono mancati i rimbrotti verso un Occidente sempre pronto a puntare il dito contro Putin, quando la condanna avrebbe in realtà soltanto motivazioni di carattere religioso. D’altro canto, il 19 per cento della popolazione intervistata per un sondaggio del Centro Studi “Levada”, è convinto che la sentenza sia esclusivamente politica, il 17 per cento ritiene che il processo non sia stato equo ed un robusto 43 per cento giudica comunque la pena comminata eccessiva. Importanti vertici della Chiesa ortodossa, immediatamente dopo la condanna, hanno però annunciato un tardivo perdono verso le cantanti: il loro gesto rimaneva pur sempre un sacrilegio che ha urtato i sentimenti di milioni di credenti, ma si chiedeva “clemenza entro i limiti previsti dalla legge” e si precisava che “la Chiesa aveva perdonato le tre ragazze sin dall’inizio”. Nel frattempo, è stato dato l’annuncio che altre due componenti del gruppo Pussy riot sono ricercate dal Cremlino, si troverebbero in un Paese che non ha accordi di estradizione con Mosca e sarebbero pronte a reclutare altre attiviste femministe per continuare la protesta. Protesta che avrebbe esclusivamente finalità politiche e non sarebbe affatto legata ad una dimensione religiosa, come le stesse Pussy riot hanno voluto precisare stigmatizzando il comportamento di alcune loro sostenitrici che hanno abbattuto una croce monumentale a Kiev e sono state emulate da altre simpatizzanti in due regioni della Russia. Ed è sulla crudezza delle manifestazioni di dissenso e sui loro risvolti che alcuni studiosi hanno chiamato a riflettere anche l’Occidente. Sul New York Times, l’analista Vadim Nikitin ha scritto, con intento chiaramente provocatorio, che “l’uso dei dissidenti politici per guadagnare punti contro il regime russo è pericoloso come adottare una tigre come animale domestico: non importa quanto addomesticate possano sembrare, sono pur sempre spiriti liberi”. Il seguito è facilmente intuibile: estremizzando i termini del suo ragionamento, Nikitin arriva alla conclusione che la prossima “vittima” del dissacrante dissenso delle “anarchiche ed anticapitaliste” Pussy riot potrebbe essere proprio quell’Occidente che oggi difende il loro inalienabile diritto alla libertà di espressione. In quel caso, il sostegno alla loro causa sarebbe ugualmente compatto? Altri commentatori sono invece rimasti ancorati ad una dimensione meno ipotetica e molto più realistica: di fronte ad equilibri geopolitici così precari, con un’Europa in gran parte dipendente energeticamente dalla Russia e con Mosca a giocare un ruolo cruciale sul tavolo internazionale della crisi siriana, quanto conviene provocare Putin e riservargli il consueto biasimo per aver instaurato un regime autocratico? Tanti sono in pronti a scommettere che lo scandalo Pussy riot occuperà le pagine dei giornali ancora per poche settimane e poi finirà nell’oblio sacrificato sull’altare della realpolitik. Tutto sommato, anche i duri suoni del punk rock possono diventare leggero sottofondo semplicemente se si abbassa il volume.

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Per cosa (e come) si vota l’8 novembre negli Stati Uniti

Caucus e primarie, il lungo scontro ‘interno’ per superare i rivali del partito e conquistare la nomination, poi i mesi di duro confronto con l’avversario del campo contrapposto fino al fatidico ‘martedì successivo al primo lunedì del mese di novembre’, quando si celebra l’Election day. L’8 novembre 2016 è la data da tempo cerchiata sul calendario di analisti politici, studiosi, policymakers e cancellerie sparsi per il mondo: il countdown volge oramai al termine, e tra pochi giorni l’America deciderà a chi affidarsi. Da una parte – per i democratici – Hillary Clinton, donna politica di comprovata esperienza, già first lady, senatrice per lo Stato di New York e segretaria di Stato; nelle parole di Barack Obama – che dopo 8 anni si appresta a lasciare la Casa Bianca – semplicemente la ‘candidata più qualificata che ci sia mai stata’ per la carica di presidente degli Stati Uniti. Dall’altra parte – per i repubblicani – Donald Trump, il magnate newyorkese che si è aggiudicato la nomination travolgendo l’establishment del Grand old party, il tycoon che ha rotto gli schemi e si è presentato come l’antitesi del politicamente corretto, l’uomo che si è scagliato contro un sistema rigged – corrotto – e ha promesso di aggiustarlo, rendendo l’America great again, ‘di nuovo grande’.

Tutt’altro che memorabili le rispettive campagne elettorali, poco lo spazio dedicato alle grandi sfide – di politica interna e internazionale – che gli Stati Uniti dovranno affrontare nei prossimi anni, decisamente dimenticabili i tre dibattiti televisivi, spesso scivolati via tra reciproche accuse e insulti. La Clinton ha cercato più di Trump di delineare una visione del futuro del Paese, facendo leva anche su una migliore conoscenza dei dossier e dei temi caldi, ma sulla sua popolarità come candidata pesa il caso mailgate, relativo all’utilizzo di un server privato di posta elettronica negli anni in cui era segretaria di Stato. Nel mese di luglio, l’FBI aveva sottolineato come il comportamento della first lady fosse stato sì ‘estremamente negligente’, ma non tale da raccomandare una sua incriminazione. A 11 giorni dalle elezioni però, quel caso che in molti ritenevano chiuso è stato riaperto: a scoperchiare il vaso di Pandora, le indagini su Anthony Weiner, ex deputato accusato di sexting con una minorenne e marito di Huma Abedin, braccio destro di Hillary Clinton. Sui dispositivi sequestrati a Weiner, sono state rintracciate alcune corrispondenze della Abedin, su cui il direttore dell’FBI James Comey vuole vederci chiaro, così da valutare se ci siano elementi pertinenti con il caso mailgate. Un duro colpo per i democratici e una vera boccata d’ossigeno per Donald Trump, i cui indici di gradimento non godevano peraltro di buona salute dopo la divulgazione dei suoi ‘segreti’ fiscali e soprattutto di un video del 2005 in cui si lasciava andare a commenti sessisti molto poco presidenziali.

L’8 novembre comunque, tutti i nodi verranno al pettine: i cittadini statunitensi si recheranno infatti alle urne per votare i grandi elettori che, nel lunedì successivo al secondo mercoledì di dicembre, saranno chiamati a scegliere ufficialmente il nuovo presidente degli USA. Contrariamente a quanto spesso si afferma, l’elezione dell’inquilino della Casa Bianca – e del suo vice – non avviene infatti direttamente, ma è affidata al Collegio elettorale, nel quale ciascuno Stato ha una quota di grandi elettori corrispondente al numero complessivo dei suoi rappresentanti al Congresso: in totale, dunque, l’assemblea è composta da 538 membri, cifra che si ottiene sommando i 435 deputati della Camera dei rappresentanti, i 100 senatori e i 3 delegati del District of Columbia, che ospita la capitale Washington. In 48 Stati – fanno eccezione soltanto Maine e Nebraska – vige inoltre il principio del winner-takes-all, in forza del quale il partito che conquista più voti popolari si aggiudica tutti i grandi elettori dello Stato stesso. Tale meccanismo di voto può comportare alcuni casi particolari: in primis, non sempre chi conta più grandi elettori è anche il candidato che ha ricevuto più voti, in virtù del diverso ‘peso’ che gli Stati hanno nel Collegio elettorale. Lo ricorda sicuramente bene Al Gore, che pur avendo ottenuto circa 500.000 voti in più rispetto al repubblicano George Bush nel 2000 perse sul filo di lana per soli 500 voti la Florida, lasciando così al suo avversario – in virtù appunto del meccanismo winner-takes-all – il cospicuo ‘bagaglio’ di 25 grandi elettori di cui disponeva lo Stato.

In secondo luogo – e questa è una situazione che gli analisti non escludono totalmente per questa tornata elettorale – può capitare che nessuno dei due principali candidati disponga della soglia minima di 270 grandi elettori necessaria a farsi eleggere. A fronte di tale eventualità – che si è materializzata nel 1824 per l’elezione del presidente e nel 1836 per quella del vicepresidente – la scelta delle due cariche viene rimessa al Congresso: la Camera dei rappresentanti, nella misura di un voto per delegazione statale, è chiamata a eleggere il presidente fra i tre candidati che hanno ricevuto più voti, mentre il Senato sceglie il vice.

Il terzo incomodo, in un quadro elettorale caratterizzato al momento da notevole incertezza, sarebbe oggi Evan McMullin, candidato indipendente con un passato repubblicano: se infatti questi riuscisse nell’impresa di conquistare la vittoria nel suo Stato – lo Utah – e né Trump né la Clinton fossero in grado di raggiungere la soglia dei 270 grandi elettori, l’ipotesi del voto congressuale si materializzerebbe.

Accantonando questo scenario affascinante ma comunque improbabile, sembra invece certo che il risultato sarà deciso dai cosiddetti swing States, ossia gli Stati in bilico i cui orientamenti elettorali sono tendenzialmente oscillanti. Il sito di Politico ne conta 11 (Colorado, Florida, Iowa, Michigan, Nevada, New Hampshire, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, Virginia e Wisconsin) e sarà qui che Trump e Clinton, in una battaglia all’ultimo voto, si giocheranno la presidenza.

Mentre i calcoli sui grandi elettori occupano gran parte dell’attenzione, c’è però un altro processo elettorale ugualmente importante che si svolgerà in concomitanza con le presidenziali, e su di esso pare opportuno soffermarsi. L’8 novembre sarà infatti rinnovata per intero la Camera dei rappresentanti e si procederà anche all’elezione di 1/3 (34 membri) del Senato: un voto per molti aspetti decisivo, visto che nell’ambito del complesso meccanismo di pesi e contrappesi (checks and balances) del sistema statunitense, il Congresso è interlocutore essenziale – e non di rado problematico – del presidente. Gli Stati Uniti sono da tempo abituati allo scenario del cosiddetto ‘governo diviso’, con un inquilino della Casa Bianca appartenente cioè a un partito diverso da quello che detiene la maggioranza in uno o in entrambi i rami del Parlamento, ed è questo lo ‘spazio politico’ nel quale Obama si è dovuto muovere per tutta quasi tutta la durata della sua presidenza.

È per questo dunque che il fronte repubblicano, prima che si materializzasse la candidatura di Trump, insisteva sulla necessità di eleggere un presidente proveniente dalle sue file: riuscendo infatti a confermare la maggioranza al Congresso e conquistando la Casa Bianca, il GOP avrebbe potuto portare avanti in maniera più determinata il suo programma, anche se ai democratici non sarebbero mancati gli strumenti parlamentari – come il filibustering – per far valere la loro opposizione. Ed è sempre per questo che negli ambienti repubblicani, quando Trump ha accusato il colpo per le sue gaffes sessiste, si è pensato di concentrare le risorse e le energie sulla conservazione della maggioranza parlamentare più che sulla corsa presidenziale, così da poter limitare le prospettive di azione di un presidente democratico. In caso di ‘governo diviso’ dunque, i singoli provvedimenti dovranno essere oggetto di trattative e negoziati, in cui ciascuno cerca di ‘strappare’ le maggiori concessioni possibili fino al raggiungimento – magari all’ultimo momento – di un compromesso, in conformità con quanto previsto dagli architetti del sistema istituzionale statunitense.

Scenari tutti possibili, su cui faranno chiarezza gli elettori americani l’8 novembre.

 

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Pannella: un "eretico riformatore"

Una vita controcorrente.
Da liberale ma ‘di strada’, come ha scritto Guido Compagna sul Sole24Ore, perché la piazza era il suo spazio naturale. Da liberista con indole libertaria, nel pensiero come nell’azione, perché fuori da qualsiasi categoria precostituita e da qualsiasi schema preconfezionato. Lontano dalle ideologie chiuse, quelle ‘da scartare e usare come un pacco che si ritira nell’ufficio postale’, perché – diceva – ‘l’ideologia te la fai tu, con quello che ti capita, anche a caso’.
Del suo Partito radicale fondato nel 1955 con una scissione a sinistra nel Partito liberale italiano – è stato nel corso dei decenni indiscusso animatore, anche quando non ha ricoperto incarichi ufficiali. E tramite il suo partito, a cui negli anni Sessanta diede un’impronta marcatamente anticlericale e antimilitarista, ha condotto storiche battaglie, mostrandosi capace di rompere gli schemi e di andare oltre gli steccati delle formule e dei rituali che la politica s’imponeva.
All’interno di un mondo politico a forte polarizzazione, i Radicali sono stati una variabile imponderabile e di rottura, che ha trovato la sua massima capacità di espressione nelle grandi campagne referendarie degli anni Settanta e Ottanta. È qui che Pannella si è inserito come un cuneo all’interno del sistema, finendo in parte per disarticolarlo e diventando indiscusso attore protagonista di una stagione della politica italiana. L’introduzione del divorzio nell’ordinamento si deve alla legge Fortuna-Baslini del 1970, ma è alla tenacia radicale e alla tempra di Pannella che si ricollega la storia, ed è a quel referendum abrogativo del 28 marzo 1974 in cui il 59,26% dei votanti si espresse contro il ritorno al passato che è ancorata la memoria collettiva. Nel 1978 arrivò poi la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza con la depenalizzazione dell’aborto, altro tema caro ai radicali, che culminò in una nuova consultazione popolare nel 1981: la proposta di ampliamento non passò, ma fu respinta anche quella del ‘Movimento per la vita’, e la legge rimase intatta.
Ridurre l’esperienza politica del leader radicale alla pur intensa parentesi dei referendum sarebbe tuttavia concettualmente sbagliato: dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti alla liberalizzazione delle droghe leggere, dalla continua e quasi sempre inascoltata denuncia delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane fino all’incessante lotta per l’abolizione della pena di morte, dalla ‘politicissima’ battaglia per scardinare il sistema proporzionale fino ai temi del testamento biologico e dell’eutanasia, Pannella è sempre stato in prima linea in trincea. Non in nome di quelle ideologie che tanto gli stavano strette, ma battendosi per l’affermazione di quei principi e di quelle idee che ispiravano la sua azione. Anche attraverso forme estreme di protesta, come testimoniato dai frequenti e lunghissimi scioperi della fame o dagli interminabili 25 minuti imbavagliato in tv nel 1978. Anche tramite gesti eclatanti, come le candidature al Parlamento di Toni Negri o quella – ancor più emblematica – in Europa di Enzo Tortora, ingiustamente travolto da un’inchiesta giudiziaria e poi pienamente assolto.
Con Marco Pannella, va via un pezzo della storia politica italiana, con le sue battaglie e i suoi eccessi. Ci lascia un uomo animato da una forte tensione verso i diritti e verso quella che definiva ‘giustizia giusta’, che proprio nel caso Tortora ha visto una delle sue più autentiche espressioni. Un uomo che, nelle parole di Leonardo Sciascia, dimostrava costantemente di ‘avere il senso del diritto, della legge e della giustizia’.
E che ha vissuto una vita, citando le parole di Valter Vecellio nel libro a lui dedicato, da ‘eretico riformatore’.

 

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La vittoria di Obama. L’America "goes forward"

È il 5 novembre del 2008. Sono passate poche ore dalle elezioni che hanno sancito la vittoria del candidato democratico alla Casa Bianca Barack Obama, e su Dipdive.com e YouTube viene lanciato l’ultimo pezzo del cantante dei Black Eyed Peas, Will.i.am. “Stamattina mi sono svegliato sentendomi come nuovo, perché ciò che ho sognato è finalmente diventato realtà”, esulta il rapper californiano, che aggiunge: “It’s a new day”,“È un nuovo giorno”, così come recita il titolo del brano. Sono trascorsi quattro anni da quell’omaggio al primo presidente di colore della storia degli Usa, e quattro anni sono passati dalle lacrime che rigavano il volto del reverendo Jesse Jackson, accanto a Martin Luther King nella lotta per l’emancipazione degli afro-americani e testimone a quattro decenni dalla sua morte di ciò che il reverendo che “aveva un sogno” forse avrebbe faticato ad immaginare: un nero alla Casa Bianca. Oggi non è un “nuovo giorno”, per lo meno non nel senso di quel 5 novembre 2008, e anche quello “Yes, we can” che incantò il mondo con la sua disarmante semplicità sembra un ricordo sbiadito e lontano. Obama vira dal cambiamento alla continuità, e dove prima campeggiava “Change” adesso c’è scritto “Forward”: andiamo e guardiamo avanti nonostante tutto, perché c’è ancora tanto lavoro da fare. E nei prossimi quattro anni, alla guida della grande nave americana ci sarà ancora lo stesso timoniere. Seguendo le indicazioni degli analisti politici, nell’ultimo anno e mezzo Barack Obama ha vinto e perso le elezioni presidenziali un numero imprecisato di volte. Dato per sicuro vincitore dopo il blitz di Abbottabad del maggio 2011 che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden, il presidente è stato scalzato dalla sua poltrona quando nel primo duello in tv con Romney si è dimostrato fin troppo remissivo e quasi impacciato, salvo poi risalire nei consensi grazie a performance ben più brillanti nei due successivi confronti. La storia ci diceva che mai dai tempi di Franklin Delano Roosevelt un presidente uscente era stato rieletto con un tasso di disoccupazione superiore all’8 per cento, ma il fatto che il dato si sia mantenuto poco al di sotto di tale soglia critica ad ottobre (è al 7,9 per cento) e la creazione di 171.000 nuovi posti di lavoro rispetto ai 125.000 previsti non hanno giocato a favore dello sfidante repubblicano, che pensava di poter sferrare l’ultima offensiva contro Obama facendo leva su dati economici più negativi. I sondaggi ci hanno presentato una situazione in bilico fino all’ultimo istante, con un testa a testa fra i due candidati e continui capovolgimenti di fronte. Aspetto sicuramente interessante sotto il profilo socio-politico, in quanto indicativo di una polarizzazione del consenso in gruppi di sostanzialmente pari consistenza numerica, ma di relativa importanza dal punto di vista elettorale. Negli Stati Uniti, l’elezione del presidente non è infatti diretta come spesso si sente dire, ma è affidata ai 538 grandi elettori distribuiti fra i singoli Stati della Repubblica federale e il District of Columbia, che ospita la capitale Washington. Vigendo inoltre la regola del “winner takes it all”, per cui il candidato vincente nel singolo Stato si aggiudica tutti i suoi grandi elettori (fanno eccezione solo Maine e Nebraska), non sempre chi ottiene più voti popolari a livello nazionale raggiunge anche la maggioranza complessiva dei grandi elettori. Lo ricorda bene Al Gore, che pur avendo ricevuto 500.000 voti in più di George W. Bush nel 2000, conquistò un numero leggermente più esiguo di grandi elettori del suo avversario. Come previsto, in termini di voti popolari il confronto è stato serrato, e pochissime centinaia di migliaia di voti separeranno i competitors alla fine del conteggio. La vittoria in termini di grandi elettori da parte di Obama appare comunque assolutamente indiscutibile. L’attuale e futuro inquilino della Casa Bianca è risultato vincitore nella battaglia per la conquista degli undici “swing States”, ossia gli Stati in bilico. Fra questi, il presidente uscente si è aggiudicato il Nevada, il Colorado, l’Iowa, la Pennsylvania, il New Hampshire, il Wisconsin, la Virginia, ma anche il Michigan e l’Ohio dei settori automobilistico e manifatturiero, che Obama ha insistito per salvare e su cui il candidato repubblicano si era dimostrato in passato piuttosto tiepido. A Romney va solo il North Carolina. A questo punto non paiono più decisivi gli esiti del voto della Florida, considerata centrale dagli analisti fino a ieri ma che oggi non sposterebbe l’ago della bilancia. E ad ogni modo, anche se mancano i voti postali e i cosiddetti voti “provisional” di coloro la cui registrazione presso le liste elettorali non è ancora verificabile, Obama sembrerebbe vincere anche lì. Alle ore 5.15 italiane, la vetta dell’Empire State Building di New York fino ad allora bicolore ha lasciato spazio ad una esplosione di blu, il colore dei democratici: Obama ha superato la fatidica soglia dei 270 grandi elettori, dunque viene riconfermato presidente. Poco dopo arriva un tweet dello stesso Obama: “Four more years”, “altri quattro anni”. E al quartier generale democratico di Chicago scoppia la festa. Verso le 6.50 italiane, Mitt Romney telefona al presidente e riconosce la sconfitta; poi si rivolge alla platea dei suoi sostenitori a Boston per “concedere” ufficialmente la vittoria all’avversario e ringraziare i suoi elettori e il suo entourage. Rispettato il rito che vuole che lo sconfitto parli per primo, tocca ora ad Obama parlare alla folla di Chicago, che mai come in questo momento rappresenta l’intera nazione americana. Al presidente rieletto toccherà lavorare per restituire speranza ad un Paese che sembra vedere la proverbiale “luce fuori dal tunnel” ma continua ancora a soffrire, dovrà continuare a difendere la sua riforma sanitaria avversata dai repubblicani ed operare con decisione nella materia della regolarizzazione degli immigrati, come del resto ha promesso. In fondo, è anche grazie al consistente bagaglio di voti degli ispanici se potrà risedersi su quella sedia dello Studio ovale che nella parodia di Clint Eastwood alla convention repubblicana era vuota, ad indicare un presidente inesistente. Nei prossimi giorni si ricorderà come Obama abbia cominciato a ripensare la politica internazionale a stelle e strisce, mostrandosi meno acriticamente appiattito su posizioni filo-israeliane nel complesso scacchiere geopolitico medio-orientale e appoggiando – anche se dall’esterno – i fermenti della “Primavera araba”. Si dirà probabilmente che la rielezione di Obama fa bene all’Europa e non dispiacerà alla Russia, che Romney in pieno stile Guerra fredda aveva ribattezzato “nemico geopolitico numero uno degli Usa”. Sui temi della politica estera, il candidato democratico si è dimostrato più lucido, pragmatico e preparato del suo avversario, forte anche dei suoi quattro anni da presidente. Le elezioni questa volta si sono però giocate quasi solo ed esclusivamente sul terreno della politica interna. “L’UAW è orgogliosa di congratularsi con il presidente Obama per la sua vittoria elettorale. Obama è stato dalla parte dei lavoratori americani nell’ora più buia, e i membri dell’UAW e i cittadini che fanno parte dell’industria automobilistica gli sono grati per aver scommesso su di noi”. Così si è espresso Bob King, presidente dello United Auto Workers, il sindacato dei metalmeccanici statunitensi. Parole che aiutano a comprendere uno dei motivi per cui Obama ha vinto. La strada che attende il presidente è però tortuosa. Il complesso meccanismo di checks and balances che caratterizza il sistema istituzionale statunitense costringerà Obama ad un frequente processo di mediazione con un Congresso a maggioranza ibrida; repubblicano alla Camera dei rappresentanti e democratico al Senato. L’ex senatore dell’Illinois ha però una carta formidabile da giocare: non deve più garantirsi la rielezione, e pertanto potrà portare fino in fondo il suo programma senza fare troppi calcoli sull’impatto che questo potrebbe avere sul consenso attorno alla sua figura. Non sappiamo se Will.i.am abbia composto un’altra canzone per celebrare anche questa vittoria, ma lo scopriremo presto. Per l’America non è un nuovo giorno come il 5 novembre del 2008, ma può darsi che sia meglio così. Perché l’America, prima di tutto, oggi ha bisogno di guardare avanti. Anzi, “Forward”.

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Nuove tensioni e ataviche rivalità. Notizie preoccupanti dai Balcani

Tensioni latenti non di rado prossime alla deflagrazione, acute contrapposizioni, interessi contrastanti e complesse dinamiche geopolitiche che periodicamente ricompaiono sulla scena, richiamando alla memoria storiche definizioni sulla regione. I Balcani sono stati la ‘polveriera d’Europa’, naturale spazio di espansione di grandi imperi e centro di incubazione di importanti conflitti; al loro interno accolgono un articolato puzzle di etnie, culture e religioni; sui loro territori sono state scritte densissime pagine di Storia e, anzi, probabilmente aveva ragione Winston Churchill quando affermava che essi «producono più Storia di quanta ne possono digerire».
Oggi, trascorsi più di due decenni dalla dissoluzione della Iugoslavia e da quel violentissimo conflitto che aprì una profonda ferita nel continente europeo, i Balcani sembrano essere stati relegati in una posizione secondaria nel dibattito geopolitico, ma a una più attenta analisi, volgendo lo sguardo al di là dell’Adriatico, nei Balcani occidentali le tensioni stanno riaffiorando, percorrono quasi per intero la regione, fanno sentire il loro peso nei delicati intrecci politici dell’area, e nel frattempo nuove equazioni di potenza si definiscono.
The Balkans: bad news rising, le cattive notizie dai Balcani aumentano: così ha titolato una sua analisi per il Council on Foreign Relations Robert Austin, professore presso la Munk School of Global Affairs dell’Università di Toronto, a evidenziare la riacutizzazione delle rivalità etniche e politiche in un quadro già caratterizzato da pronunciate difficoltà.
In Albania – dove a giugno si terranno le elezioni legislative – il Partito democratico all’opposizione ha boicottato i lavori parlamentari sulla riforma della giustizia, chiedendo la costituzione di un governo tecnico che si faccia garante della regolarità dell’imminente voto. «O elezioni libere o niente», ha tuonato il leader del Partito democratico Lulzim Basha, alla guida di manifestazioni di protesta contro l’esecutivo presieduto dal socialista Edi Rama che – secondo la forza di opposizione – non garantirebbe un processo elettorale trasparente. All’inizio dello scorso marzo, il premier ha rinnovato il suo invito al dialogo per proseguire l’iter relativo alla riforma della giustizia, tema a cui anche l’Europa guarda con particolare attenzione. In proposito, Bruxelles è stata chiara: il boicottaggio delle attività del Parlamento blocca la discussione di interventi in un settore nevralgico e di fatto frena il cammino intrapreso da Tirana nel processo di integrazione europea. Intanto, corruzione e criminalità organizzata continuano a rappresentare ostacoli di grande rilevanza al pieno sviluppo del Paese.
Quanto alle realtà un tempo parte della Iugoslavia, in diversi casi la situazione si presenta assai delicata. A destare particolare preoccupazione è in primis la Macedonia, dove a seguito delle elezioni dello scorso dicembre non si è ancora giunti alla formazione di un esecutivo. Per comprendere la questione è necessario fare un passo indietro: in un quadro politico già teso, la conflittualità tra il partito di centrodestra al governo VMRO-DPMNE e l’opposizione socialdemocratica esplose nei primi mesi del 2015, con la diffusione di una serie di intercettazioni che sembravano rivelare il coinvolgimento dell’esecutivo e del primo ministro Nikola Gruevski in una rete di sistematici abusi di potere, corruzione e brogli elettorali. Sotto gli auspici dell’UE, per porre fine a un’incandescente crisi politica, le varie forze concordarono la formazione di un governo di transizione che avrebbe portato il Paese a nuove elezioni, originariamente previste per aprile 2016 e poi rinviate. Le consultazioni hanno visto prevalere di misura il partito di Gruevski, che non è tuttavia riuscito a formare un governo. Al leader socialdemocratico Zoran Zaev, invece, è stato il presidente della Repubblica ed esponente del VMRO-DPMNE Gjorge Ivanov a rifiutare il mandato: sotto accusa l’accordo raggiunto da Zaev con le forze politiche albanesi di Macedonia, che hanno costituito una comune piattaforma dopo aver incontrato il presidente kosovaro Hashim Thaçi e soprattutto il premier di Tirana Rama. Dunque, per Ivanov, un’inaccettabile ingerenza di Paesi stranieri negli affari macedoni. Il 3 aprile, intanto, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha incontrato a Skopje proprio Ivanov, riaffermando l’impegno di Bruxelles per una Macedonia pienamente europea e invitando a trovare una soluzione politica che riporti la Repubblica lungo il sentiero dell’integrazione euro-atlantica.
Quanto al Kosovo, le tensioni con la Serbia permangono. L’ultimo episodio che ha portato a un duro scontro è quello legato al treno che lo scorso gennaio da Belgrado avrebbe dovuto raggiungere Mitrovica (Kosovska Mitrovica), ripristinando un collegamento inattivo da 18 anni: sul convoglio campeggiavano i colori della bandiera serba e – in diverse lingue – il celebre slogan Kosovo je Srbija (“Il Kosovo è Serbia”). Per le autorità del Kosovo, una grave provocazione. Inoltre, il dialogo tra Priština e Belgrado, gli accordi raggiunti tra le parti e la creazione di un’associazione delle municipalità serbe in Kosovo – volta a garantire loro una maggiore autonomia – hanno generato vibranti proteste negli ambienti nazionalisti kosovari, a testimonianza di come la fragilità sia la cifra distintiva della piccola Repubblica sul cui riconoscimento non tutti gli Stati sono concordi.
C’è poi il Montenegro, invitato nel dicembre 2015 – con reazione irritata della Russia – a entrare a far parte della NATO. Dominus della vita politica del Paese è stato per più di 20 anni Milo Djukanović, che ha perseguito con forza l’allineamento di Podgorica all’Occidente; dopo le elezioni di ottobre, che hanno visto il suo Partito democratico dei socialisti del Montenegro conquistare la maggioranza relativa dei seggi, egli ha lasciato comunque l’incarico di premier, assunto da Duško Marković. In occasione del voto – hanno denunciato le autorità del Paese – ci sarebbe stato un tentativo di colpo di Stato, con i golpisti che miravano a fare irruzione in Parlamento e assassinare Djukanović, così da interrompere il percorso euro-atlantico del Montenegro. Venticinque i sospetti, in gran parte serbi, ma il dito è puntato innanzitutto contro Mosca, che ovviamente respinge con forza le accuse.
Spostando invece l’attenzione sulla Bosnia ed Erzegovina, è la sua stessa struttura istituzionale – fondata su complessi equilibri figli degli Accordi di Dayton del 1995 – a essere fragile, con i serbo-bosniaci della Republika Srpska che periodicamente si fanno sentire.
All’interno di questo quadro, di per sé già estremamente articolato, si innesta poi la geopolitica. Come osservava, infatti, un rapporto del Council on Foreign Relations pubblicato nel marzo del 2016, la competizione fra potenze rivali è prepotentemente tornata sulla scena nei Balcani occidentali e, complici le mancanze dell’Unione Europea, si sono creati spazi per consentire agli attori interessati di inserirsi nelle dinamiche regionali. Le ridotte possibilità di una piena membership UE nel breve periodo – Juncker ha escluso allargamenti durante la sua presidenza della Commissione europea – hanno prodotto come conseguenza un rallentamento delle spinte riformatrici nei Paesi interessati, e la crisi complessiva che attraversa Bruxelles rende inevitabilmente meno attrattiva che in passato agli occhi delle popolazioni balcaniche la prospettiva dell’integrazione europea.
Facendo leva sulla comune confessione ortodossa, soffiando sul nazionalismo e sfruttando la sua posizione di forza in campi quali l’energia, la Russia si è incuneata nella regione, riuscendo ad avere una certa presa in ambienti come quello serbo, quello della Republika Srpska o ancora in talune realtà del Montenegro. E anche la Turchia e le monarchie del Golfo, in forza della presenza di una importante componente musulmana, intendono giocare le loro carte. Nella regione poi, centrale finisce per essere lo Stato di maggiore peso, la Serbia, il cui neoeletto presidente Aleksandar Vučić – già primo ministro del Paese – cerca di mantenere l’ancoraggio a Occidente e al contempo buoni rapporti con il Cremlino.
Al vertice dei Balcani occidentali che si terrà a Trieste il prossimo 12 luglio e che vedrà l’Italia protagonista non mancheranno certamente, dunque, gli argomenti da discutere.

 

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Non solo Regeni. Buio sul Nilo

Generazione carcere: la gioventù egiziana dalle proteste alla prigione. È il titolo forte, quasi lancinante, di un rapporto pubblicato nel giugno 2015 da Amnesty International, per denunciare la repressione del dissenso nel nuovo Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Sono le storie di 14 giovani, attivisti per i diritti umani, studenti, blogger, arrestati assieme ad altre migliaia di persone per la loro partecipazione alle proteste, mentre le autorità giustificavano il giro di vite sottolineando la necessità di garantire sicurezza e stabilità al paese. Era il 25 gennaio 2011 quando, per la prima volta, l’avanguardia di Tahrir occupava la piazza fino a farla straripare di gente, sognando un Egitto finalmente libero dai trentennali giochi di potere della cricca mubarakiana. Tutto era cominciato nel centro tunisino di Sidi Bouzid, nel dicembre precedente, quando con un gesto estremo di protesta il venditore di frutta Mohamed Bouazizi aveva risposto alle angherie subite dalle autorità dandosi fuoco. Lì avevano iniziato a germogliare i gelsomini della rivoluzione, che avrebbero portato in meno di un mese alla caduta del presidente Ben Ali. I venti delle primavere arabe superarono rapidamente i confini tunisini, prendendo a soffiare impetuosi sulla cruciale regione geopolitica del Grande Medio Oriente. Quella di Mubarak fu la seconda dittatura a capitolare, aprendo la strada a un futuro ricco di incognite ma altrettanto denso delle speranze di tanti egiziani. Nel giugno del 2012, dopo oltre un anno di reggenza del feldmaresciallo Tantawi, la vittoria alle elezioni presidenziali di Mohammed Mursi, esponente del partito Giustizia e libertà, emanazione diretta della Fratellanza musulmana. È una parentesi che dura solo un anno: la piazza si ribella ai decreti dal sapore neofaraonico emanati dal capo dello Stato e la protesta monta, fino all’ultimatum dell’esercito. Il 3 luglio Mursi viene deposto: non un golpe, dicono i militari, ma una risposta alle rivendicazioni popolari. La transizione è affidata al presidente della Corte costituzionale Adly Mansour e nel frattempo comincia a imporsi la figura del generale al-Sisi, che smette la divisa e - come prevedibile - si candida alle elezioni presidenziali del maggio 2014, stravincendole con quasi il 97% dei consensi.

Oggi, a più di 5 anni da quel 25 gennaio 2011, il sogno di un futuro diverso coltivato dai manifestanti d’Egitto al grido di ‘pane, libertà e giustizia sociale’, resta un ricordo sbiadito. E, denuncia Amnesty, la ‘generazione della protesta’ del 2011 è diventata nel 2015 una ‘generazione in galera’. Appartiene a questa gioventù Alaa Abdel Fattah, attivista e blogger, condannato nel febbraio 2015 a 5 anni di reclusione per aver violato la legge che non consente manifestazioni senza autorizzazione; ne fa parte l’avvocatessa per i diritti umani Mahienour el-Masry, arrestata con l’accusa di aver attaccato la stazione di polizia di El-Raml nel marzo del 2013; ne è invece da poco uscita Yara Sallam, impegnata nella difesa dei diritti delle donne, condannata per protesta non autorizzata e poi graziata nel settembre 2015 dal presidente al-Sisi.

Per il quinto anniversario della Rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, il governo era stato chiaro, ricorrendo addirittura a motivazioni religiose per spiegare la sua posizione: era necessario non cedere alle sirene della protesta che riecheggiavano sui social media, perché trascinare il paese nel caos e nella violenza ‘va contro i principi della sharia’. Nel frattempo, gli amministratori di alcune pagine Facebook erano già stati arrestati con l’accusa di aizzare contro le istituzioni dello Stato e di far parte della Fratellanza musulmana, tornata nuovamente fuorilegge. Il giorno di quel quinto anniversario ha segnato anche l’Italia, perché al Cairo si perdevano le tracce del giovane ricercatore Giulio Regeni, dottorando all’università di Cambridge e impegnato nello studio dei sindacati indipendenti in Egitto. Il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato il 3 febbraio, portando con sé mille interrogativi per quegli evidenti segni di tortura che hanno subito fatto affiorare il più terribile dei sospetti, quello di un coinvolgimento dei servizi di sicurezza. Le autorità egiziane hanno promesso di fare piena luce sul caso e assicurato la loro collaborazione agli investigatori italiani, ma le contrastanti versioni sull’accaduto che giorno dopo giorno arrivano dalle rive del Nilo appaiono immediatamente poco credibili, dalla notizia di un incidente stradale, all’ipotesi di un omicidio collegato al mondo della droga, alle voci di un presunto delitto a sfondo sessuale. Poi ricompare la pista della criminalità comune, vengono mostrate le fotografie dei documenti di Giulio, che sarebbe stato assassinato da una banda specializzata nel rapimento di cittadini stranieri i cui membri - ovviamente uccisi - erano soliti travestirsi da poliziotti. Anche questa tesi tuttavia non regge: il borsone rosso mostrato negli scatti non sarebbe infatti del ricercatore italiano; decisamente improbabile poi che dei criminali comuni conservino per mesi i documenti di una loro vittima. Il governo italiano, lasciando trasparire irritazione, mantiene ferma la sua posizione e ribadisce che non accetterà verità di comodo; da parte sua Il Cairo fa sapere che il caso non è chiuso e le indagini proseguono. In attesa dell’incontro a Roma tra gli investigatori italiani e i loro colleghi egiziani – fonti parlano di un dossier di 2000 pagine – il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha rimarcato che, senza un vero cambio di marcia, l’Italia è pronta a reagire con misure tempestive e proporzionate. Parole che, ovviamente, Il Cairo non ha gradito.

L’Egitto continua a essere un attore di grande rilevanza nello scacchiere del Grande Medio Oriente, oggi in particolar modo per la sua prossimità al magmatico fronte libico e per la lotta contro un terrorismo che nell’incontrollato Sinai – con l’attentato all’aereo russo dell’ottobre 2015 – ha dimostrato di poter colpire con drammatica brutalità. Alle dinamiche geopolitiche si affiancano poi importanti interessi economici, che coinvolgono le principali potenze occidentali e anche l’Italia, peraltro non solo attraverso l’ENI.

Per gli eredi dei faraoni il momento è delicato, con una crescita economica in fase di rallentamento e carenti riserve di valuta estera. Le difficoltà hanno determinato un calo della popolarità del presidente, ma secondo gli analisti al-Sisi può per il momento restare tranquillo sia perché – come ha ricordato Eric Trager su Foreign Policy – dopo anni convulsi gli egiziani sembrano poco propensi a nuove sollevazioni, sia perché – hanno evidenziato Marina e David Ottaway per Foreign Affairs – il capo dello Stato controlla saldamente le istituzioni del paese.

Sul caso Regeni sarà necessario fare chiarezza nel più breve tempo possibile, senza dimenticare – riportando le parole di una risoluzione comune votata dal Parlamento europeo nel mese di marzo – che purtroppo non si tratta di un ‘evento isolato, ma si colloca in un contesto di torture, morti in carcere e sparizioni forzate avvenute in tutto l’Egitto negli ultimi anni’.

C’è ancora troppo buio lungo le sponde del Nilo.

 

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Entrano nel vivo le elezioni presidenziali in Francia

 

Avecvous.fr è on-line dalle prime ore del 27 gennaio.

Racconta le storie di Armand e Dominique, di Lona e Manuel, di Pierre e Sandrine, attraverso la loro viva voce, perché – spiega il sito – oramai i cittadini francesi chiedono un punto di vista diverso, non riconoscendosi più nelle parole autoreferenziali dei candidati alla presidenza della Repubblica. Sulla pagina non compaiono loghi o simboli di forze politiche, ma è sufficiente recarsi nella sezione Mentions légales per leggere che l’iniziativa è stata promossa dal partito del presidente in carica Emmanuel Macron, La République en Marche! (LaREM): non l’atteso annuncio della candidatura per un secondo mandato – che dovrebbe arrivare entro il 20 febbraio –, ma comunque un chiaro indizio sulle imminenti mosse dell’attuale inquilino dell’Eliseo.

A poco più di due mesi dal voto, con il primo turno fissato al 10 aprile e il secondo quattordici giorni dopo tra i due candidati più suffragati, la campagna per le presidenziali francesi è entrata dunque nel vivo. Come previsto e come da tradizione, in tanti sono pronti a presentarsi ai nastri di partenza, talvolta mossi più dall’ambizione di conquistare la scena – o ancora dalla volontà di offrire una testimonianza ‘identitaria’ sull’esistenza del loro partito – che da reali aspettative di elezione. Quali che siano le motivazioni alla base delle scelte, la proliferazione degli aspiranti presidenti segnala come il panorama politico sia caratterizzato da un’accentuata frammentazione, questa volta tanto a sinistra quanto a destra.

Pur rimanendo la situazione abbastanza fluida, appare quasi certo che Macron sarà uno dei due sfidanti del secondo turno, forte di un consenso che – secondo i più recenti sondaggi – dovrebbe attestarsi sul 24% e consentirgli di chiudere agevolmente in vantaggio il primo round elettorale. Altrettanto probabile è che il variegato fronte della gauche sia poi fuori dai giochi ancor prima che inizi la partita, attraversato da fratture che impediscono di fare sintesi e di convergere su una figura condivisa. Al momento, il candidato accreditato del maggior numero di consensi sarebbe Jean-Luc Mélenchon, deputato e leader della sinistra radicale di La France insoumise, che secondo le rilevazioni si attesterebbe sul 9,5-10% dei voti; il parlamentare europeo ed esponente dei Verdi Yannick Jadot non supererebbe invece il 5%, mentre la sindaca di Parigi e candidata socialista Anne Hidalgo sarebbe ferma al 3-3,5% delle preferenze, le stesse che i sondaggi dell’Institut français d’opinion publique (IFOP) attribuiscono al candidato comunista Fabien Roussel. Il tutto senza contare Nathalie Arthaud di Lotta operaia, Philippe Poutou del Nuovo partito anticapitalista e il marxista Anasse Kazib, il cui seguito appare numericamente poco consistente, mentre l’ex ministro dell’Economia Arnaud Montebourg ha annunciato il 19 gennaio il suo ritiro dalla corsa presidenziale. In tale frastagliato panorama, neppure le «primarie popolari» – lanciate da un gruppo di attivisti per fare appello all’unità della sinistra – hanno sortito gli effetti sperati, nonostante il successo sul fronte dell’adesione con oltre 462.000 iscritti on-line e più di 378.000 partecipanti tra il 27 e il 30 gennaio. Il voto ha premiato come candidata preferita l’ex ministra della Giustizia Christiane Taubira, ufficialmente in campo da poche settimane e accreditata oggi del 4-4,5% dei voti, ma per il momento né Jadot, né Mélenchon, né Hidalgo – giunti rispettivamente secondo, terzo e quinta nella consultazione – sembrano intenzionati a rinunciare alla corsa presidenziale.   

Per quanto meno atomizzato, anche il fronte della droite annovera – nelle sue varie gradazioni e sfumature – diversi candidati alla più prestigiosa carica della Repubblica. Nel campo dell’estrema destra, complice anche un parziale appannamento della figura di Marine Le Pen, per diverse settimane l’attenzione è stata monopolizzata dall’ex editorialista di Le Figaro Eric Zemmour, che lo scorso 5 dicembre ha lanciato la sua creatura politica Reconquête!: un nome chiaramente evocativo, che rimanda al periodo della Reconquista spagnola e alla cacciata degli arabi dalla Penisola Iberica, in linea con l’accesa retorica anti-islam e anti-immigrazione che ha finora animato gran parte delle uscite pubbliche del candidato. Le frasi ad effetto non mancano, dallo slogan napoleonico «Impossible n’est pas français» («Impossibile non è francese») all’autoidentificazione come «piccolo granello di sabbia che ha fatto inceppare la macchina» delle presidenziali, che senza la sua partecipazione sarebbero state una mera formalità. Le accuse di misoginia? Bollate come ‘ridicole’, perché sono state le tante donne di famiglia a forgiare il suo carattere. Gli appellativi di ‘fascista’ e ‘razzista’? Insensati per le sue radici di «ebreo berbero arrivato dall’altra sponda del Mediterraneo», che non considera «inferiore il diverso solo perché diverso», ma vuole esclusivamente difendere «i valori francesi, il Paese, la patria». I nemici che lo contrastano? Tanti, dai suoi avversari che desiderano la sua ‘morte politica’, ai giornalisti che auspicano la sua ‘morte sociale’, agli jihadisti che lo vogliono ‘morto e basta’. L’impressione però è che Zemmour – dopo un ingresso travolgente nell’agone politico – sia oggi vittima delle sue stesse polemiche, e che le periodiche provocazioni lanciate per orientare su di sé i riflettori non sortiscano più lo stesso effetto: al momento, il leader di Reconquête! si colloca stabilmente al quarto posto nella corsa presidenziale con il 13,5% dei consensi, dietro a due donne che si contenderanno fino all’ultimo voto l’accesso al secondo turno.

Per ora, i sondaggi premiano la candidata del Rassemblement national (RN) Marine Le Pen, che negli ultimi mesi sembra aver accantonato alcune delle sue posizioni più oltranziste – ad esempio sull’Unione Europea (UE) – per assumere un profilo più ‘istituzionale’: il che le è costato l’avvicinamento ‘eccellente’ di sua nipote Marion Maréchal a Zemmour, qualche defezione nei ranghi del partito e l’accusa implicita dei fuoriusciti di essere oramai un ingranaggio del sistema. Se però da una parte è indubbio che la candidatura di Zemmour ha intaccato il consenso potenziale di Le Pen, dall’altra il radicamento di RN tra le classi popolari continua a essere estremamente solido, mentre il noto polemista non sfonda tra gli operai. Come inoltre riportato su The New York Times da Constant Méheut, l’estremismo del fondatore di Reconquête! potrebbe alla lunga persino giocare a vantaggio di Le Pen, contribuendo sia a ‘normalizzare’ la sua linea politica che a conquistare elettori per il secondo turno, provenienti prevalentemente dal bacino di quella borghesia conservatrice di destra attratta da Zemmour ma restia ad affidarsi a una figura populista. Per raggiungere l’obiettivo, la leader di RN dovrà però battere la concorrenza di Valérie Pécresse, candidata della destra gollista di Les Républicains (LR), presidente del Consiglio regionale dell’Île de France, già consulente di Jacques Chirac e ministra nel governo di François Fillon durante la presidenza Sarkozy. Uscita dal partito dopo la débâcle delle Europee del 2019 invocando un suo radicale rinnovamento, Pécresse – rientrata alla vigilia del congresso per la scelta del candidato alle presidenziali – si è orientata su un programma economico di stampo liberista, sollecitando tagli alla spesa pubblica improduttiva e promettendo una radicale semplificazione amministrativa, senza però disdegnare – ha evidenziato in un suo ritratto Michele Barbero su Foreign policy – alcune venature di «gaullismo sociale», come l’aumento dei salari per 12 milioni di lavoratori. Sul fronte dell’immigrazione e della sicurezza, la candidata di LR si è invece mostrata sostenitrice della ‘linea dura’, attestandosi su posizioni che non paiono troppo lontane da quelle della destra identitaria. In lei – rileva sempre Barbero – paiono dunque coesistere le varie anime della destra francese, dallo spirito liberale a quello sociale, dall’impronta conservatrice a quella identitaria: se questo le consentirà di crescere ulteriormente nei consensi – attualmente è data al 16,5% – e di superare Marine Le Pen (17,5-18%) saranno le prossime settimane a dirlo.

Questo dunque l’assortito panorama delle candidature alle presidenziali francesi, a cui presto si aggiungerà ufficialmente anche quella di Macron. Da parte sua, il presidente è consapevole di trovarsi in una posizione molto diversa da quella del 2017, quando riuscì a conquistare l’Eliseo presentandosi come novità dirompente nella palude della politica francese; sa di non essere più l’enfant prodige che – complice un sistema ingessato – poteva lanciare le sue istanze riformatrici, occupare il centro e attrarre consensi da destra e da sinistra, pur sostenendo di essere semplicemente «en marche» e di non voler andare «ni à droite, ni à gauche». Lo spostamento del baricentro della competizione a destra sembra suggerire al presidente di guardare con più convinzione dall’altra parte, a un elettorato di sinistra preoccupato da derive pericolose e al tempo stesso conscio del rischio di dispersione del voto con una gauche così frammentata. Tuttavia, tale riposizionamento – rilevava a novembre lo studioso Pawel Zerka – non sarebbe comunque facile: prima che il Covid-19 assorbisse tutte le energie mettendo di fatto in stand-by molte iniziative, Macron aveva infatti lanciato una serie di riforme – come quella sulle pensioni – che lo avevano reso impopolare a sinistra, e la modifica dell’imposta sulle grandi fortune gli era valsa l’appellativo di ‘presidente dei ricchi’.   

Nelle ultime settimane, l’inquilino dell’Eliseo ha fatto leva sulla ritrovata attrattività di Parigi sul fronte degli investimenti stranieri, difendendo così le riforme del quinquennio presidenziale; inoltre, il rimbalzo del PIL del 7% dopo un 2020 drammatico sembra deporre a favore dell’efficacia delle decisioni economiche adottate durante la pandemia. Attualmente poi, proprio mentre la campagna elettorale si avvia verso la fase decisiva, la Francia si trova a esercitare la presidenza di turno del Consiglio UE: una coincidenza temporale indubbiamente favorevole a Macron, che in ambito europeo è capace di muoversi con consumata abilità.

Se saprà giocare bene le proprie carte, il presidente potrebbe ottenere quella conferma all’Eliseo che in Francia manca dai tempi di Chirac. Lo slogan «Avec vous» – vale a dire «Con voi» – dovrà però assumere sostanza e concretezza nelle prossime settimane, contrastando quel «Sans moi» ‒ «Senza di me» – che pure è diventato un trend topic nei giorni scorsi tra gli oppositori di Macron.

 

Immagine: Manifesto strappato di Emmanuel Macron per le elezioni presidenziali del 2022, Mulhouse, Francia (19 dicembre 2021). Crediti: NeydtStock / Shutterstock.com

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Il 2021 della politica internazionale

«The worst year ever», l’anno peggiore di sempre.

Con un titolo eloquente e una grande X rossa a cancellare il 2020 sulla pagina di copertina, il magazine Time congedava 12 mesi fa un anno che aveva fatto precipitare il mondo nell’angoscia, privandolo di qualsiasi punto di riferimento.

Disastri naturali in successione, a testimonianza del ‘tradimento’ dell’uomo ai danni della natura; una pandemia capace di mietere milioni di vittime e di mettere in ginocchio i sistemi sanitari più all’avanguardia; la profonda ferita inferta alla democrazia statunitense dalle violente accuse di Donald Trump subito dopo la sconfitta contro Joe Biden, pur senza esibire alcuna prova dei «massicci brogli elettorali» denunciati: eventi di portata dirompente e potenzialmente gravidi di conseguenze – rilevava su quel numero del Time la critica cinematografica Stephanie Zacharek – che messi uno accanto all’altro componevano il mosaico di una cronaca dolorosa da ripercorrere. E allora – continuava Zacharek – certamente quella dell’anno «peggiore di sempre» era un’iperbole, che non rendeva giustizia a epoche quanto meno altrettanto drammatiche, ma al tempo stesso era difficile pensare a un anno più terribile del 2020 per l’umanità di oggi, quella del ‘qui’ e dell’‘ora’, che in gran parte non ha sperimentato i due conflitti mondiali, la Grande depressione o la cupa stagione dei totalitarismi, vere tragedie del Novecento.

Dodici mesi dopo, con l’incertezza che continua a caratterizzare la realtà odierna, i tempi non sono ancora maturi perché la cronaca si faccia storia, coniugando i fatti al passato remoto. È però possibile provare a leggere gli eventi che hanno segnato a livello internazionale il 2021 inquadrandoli nel loro dinamico svolgimento, con la consapevolezza che essi si inseriscono in una cornice più ampia – diretta conseguenza delle profonde interconnessioni del mondo globalizzato – e che osare l’azzardo della previsione comporta poi il rischio della smentita, con i successivi accadimenti che non di rado obbligano a ritornare al punto di partenza.

Se il 2020 è stato l’anno peggiore di sempre, quello che volge al termine ha rappresentato per diversi Paesi il momento del rilancio e della ripresa, per lo meno sotto il profilo economico. Tuttavia, i dati aggregati raccontano solo parzialmente una realtà ben più complessa, rivelando poco delle disuguaglianze in essere che paiono destinate ad ampliarsi: se infatti da una parte a livello globale la crescita si attesterà sul 5,9% alla fine dell’anno, dall’altra – come certificato dal Fondo monetario internazionale – la forbice tra Paesi sviluppati ed economie emergenti tenderà ad allargarsi nell’immediato futuro, soprattutto a causa delle disparità nell’accesso ai vaccini anti-Covid-19. Il tutto, senza contare gli eventuali effetti della variante Omicron, per molti versi ancora da decifrare.

A livello politico invece, il 2021 si è aperto con il violento assalto a Capitol Hill dei sostenitori di Donald Trump, decisi a bloccare il 6 gennaio la certificazione della vittoria di Joe Biden da parte del Congresso. A quell’attacco, lo stesso Biden avrebbe poi fatto riferimento quattordici giorni dopo nel suo discorso di insediamento, esultando per il «trionfo della democrazia» ma rammentando anche la fragilità di un modello in evidente fase di arretramento, come peraltro dimostrato dalla preoccupante e prolungata espansione dei regimi autoritari e autocratici in tutto il globo. Anche in tale ottica, il 9 e il 10 dicembre scorsi, l’inquilino della Casa Bianca ha presieduto il primo Summit for democracy, con l’obiettivo di elaborare «un’agenda per il rinnovamento democratico e contrastare attraverso un’azione collettiva le principali minacce alle democrazie». Dunque, una chiamata a raccolta per quei Paesi che si riconoscono in un determinato modello, ma anche un chiaro messaggio rivolto a chi si fa promotore di modelli alternativi, Cina su tutti: su questo campo, gli Stati Uniti sono pronti a giocare le proprie carte, per dimostrare come i sistemi democratici – pur con le loro imperfezioni – siano comunque quelli meglio attrezzati ad affrontare le grandi sfide della contemporaneità. Quanto alla promessa di una radicale discontinuità rispetto al suo predecessore Donald Trump, Biden sembra aver lanciato segnali che vanno in più direzioni: come ben evidenziato per il Council on foreign relations da James M. Lindsay, le prime decisioni di politica estera del nuovo presidente sono parse mirate al recupero di rapporti parzialmente compromessi con gli alleati e al rilancio dell’immagine statunitense sulla scena globale, per dare una prima, concreta sostanza al mantra dell’«America is back». In questo senso – rileva Lindsay – vanno interpretate decisioni che sono state accolte con amplissima soddisfazione, dal rientro negli accordi di Parigi per il contrasto del cambiamento climatico fino all’annunciato ritorno nell’Organizzazione mondiale della sanità; dal rinnovo quinquennale del trattato New START alla ripresa dei colloqui sul nucleare iraniano. Tuttavia, neppure l’amministrazione Biden ha disdegnato su taluni ambiti un certo unilateralismo. Così, gli elementi di continuità con la presidenza Trump sul fronte della rivalità con la Cina – tema rispetto al quale le posizioni degli alleati europei risultano più sfumate e meno rigide – sembrano prevalere rispetto alle differenze, mentre il lancio nel mese di settembre dell’iniziativa AUKUS con Regno Unito e Australia – finalizzata al contenimento delle ambizioni di Pechino nell’Indo-Pacifico – ha suscitato la durissima reazione della Francia, che si è vista annullare un’importante commessa di sottomarini da Canberra. Sostanzialmente unilaterale è stato poi il disimpegno statunitense dal teatro di guerra afghano, avvenuto senza consultare gli alleati NATO. Un ritiro che si è inserito nel solco delle decisioni già assunte in precedenza dall’amministrazione Trump, e di cui di fatto hanno beneficiato i Talebani, protagonisti di un’avanzata che li ha portati – il 15 agosto – a entrare pressoché indisturbati a Kabul e ritornare al potere. Il 2022 fornirà ulteriori – e forse più chiare – indicazioni sulla politica estera bideniana, per il momento orientata a un multilateralismo ‘temperato’ dall’esigenza di preservare l’interesse nazionale, anche per questioni di consenso interno. Anche perché, nel prossimo mese di novembre, si terranno le elezioni di metà mandato.

Dall’altra parte dell’Atlantico, nel corso del 2021, anche l’Unione Europea (UE) era attesa – come il resto del mondo – dalle sfide del contrasto della pandemia e del rilancio economico, che però a Bruxelles poteva altresì rappresentare l’occasione per la rivitalizzazione del processo di integrazione, sulla scia dell’accordo raggiunto sul programma Next Generation EU. Durante l’anno, nuove leadership si sono affacciate sulla scena: nel mese di febbraio, dopo le dimissioni di Giuseppe Conte, si è insediato a Palazzo Chigi Mario Draghi, che ha ricollocato inequivocabilmente l’Italia nella cornice delle sue alleanze storiche e ribadito come l’atlantismo e l’europeismo siano i pilastri fondativi della nostra politica estera. A dicembre invece, dopo 16 anni, è terminata in Germania l’era Merkel, che ha lasciato spazio al nuovo cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz e a una coalizione ‘semaforo’ (SPD, Verdi e liberali) inedita a livello federale: i suoi orientamenti di politica estera – in parte già esplicitati nel programma di governo – risulteranno più chiari in futuro. Intanto, negli ultimi mesi, le tensioni sul fronte orientale sono aumentate, tanto con l’ulteriore dispiegamento delle truppe russe al confine ucraino, quanto dal punto di vista delle pressioni migratorie, con le autorità bielorusse pronte a usare i migranti come ‘strumento’ di ricatto contro le sanzioni imposte dall’UE. A livello interno poi, per tutto l’anno è proseguito lo scontro fra le istituzioni comunitarie – promotrici di una più stringente adesione ai valori fondativi dell’Unione – e Stati membri come l’Ungheria e la Polonia, piuttosto riottosi ad adeguarsi ai vincoli sullo Stato di diritto. Anche in questo caso, il 2022 potrebbe essere un anno di chiarimenti, con importanti appuntamenti elettorali – su tutti quello francese, ma anche le elezioni parlamentari in Slovenia e Ungheria – che indirizzeranno l’Europa verso nuovi sentieri di integrazione o bloccheranno qualsiasi spinta propulsiva.

Il 2021 è stato però un anno denso di avvenimenti anche su altri fronti: nel mese di maggio, per circa dieci giorni, le tensioni israelo-palestinesi si sono riattivate con intensità non trascurabile, provocando numerose vittime fino all’accordo per il cessate il fuoco. Ancora, la ripresa a novembre dei colloqui sul programma nucleare dell’Iran – dove il 18 giugno è stato eletto alla presidenza l’ultraconservatore Raisi – non ha prodotto i risultati sperati e la strada verso il compromesso appare sempre più densa di difficoltà. Negli ultimi dodici mesi poi, due presidenti – il ciadiano Idriss Déby e l’haitiano Jovenel Moïse – sono stati uccisi; in Guinea, Mali e Sudan si sono verificati dei colpi di Stato e il fragile percorso di transizione democratica del Myanmar è stato bruscamente interrotto dal golpe militare di febbraio. Nel frattempo, il conflitto civile in Etiopia prosegue, mentre in Libia le elezioni presidenziali previste per il 24 dicembre sono state rinviate, a dimostrazione di come il Paese sia ancora lontano da una vera stabilizzazione.

Più che i singoli eventi, sono però le tendenze a meritare particolare attenzione. A chiusura del 2020, in un suo rapporto, il Barcelona Centre for International Affairs (CIDOB) aveva evidenziato come questo avrebbe dovuto essere l’anno delle scelte, dopo l’incertezza causata dalla pandemia.

A livello internazionale: cooperazione o conflitto? Nella politica estera americana: de-trumpizzazione o parziale ri-orientamento? L’Unione Europea: verso il rilancio o lo stallo? La ripresa economica: piena o limitata? In molti di questi ambiti, il 2021 non ha contribuito a sciogliere nodi fondamentali. Dunque, più che operando scelte, si è andati avanti con una navigazione a vista. Come per il cambiamento climatico, tema sul quale gli impegni continuano a proliferare – anche con la COP26 di Glasgow –, ma i risultati restano limitati.     

 

Immagine: La sessione I del vertice del G20 sull’economia globale e la salute globale, a Roma (30 ottobre 2021). Crediti: YashSD / Shutterstock.com

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La politica estera del nuovo governo tedesco

«Mehr fortschritt wagen», ossia «Osare più progresso».

Un manifesto di quel «cambio di paradigma» sollecitato dalla co-leader dei Verdi Annalena Baerbock, ma anche un titolo fortemente evocativo, che riporta alla mente il «Mehr demokratie wagen» – ossia «Osare più democrazia» – pronunciato il 28 ottobre 1969 da Willy Brandt, nel suo primo discorso politico da cancelliere davanti al Bundestag.

La sfida della ‘coalizione semaforo’ – nome che richiama i colori di riferimento dei tre partiti (SPD, Verdi e liberali) che la costituiscono – parte da qui, da un corposo documento di 178 pagine alla cui definitiva stesura si è giunti dopo quasi due mesi di trattative, grazie all’impegno di circa 300 negoziatori riuniti in 22 gruppi di lavoro. E se Tom Nuttall di The Economist ha ironicamente evidenziato come l’accordo contenga più parole – 51.776 – di un capolavoro della letteratura come Il grande Gatsby, tale ampiezza non deve sorprendere, inserendosi pienamente nella tradizione tedesca: lungi dall’essere un testo legalmente vincolante, il Koalitionsvertrag (accordo di coalizione) certifica comunque la volontà politica di partecipare a un comune progetto di governo, basato su solidi presupposti. In questa prospettiva, l’accordo non può dunque limitarsi a una mera elencazione di punti programmatici, ma richiede una struttura più articolata, così da definire l’intelaiatura per le successive, concrete iniziative dell’esecutivo e limitare il potenziale di conflitto tra le forze aderenti al patto.

La campagna elettorale per il voto di settembre è stata vissuta in modo speculare a Berlino e nel resto del mondo: da una parte gli elettori tedeschi, interessati innanzitutto al dibattito di politica interna che ha egemonizzato il confronto fra i partiti; dall’altra le autorità straniere e l’opinione pubblica globale, concentrate sui risvolti internazionali di un’elezione che avrebbe segnato in ogni caso – dopo 16 anni di cancellierato – la fine dell’esperienza di Angela Merkel alla guida del governo tedesco.

L’accordo di coalizione tra SPD, Verdi e liberali dedica alla politica estera un capitolo di 28 pagine, intitolato La responsabilità della Germania per l’Europa e per il mondo («Deutschlands verantwortung für Europa und die welt»).

In sostanziale continuità con il passato, il Koalitionsvertrag conferma la centralità della casa comune europea per la Germania, evidenziando come il nuovo governo – pienamente consapevole delle responsabilità che ricadono su Berlino in quanto principale Stato membro dell’Unione Europea (UE) – «definirà l’interesse tedesco alla luce dell’interesse europeo». Tale posizione deriva dall’esplicito riconoscimento che solo un’Europa democraticamente solida, dotata di sovranità strategica e convintamente fedele ai suoi principi e valori – tanto nella sua proiezione internazionale quanto all’interno dei suoi confini – potrà assicurare pace e prosperità ai suoi Stati membri, proponendosi al tempo stesso quale attore protagonista sulla scena globale.

Sul fronte istituzionale poi, emerge l’intenzione di dare nuovo impulso al progetto dell’Unione, provando a imprimere quando possibile una svolta riformatrice. In questo contesto, l’accordo ragiona del rafforzamento delle prerogative del Parlamento UE, del rilancio del modello degli spitzenkandidaten per la guida della Commissione, ma anche del superamento del criterio dell’unanimità nelle decisioni di politica estera, introducendo comunque meccanismi che assicurino un’adeguata tutela degli interessi degli Stati membri più piccoli. Particolare rilevanza è inoltre attribuita alla Conferenza sul futuro dell’Europa, che nelle intenzioni della coalizione semaforo dovrebbe portare all’avvio di una fase costituente per un ulteriore sviluppo di uno Stato federale europeo, pur ancorato a forme di organizzazione decentrata che siano rispettose dei principi di proporzionalità e sussidiarietà. Dunque un’agenda ambiziosa, sulla cui effettiva realizzazione potrebbero però pesare tanto la reticenza di alcuni partner UE quanto un europeismo nello stesso governo tedesco a tinte ben più variegate di quanto non appaia nel Koalitionsvertrag. Ciononostante, talune novità appaiono degne di essere menzionate: in primis, il riferimento a un’Unione dotata di sovranità strategica, laddove tuttavia tale locuzione – come sottolineato da Ulrich Speck per The German Marshall Fund – non deve intendersi secondo la sensibilità macroniana del consolidamento di una potenza autonoma europea, quanto piuttosto nel senso di una maggiore capacità operativa dell’Unione a livello globale, apparendo innanzitutto più indipendente e meno vulnerabile in settori chiave come quello energetico, della salute, delle materie prime e delle tecnologie digitali. Non sfugge poi la maggiore enfasi posta a livello linguistico sulla tutela di valori fondativi dell’Unione come lo Stato di diritto, laddove si sollecita la Commissione UE a ricorrere in maniera più efficace e tempestiva agli strumenti di cui dispone per garantirne il rispetto: un messaggio che – pur mancando riferimenti espliciti – appare chiaramente indirizzato alla Polonia e all’Ungheria, da tempo protagoniste in merito di un durissimo braccio di ferro con le istituzioni europee.

Sotto il profilo del linguaggio si rilevano tuttavia ulteriori, significative novità, soprattutto riguardo ai rapporti di Berlino con la Cina. Inserendosi pienamente nel solco degli orientamenti espressi a livello europeo, l’accordo di governo tedesco identifica il gigante asiatico come potenziale partner negoziale, competitor economico e rivale sistemico; ma a segnalare un cambio di prospettiva sono anche gli espliciti riferimenti al rispetto dei diritti umani e ai principali teatri geopolitici in cui è coinvolta Pechino. Nel testo dell’intesa, l’esecutivo in via di formazione auspica che la Cina si impegni per una stabilizzazione e una pacificazione del suo vicinato, esprime il suo impegno per la risoluzione delle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale, manifesta il suo sostegno – nel quadro della One China Policy dell’UE – alla partecipazione di Taiwan alle organizzazioni internazionali, palesa la sua preoccupazione per «le violazioni dei diritti umani, in particolare nello Xinjiang» ed evidenzia l’esigenza di riaffermare pienamente il modello «Un Paese, due sistemi» riguardo alla situazione di Hong Kong. Dunque una presa di posizione netta, che segna una cesura rispetto alla stagione merkeliana e che giunge sicuramente gradita a Washington.

Gli Stati Uniti possono inoltre ritenersi soddisfatti per le rassicurazioni fornite dai partner della coalizione semaforo sulla partecipazione della Germania al sistema di deterrenza nucleare in ambito NATO: nonostante i distinguo più volte espressi sia nella SPD che fra i Verdi, Berlino manterrà fermo il suo impegno in materia e procederà alla sostituzione con nuovi velivoli della sua flotta di Tornado, equipaggiati per il trasporto di bombe nucleari. Al tempo stesso però, la Germania intende partecipare – in qualità di osservatore – alla conferenza delle parti del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, esprimendo costruttivamente il proprio sostegno agli obiettivi indicati dal Trattato stesso. L’accordo non fa invece alcuna menzione di un eventuale impegno di spesa del 2% del PIL in materia di difesa, ma prevede di destinare nel lungo periodo il 3% del PIL al rafforzamento della difesa stessa, della diplomazia tedesca e delle politiche di sviluppo.

Gli ambiziosi obiettivi definiti nel Koalitionsvertrag su clima e ambiente – accanto alla designazione della verde Annalena Baerbock come prossima ministra degli Esteri – lasciano inoltre intendere come Berlino punti a recitare un ruolo di primo piano in tale ambito anche al di fuori dei confini tedeschi. Merita poi attenzione l’interessante riferimento alla volontà di promuovere una politica estera ‘femminista’, che sia concretamente impegnata nella tutela dei diritti delle donne e affidi sempre più frequentemente a figure femminili posizioni di leadership a livello internazionale.

In un articolo pubblicato su The New York Times, Katrin Bennhold ha sottolineato come raramente, alla vigilia del suo insediamento, un nuovo cancelliere si sia trovato a dover affrontare un numero così rilevante di situazioni critiche. I dossier che nelle prossime settimane terranno impegnato Scholz saranno di cruciale importanza: centrale sarà sicuramente la reazione alla pericolosa recrudescenza della pandemia da Covid-19, ma il nuovo governo dovrà anche cercare di dare una prima risposta a significative sfide di politica estera, come le consistenti pressioni migratorie lungo il confine tra la Polonia e la Bielorussia – incentivate da Aleksandr Lukašenko come reazione alle sanzioni comunitarie contro il suo regime – e la concentrazione di truppe russe al confine con l’Ucraina. Di qui, si comincerà dunque a capire quale tipo di dialettica il nuovo governo di Berlino vorrà instaurare con Mosca, vicino tanto importante quanto ingombrante e minaccioso per gli Stati dell’Europa centrale.

E poi a stretto giro, nel gennaio del 2022, la Germania erediterà dal Regno Unito la presidenza del G7.

 

Immagine: Annalena Baerbock (17 settembre 2021). Crediti: Iven O. Schloesser / Shutterstock.com

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Libertà e corruzione: il mondo allo specchio

Dittatori ansiosi, democrazie vacillanti, e il mondo – nell’ultimo decennio - è diventato anno dopo anno un po’ meno libero. É la fotografia scattata da Freedom house nel suo rapporto del 2016 sulla libertà nel mondo, presentato a Washington lo scorso 27 gennaio. Il bilancio è negativo, ancora una volta: dei paesi esaminati, solo 43 sono risultati ‘più liberi’ rispetto all’anno precedente, mentre 72 hanno fatto registrare un peggioramento della loro condizione. Le Americhe e l’Europa restano le regioni del globo dove maggiore è la libertà, ma il 2015 è stato anche per loro un anno difficile e denso di sfide che le hanno messe alla prova, con esiti spesso insoddisfacenti.

L’Occidente paga innanzitutto l’incapacità dimostrata nell’affrontare l’oramai quinquennale guerra civile siriana e gli altri conflitti che continuano a destabilizzare il Medio oriente. Il responso di Freedom house è al riguardo inequivocabile: il fallimento nel sostegno all’opposizione moderata contro il presidente Bashar al-Assad nelle prime fasi della protesta, ha portato l’Europa e gli Stati Uniti a doversi confrontare con una crisi oggi planetaria, in cui gli attori protagonisti sono gruppi jihadisti stabilmente radicati nel territorio del ‘non Stato’ siro-iracheno, potenze regionali che si contendono l’egemonia anche attraverso ‘guerre per procura’ – emblematico il conflitto yemenita che riflette la contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran – e centinaia di migliaia di profughi che scappano dalla guerra e bussano alla porta del paradiso Europa sperando nell’accoglienza. All’apparentemente inarrestabile flusso di migranti, quell’Unione Europea il cui germe è nato sull’eredità ancora sanguinante di due conflitti mondiali, non è riuscita a dare una risposta politica concreta e concertata, lasciando così spazio alla riemersione di recrudescenze xenofobe che non solo hanno messo in discussione i fondamenti dell’UE, ma persino la sua stessa esistenza. Di quell’Europa liberale che si proponeva sull’arena internazionale come normative power – vale a dire un attore geopolitico che derivava la sua ‘potenza’ dalla capacità di promuovere norme e valori – non c’è traccia nella barriera di filo spinato eretta dall’Ungheria al confine con la Serbia, né nei profughi accampati nel 2015 sulla scogliera di Ventimiglia, né nella legge danese sulla confisca dei beni dei migranti perché essi contribuiscano alle spese per il loro mantenimento. E tutto questo non può che rappresentare una minaccia ai valori fondativi di una società aperta.

Anche la democrazia statunitense - osserva Freedom House - sta attraversando una fase delicata e controversa: nel 2015, gli USA non hanno subito pressioni migratorie paragonabili a quelle europee o attacchi terroristici sul loro territorio, ma i processi legislativi hanno sofferto di una crescente interferenza dei gruppi di potere portatori di interessi particolari. Inoltre, la violenza delle forze di polizia e l’impunità garantita agli agenti che si sono macchiati di crimini contro alcuni cittadini di colore, hanno nuovamente alimentato le mai sopite tensioni razziali. Sullo sfondo, permangono i temi dell’immigrazione e del rischio terrorismo, che in alcuni frangenti - anche nel corso della campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre di quest’anno – hanno assunto toni duramente islamofobici.

Il rallentamento della crescita cinese e il conseguente crollo dei prezzi delle commodities hanno poi duramente colpito i regimi dipendenti dalle esportazioni e bloccato qualsiasi progresso verso maggiori libertà: temendo la necessità di tagli alla spesa, un calo generalizzato degli standard di vita e le successive possibili tensioni, i dittatori hanno così immediatamente provveduto a imbavagliare le voci critiche e reprimere qualsiasi forma di dissenso.

In questo quadro a tinte fosche, non mancano tuttavia alcune importanti evoluzioni in senso positivo: con il voto popolare, lo Sri Lanka ha posto fine alla lunga egemonia del controverso presidente Mahinda Rajapaksa, in Myanmar la National league for democracy di Aung San Suu Kyi ha conquistato una storica maggioranza parlamentare nonostante il 20% dei seggi spetti di diritto ai militari, in Venezuela l’opposizione della Mesa de la unidad democrática ha nettamente sconfitto nelle legislative di dicembre i chavisti al potere. A queste forze, i rispettivi popoli hanno conferito il difficile compito di risollevare le sorti dei loro paesi e condurli lungo il sentiero della stabilizzazione democratica.

La graduatoria redatta da Freedom house non è esente da critiche: come ha osservato Ilya Lozovsky in un articolo su Foreign policy, diverse sono le obiezioni metodologiche che sono state sollevate sugli indicatori misurati e sulla loro reductio ad unum, frutto di una inevitabile quanto problematica iper-semplificazione. Tuttavia – rileva sempre Lozovsky – ‘Freedom House sa come raccontare una storia, e nel mondo della difesa dei diritti umani, una buona storia ha lo stesso valore di mille indicatori disaggregati adeguatamente armonizzati’: per questo, al di là dei legittimi dubbi metodologici avanzati, la sua graduatoria sulla libertà nel mondo continua ad avere così ampia diffusione.

Simili fortune può vantare l’annuale studio sulla corruzione percepita elaborato da Transparency international, che a fine gennaio ha presentato il suo rapporto relativo all’anno 2015. Un anno in cui, secondo la Ong, il mondo ha dimostrato che questa piaga può essere sconfitta. I paesi che hanno migliorato la loro condizione rispetto al 2014 sono infatti più numerosi di quelli che l’hanno peggiorata, ma la strada da percorrere è però ancora lunga: dei 168 paesi indagati, 2/3 hanno fatto registrare un punteggio inferiore a 50 in una scala che va da 0 (livello massimo di corruzione) a 100 (livello minimo di corruzione). Al vertice della classifica dei paesi ‘meno corrotti’ si confermano gli Stati scandinavi, con Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia a occupare 4 delle prime 5 posizioni della graduatoria; agli ultimi posti si collocano l’Afghanistan, l’impenetrabile Corea del Nord e la fragilissima Somalia.

In questo caso, le buone notizie arrivano da paesi come la Grecia e il Senegal, che dal 2012 hanno fatto registrare costanti progressi; il più pronunciato arretramento nel 2015 è stato invece quello del Brasile, che travolto dallo scandalo corruttivo della compagnia petrolifera Petrobras è passato dai 43 punti del 2014 agli attuali 38.

E l’Italia? Sul fronte delle libertà civili e dei diritti politici, il nostro paese si conferma una solida democrazia, totalizzando – in una scala che attribuisce allo 0 il valore di minima libertà e a 100 quello di massima libertà – il punteggio di 89/100. Sul tema della corruzione percepita, si registra poi un piccolo passo in avanti: dai 44 punti del 2014, l’Italia è passata ai 43 del 2015, guadagnando 8 posizioni in classifica. Restiamo però ancora tra i peggiori paesi dell’Unione europea: dietro di noi, resta solo la Bulgaria.

 

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Leave

‘Do you think the UK should stay in the European Community (Common Market)?’: a questa domanda sulla permanenza del Regno Unito nelle Comunità Europee il 67,2% degli elettori britannici rispose di sì il 5 giugno del 1975. Il paese era da poco entrato a far parte del grande progetto europeo, assieme alla Danimarca e alla vicina Irlanda, il primo gennaio del 1973, al termine di un lungo negoziato che si era concluso positivamente solo dopo la fine della presidenza di Charles de Gaulle: il padre della Quinta Repubblica francese si era infatti più volte fieramente opposto a un ingresso del Regno Unito nelle Comunità Europee, sentenziando che l’ammissione di Londra nel mercato comune avrebbe posto ‘des problèmes d’une très grande dimension’. Il 23 giugno 2016, a 41 anni da quel primo referendum, il quesito è stato riproposto: ‘Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?’, il Regno Unito deve continuare a far parte di quel progetto europeo oppure abbandonarlo? Il 51,9% degli elettori recatisi alle urne ha pronunciato un inequivocabile ‘leave’, ‘uscire’; consegnando a un’Unione Europea sempre più smarrita un durissimo verdetto che apre una ferita profonda e porta con sé, sotto altre forme, quei problemi ‘d’une très grand dimension’ di degaulliana memoria. Il premier britannico David Cameron era stato chiaro: non era nell’interesse del Regno Unito lasciare l'UE, ma occorreva ridefinire i vincoli tra Bruxelles e Londra, peraltro già più blandi rispetto a quelli che legano la maggioranza degli Stati membri all’Unione in virtù dell’operatività delle clausole di opting out. Era cioè indispensabile intervenire in modo tale da salvaguardare l’interesse nazionale britannico nel libero commercio, nel mercato aperto e nella cooperazione, riducendo i costi, la burocrazia e gli interventi delle autorità di regolazione: in sintesi, serviva meno Europa e non più Europa. Di qui, la promessa del gennaio 2013, dettata anche dalle pressioni di una parte del suo partito e dalla crescita dei consensi degli euroscettici dell’UKIP: se i conservatori avessero vinto le elezioni politiche del 2015 si sarebbe tenuto nel Paese un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea. Ottenuto il successo elettorale, nel mese di novembre Cameron ha espresso in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk i quattro punti essenziali del negoziato sul futuro del Regno Unito nell'UE: perché Londra continuasse a far parte dell’Unione bisognava garantire adeguata tutela ai paesi membri dell'UE ma fuori dall’Eurozona, rafforzare la competitività, liberare il Paese dal vincolo di una sempre maggiore integrazione europea e regolamentare l’immigrazione dei cittadini UE nel Regno Unito. Condizioni stringenti, cui però Bruxelles ha dato la risposta che Cameron auspicava: l’accordo siglato in sede di Consiglio Europeo a febbraio 2016 veniva infatti incontro a tutte le richieste di Londra, dalla natura facoltativa per gli Stati non membri dell’Eurozona di tutte le misure volte a rendere più forte l’Unione economica e monetaria, alla previsione – in una futura revisione dei trattati – che tutti i riferimenti a un’unione sempre più stretta non si sarebbero applicati al Regno Unito, fino alla temporanea attivazione del tanto desiderato ‘freno d’emergenza’ per restringere l’accesso ai benefici del welfare dei nuovi lavoratori provenienti dagli altri Stati dell'UE. Risultati significativi, che avevano portato Cameron a esprimere con convinzione il suo sostegno all’opzione del remain rispetto al leave.
Il resto è cronaca, e ci porta a quel 51,9% con cui gli elettori britannici hanno deciso di chiudere la loro più che quarantennale esperienza all’interno del progetto unitario europeo. Dal punto di vista geografico, il voto si mostra estremamente polarizzato: nonostante la multietnica Londra si sia pronunciata per la permanenza, l’Inghilterra si è espressa orgogliosamente per la Brexit (53,4%), e in tal senso si è orientata anche la maggioranza degli elettori i gallesi (52,5%); a favore del remain sono invece state l’Irlanda del Nord (55,8%) e la Scozia (62%), realtà quest’ultima dove il filoeuropeismo pare mescolarsi con i timori che un’uscita del Regno Unito dalla UE implichi un più stringente controllo di Londra su Edimburgo. E in quella che i risultati elettorali presentano a tutti gli effetti come una nazione divisa – ‘A nation divided’ è stato il titolo di apertura di diversi articoli sul tema - le spinte centrifughe si sono immediatamente riattivate: la Scozia ha infatti già palesato la sua intenzione di chiedere un nuovo referendum sull’indipendenza a meno di due anni dal voto con cui gli scozzesi dichiararono che ‘insieme si stava meglio’ (Better together), mentre in Irlanda del Nord i repubblicani di Sinn Féin reclamano una consultazione per l’unificazione con l’Eire.
Anche sotto il profilo demografico la frattura pare evidente: per il remain si sono espresse in modo massiccio le giovani generazioni, gli elettori fino ai 24 anni; la percentuale di cittadini favorevoli alla permanenza nell'UE scende poi progressivamente con l’avanzare dell’età, fino a essere nettamente minoranza tra gli over-65.
Delle potenziali ripercussioni della Brexit sui mercati hanno diffusamente parlato gli analisti, e le nubi che si stanno addensando sulle Borse paiono confermare le paure espresse alla vigilia. È tuttavia opportuno soffermarsi anche sul significato politico del verdetto delle urne, riflettendo sull’impatto che il voto britannico avrà sul processo d’integrazione europea. A meno di un anno dal durissimo negoziato tra Atene e Bruxelles che - a costo di rigide misure di austerità - ha salvato la Grecia dall’uscita dall’Eurozona, è stato un popolo a optare, liberamente e consapevolmente, per il ‘divorzio’ dall'UE. Al di là degli aspetti tecnici concernenti il recesso dall’Unione, che è disciplinato dall’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea e prevede l’apertura di un negoziato tra le parti, il messaggio politico del referendum britannico è che il valore dell’irreversibilità del processo d’integrazione non esiste più. Nonostante le richieste di adesione dei Paesi dell’area balcanica, l’UE ha da tempo perso la sua attrattività, non possiede più quel fascino legato alla sua capacità di essere potenza normativa fondata sui valori di una società aperta e liberale e per questo in grado di spostare - di anno in anno - un po’ più in là i suoi confini, non per ‘annessione’ di territori come una potenza imperiale, ma in virtù dell’‘ammissione’ di Paesi attratti dal suo modello. Le difficoltà mostrate da Bruxelles – anche a causa dei veti incrociati degli Stati membri - nell’affrontare questioni cruciali quali le pressioni migratorie, la crisi economica e la sempre più pressante domanda di protezione dalla minaccia del terrorismo internazionale hanno ulteriormente indebolito un sistema istituzionale già percepito come un moloch burocratico e autoreferenziale. Ed è in questa frattura profonda tra cittadinanza ed eurocrazia che si è incuneata la vasta costellazione dei movimenti euroscettici, antieuropeisti e ultranazionalisti, che proponendo il ritorno all’apparentemente rassicurante guscio dei confini nazionali promettono la restituzione ai popoli del paradiso perduto dopo la cessione di pezzi di sovranità all’Europa.
Anche se avesse vinto l’opzione del remain, l’UE non sarebbe comunque rimasta la stessa: le concessioni garantite da Bruxelles a Londra nell’accordo di febbraio facevano infatti prefigurare una possibile estremizzazione del concetto di ‘Europa a più velocità’, una specie di Unione à la carte dove ognuno prende ciò che gli serve; d’altro canto, se la convocazione stessa di un referendum aveva alimentato la percezione della ‘reversibilità’ del processo d’integrazione, la vittoria del leave rischia di alimentare pericolosamente le tendenze ‘eurosecessioniste’. E non è un caso che, a vario titolo, diverse forze politiche in Francia, Paesi Bassi, Danimarca e Repubblica Ceca reclamino il voto per decidere sul loro futuro europeo.
Oggi, il leader dell’UKIP Nigel Farage esulta per quello che ha ribattezzato ‘il giorno dell’indipendenza del Regno Unito’, mentre il premier Cameron - che ha visto la sua posizione sconfitta - ha già annunciato che non sarà lui a condurre Londra fuori dall’UE, e lascerà entro ottobre la guida dell’esecutivo. ‘Out is out’, aveva detto alla vigilia del voto il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, per sottolineare che in caso di vittoria del Brexit non ci sarebbe stato alcun tipo di rinegoziazione.
Oggi più che mai, la tenuta del progetto dell’Europa unita è messa a dura prova: se Bruxelles sarà in grado di ripensarsi e di dare corso a un profondo autorinnovamento, la palingenesi tanto auspicata dai filoeuropeisti potrebbe finalmente vedere la luce. In caso contrario, la disgregazione pare oggi un passo più vicina.

 

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La vittoria di Nikolić e il futuro della Serbia

Intervista a S.E. Miodrag Lekić, già ambasciatore delle Repubbliche di Serbia e Montenegro in Italia

Una vittoria sorprendente ma passata quasi sotto silenzio nel “maggio elettorale europeo”: Tomislav Nikolić è il nuovo Presidente della Repubblica di Serbia. Un’elezione che non fa notizia e alla quale i media italiani non hanno dedicato che qualche rapido flash di agenzia, ma che risulta di cruciale importanza per gli equilibri geopolitici del Vecchio Continente. La sconfitta di Boris Tadić, presidente uscente filoeuropeista la cui conferma sembrava quasi scontata, potrebbe rimescolare le carte ed aprire nuovi scenari nel churchilliano “ventre molle d’Europa”, da sempre punto d’incontro di interessi strategici contrastanti.
Ne abbiamo parlato con S.E. Miodrag Lekić, già ambasciatore delle Repubbliche di Serbia e Montenegro in Italia ed oggi docente di Tecnica del negoziato internazionale presso la Luiss – Guido Carli di Roma.

 

- Ambasciatore, la vittoria di Nikolić nel secondo turno delle presidenziali risulta per molti versi inattesa, nonostante due settimane fa il suo Partito Progressista avesse conseguito la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento. Quali fattori possono aver determinato questo risultato elettorale?

Sicuramente un elemento importante è stata la crisi economica. In Serbia come in molti altri Paesi ha vinto la crisi, che si è tradotta in una domanda di cambiamento da parte dei cittadini. In secondo luogo, direi l’incredibile evoluzione politica di Nikolić, che è diventato europeista nonostante molti abbiano difficoltà a credere a questa metamorfosi, considerando il suo passato da nazionalista. Tadić inoltre non ha mantenuto alcune promesse e ha commesso degli errori: restare Presidente del partito durante il mandato ha fatto sì che non fosse percepito come il Presidente di tutti e la nomina di un Primo Ministro politicamente debole lo ha reso, sotto questo punto di vista, quasi un “Putin serbo”. Non dobbiamo però dimenticare che la Serbia è una Repubblica parlamentare e non presidenziale, quindi sarà decisiva la formazione del Governo.

 

- In proposito, i democratici di Tadić hanno raggiunto un accordo con i socialisti di Dačić per la costituzione di un fronte congiunto nell’Assemblea Nazionale. Potrebbe dunque profilarsi una coabitazione, con un Primo Ministro di un partito diverso da quello del Presidente: che futuro attende Nikolić?

Credo che sia ancora tutto da vedere. Sono in campo tre possibilità: una è quella della coalizione, annunciata ma non definitiva, dei democratici con i socialisti. In questo caso si profilerebbe una coabitazione, che però è risultata storicamente problematica in Francia, Paese che ha una tradizione democratica molto più lunga della Serbia. La seconda opzione che emerge anche dalla lettura dei quotidiani serbi è che Dačić possa cambiare idea e sostenere Nikolić. La terza possibilità è che si dia vita ad una grande coalizione, di cui finora non si è avuta particolare esperienza nei Balcani ma che in virtù delle sfide interne ed internazionali non è da escludere.

 

- Come ricordava, Nikolić ha un passato da nazionalista ed è un fervente ammiratore della Russia, ma ha assicurato che non intende deviare dal sentiero dell’integrazione della Serbia nell’Unione Europea: quali scenari potrebbero ora aprirsi nei rapporti fra Belgrado e Bruxelles?

In realtà non c’erano grandi differenze nei programmi di Tadić e Nikolić sulle priorità della politica estera e lo stesso Nikolić ha confermato la linea europeista. L’aspettativa di una Serbia nell’Unione europea resta dunque assolutamente realistica, nonostante una latente ammirazione del nuovo Presidente per la Russia. La Comunità internazionale giocherà sicuramente un ruolo fondamentale: da tempo, l’Occidente aspetta un “De Gaulle serbo” che riconosca l’indipendenza del Kosovo come il generale fece con l’Algeria, anche se in Europa non sono mancati i distinguo. L’ipotesi mi sembra però al momento decisamente improbabile, perché qualunque candidato che si presenti all’elettorato annunciando che riconoscerà il Kosovo, sa di perdere le elezioni. Sul fronte interno, molto dipenderà da come Nikolić interpreterà la presidenza in una Repubblica parlamentare: se sarà un Presidente politicamente forte, il suo apporto sarà decisivo; in caso contrario occorrerà una posizione comune con l’opposizione di Tadić.

 

- Il tasso di disoccupazione del Paese supera il 23% ed il PIL è in netta flessione. In questo contesto di crisi, lo scorso 1 marzo, la Serbia ha raggiunto lo status di Paese candidato all’ammissione all’Ue, ma il sostegno della popolazione all’ingresso nell’Unione è nettamente diminuito. Il matrimonio Serbia-Ue, e più in generale Balcani-Ue, è realmente possibile? 

Mi auguro di sì e sicuramente l’ingresso nell’Unione Europea sarà la linea guida della politica estera serba in questo periodo. Le dinamiche interne ed esterne influenzeranno molto questo processo. I Balcani sono ancora estremamente fragili: la questione kosovara rappresenta una ferita aperta per la Serbia, a cui si aggiunge il dramma della minoranza serba che vive nel Nord del Kosovo; ma anche la Bosnia-Herzegovina con la Republika Srpska ancora molto vicina alla Serbia ha le sue problematicità. Le sfide sono tante e se l’Unione Europea riuscirà ad esercitare un ruolo dominante nei Balcani, Belgrado proseguirà lungo il sentiero dell’integrazione europea. Tutto passerà da una stabilizzazione dei Balcani anche se temo che Nikolić, per il suo passato da nazionalista, incontrerà non poche difficoltà nel dialogo con Sarajevo e soprattutto con Zagabria. I rapporti Serbia-Croazia per la stabilità della regione hanno la stessa importanza dei rapporti fra Germania e Francia per la stabilità dell’Europa. E su come Nikolić riuscirà a tessere la trama del dialogo con i vicini, l’Unione Europea sarà attenta osservatrice.

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La “profondità strategica” dei nuovi sultani della Turchia

Un ponte naturale fra Europa ed Asia, la propaggine sud-orientale del “Mondo dei liberi” in contrapposizione al moloch totalitario sovietico, un alleato geostrategicamente fondamentale negli equilibri bipolari: così era percepita la Turchia negli anni della “rigidamente precaria” contrapposizione in blocchi. Lo Stato anatolico come terra di confine, snodo cruciale nell’intricato “risiko geopolitico” della Guerra Fredda: un ruolo a cui la Turchia si era progressivamente abituata. A poco più di vent’anni dalla fine di quelle logiche, lo scenario è mutato profondamente: Ankara non è più una pedina – per quanto decisiva – del gioco bipolare che riguardava principalmente altri attori; è essa stessa attore geopolitico di grande rilevanza. L’accentuato multipolarismo che ha caratterizzato l’era “post-americana” iniziata con il lento declino dell’iperpotenza democratica ha reso ancora più tangibile il vuoto di potere creatosi nel delicato scacchiere medio-orientale già dopo la disgregazione dell’Urss. Ed è qui, come in altre aree, che la nuova Turchia intende far valere la sua “profondità strategica” e proporsi come grande egemone regionale. Non più – o comunque non solo – attore determinante per la geostrategia occidentale, ma protagonista sul palcoscenico globale.
Con l’avvento al potere nel 2003 di Recep Tayyip Erdogan, il volto della Turchia è cambiato radicalmente, sia entro i suoi confini che nelle relazioni internazionali. L’eredità kemalista, che pur dovrebbe ancora rappresentare il substrato teorico-politico della laicità dello Stato turco, è stata incisa nella sua carne viva, in uno dei pilastri fondamentali su cui il regime di Ankara si è a lungo fondato: l’esercito. Le forze armate, “custodi” della laicità anche attraverso il poco ortodosso metodo del colpo di Stato in odore di eventuale deriva islamista, hanno visto ridimensionato il loro potere e nel braccio di ferro ingaggiato, il primo ministro Erdogan ha finora avuto la meglio. Non sono addirittura mancati arresti eccellenti fra gli alti gradi dell’esercito – qualcosa di inimmaginabile fino a dieci anni fa - nell’ambito del caso Ergenekon sul presunto golpe ordito contro il governo di Erdogan, che ha ovviamente negato qualsiasi ingerenza nella questione.  
In politica estera invece, la rivoluzione ha il nome ed il volto di Ahmet Davutoglu, professore di relazioni internazionali ad Istanbul, per alcuni anni consigliere personale di Erdogan e dal 2009 Ministro degli Esteri di Ankara. Alternando paradigmi fondati su un lucido pragmatismo a teoremi nei quali riecheggia un temerario revanscismo pan-turco e neo-ottomano, Davutoglu ha lanciato un messaggio chiaro: la Turchia non può – né tanto meno vuole – essere soltanto una cerniera geopolitica nel quadro di equilibri di potenza che non la vedano giocare un ruolo di primo piano. “A questo punto – ha scritto nel 2010 - il Mondo si aspetta grandi cose dalla Turchia, e noi siamo pienamente consapevoli della responsabilità di delineare un’attenta politica estera”. È quanto traspare del resto dalle pagine di Profondità strategica. La posizione internazionale della Turchia, l’imponente volume che l’accademico Davutoglu pubblicò nel 2001 e che rappresenta l’imprescindibile punto di partenza per comprendere il “Davutoglu pensiero” come ministro degli Esteri. Sotto questo profilo, il fatto che nessuno si sia premurato di tradurre l’opera in lingua inglese è un handicap grave per le diplomazie occidentali. Il professor Davutoglu individua otto aree nelle quali lo Stato anatolico dovrebbe esercitare la propria influenza: Balcani, Mar Mediterraneo, Mar Nero, Mar Caspio, Caucaso, Medio-Oriente, regione del Golfo Persico, Asia Centrale turcofona. Eredità storiche e culturali, analisi geopolitiche che spesso spaziano dal rigore scientifico alla dimensione storico-ideologica per sconfinare talvolta in un’affascinante ma discutibile “mistica pan-turca”, richiami al concetto di potere nelle sue varie sfaccettature (Davutoglu propone anche una “equazione della potenza”) si mescolano in un saggio che non può essere ignorato se si vuole capire la politica di Ankara fuori dai confini anatolici, in particolare nelle aree di crisi che rientrano nello spazio d’influenza turca delineato da Davutoglu. Il ministro degli Esteri ha poi puntualizzato: “L’unicità demografica della Turchia influenza le scelte di politica estera. In Turchia ci sono più bosniaci che in Bosnia, più albanesi che in Kosovo, più ceceni che in Cecenia, più abkhazi che nell’Abkhazia georgiana… I conflitti nelle aree di crisi hanno effetti su quelle  popolazioni e dunque un impatto diretto sulla politica interna turca”. Quasi a dire che, anche se volesse, la Turchia non potrebbe rinunciare ad esercitare il ruolo di potenza regionale nei vicini fronti instabili.
Spesso la politica estera di Davutoglu viene associata al famoso motto “zero problemi con i vicini”, che lo stesso ministro ha definito uno dei princìpi operativi della diplomazia turca”. E se da una parte il quotidiano turco in lingua inglese Today’s Zaman ha ironizzato parlando di “zero vicini senza problemi” facendo riferimento ai terremoti geopolitici che lambiscono i confini turchi, dall’altra non si può negare che i rapporti fra la Turchia e molti dei suoi vicini siano migliorati: si è registrata una distensione con lo storico nemico greco, Turchia, Siria ed Iran sono a lungo andate d’amore e d’accordo, i rapporti bilaterali con la Russia si sono notevolmente intensificati, si è  persino cercato di aprire un canale di dialogo con l’Armenia, in contrasto con lo Stato anatolico per il mancato riconoscimento del genocidio perpetrato durante la Prima Guerra Mondiale e per l’appoggio fornito agli azeri in Nagorno-Karabakh. Sono invece peggiorati i rapporti con Israele, soprattutto dopo l’intervento israeliano sulla Mavi Marmara, nave che batteva bandiera turca ed era diretta verso Gaza. L’Occidente guarda con preoccupazione a tale situazione, ma la Turchia ha guadagnato crediti presso l’opinione pubblica medio-orientale, anche per il convinto sostegno che ha deciso di offrire alla causa palestinese.
Nei tumulti della “Primavera araba”, la Turchia ha cercato di proporsi come modello di riferimento per la ricostruzione politico-istituzionale dopo la cacciata dei dittatori. Molti analisti politici hanno spiegato che Ankara è percepita come il luogo dove democrazia, sviluppo ed Islam convivono e si rafforzano reciprocamente e questo gioca a favore dello Stato anatolico e del suo Primo Ministro Erdogan. La partita siriana è sicuramente quella più complessa, per il ginepraio di interessi geopolitici in ballo: sul fronte di Damasco si è infatti incrinata quell’alleanza fra Ankara e Teheran fondata sulla partnership energetica e consolidatasi con la difesa turca delle ambizioni nucleari iraniane. Aḥmadīnizhād continua a sostenere Assad, Erdogan ha invece preso le parti dei ribelli: il primo ministro turco sa bene infatti che un’eventuale deposizione del dittatore siriano – caldeggiata anche dall’Arabia Saudita – lascerebbe l’Iran pressoché senza alleati in Medio-Oriente (Aḥmadīnizhād sta puntando su un’intensificazione delle relazioni con l’Iraq sciita) e darebbe una grossa mano alla Turchia nell’ottica di una possibile egemonia nella regione, anche se gli scenari sono ancora troppo intricati per capire quali saranno gli esiti finali.
Davutoglu ha riconosciuto che “l’importante ruolo regionale della Turchia ha creato tensioni fra le alleanze strategiche esistenti e le nuove responsabilità assunte”, ma ha aggiunto che questo non deve preoccupare l’Occidente. La Turchia può contemporaneamente essere alleata degli Usa e dell’Europa, mantenere buoni rapporti con la Russia ed essere protagonista nei fronti caldi dell’instabilità geopolitica. Davutoglu la chiama “politica estera multidimensionale”, ossia un modo per far coesistere le vecchie alleanze e la teorizzata profondità strategica, anche se parzialmente ridimensionata rispetto alle originarie ambizioni neo-ottomane.  
E dare così vita ad una geopolitica autenticamente turca.

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Afghanistan, la difficile sfida della stabilizzazione

«I risultati preliminari non saranno annunciati domani a causa di problemi tecnici». Con queste parole, il 13 novembre, il portavoce della Commissione elettorale indipendente Abdul Aziz Ibrahimi rendeva nota l’impossibilità di divulgare i primi dati sugli esiti delle elezioni presidenziali svoltesi in Afghanistan il 28 settembre, senza indicare una nuova scadenza per la loro diffusione. Il rinvio – ampiamente preventivato – non era peraltro neppure il primo: già ad ottobre la Commissione aveva dovuto scusarsi per non essere riuscita a centrare l’ambizioso obiettivo di trasmettere i risultati provvisori per il giorno 19 del mese, in vista della loro definitiva ufficializzazione il 7 novembre. Anche in quell’occasione, erano state addotte difficoltà tecniche che avevano determinato un rallentamento delle procedure di conteggio, tra cui un tentativo di infiltrazione nel sistema centrale di Dermalog, la società tedesca responsabile della fornitura delle macchine per il riconoscimento biometrico dell’elettore al fine di impedire il voto plurimo. Hawa Alam Nuristani – presidentessa della Commissione – si era tuttavia affrettata a precisare che quanto accaduto non doveva considerarsi un fallimento, e che per un appuntamento elettorale dal quale potrebbe dipendere il futuro del Paese, la trasparenza non può essere sacrificata sull’altare della rapidità delle operazioni di conteggio.

Tra reciproche accuse di brogli e rivendicazioni di vittoria tanto da parte dell’entourage del capo dello Stato uscente Ashraf Ghani quanto del suo principale avversario Abdullah Abdullah, l’Afghanistan attende dunque di sapere il nome del prossimo presidente, in un clima che non contribuisce a consolidare la fiducia nell’accidentato percorso di democratizzazione intrapreso dal Paese. Ciò che però appare già da ora chiaro è che difficilmente il presidente potrà considerarsi insignito di un mandato forte: secondo gli ultimi dati trasmessi da Dermalog infatti – a fronte di circa 9,6 milioni di elettori registrati su una popolazione di circa 35 milioni di persone – i voti conteggiati sarebbero solo 1.929.333, di cui 1.843.107 validamente espressi. Dunque una partecipazione assai contenuta, evidentemente influenzata in modo decisivo dalle minacce dei Talebani ai seggi: secondo quanto sottolineato in un rapporto della United Nations Assistance Mission in Afghanistan (UNAMA), 85 persone sarebbero infatti morte e altre 373 sarebbero rimaste ferite in attacchi ed episodi di violenza legati alle elezioni, mentre nella sola giornata del voto si sarebbero registrati 28 morti e 249 feriti. Il dato negativo sull’affluenza potrebbe tuttavia essere anche indice dell’amaro disincanto dei cittadini verso le deboli istituzioni di Kabul: a tal proposito, appaiono emblematici i dati di un’indagine dell’istituto di rilevazioni Gallup, che in un suo sondaggio rimarcava come nel 2018 – alla vigilia delle elezioni parlamentari – solo il 19% degli afghani confidasse nello svolgimento di consultazioni trasparenti, valore superiore di nove punti percentuali rispetto a quello registrato nel 2017, ma lontano dal 25% del 2014 e dal 34% del 2009. Non andava poi meglio ai militari, verso i quali solo il 49% degli intervistati dichiarava di nutrire fiducia, mentre in merito alla corruzione, il 91% la riteneva endemica nel governo e l’87% nelle attività di business.

Non era poi mancato chi, alla vigilia delle elezioni, si era apertamente espresso contro il loro svolgimento in un momento storico delicatissimo per l’Afghanistan: tra questi anche l’ex presidente Hamid Karzai, secondo cui votare in un contesto così complesso avrebbe avuto un elevato potenziale destabilizzante e rischiato di compromettere gli sforzi profusi nel quadro dei negoziati tra gli Stati Uniti e i Talebani, bruscamente interrotti da Donald Trump con un annuncio su Twitter il 7 settembre. Di qui la colorita similitudine dell’ex capo dello Stato, convinto sostenitore di una ripresa del dialogo: affrettare in questa particolare fase storica il processo elettorale – con tutti i rischi connessi nel campo della sicurezza – sarebbe stato come «chiedere a un paziente malato di cuore di correre una maratona».

È dunque sulla difficilissima sfida della stabilizzazione politica che si gioca il futuro dell’Afghanistan; una sfida che finisce inevitabilmente per intrecciarsi con la questione della presenza statunitense nel Paese a 18 anni dall’inizio di un conflitto a cui più volte è stata applicata l’etichetta di endless war, la ‘guerra infinita’. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Congresso nel mese di febbraio, Trump aveva tuttavia rimarcato come ‘le grandi nazioni’ non combattano ‘guerre infinite’, lasciando esplicitamente intendere l’obiettivo di Washington di un progressivo disimpegno dall’Afghanistan, prospettiva peraltro condivisa da importanti candidati alla nomination democratica per le presidenziali di novembre 2020 come Elizabeth Warren e Joe Biden. Sul punto l’opinione pubblica statunitense pare non avere dubbi: secondo un’indagine pubblicata dal Pew Research Center nel mese di luglio, il 59% degli americani è convinto che non sia valsa la pena combattere in Afghanistan, e la percentuale risulta particolarmente alta – pari al 58% – anche tra i veterani, compresi quelli che sono stati impegnati in quel teatro di guerra. In questa cornice, l’amministrazione statunitense ha dunque provato a imprimere un’accelerazione ai negoziati con i Talebani, culminati a inizio settembre in un ‘accordo di principio’. Sul negoziato peraltro si sarebbe di fatto consumata la rottura tra il segretario di Stato Mike Pompeo – favorevole alla linea del dialogo – e il national security adviser John Bolton, contrario a qualsiasi apertura di credito verso i Talebani e poi sostanzialmente ‘licenziato’ dal suo incarico da Trump. Quindi è arrivato lo stop imposto dal presidente, che ha motivato la sua decisione con riferimento all’attentato di Kabul nel quale aveva perso la vita un soldato USA: un chiaro segnale – secondo la Casa Bianca – di mancanza di buona fede da parte dei Talebani in una fase molto delicata delle trattative. Come tuttavia ha osservato su The New York Times Borhan Osman – analista presso l’International Crisis Group – l’escalation della violenza nei mesi precedenti aveva visto protagonisti tanto i Talebani quanto le forze del governo di Kabul e quelle statunitensi, ciascuno nell’ottica di un rafforzamento della propria posizione al tavolo del negoziato. Ciononostante, i colloqui erano andati avanti. È dunque plausibile che l’attacco a Kabul sia avvenuto nel quadro di una situazione negoziale già complessa, tanto da convincere Trump ad annunciare su Twitter la cancellazione di un incontro con i rappresentanti dei Talebani e del governo afghano previsto per l’8 settembre a Camp David. Secondo i retroscena pubblicati da The New York Times, i Talebani avrebbero acconsentito a recarsi negli Stati Uniti solo dopo la firma dell’accordo, una posizione in contrasto con i desiderata di Trump che puntava a proporsi come grande artefice dell’intesa: l’evento di Camp David avrebbe dunque dovuto consacrarlo come l’abilissimo negoziatore che ha più volte dichiarato di essere, non rappresentare un momento di semplice riconoscimento di quanto concordato in altre sedi.

Sempre i Talebani – verso i quali l’accordo pure risultava particolarmente generoso – non avrebbero poi gradito la presenza a Camp David del presidente afghano Ghani, con il quale avevano rifiutato negoziati diretti senza aver prima concluso l’intesa con Washington. Dall’altra parte però, neppure Ghani poteva dirsi soddisfatto di una trattativa nella quale non aveva sostanzialmente avuto alcuna voce in capitolo, estromesso dal dialogo, ma in un certo senso ‘costretto’ ad accettarlo per non essere additato come il responsabile del fallimento delle trattative per la pace. Con l’attentato di Kabul poi, l’incontro rischiava di trasformarsi in un boomerang per Trump: sarebbe infatti stato difficile spiegare ai cittadini americani il motivo per cui si era deciso di ospitare una delegazione talebana poco dopo la morte di un soldato statunitense e alla vigilia del diciottesimo anniversario degli attacchi dell’11 settembre. Così, Trump ha optato per la cancellazione dell’incontro di Camp David, dando notizia della sua decisione su Twitter e sorprendendo la sua stessa amministrazione per le modalità dell’annuncio: di quel vertice infatti, l’opinione pubblica non era stata informata. E visto che non si era tenuto, probabilmente sarebbe rimasta anche all’oscuro del fatto che fosse in agenda.

In attesa dunque che la Commissione elettorale indipendente annunci il nome del vincitore delle elezioni presidenziali afghane, occorrerà vedere se passi in avanti per la pacificazione del Paese saranno possibili. Per riannodare la tela del dialogo e partecipare in prima linea alle trattative, il 12 novembre Ghani ha annunciato uno scambio di prigionieri: il rilascio di tre importanti esponenti della rete Haqqani – che fa parte del movimento talebano – è stato barattato con la liberazione di due professori dell’American University di Kabul e di dieci soldati afghani.

Non è improbabile che un eventuale ritiro delle truppe statunitensi senza un accordo sul campo indebolirebbe le già traballanti istituzioni di Kabul, ma al di là di qualche tentativo di tracciare possibili scenari, al momento il futuro dell’Afghanistan è difficile da prevedere. Per ora, c’è solo la certezza di un’intera generazione di giovanissimi afghani che – oggi quasi ventenne – ha conosciuto soltanto la endless war, senza mai vivere in un Paese libero dalla guerra.

 

Immagine: Pattuglia delle forze militari afghane nelle strade di Kabul, Afghanistan (24 settembre 2019). Crediti:  hazartaha / Shutterstock.com

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La geopolitica e il caso Shalabayeva

Uno degli innumerevoli “-stan” sparsi per l’immenso territorio stepposo dell’Asia centrale, una di quelle repubbliche di cui tradizionalmente si sa che è nata dalla disgregazione del mastodontico stato sovietico e poco più. Del resto, fra una Russia ambiziosa, un Medio oriente incandescente, l’India e la Cina giganti emergenti globali e un Iran i cui piani non lasciano tranquillo l’Occidente, lo spazio geopolitico delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale rischia di passare colpevolmente inosservato. Da qualche settimana tuttavia, il Kazakistan è una realtà con cui l’opinione pubblica italiana ha cominciato a familiarizzare per via del caso di Alma Shalabayeva e della piccola Alua, espulse in tutta fretta dall’Italia dopo il blitz di fine maggio della polizia nella villa di Roma in cui dimoravano assieme ad alcuni parenti. Ovviamente con i sentiti ringraziamenti di Astana, perché Alma e Alua sono rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, prima giovane di belle speranze dell’establishment politico kazako e poi oppositore del regime e fondatore di una forza di opposizione, Scelta democratica del Kazakistan. Dopo un periodo di detenzione per abuso di potere durante la sua parentesi ministeriale alla guida del dicastero dell’energia, grazie anche alle pressioni della comunità internazionale e di Ong come Amnesty International Ablyazov è stato liberato, a patto che si tenesse il più lontano possibile dal complicato mondo della politica kazaka, di cui dall’indipendenza del paese si occupa il presidente Nursultan Nazarbayev che nelle ultime elezioni presidenziali del 2011 ha conquistato una altisonante quanto poco trasparente percentuale del 95,5 dei consensi. Ablyazov, a cui il Regno Unito ha concesso l’asilo politico nel 2011, è anche un importante uomo d’affari sulla cui testa pendono accuse per reati finanziari da parte della Russia e una condanna a 22 mesi comminata da una corte britannica; e secondo quanto asserito dal Kazakistan si sarebbe anche appropriato di almeno 6 miliardi di dollari quando era al vertice della banca BTA. Che Ablyazov sia un businessman assetato di potere la cui vita è costellata di zone d’ombra – come qualcuno afferma – o che le sue sfortune siano indissolubilmente legate alla decisione di opporsi al presidente-padrone del Kazakistan Nazarbayev, è un interrogativo al quale ognuno può rispondere formulando la sua personale opinione, ma la sua soluzione non pare essenziale per dipanare la grande matassa di risvolti geopolitici che la questione pone. I rapporti fra Roma e Astana sono da tempo buoni, come entrambe le parti nel corso degli anni hanno avuto modo di testimoniare. L’Italia è da tempo uno dei principali partner commerciali del Kazakistan sia sul fronte delle importazioni che su quello delle esportazioni, è operativa una Camera di Commercio italo-kazaka e importanti sono stati gli investimenti diretti italiani ad Astana. In un dispaccio di Wikileaks pubblicato da “L’Espresso” e datato marzo 2009, si osservava inoltre come nonostante gli effetti della crisi finanziaria globale molte imprese italiane rimanessero attive in Kazakistan, in settori come quello delle costruzioni, dell’amministrazione di proprietà, dei materiali da costruzione, della moda e dell’alcool. Nel testo si faceva anche riferimento ai problemi riscontrati da Italcementi che aveva acquistato la fabbrica Shymkent e subiva pressioni dalle autorità locali, così come veniva sollevata la questione relativa al mancato pagamento di 8 milioni di dollari al Gruppo Todini per i lavori svolti nel Paese; ma il quadro complessivo delle relazioni veniva comunque riconosciuto come “positivo e robusto”. Il Kazakistan galleggia inoltre su petrolio e gas naturale, e ad Astana l’italiana Eni – come si legge sul sito internet della società – è presente dal 1992 con un’attività in gran parte concentrata nel giacimento di Karachaganak. Eni partecipa inoltre con il 16,81 per cento al North Caspian Sea Production Sharing Agreement ed è coinvolta nello sviluppo del progetto per lo sfruttamento delle risorse del giacimento petrolifero di Kashagan, situato nel Caspio 80 km a Sud-Est di Atyrau in Kazakistan. Intrecciando il caso di Alma Shalabayeva con le relazioni fra i due Paesi, per alcuni commentatori il collegamento è stato immediato. Troppa la fretta nelle operazioni, difficilmente credibile l’assenza di comunicazioni al Governo, poco plausibile l’ipotesi che nulla si sapesse della famiglia di un dissidente politico presentato dai funzionari kazaki come un criminale: semplicemente, l’Italia avrebbe sacrificato sull’altare della realpolitik una donna e una bambina per evitare di incrinare i rapporti con Nazarbayev. La cautela è tuttavia doverosa in questi casi: anche altri Paesi intrattengono importanti affari con Astana e, come ha osservato in un articolo su ‘Europa’ Matteo Tacconi, recentemente il Kazakistan ha firmato importanti e lucrosi accordi proprio con quel Regno Unito che ha addirittura concesso asilo politico ad Ablyazov e non ha risposto alla richiesta di estradizione kazaka, pertanto le equazioni geopolitiche vanno sempre maneggiate con grandissima prudenza. Nella gestione dell’affare Shalabayeva, l’Italia ha riconosciuto di aver commesso errori, e nella sua relazione il capo della polizia Alessandro Pansa ha sottolineato che “è mancata l’attenzione ad una verifica puntuale e completa su tutto il rapporto innescato dalle autorità diplomatiche kazake”. Il procedimento di espulsione sotto il profilo formale è stato regolare, ma Palazzo Chigi ha evidenziato che delle procedure nessuno dei vertici del Governo era stato informato. L’espulsione è stata poi revocata perché l’assunto su cui era stata fondata si è rivelato errato: il passaporto diplomatico della Repubblica centrafricana di cui è titolare la Shalabayeva, considerato falso, è invece valido. Pansa ha tuttavia esposto nella sua relazione che dalla documentazione non è risultato che la Shalabayeva abbia mai presentato o annunciato – anche tramite i suoi difensori - domanda d’asilo o che abbia mostrato o affermato di possedere un permesso di soggiorno emesso dalle autorità di un Paese dell’area Schengen, come fatto dal cognato (il Paese in questione è la Lettonia). Il caso è costato il posto al capo di Gabinetto del Viminale Giuseppe Procaccini, che dopo essersi dimesso ha sostenuto di aver avvertito il Ministro dell’Interno Alfano dell’incontro con l’ambasciatore kazako per la ricerca di un presunto latitante, appunto il dissidente Ablyazov che fino a pochi giorni prima del blitz si sarebbe trovato in Italia. Sel e M5S hanno presentato una mozione di sfiducia contro il titolare del Viminale, e nel Pd più di qualche parlamentare considera la versione dei fatti fornita dal ministro Alfano in aula al Senato insoddisfacente e lacunosa. La vicenda Shalabayeva pare dunque destinata a continuare e ad avere una certa risonanza, finchè non sarà fatta piena luce sul caso come ha promesso il premier Letta. Che alla base ci siano state discutibili scelte di realpolitik o colpevoli falle comunicative, la speranza è ora che si riesca a trovare una soluzione in grado di salvaguardare le persone coinvolte, mentre sugli eventuali effetti geopolitici e geoeconomici è ancora troppo presto per pronunciarsi. Da oggi però, il Kazakistan non è più uno dei tanti “-stan” avvolti nelle polverose steppe dell’Asia Centrale.

 

Il Kazakistan nell’Atlante Geopolitico Treccani:

https://www.treccani.it/geopolitico/paesi/kazakistan.html

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La forzatura del Gruppo di Visegrád sui migranti

Due alternative: chiudere i porti o accettare l’offerta di aiuto, sulla base di quanto messo nero su bianco in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. È il premier magiaro Viktor Orbán – in un’intervista a Kossuth Rádió – a farsi portavoce della posizione dell’Ungheria e degli altri Paesi del gruppo di Visegrád, dalla Polonia alla Repubblica Ceca, alla Slovacchia. Il problema della gestione dei flussi migratori, secondo il capo del governo di Budapest, potrebbe presto diventare ingestibile, perché Austria e Germania potrebbero decidere di chiudere le loro frontiere: dunque, Roma non può esimersi da azioni decise, come appunto la chiusura dei suoi porti, mentre la soluzione del problema non potrà prescindere da un intervento a monte, che parta dai Paesi di provenienza e di transito dei migranti. Se dovesse servire, anche attraverso l’intervento militare, che Orbán non sembra escludere con riferimento alla Libia.

La riposta di Palazzo Chigi non si è fatta attendere.

Le statistiche sono sufficientemente esplicite, e parlano di 111.514 sbarchi sulle sponde europee del Mediterraneo tra il primo gennaio e il 19 luglio. Con 93.369 arrivi – dato in evidente crescita rispetto alle 82.602 persone sbarcate nello stesso periodo del 2016 – è l’Italia, naturale punto di approdo lungo la rotta del Mediterraneo centrale, a reggere gran parte del peso della crisi, essendo interessata dall’85% degli approdi. Pertanto Roma – ha sottolineato il premier Gentiloni – ha tutto il diritto di pretendere solidarietà dai Paesi che condividono il progetto europeo, senza minacce o «improbabili lezioni» provenienti da qualche partner.

Le posizioni del gruppo di Visegrád sul tema delle migrazioni sono chiaramente rintracciabili nel comunicato congiunto rilasciato dai primi ministri a Budapest il 19 luglio: in primo luogo, c’è la constatazione del fatto che la sfida delle pressioni migratorie resta ancora in larga parte irrisolta, ed è per questo necessaria un’azione comune da parte degli Stati membri e dell’Unione Europea. I flussi lungo la rotta dei Balcani occidentali – sottolineano i Paesi del gruppo – sono stati ampiamente arginati grazie alle strategie poste in essere, mentre la rotta del Mediterraneo centrale continua a essere intasata, senza che sia stata trovata una soluzione per frenare gli arrivi. Secondo Bratislava, Budapest, Praga e Varsavia, il problema è essenzialmente di approccio; pertanto, occorre rivedere i principi stessi su cui sono fondate le policies europee in materia di controllo dei fenomeni migratori. Separazione a monte degli aventi diritto alla protezione internazionale dai migranti economici, operando tutte le verifiche del caso in appositi centri supportati dall’Unione Europea ma situati al di fuori dei suoi confini: è questa, secondo i Paesi di Visegrád, la chiave di volta per contenere gli sbarchi e allentare la pressione sulle frontiere esterne dell’UE, assicurandosi che nessuno possa entrare in territorio europeo senza essere stato prima identificato e registrato.

Quanto poi ai meccanismi di ricollocazione obbligatoria previsti dalla Commissione europea, semplicemente non hanno funzionato e, anzi, hanno rappresentato un pull factor – ossia un vero e proprio incentivo – per nuovi sbarchi. Da questo punto di vista gli Stati del gruppo respingono, dunque, con forza l’accusa di non essere stati solidali per aver opposto il loro rifiuto all’accoglienza secondo gli schemi predisposti da Bruxelles, ribadendo, invece, la loro disponibilità a soluzioni di lungo periodo che contemplino il coinvolgimento dell’UE e dei suoi Stati membri nei progetti di crescita e sviluppo dei Paesi di provenienza e di transito dei migranti.

Nella missiva destinata al premier italiano i primi ministri di Visegrád comunicano di seguire con grande attenzione lo straordinario impegno di Roma nell’affrontare le pressioni migratorie, assicurando che non saranno lesinati gli sforzi per bloccare le partenze dalla Libia e dagli altri Paesi del Nordafrica. Per il resto, lo spirito ricalca essenzialmente la dichiarazione generale sulle migrazioni: identificazione dei richiedenti asilo prima dell’ingresso nell’Unione Europea, mobilitazione di risorse per garantire condizioni adeguate negli hotspot e nelle altre strutture recettive al di fuori dei confini dell’UE, esclusione di strategie che possano produrre effetti opposti a quelli desiderati, come i meccanismi obbligatori di redistribuzione. Seguono cinque punti specifici, sui quali i Paesi di Visegrád si dicono pronti a offrire la loro collaborazione: contributo alle attività europee ai confini meridionali della Libia, supporto alla creazione di appropriate strutture di accoglienza fuori dal territorio dell’Unione, aiuto nell’addestramento della guardia costiera libica, rafforzamento delle capacità dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo e contributo al codice di condotta delle organizzazioni non governative.

Sotto alcuni profili, le posizioni espresse da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria possono considerarsi condivisibili. Laddove l’accento è posto tanto sulla necessità di aggredire alla base le cause dell’immigrazione quanto sul potenziamento dei contatti con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti, non può che esserci comunione d’intenti, e in tal senso vanno anche numerose iniziative da tempo intraprese dall’Italia, dal deciso rafforzamento della cooperazione per lo sviluppo, agli sforzi per la stabilizzazione della Libia, all’approfondimento della collaborazione con cruciali Paesi di passaggio come il Niger e il Ciad.

Di migranti si è poi discusso nella giornata di lunedì a Tunisi, nell’ambito di un apposito gruppo di contatto tra Paesi europei e africani, cui ha partecipato per l’Italia il ministro degli Interni Marco Minniti: l’obiettivo comune deve essere quello di instaurare una solida cooperazione intercontinentale che porti all’attivazione di un circuito virtuoso, in grado di creare nuove opportunità in Africa ed ‘erodere’ quella base su cui trafficanti senza scrupoli spesso costruiscono le loro fortune. Perché questo accada, però, saranno necessari uno sforzo importante e tempi probabilmente lunghi. Nel frattempo, decine di migliaia di persone continueranno a solcare il mare nella speranza di raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo, anche se le ultime statistiche dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni dimostrano che sono molti quelli che non riescono a farcela. 2360: tante sono le vite che il Mare Nostrum ha inghiottito dal primo gennaio al 19 luglio; 2207 lungo la rotta del Mediterraneo centrale che porta all’Italia.

Non sbagliano i Paesi del gruppo di Visegrád quando pongono l’accento sulla Libia, ma perché i piani d’azione con Tripoli possano concretamente avere successo è prima indispensabile lavorare per la creazione di un’autentica statualità libica, che a oggi appare ancora lontana in un Paese in cui imperversano bande, tribù e milizie con interessi non di rado contrastanti. E l’opzione dell’intervento militare ventilata da Orbán finirebbe per complicare ulteriormente una situazione di per sé già estremamente intricata. I flussi migratori continueranno a premere sull’Europa, ma per il momento la proposta italiana di ‘regionalizzare’ le operazioni di salvataggio non ha incontrato il sostegno degli interlocutori.

Parlando alla Farnesina in occasione della XII Conferenza degli ambasciatori, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è comunque detto sicuro del fatto che la fermezza negoziale consentirà all’Italia di «superare i numerosi ostacoli che ancora si frappongono a un lungimirante ed efficace governo del tema forse più rilevante oggi di fronte all’Unione Europea, quello di una gestione del fenomeno migratorio di carattere autenticamente comunitario». Prima dell’intervento dei Paesi di Visegrád, era stato il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz a esprimersi sulla questione migratoria, arrivando addirittura a sostenere che lo spostamento dei 'migranti illegali' dalle isole italiane come Lampedusa alla terraferma dovesse essere interrotto; parole poi ridimensionate dal primo ministro Christian Kern che ha sottolineato come serva più sensibilità verso l’Italia.

Sul tema dei migranti, Mattarella ha invocato una discussione seria in sede europea, ricordando un elemento essenziale: in materia, non c’è spazio per «battute estemporanee ai limiti della facezia».

 

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Il ritorno della Russia in Medio Oriente

Di nuovo sulla scena come protagonista della definizione degli equilibri globali; attenta a consolidare il proprio status e a garantire la tutela dei suoi interessi geopolitici, attraverso un’articolata strategia funzionale a consacrarla come grande potenza.

Come ha scritto in una sua analisi per l’European council on foreign relations lo studioso Nicu Popescu – da poco anche ministro degli Esteri della Moldavia – la Russia è tornata, e le cronache internazionali testimoniano oramai da tempo il rinnovato attivismo del Cremlino in politica estera: che si trattasse di Siria e dei complessi scenari mediorientali, di influenze sulle possibili evoluzioni nel quadro della costruzione (o distruzione?) del progetto europeo, di dialettica nelle relazioni con la superpotenza statunitense, di consolidamento dei rapporti con il gigante cinese o di sviluppi nella partita per il controllo dell’Artico, Mosca ha rivelato negli ultimi anni importanti capacità strategiche e un accentuato dinamismo, coltivando meticolosamente l’obiettivo di essere sempre presente nei teatri geopolitici che contano per poter influenzare le decisioni prese al tavolo delle trattative.

Se da una parte la proiezione geostrategica russa è parsa sostanzialmente multi-vettoriale, così da non trascurare nessuno degli scenari caldi in cui fossero in gioco gli interessi di Mosca; dall’altra appare evidente come la Russia abbia riservato particolare attenzione al Medio Oriente, in modo tale da riproporsi come attore geopolitico fondamentale in un’area che aveva parzialmente trascurato con la fine della guerra fredda. Nel perseguimento dei suoi obiettivi, il Cremlino è stato agevolato dal particolare momento storico vissuto dalla regione, attraversata dai venti impetuosi delle primavere arabe e segnata da un parziale ‘disimpegno’ degli Stati Uniti, fino ad allora estremamente attivi nell’arena mediorientale ma oramai proiettati verso il Pacifico per contenere l’ascesa del gigante emergente cinese. In questo quadro caratterizzato da profonda instabilità, con alcuni regimi autoritari pluridecennali oramai crollati, altri che parevano sul punto di sgretolarsi e la minaccia terroristica che montava mese dopo mese, la Russia è così tornata sulla scena, sfruttando i tentennamenti dell’Occidente e mettendo in campo variegati strumenti di intervento politico, economico, militare e diplomatico.

Come ha correttamente osservato in un suo rapporto sull’argomento l’European Union Institute for Strategic Studies, il Cremlino sembra per il momento aver giocato al meglio le sue carte. È forse dal coinvolgimento diretto nel teatro di guerra siriano che Vladimir Putin ha finora incassato il dividendo più importante della sua strategia di politica estera verso il Medio Oriente: l’intervento nel conflitto, ufficialmente motivato con l’imperativo di sconfiggere la brutalità del sedicente Stato islamico, ha infatti consentito a Mosca non soltanto di raggiungere l’obiettivo del rafforzamento dell’allora claudicante regime di Bashar al-Assad – visto dal Cremlino come sicuro garante dei suoi interessi nell’area – ma anche e soprattutto di consolidare agli occhi degli altri attori internazionali il proprio status di grande potenza, capace di portare avanti con determinazione la propria strategia e di ottenere il risultato desiderato. Un risultato quest’ultimo importante e tutt’altro che scontato, se si considera che per lungo tempo i decisori politici russi sono stati bloccati dalla ‘sindrome afghana’ e dal timore di rimanere impantanati nella palude mediorientale, esattamente come accadde ai sovietici dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 1979. Portata dunque a termine con successo la sua missione sul campo – grazie anche al decisivo sostegno degli Hezbollah libanesi e dei gruppi paramilitari iraniani che combattevano sul terreno – Mosca ha dunque aperto le porte a una ricomposizione politica del conflitto in Siria, con la variegata galassia delle forze ribelli oramai fuori dai giochi perché fortemente indebolita dall’azione militare russo-siriano-iraniana. Il processo intrapreso ad Astana con il coinvolgimento dell’Iran e della Turchia non ha però finora prodotto alcun risultato degno di nota, e se il regime di Bashar al-Assad può al momento considerarsi messo in sicurezza, la ricomposizione politico-territoriale della Siria sarà difficilmente raggiunta in tempi brevi.

La Russia nel frattempo però è tra gli attori internazionali che distribuiscono le carte, e sa che avrà piena voce in capitolo nella definizione dei futuri assetti del Medio Oriente. Il che è pienamente in linea con gli interessi del Cremlino, desideroso di massimizzare il proprio profitto geopolitico tanto nel quadro globale – con il riconoscimento del suo status di grande potenza – quanto sotto il profilo regionale, rafforzando i rapporti economico-commerciali ed energetici con i Paesi dell’area. Come ha giustamente rilevato in una sua analisi il direttore del Carnegie Moscow Center Dmitri Trenin, è la realpolitik a ispirare l’azione di Mosca nelle relazioni internazionali, e nel complesso scenario mediorientale questa strategia pare aver funzionato bene negli ultimi anni. Per portare avanti questa sua linea politica, il Cremlino è chiamato a muoversi con particolare flessibilità: l’obiettivo è infatti quello di ottenere di volta in volta il miglior risultato possibile, senza esacerbare le già violente tensioni che animano la regione mediorientale, ragionando con tutti gli attori coinvolti senza autentici alleati, ma neppure nemici dichiarati. Così, se da una parte nel teatro di guerra siriano si è evidentemente registrata una rilevante convergenza tra Russia e Iran, questa non pare sufficiente a delineare i contorni di una vera e propria alleanza strutturale, anche perché Mosca e Teheran coltivano progetti geopolitici differenti.

Di converso, la contrapposizione rispetto alla guerra in Siria non ha impedito alla Russia e all’Arabia Saudita di approfondire le loro relazioni, collaborando tanto sul fronte economico quanto su quello energetico. Da una parte, Mosca riconosce la centralità di Riyad negli equilibri mediorientali; dall’altra, la monarchia saudita sembra consapevole del ruolo assunto nella regione dal Cremlino, che rispetto allo stesso conflitto siriano – rilevano numerosi analisti – esercita un’azione di contenimento delle ambizioni dell’Iran, grande nemico dell’Arabia Saudita.

Ancora, dopo le fortissime tensioni successive all’abbattimento da parte turca di un cacciabombardiere russo Sukhoi-24 nel novembre 2015, Mosca e Ankara hanno riannodato la tela del dialogo, con il Cremlino a prendere le parti di Erdoğan in occasione del fallito colpo di stato in Turchia nel luglio 2016. Rispetto al conflitto siriano, i due Paesi si sono inizialmente trovati su fronti opposti salvo poi lanciare assieme all’Iran il processo di Astana, con Ankara che nel frattempo ha avuto il sostanziale via libera di Mosca a intervenire nel Nord della Siria per arginare l’avanzata delle milizie curde YPG, il cui contenimento era diventato prioritario per la Turchia.

Il Cremlino resta inoltre un interlocutore privilegiato dell’Egitto di al-Sisi, e continua a coltivare relazioni con altri importanti attori regionali quali il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti.

Rimane poi solida l’interlocuzione tra la Russia e Israele, protagoniste di quella che il professor Mark N. Katz ha definito un’«improbabile amicizia»: da una parte infatti, Tel Aviv è l’alleato regionale numero uno degli Stati Uniti, che rimangono l’antagonista geopolitico per eccellenza di Mosca; dall’altra invece, il Cremlino ha approfondito le relazioni con l’Iran, nemico dichiarato di Israele. Eppure la collaborazione sull’asse russo-israeliano prosegue in ambiti importanti come quello economico, militare e d’intelligence, supportata anche dalla storica presenza di una ricca comunità ebraica in Russia – anche se oltre un milione di ebrei ha lasciato i territori ex-sovietici per trasferirsi in Israele – e da buoni rapporti personali tra Putin e i leader politici conservatori israeliani.

Dunque, attualmente la strategia di Mosca sta producendo gli esiti sperati. Il vero nodo – evidenziano gli analisti – sta tuttavia nel capire quanto tale strategia sarà praticabile nel lungo periodo. In primo luogo, essa è inevitabilmente dispendiosa e richiede l’impiego di ingenti risorse, di cui non è facile prevedere se la boccheggiante economia russa disporrà in futuro. E poi, lo scenario mediorientale è in frenetica ebollizione: per ora, Mosca è riuscita a rimanere interlocutore di primaria importanza di tutti i grandi attori regionali, anche perché le tensioni tra potenze rivali non sono mai arrivate al punto di non ritorno. Il triangolo israelo-iraniano-saudita rimane tuttavia incandescente, e il conflitto non si può escludere. E lì il Cremlino, pur provando ad agire da mediatore, potrebbe trovarsi a dover scegliere da che parte stare.

 

 

Immagine: Vladimir Putin (17 gennaio 2019). Crediti: Sasa Dzambic Photography / Shutterstock.com

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I nuovi equilibri dello scenario politico greco

Intervista a Francesco Anghelone

Una vittoria netta, in linea con le previsioni della vigilia che vedevano Nea Dimokratia ampiamente in vantaggio sulle altre forze politiche. Dopo quattro anni di opposizione al governo del primo ministro Alexis Tsipras – impegnato durante il suo mandato nel difficile salvataggio di un Paese prossimo al fallimento – il centrodestra torna dunque alla guida della Grecia, forte del consenso del 39,8% degli elettori che si sono recati alle urne. Grazie ai 158 seggi conquistati sui 300 del Parlamento ellenico, Nea Dimokratia potrà inoltre dare vita a un esecutivo monocolore, evitando così le complicate alchimie di coalizioni spurie spesso traballanti, come nel caso dell’ultimo esecutivo nato dall’alleanza tra la sinistra di SYRIZA e i nazionalisti di ANEL. Per comprendere i risultati del voto e le ragioni che hanno portato a tali esiti, tracciare un bilancio del governo Tsipras e analizzare le sfide che attendono il nuovo esecutivo targato Nea Dimokratia e presieduto da Kyriakos Mitsotakis, Atlante ha intervistato Francesco Anghelone, coordinatore dell’Osservatorio sul Mediterraneo (OSMED) dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V.

 

A quattro anni dalle due consultazioni elettorali – gennaio e settembre 2015 – che diedero la vittoria ad Alexis Tsipras e alla sinistra ‘radicale’ di SYRIZA, la Grecia dà nuovamente fiducia ai conservatori di Nea Dimokratia, storica formazione del centrodestra ellenico che ha guidato il Paese tanto negli anni in cui la crisi economica ha covato prima di esplodere, quanto nel periodo delle prime misure ‘lacrime e sangue’. Come si può spiegare questo – se vogliamo – ‘ritorno al passato’?

Le ragioni che hanno portato alla vittoria di Nea Dimokratia sono diverse. Da una parte c’è sicuramente un sentimento di forte disillusione nei confronti di SYRIZA e del suo leader Alexis Tsipras: andato al governo con l’obiettivo di ridiscutere gli accordi della Grecia con i creditori internazionali, Tsipras – dopo alcuni mesi di braccio di ferro con le istituzioni europee – dovette in un certo senso piegarsi a Bruxelles e ai Paesi europei che volevano continuare sulla strada dell’austerity. Il referendum indetto nel luglio 2015 per chiedere ai cittadini greci di accettare o respingere l’accordo proposto dai creditori internazionali fu un boomerang: in una situazione economica gravissima e con le banche chiuse, i greci respinsero l’intesa, per vedere tuttavia poco dopo il loro primo ministro accettare un accordo ancor più duro. In quella fase ci fu la rottura con il ministro delle Finanze Varoufakis, il quale all’interno dell’esecutivo rappresentava senza dubbio l’anima più contraria alle politiche di austerità. Da allora qualcosa si è rotto nel rapporto tra Tsipras e quella parte dell’elettorato greco che vedeva in lui la speranza di un cambiamento. La vittoria elettorale ottenuta nelle nuove consultazioni del settembre 2015 era ancora frutto di quella speranza di cambiamento che aveva portato Tsipras al governo, ma già in quella fase la sua figura di leader si era fortemente ridimensionata.

D’altra parte va detto che Nea Dimokratia, dopo la sconfitta nel 2015, ha accantonato le figure più compromesse con i memorandum e operato un cambiamento netto dei propri quadri dirigenti, scegliendo nel 2016 quale leader Kyriakos Mitsotakis, erede di una delle dinastie politiche più note in Grecia. Suo padre, Konstatinos Mitsotakis, fu primo ministro nei primi anni Novanta, mentre la sorella, Dora Bakoyannis, oltre a essere stata ministro degli Esteri, è stata la prima donna a diventare sindaco di Atene. Il figlio della sorella, Kostas Bakoyannis, è stato eletto nel mese di giugno primo cittadino della capitale. La destra greca dunque si è in qualche modo rifugiata nella tradizione, e ha visto in Mitsotakis quell’elemento di continuità con il passato che rappresenta in un certo senso un fattore di tranquillità. D’altra parte Nea Dimokratia può contare su un elettorato che ha mostrato di essere più compatto di quello del PASOK. Quest’ultimo, sfidato da SYRIZA a sinistra, si è praticamente dissolto già a partire dalle elezioni del 2012. Nea Dimokratia, pur tra mille difficoltà, è riuscita invece a mantenere una percentuale di voti tale da premetterle di rappresentare la principale alternativa a SYRIZA e, grazie anche a un leader giovane erede di una storica dinastia politica del Paese, ha creato i presupposti per tornare al potere.

 

Il vento del cambiamento incarnato da Tsipras nel pieno della crisi greca ha rappresentato una nuova speranza per la sinistra, sia in Europa – Tsipras fu candidato alla presidenza della Commissione UE nel 2014 – che ovviamente in Grecia, con la vittoria nelle due tornate elettorali del 2015. Il confronto con l’attività di governo e la necessità di salvare il Paese dal fallimento hanno però poi costretto il leader di SYRIZA a un bagno di realismo e a fare i proverbiali ‘compiti a casa’ assegnati dalle istituzioni finanziarie internazionali. Si può secondo lei parlare con riferimento a Tsipras di ‘promessa tradita’? Quanto può aver inciso questo sui risultati elettorali?

Certamente Tsipras è giunto al potere in Grecia con la promessa di operare un cambiamento radicale nei rapporti con le istituzioni europee e con i creditori internazionali. In quella fase storica la Grecia era praticamente al collasso e molti cittadini, non vedendo alcuna speranza per il proprio futuro, decisero di affidarsi al leader di SYRIZA. La vittoria nel Paese alle europee del 2014 e i successi alle politiche del 2015 vanno inquadrati in questo contesto socio-politico ed economico. Occorre inoltre ricordare che la vittoria di SYRIZA ha rappresentato una novità assoluta nel panorama politico greco. Mai, prima di allora, un partito della sinistra considerata radicale si era avvicinato alla possibilità di governare. Basti pensare che prima dello scoppio della crisi, alle elezioni politiche del 2009, SYRIZA aveva ottenuto soltanto il 4,6% dei voti, mentre i comunisti del KKE avevano ottenuto poco più del 7,5%.

Giunti al governo, peraltro accettando un’alleanza con la destra nazionalista di ANEL, Tsipras e Varoufakis – quest’ultimo ministro delle Finanze e figura assolutamente di spicco dell’esecutivo – nei primi mesi tentarono in ogni modo di scardinare le politiche che le istituzioni internazionali avevano imposto alla Grecia, senza tuttavia avere alcuna possibilità di riuscirvi. I creditori internazionali non avevano intenzione di cambiare politica e la Grecia non aveva alcuna forza per imporsi, a meno di compiere scelte assolutamente radicali che avrebbero comportato il default del Paese. Il referendum del 2015, in questo senso, è stato il vero spartiacque nella storia dei governi Tsipras. L’uscita di Varoufakis dal governo e la ‘normalizzazione’ del primo ministro, costretto ad accettare un terzo memorandum, hanno di fatto decretato la fine del progetto politico con cui SYRIZA si era presentata all’elettorato greco. L’impossibilità di ribaltare in modo radicale le politiche economiche imposte al Paese ha quindi, senza dubbio, tolto quell’aura ‘rivoluzionaria’ con la quale il leader di SYRIZA era giunto al governo, decretando di fatto la ‘normalizzazione’ di cui ho appena parlato. E un leader radicale ‘normalizzato’, ovviamente, è un leader destinato alla sconfitta.

 

Nel suo libro La troika sull’Acropoli – pubblicato nel 2014 nel pieno della crisi – si ritrova una puntuale ricostruzione delle ragioni storiche che avevano portato la Grecia sull’orlo del baratro, ricordando tanto le responsabilità di una classe politica nazionale poco attenta a una sana gestione delle finanze quanto la miopia della cura somministrata dall’Europa e dalle istituzioni economico-finanziarie internazionali. Oggi, per lo meno formalmente, la troika non è più sull’Acropoli, ma la Grecia in che condizioni versa? Cosa ci si deve poi aspettare in materia economica dal nuovo esecutivo di Nea Dimokratia?

I principali parametri economici ci dicono che il Paese non è oggi in una situazione molto migliore di quella del 2009-2010. Si possono certamente cogliere dei piccoli miglioramenti, ad esempio sul fronte dell’occupazione, ma si tratta di segnali ancora troppo deboli per permetterci di affermare con certezza che il peggio sia alle spalle. La Grecia in questi anni ha svenduto molti dei propri asset economici e infrastrutturali più importanti, e ciò rappresenta un impoverimento rilevante per il Paese. Da Nea Dimokratia, in questo senso, non ci si può attendere un cambio di rotta. Mitsotakis in campagna elettorale ha già chiarito quale sarà la politica economica del governo, peraltro in linea con la tradizionale politica economica di Nea Dimokratia. Le parole d’ordine saranno liberalizzazioni, privatizzazioni, abbassamento delle tasse e tagli agli sprechi. Quest’ultima espressione nasconde però dietro di sé la questione dei tagli ai servizi: occorrerà dunque chiedersi quali saranno, in un Paese ancora fortemente piegato dalla crisi, gli effetti di una tale scelta.

 

Il governo presieduto da Tsipras si è dimostrato piuttosto attivo anche in politica estera, soprattutto su alcuni fronti caldi per Atene. A tal proposito, con la Macedonia è stato raggiunto un importante accordo sul nome ufficiale della Repubblica balcanica, oggi riconosciuta come Macedonia del Nord in linea con i desiderata di Atene che temeva possibili rivendicazioni di sovranità di Skopje sulla Macedonia greca. Gli ambienti conservatori e nazionalisti greci hanno tuttavia espresso scetticismo – quando non aperta condanna – rispetto all’intesa, accusando il leader di SYRIZA di debolezza rispetto all’interlocutore macedone. Quanto può aver inciso anche questo aspetto sul voto?

Gli accordi tra Atene e Skopje che hanno chiuso l’annosa questione del nome della Macedonia, ora non più riconosciuta con l’acronimo FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia) ma come Macedonia del Nord, vanno letti in due modi. Sul piano internazionale Tsipras è stato apprezzato per aver chiuso uno scontro che andava avanti da ventisette anni e che aveva creato non pochi problemi in quella regione dei Balcani. Sul piano interno tuttavia, Tsipras ha ricevuto fortissime critiche. Occorre sottolineare come queste critiche non siano arrivate solo dalla destra nazionalista – la stessa Nea Dimokratia non ha mancato di attaccare Tsipras per gli accordi – ma anche da ampi settori della sinistra. Una figura storica della sinistra greca, come il noto compositore Mikis Theodorakis, ha attaccato duramente il primo ministro per quegli accordi. Occorre infatti comprendere che in Grecia il nazionalismo non è un elemento distintivo tra destra e sinistra come lo è stato per molti decenni in Italia. Pur esistendo certamente delle differenze di carattere politico, il nazionalismo greco va considerato come un elemento assolutamente trasversale e dunque non deve sorprendere che da ampi settori della sinistra, oltre che della destra, siano arrivati attacchi durissimi agli accordi sottoscritti con Skopje. I greci d’altra parte riconoscono nell’eredità della Macedonia di Alessandro Magno un elemento fondante della loro storia e identità, che non sono disposti a condividere con nessuno. Basti pensare che in Grecia il termine con cui si identificano gli abitanti dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia non è ‘macedoni’ come in italiano, ma ‘skopianì’ (ovvero abitanti di Skopje). Su questo tema dunque Tsipras ha certamente pagato un prezzo politico alto e ciò ha senza dubbio avuto un peso nei risultati elettorali.

 

Per concludere, uno sguardo ai risultati ottenuti nel voto dalle diverse forze politiche oltre a Nea Dimokratia. Nonostante la sconfitta, SYRIZA (31,5%) va meglio di quanto ci si aspettasse alla vigilia ed è oramai a tutti gli effetti il polo di riferimento per la sinistra ellenica, mentre il centrosinistra di Kinima Allagis – alleanza comprendente anche i socialisti del PASOK – si ferma all’8,1%. I comunisti greci (KKE) continuano ad attestarsi sul 5%, ma ciò che emerge è soprattutto il crollo dell’ultradestra: Chrysí avgí non ha infatti superato la soglia di sbarramento del 3%, mentre la nuova formazione di ultradestra Elliniki Lysi si è fermata al 3,7% dei voti. Inoltre, con il 3,4% e 9 seggi, entra in Parlamento anche MeRA25, la nuova forza politica di sinistra dell’ex ministro delle Finanze Gianis Varoufakis. Com’è cambiata dunque la geografia politica ellenica?

Volendo operare una semplificazione si potrebbe affermare che tutto cambia perché niente cambi. SYRIZA ha certamente ottenuto un risultato ben oltre le aspettative. I sondaggi nei mesi scorsi la davano in alcuni casi al di sotto del 25%. Aver ottenuto oltre il 31% è dunque certamente un ottimo risultato, al netto delle difficoltà che il governo Tsipras ha dovuto affrontare a partire dalla firma del terzo memorandum del 2015 per arrivare alla questione della Macedonia. D’altra parte occorre capire che oggi SYRIZA occupa lo spazio politico che tradizionalmente era del PASOK e dunque di fatto ha sostituito nel quadro politico greco il partito fondato da Papandreu. Molti ex esponenti del PASOK sono peraltro transitati in SYRIZA a partire dal 2012. È dunque la formazione politica che fa riferimento all’ex ministro delle Finanze Varoufakis a rappresentare quello che era SYRIZA prima del 2012, ovvero una sinistra radicale ma non comunista, come invece è il KKE, che può contare su uno zoccolo duro di voti che però non va oltre il 5%. Il crollo di Chrysí avgí va invece letto sia come il risultato delle tante inchieste giudiziarie e degli arresti che hanno coinvolto il suo gruppo dirigente, quanto alla luce dello spostamento a destra di Nea Dimokratia, che ha ripreso quei voti più radicali di destra che si erano trasferiti su Chrysí avgí. Elliniki Lysi rappresenta invece una destra che certamente ha dei tratti radicali, ma che molto si rifà agli elementi tradizionali della Grecia. Anche in questo caso si potrebbe affermare che sia andata ad occupare lo spazio politico che prima della crisi era occupato dal LAOS, un partito di destra, che aveva anche tratti radicali, molto legato ai tradizionali valori religiosi e nazionali del Paese: del resto, il fondatore e leader di Elliniki Lysi è Kyriakos Velopoulos, che ha militato in passato nel LAOS. In questo senso, se si esclude il PASOK che ormai pare relegato a un ruolo secondario nello scenario politico greco, sembra che si siano ricostituiti i tradizionali poli della politica ellenica.

 

Immagine: Kyriakos Mitsotakis (28 ottobre 2016). Crediti: Giannis Papanikos / Shutterstock.com

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L’incendio di Gaza nell’inferno mediorientale

“Niente si crea e niente si distrugge. Tutto si trasforma”.
In natura come in geopolitica.
Da quasi due anni, i venti della primavera araba che soffiano impetuosi sullo strategico scacchiere del “grande Medio Oriente” hanno spazzato via vecchi regimi e determinato l’ascesa di nuovi attori politici, messo in crisi granitiche dinastie e fatto esplodere tutte le contraddizioni che animano la regione più instabile del globo.
Nel cuore pulsante di questa composita ed eterogenea “macroarea geopolitica” che va da Rabat fino ad Islamabad, puntuale come un orologio tristemente tarato sulle scadenze elettorali nella terra di re Davide, è tornato ad infiammarsi da qualche giorno il fronte israelo-palestinese.
Le ricostruzioni cronachistiche fanno partire l’escalation della tensione dal 14 novembre, quando un razzo israeliano ha colpito a Gaza City l’autovettura di Ahmed Jabari provocandone la morte. Jabari era il leader carismatico delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas; e la sua notorietà era cresciuta esponenzialmente nel 2006, dopo che aveva escogitato il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit e negoziato il suo rilascio, ottenendo in cambio la liberazione di 1000 militanti palestinesi detenuti nelle carceri di Israele.
Con la sua uccisione, le forze israeliane hanno dato il via all’Operazione “Pilastro di Difesa”, in risposta al lancio di razzi che nelle ultime settimane da Gaza avevano raggiunto il Sud di Israele.
La controreplica palestinese non si è fatta attendere, i miliziani hanno puntato i loro razzi su Tel Aviv e direzionato la loro minaccia anche verso Gerusalemme.
I raid aerei israeliani sulla Striscia sono dal canto loro proseguiti drammaticamente,e il numero delle vittime ha superato le 150 unità. Il Primo ministro israeliano  Benjamin Netanyahu ha anche brandito la minaccia di un attacco via terra, che per ora non si è fortunatamente verificato.
Questa in sintesi la situazione, fino all’accordo sul cessate il fuoco raggiunto il 21 novembre.
Decontestualizzare l’ennesima crisi israelo-palestinese isolandola da quanto sta accadendo nel “grande Medio Oriente” rischierebbe tuttavia di far evaporare la dimensione macrogeopolitica del conflitto e dunque di offrirci una visione parziale della vicenda.
Già su quel 14 novembre c’è molto da discutere. Stratfor, agenzia americana di intelligence ed analisi geopolitica, suggerisce infatti di ampliare notevolmente il raggio temporale della ricostruzione degli eventi e retrodatare al 23 ottobre l’avvio dell’iniziativa israeliana.
Nella tarda serata di quel giorno, la fabbrica di armi “Yarmouk” situata nella capitale del Sudan Khartoum fu improvvisamente attaccata. Responsabili dell’operazione molto probabilmente le forze aree israeliane, persuase del fatto che lì fossero assemblati i razzi iraniani Fajr-5, capaci di colpire Gerusalemme e Tel Aviv se lanciati da Gaza.
Ritorna dunque in gioco l’incubo numero uno di Netanyahu, quell’Iran contro il quale Israele avrebbe già pronto un piano d’attacco, che rimane però ancora in sospeso per l’opposizione del fedele alleato statunitense e del suo presidente rieletto Barack Obama.
Teheran ha inizialmente negato di aver fornito Fajr-5 ai miliziani palestinesi, ma alcuni dei razzi lanciati contro Tel Aviv e Gerusalemme sono proprio Fajr-5 di fabbricazione iraniana. L’ammissione è poi arrivata dal presidente del Parlamento iraniano, che ha riconosciuto il contributo “materiale e militare”  ad Hamas ed ha aggiunto di essere onorato del sostegno che il suo Paese sta offrendo alla causa della Palestina.
Il mosaico si arricchisce così di diverse tessere che aiutano a comporre un quadro sempre più complesso. L’obiettivo di Israele è quello di smantellare l’apparato missilistico presente nella Striscia di Gaza, mentre l’Iran si accredita come difensore della causa palestinese e nel frattempo lascia intendere a Netanyahu che in caso di offensiva contro Teheran, sia da Gaza – dove operano gruppi filo-iraniani molto più pericolosi di Hamas, come ha ricordato in un suo editoriale Lucio Caracciolo – che dal Libano, dove è attivo Hezbollah, partirebbe una prima importante risposta.
Il primo Ministro israeliano, a pochi mesi dalle prossime elezioni, mostra i muscoli facendo trasparire che chiunque minacci Israele è destinato a soccombere, ottenendo così un ritorno d’immagine fra l’opinione pubblica nazionale che si traduce in consensi elettorali; mentre a Teheran Aḥmadīnizhād  può respirare vedendo gli occhi di Netanyahu puntati per un po’ su Gaza piuttosto che sugli eredi dell’antico impero persiano e sul loro programma nucleare.
Senza dimenticare poi, come sempre Stratfor evidenzia, che le tensioni nella Striscia hanno in parte distolto l’attenzione dalla Siria, dove imperversa la guerra civile e Bashar Assad continua la sua lotta per reprimere la ribellione e riconquistare stabilmente il potere politico.
Esattamente quello che spera l’Iran ma che, secondo l’attivista siriano Massoud Akko, tutto sommato non dispiacerebbe neanche ad Israele, che con Assad ha imparato a coesistere.
Durante le ostilità, gli Usa e il presidente Obama hanno sostenuto il diritto di Israele all’autodifesa, ma l’inquilino della Casa Bianca ha altresì sottolineato la necessità di evitare ulteriori escalation.
Il gigante geopolitico a stelle e strisce ha subito invitato l’Egitto del nuovo presidente Mohammed Mursi riesca a mediare fra le posizioni dei contendenti – Obama ha sentito anche il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan affinché si giunga a una rapida soluzione del conflitto.
Dai tempi dell’incidente della Freedom flotilla e della Mavi Marmara, battente bandiera turca e destinata proprio a Gaza, i rapporti fra Israele e Turchia sono tuttavia molto più freddi rispetto al passato; mentre sul fronte egiziano Mursi è costretto a destreggiarsi fra l’esigenza del cessate il fuoco e le pressioni di chi lo invita a rompere con Israele, essendo Hamas nata proprio dalla Fratellanza musulmana a cui il presidente dell’Egitto appartiene.
E’ dunque toccato in primis a Morsi, ma anche al Segretario di Stato americano Hillary Clinton giunta al Cairo, il compito di trovare una soluzione che portasse all’immediata interruzione del conflitto. Lavoro non semplice soprattutto per il presidente egiziano,  costretto a destreggiarsi fra l’esigenza del cessate il fuoco e le pressioni di chi lo sollecitava a rompere con Israele, essendo Hamas nata proprio dalla fratellanza musulmana a cui il presidente dell’Egitto appartiene.
E’ questo un pericolo su cui le diplomazie internazionali sono chiamate a riflettere per correre immediatamente ai ripari. Gli analisti Hussein Ibish e Meir Javendafar hanno rilevato come proprio Morsi sia stato estremamente risoluto nel distruggere alcuni dei tunnel sotterranei che collegano la Striscia di Gaza all’Egitto, ma se le tensioni nella Striscia dovessero continuare a ribollire e Israele decidesse di lasciarsi andare in futuro alla tentazione di un attacco via terra, Morsi potrebbe cedere alle sirene di chi lo esorta a chiudere qualsiasi canale con Israele e a sostenere i fratelli di Hamas, pur consapevole della travolgente forza di Tsahal, l’esercito israeliano.
Gli scenari si colorirebbero di tinte fosche e il dramma assumerebbe contorni spaventosi, perché se venisse meno l’architrave degli Accordi di Camp David si sgretolerebbe anche l’ultimo fondamento del debole pseudo-equilibrio vigente in Medio Oriente.
L’accordo sul cessate il fuoco è stato intanto raggiunto, segnando un punto a favore delle capacità di mediazione del nuovo Egitto dei Fratelli musulmani, che sarà centrale nel processo di stabilizzazione regionale. Secondo il testo divulgato, Israele s’impegna a cessare qualsiasi attacco militare contro Gaza, compresi gli omicidi mirati; mentre la controparte palestinese ha acconsentito a terminare il lancio di razzi da Gaza verso lo Stato ebraico e gli attacchi lungo il confine. Si precisa inoltre che saranno riaperti a 24 ore dall’accordo (il cessate il fuoco è scattato alle 21 locali del 21 novembre) i valichi della Striscia, ma non si precisa se il riferimento riguardi solo quelli con l’Egitto o anche quelli con Israele.
Considerando che le parti mediavano proprio mentre Hamas si congratulava con gli esecutori di un attentato contro un bus a Tel Aviv, il lancio dei razzi palestinesi alla volta di Israele proseguiva e i raid israeliani verso Gaza andavano avanti, la tregua è comunque un risultato degno di sottolineatura.
Alla notizia del cessate il fuoco i palestinesi si sono riversati in strada esultando al grido di “Allah e grande”, mentre Hamas ha proclamato la “giornata della vittoria”.
Ora bisognerà vedere quanto la tregua durerà.
Molti analisti paragonano gli eventi di questi giorni a quanto accadde quattro anni fa, quando Israele intraprese l’operazione “Piombo fuso”.
Le analogie sono numerose: anche allora si era appena votato negli Stati Uniti, e il Parlamento israeliano sarebbe stato rinnovato di lì a poco, esattamente come oggi.
Solo che la Primavera araba ha reso il fronte ulteriormente instabile, e cambiato gli interlocutori con i quali Israele è chiamato a confrontarsi.
Gli equilibri, o meglio gli squilibri, con il tempo possono cambiare.
Perché in geopolitica, come in natura, niente si crea e niente si distrugge, ma tutto si trasforma.

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L’enigma Siria

“Come la Siria ha rovinato la primavera araba”: è il titolo di un interessante articolo di Marc Lynch pubblicato su Foreign Policy lo scorso 3 maggio, in cui la ribellione siriana viene analizzata in prospettiva comparata accanto ai tre casi più emblematici di rivoluzioni almeno apparentemente riuscite: quella tunisina, quella egiziana e quella libica. I tre fronti nordafricani delle ribellioni arabe - che ribattezziamo al plurale evitando la tanto generalizzante quanto diafana e fin troppo romantica etichettatura al singolare di “primavera” – hanno un tratto distintivo comune, pur nella loro articolata eterogeneità che tende a sfuggire a catalogazioni totalizzanti e frettolose: hanno avuto il loro picco ascendente nella cacciata, talvolta più rapida e talaltra assai più difficile e cruenta, dello storico monarca travestito da presidente o del padrone del paese che si presentava solo come “leader” di una ultraquarantennale rivoluzione. A Damasco, quel picco non è ancora stato toccato, e ad oggi non è possibile prevedere se mai sarà raggiunto. Sono trascorsi oltre due anni dalla simbolica data di inizio delle proteste siriane, da quel 15 marzo del 2011 in cui la piazza ha cominciato a contestare con forza il potere autoritario, ricevendo come risposta millantate promesse di riforma del sistema, sperticate lodi per il valoroso popolo che resisteva ai complotti di stranieri e terroristi, e una buona dose di violenza e repressione da parte del regime alawita guidato da Bashar al-Assad. In 26 mesi si è assistito alla progressiva e prevedibile metamorfosi involutiva della protesta in guerra civile, in un inestricabile coacervo di rivalità settarie, religiose e sociopolitiche che potrebbero ben presto portare – se non l’hanno già fatto - la Siria al punto di non ritorno. Oramai nulla sembra più fare notizia nei confini di questa terra incastonata nel cuore del Medio oriente e al centro di macroequilibri geopolitici regionali e globali, e quando le notizie giungono si pone il problema della loro attendibilità, fra emittenti all news del Golfo che supportano apertamente la fazione dei ribelli ed agenzie e TV di Stato che imputano qualsiasi malefatta agli onnipresenti ed eterodiretti terroristi. A farne le spese, oltre alla verità su di un conflitto in cui anche l’informazione sta diventando un’arma di guerra, sono state finora oltre 70.000 persone, decine di migliaia di civili inermi finiti sotto le bombe e piccoli innocenti le cui drammatiche condizioni sono state descritte nel rapporto “Bambini sotto tiro” presentato da “Save the Children” lo scorso marzo, malnutriti, esposti a malattie legate alle pessime condizioni igieniche ed usati come scudi umani, trascurando il fatto che oltre 200.000 di loro non vanno più a scuola.

I periodici incontri internazionali per discutere della situazione e qualche evento sul fronte consentono di puntare di volta in volta i riflettori sulla grande partita geopolitica in corso in Siria. Agli inizi del mese di maggio Israele ha compiuto due raid in territorio siriano, uno dei quali avrebbe colpito il centro di ricerca militare di Jamraya vicino a Damasco, suscitando la reazione del regime di Assad che si è detto pronto a rispondere a quelle che possono essere considerate a tutti gli effetti dichiarazioni di guerra. Nel corso di questi due anni, gli analisti politici hanno più volte osservato come Gerusalemme sia stata piuttosto cauta nel prendere posizione sulla questione siriana, sintomo di una neanche tanto celata preferenza per un regime odioso ma forse meno pericoloso per lo Stato ebraico delle imperscrutabili prospettive del post-Assad, che rischierebbero di consegnare al Medio oriente un Paese dilaniato dalle lotte interne per il potere e in cui islamisti e formazioni jihadiste potrebbero anche avere il sopravvento. Né pare d’altro canto che il regime alawita abbia la forza per reagire a qualsiasi presunta offensiva di Gerusalemme, al di là del relativamente preoccupante annuncio del “semaforo verde” concesso a gruppi di militanti palestinesi in Siria per preparare i missili e organizzare una rappresaglia contro Israele. L’azione intrapresa dallo Stato ebraico è stata condannata da più parti e Recep Tayyp Erdogan - premier di una Turchia grande sponsor dei rivoltosi - ha parlato di “intervento inaccettabile e privo di qualsiasi razionalità, che offre su un piatto d’argento ad Assad e al suo regime illegittimo un pretesto per nascondere il genocidio commesso a Banias”, in cui sono morte oltre 100 persone. Appare tuttavia chiaro che non è Damasco il vero obiettivo di Gerusalemme, quanto piuttosto ciò che Damasco custodisce in termini di arsenali destinati alla minaccia libanese chiamata Hezbollah, fedele alleato del grande nemico regionale israeliano, l’Iran. La priorità di Israele è dunque che quei missili non finiscano in mani considerate pericolosissime dagli eredi della stirpe di Davide.

Sul piano internazionale, sotto un profilo che coinvolge particolarmente anche l’opinione pubblica, il tema che più volte è stato affrontato negli ultimi tempi riguarda il presunto utilizzo di armi chimiche da parte del regime di Assad. Alcuni scioccanti video hanno mostrato addirittura le vittime causate dall’uso di questi drammatici strumenti di guerra, circostanza che rappresenterebbe l’attraversamento della famosa “linea rossa” di cui il presidente americano Obama ha parlato e che porterebbe gli Stati Uniti a riesaminare le opzioni sul tavolo. Rimane la spinosa questione delle prove, che nelle parole dell’attuale inquilino della Casa Bianca – a differenza di qualche suo recente predecessore – sono un aspetto tutt’altro che secondario, e dopo quanto detto da Carla Del Ponte sul presunto utilizzo di gas nervino da parte dei ribelli nel corso del conflitto, tutto si è fatto più complicato; tanto che la stessa Commissione indipendente d’inchiesta sulla Siria di cui la Del Ponte è componente ha ufficialmente smentito di disporre di prove certe sull’uso di armi chimiche da parte di entrambe le fazioni impegnate nello scontro.

Agli Usa è stata imputata un’assenza di strategia sulla questione siriana, ma ciò che sembra trasparire è piuttosto l’intenzione di non volere un coinvolgimento eccessivo sul fronte, essendo ancora vivo nella memoria e nelle casse dello Stato americano l’enorme impiego di risorse umane economiche nei conflitti in Afghanistan e in Iraq. Nonostante il più volte citato slittamento del baricentro geopolitico globale verso il Pacifico, i viaggi del Segretario di Stato John Kerry e dello stesso presidente in Medio oriente paiono testimoniare che Washington non intende disimpegnarsi completamente dal caldo scacchiere, animato peraltro dalla pluridecennale questione israelo-palestinese su cui Obama vorrebbe lasciare nel suo secondo e ultimo mandato una storica impronta.

In tale prospettiva, l’8 maggio Kerry ha incontrato a Roma il ministro israeliano della Giustizia Tzipi Livni, capo negoziatore per lo Stato ebraico con la controparte palestinese, ma nel colloquio è stata sicuramente affrontata anche la questione siriana su cui il Segretario di Stato Usa ha avuto pochi giorni fa un importante confronto con il suo omologo russo Sergej Lavrov.

Russia e Stati Uniti hanno annunciato la volontà di convocare – possibilmente entro la fine di maggio – una conferenza internazionale per porre fine al bagno di sangue. L’inviato speciale per l’Onu e la Lega araba Lakhdar Brahimi ha parlato di un “primo significativo passo avanti”, ribadendo però subito dopo con laconico realismo che si tratta solo di “un primo passo”. L’obiettivo è presumibilmente quello di recuperare i punti salienti fissati nell’incontro di Ginevra del giugno 2012, per far tacere le armi e avviare la transizione, ma la strada verso la tanto auspicata soluzione politica appare molto accidentata. Un’intesa fra un dittatore sanguinario che identifica come “terroristi” tutti i suoi oppositori e un fronte ribelle che ha spesso posto come condizione per aprire il dialogo la rimozione di Assad e della sua cerchia, si profila difficile. I nodi restano dunque tutti da sciogliere, le forze lealiste continuano a mietere vittime sostenendo il regime e i rivoltosi a sferrare le loro offensive in una struttura molto più composita di quanto si immagini, che annovera anche gruppi jihadisti e quaidisti – come Jabhat al-Nusra - che non lasciano tranquillo l’Occidente. I morti aumentano, il contatore dei rifugiati presente sul sito dell’Unhcr ogni giorno avanza e ha superato la cifra di 1,4 milioni, e persino lo splendido minareto della moschea degli Omayyadi nella città vecchia di Aleppo patrimonio Unesco non è stato risparmiato. Inoltre, del giornalista e nostro connazionale Domenico Quirico continua a non sapersi nulla.

Può darsi che la Siria, come ha scritto Marc Lynch, abbia rovinato la primavera araba. O forse, ci ha mostrato una delle sue possibili evoluzioni che noi occidentali, con una certa sufficienza, non avevamo preventivato.

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L’eclissi tunisina

Un fondo nero su cui campeggia la bandiera della Tunisia, rossa con al centro un cerchio bianco, all’interno del quale sono inscritti due simboli ricorrenti nei vessilli dei Paesi di religione islamica: la mezzaluna e una stella. Su quel cerchio – simbolo secondo le diverse interpretazioni della pace o del Sole – inizia tuttavia a sovrapporsi, fino a fare ombra, un altro disco bianco, quello riprodotto sulla bandiera dell’autoproclamato Stato islamico del califfo Abu-Bakr al-Baghdadi.

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L'asse Mosca-Damasco nella "primavera siriana"

In Siria si continua a sparare. E a morire.

La guerra civile imperversa da più di un anno nella propaggine orientale del sempre più indecifrabile tumulto ribattezzato con il nome di primavera araba, ma una vera soluzione della crisi sembra ancora lontana.
Il 10 aprile, data della scadenza dell’ultimatum sul “cessate il fuoco” lanciato dall’Inviato Speciale per l’Onu e la Lega Araba Kofi Annan al presidente Assad, il Ministro degli Esteri siriano Walid al-Moualem ha confermato ai giornalisti che la Siria si impegnerà a garantire il rispetto del piano per la pace approntato dall’ex-segretario generale delle Nazioni Unite, aggiungendo che il governo centrale di Damasco ha già ordinato il ritiro dei soldati da alcune città. Al-Moualem ha parlato alla stampa da Mosca, in una conferenza congiunta con il suo omologo russo Sergej Lavrov. Questi ha invitato Damasco a procedere attivamente all’implementazione del “piano Annan”, ma si è anche rivolto ai ribelli affinché siano interrotti i combattimenti e ha sollecitato gli Stati Uniti e gli altri Paesi “in contatto con le forze siriane di opposizione” a “smetterla di addossare responsabilità su Russia e Cina (per il loro comportamento in Consiglio di Sicurezza Onu, ndr) e attivarsi per porre fine allo spargimento di sangue”.
Pochi giorni prima della sua terza elezione come Presidente della Federazione russa, Putin ha negato che i due veti opposti dalla Russia in Consiglio di Sicurezza Onu sulle risoluzioni relative alla crisi siriana siano imputabili a legami speciali fra Mosca e Damasco. “Il nostro unico interesse è che il conflitto sia risolto” ha sostenuto Putin, sottolineando come fosse “compito dei siriani decidere da chi essere governati”. Le parole dell’autocrate russo rivelano una parte della verità: il Cremlino è effettivamente interessato alla cessazione delle ostilità. Il gioco geopolitico medio-orientale, intricato di per sé ed ulteriormente complicato dai fermenti della “primavera araba”, vede molto attenta una Russia non lontana dalla regione degli scontri ed il cui “estero vicino” confina con il cuore pulsante delle tensioni. La domanda di una maggiore apertura e di un più marcato pluralismo politico partita dal Maghreb e propagatasi ad Est, contiene “germi” dai quali il Cremlino non si è completamente immunizzato e Mosca intende preservare se stessa e la sua sfera d’influenza da qualsiasi rischio di contagio. Ricondurre all’interno del medesimo fenomeno politico di massa il ribollire della protesta nei Paesi percorsi dalla “primavera araba” e le manifestazioni antigovernative tenutesi in Russia appare un azzardo, ma il Cremlino non vuole sottovalutare le possibili ripercussioni interne di un “effetto domino” che sarebbe poi assai difficile controllare e declina conseguentemente la propria geostrategia.
L’eventuale rovesciamento del regime di Assad genererebbe un terremoto geopolitico che spaventa Mosca, indipendentemente dalle evoluzioni del processo di stabilizzazione. La vittoria di una coalizione ispirata ai valori della democrazia occidentale – oggi difficilmente ipotizzabile – rischierebbe di attivare fermenti democratici nella regione medio-orientale fino a lambire l’“estero vicino” russo e la Russia stessa, con effetti poco graditi al grande egemone dell’area ex-sovietica.
Gli strateghi del Cremlino considerano tuttavia questo scenario abbastanza improbabile. Come ha ben ricordato il prof. Mark Katz - studioso dei rapporti fra Russia e Medio Oriente - a Mosca sono sempre più persuasi del “grande equivoco” della rivoluzione siriana e dell’incapacità dell’Occidente di comprendere la ribellione regionale, che sarebbe assai lontana dai principi della democrazia propalati dalla retorica politica occidentale. Se Assad fosse deposto, è tutt’altro che escludibile che a Damasco prendano il sopravvento forze vicine all’Islam radicale, ostili all’Occidente ma anche antirusse ed in grado di destabilizzare il Caucaso del Nord russo, dove sono presenti alcune cellule del fondamentalismo islamico.
Spostando la lente d’ingrandimento sui rapporti bilaterali, la Russia di Putin ha concluso importanti affari con la Siria di Assad: Mosca ha rifornito Damasco di armi per un valore fra i 5 e i 6 miliardi di dollari, diverse compagnie russe sono coinvolte in progetti energetici ed estraggono petrolio nello Stato siriano e l’unica base navale russa nel Mar Mediterraneo è situata proprio in Siria, nel porto di Tartus. Mosca ha dunque trovato in Assad un interlocutore affidabile e molto redditizio, che ha tutto l’interesse a conservare nonostante la promessa dei ribelli di mantenere buone relazioni con la Russia una volta vinta la guerra.
Proiettando invece la questione siriana nella prospettiva degli equilibri geopolitici medio-orientali, il crollo del regime alawita (una minoranza della corrente sciita dell’Islam) di Assad porterebbe ragionevolmente la maggioranza sunnita al potere, ridisegnando le alleanze nella regione ed isolando l’Iran sciita, che con Mosca e Damasco ha un rapporto privilegiato. La diplomazia russa si sta dunque muovendo in una crisalide di trame geopolitiche in cui potrebbe rimanere avviluppata: da un lato difende lo status quo vigente in Siria prima della guerra (è questo il vero obiettivo di Mosca, più che la semplice difesa di Assad) e dunque evita l’isolamento di un Iran fondamentale per gli interessi geostrategici e geoenergetici russi, dall’altro entra in contrasto con il resto del mondo arabo che vedrebbe di buon occhio una caduta di Assad.
Partendo dal presupposto che il “piano Annan” difficilmente funzionerà, il conflitto rischia così di cadere in una drammatica impasse in cui Russia e Cina continueranno a chiedere di fermare le violenze senza particolare convinzione, l’Occidente tuonerà contro il dittatore evitando un coinvolgimento diretto nel teatro di guerra e la stessa Israele si muoverà con i piedi di piombo, preoccupata che il post-Assad sia molto peggio di Assad.

E in Siria si continuerà a sparare. E a morire.

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L’ascesa dell’AfD e i timori della Merkel

Una assunzione di responsabilità per la sconfitta, legata tanto a fattori locali quanto a un’innegabile dinamica nazionale di grande rilevanza. Una presa di posizione dovuta, sia come cancelliera che come presidente del partito della CDU, ma anche il formale riconoscimento di una tendenza che si è andata progressivamente radicando e potrebbe rimodulare il funzionamento dell’intero sistema politico tedesco. Infine, una riflessione che lascia trasparire accanto alla delusione una forte amarezza: ‘Se potessi, tornerei indietro di molti anni così da essere più pronta, assieme a tutto il governo e a chi occupa posizioni di responsabilità, per affrontare una situazione che ci ha colti impreparati nell’estate del 2015’. Se non una resa, quanto meno un riposizionamento abbastanza netto rispetto a quel ‘Wir schaffen das’ – ‘Ce la faremo’ – con cui Angela Merkel decise l’anno scorso, nel pieno della drammatica crisi migratoria, di cogliere la sfida dell’integrazione. Fu quella una scelta rischiosa e coraggiosa, che per mesi la cancelliera – convinta di essere ‘dalla parte giusta della storia’ – ha strenuamente difeso; una decisione che, come scrisse il Time giudicandola ‘Personalità dell’anno’, ‘poteva riscattare l’Europa e anche metterla in pericolo, testando l’effettiva capacità di resistenza di un’alleanza nata proprio per evitare che si ripetesse quella violenza che sta consumando il Medio Oriente’.

Il 2016 si è rivelato un anno elettoralmente difficile per il partito della cancelliera, e anche se oggi l’analisi del voto è prevalentemente concentrata su Berlino, gli esiti delle consultazioni nella capitale hanno rappresentato solo l’ultimo di una serie di risultati poco brillanti. Nel mese di marzo, quando si sono tenute le elezioni in tre länder, la CDU è stata prima forza politica soltanto in Sassonia-Anhalt – dove pure ha perso quasi tre punti percentuali rispetto al voto del 2011 – mentre in Renania Palatinato e Baden Württemberg sono stati rispettivamente i socialdemocratici della SPD e i Verdi ad aggiudicarsi il maggior numero di voti. Il dato di maggior peso politico è stato tuttavia la decisa affermazione di Alternative für Deutschland (AfD), soggetto politico nato nel 2013 e guidato oggi, su posizioni marcatamente riconducibili al populismo di destra, da Frauke Petry. Facendo leva sulla diffusa insoddisfazione verso la ‘politica delle porte aperte’, il nuovo partito è riuscito a trasformare il malcontento popolare in un cospicuo bagaglio di voti: così, AfD è risultato il terzo partito in Renania Palatinato (12,6%) e Baden Württemberg (15,1%), mentre in Sassonia-Anhalt è riuscito addirittura a surclassare sia la SPD che la sinistra rappresentata dalla Linke, aggiudicandosi il 24,2% dei consensi e spingendo la CDU a una coalizione aperta ai socialdemocratici e ai Verdi, nella logica di una sostanziale conventio ad excludendum. Nonostante il campanello d’allarme, la Merkel decideva di rimanere ben salda sulle sue posizioni in materia di accoglienza, ribadendo che Berlino avrebbe continuato a perseguire la sua strategia tanto entro i confini tedeschi quanto a livello internazionale.

Nel frattempo, galvanizzato dai risultati elettorali che segnalavano un’importante crescita dei consensi, AfD si riuniva in congresso a Stoccarda il 30 aprile e il primo maggio, duramente contestato dai dimostranti di sinistra che intonavano slogan di protesta per ‘tenere in Germania i rifugiati e cacciare via i nazisti’.

‘Siamo liberali e conservatori. Siamo cittadini liberi nella nostra terra. Siamo convinti democratici’: sono queste le prime parole – introdotte dall’emblematica premessa ‘Siamo cittadini, non sudditi’ – del documento programmatico redatto dal partito alla fine dei lavori, sulla base di una piattaforma dichiaratamente euroscettica, favorevole al pieno ripristino della sovranità nazionale nell’‘Europa delle patrie’ contro il progetto degli ‘Stati Uniti d’Europa’ e orientata alla difesa dell’identità culturale tedesca, in chiara contrapposizione al multiculturalismo. Quanto all’islam poi, esso semplicemente non appartiene alla Germania. Dunque una forza di ultra-destra? Jörg Meuthen, leader del partito insieme alla Petry, preferisce appellarsi all’idea di un ‘conservatorismo moderno’ unito a un ‘sano patriottismo’, e anzi – proprio per respingere le accuse di estremismo – il congresso ha deciso di approvare lo scioglimento della sezione del Saarland per sospetti legami con gruppi neonazisti. AfD è comunque oggi una realtà parzialmente diversa da quella fondata nel 2013 da Bernd Lucke, uscito dal partito nel 2015 dopo lo scontro al vertice con Frauke Petry: pur permanendo infatti il richiamo alle radici anti-Euro che furono alla base della nascita della forza politica, sono le posizioni radicali in campo sociale e sul tema dell’immigrazione che sembrano prevalere in questa fase, anche in virtù della loro innegabile capacità di presa sulla collettività.

L’ascesa di Alternative für Deutschland è stata confermata nell’appuntamento elettorale del 4 settembre in Meclemburgo-Pomerania, il land in cui viene eletta la cancelliera Merkel: qui, in una terra interessata molto marginalmente dal copioso flusso di migranti, AfD è riuscita a conquistare il 20,8% dei voti e a superare ancora una volta la CDU, cedendo il passo solamente alla SPD. Nella cosmopolita Berlino poi, nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento regionale il 18 settembre, la nuova forza politica si è aggiudicata il 14,2% dei consensi, pur restando dietro sia ai due maggiori partiti comunque in evidente calo (21,6% per la SPD e 17,6% per la CDU), che alla Linke (15,6%) e ai Verdi (15,2%).

I risultati della capitale – dove il governo della locale Große koalition SPD-CDU non ha lasciato il segno – assumono inoltre particolare interesse guardando la geografia elettorale e la distribuzione del consenso: seguendo quello che era il tracciato del muro simbolo della Guerra fredda, si può infatti osservare che nei quartieri della vecchia Berlino Ovest resistono i partiti tradizionali, con la SPD e la CDU a contendersi il primato, mentre a Berlino Est si alternano spesso al primo posto AfD e la sinistra radicale della Linke, a segnalare una città ancora divisa secondo logiche non del tutto superate.  

Adesso gli occhi sono puntati sulle elezioni federali del 2017, dove AfD aspira a conquistare una sua rilevante rappresentanza parlamentare. Il voto regionale consente comunque di evidenziare alcune tendenze: innanzitutto, come ha osservato il professor Cas Mudde sull’Huffington Post, la Germania sembra orientata verso un più pronunciato multipartitismo, in virtù di un elettorato più frammentato che si distribuisce – con percentuali non trascurabili – su più partiti. Ciò che emerge poi è la generalizzata crisi dei partiti che hanno dominato la scena politica tedesca, a fronte invece di una evidente ascesa di AfD, forte della sua capacità di attrarre un consenso che va dai giovani, all’area del ‘non-voto’ fino ai delusi dei partiti tradizionali. In questo senso – ha osservato Sebastian Fischer in un suo articolo per Der Spiegel – la sfida che AfD lancia ‘a destra’ della Merkel presenta alcune significative similitudini con quella che a metà degli anni Duemila dovette affrontare Gerhard Schröder, a fronte della formazione di un blocco ‘a sinistra’ della SPD che contestava i tagli al welfare operati del cancelliere. Per recuperare terreno, la Merkel – che non ha ancora chiarito ufficialmente se si ricandiderà o meno – dovrà dunque cercare in questi mesi di correre ai ripari, e la marcia indietro rispetto al mantra del ‘Ce la faremo’ – peraltro tutt’altro che sgradita al partito ‘gemello’ della CDU in Baviera, la CSU – pare inquadrabile in tale prospettiva. Chi comunque aveva profetizzato una rapida scomparsa del fenomeno AfD con la fine dell’emergenza migranti, probabilmente dovrà ricredersi. Anche perché l’emergenza migranti pare tutt’altro che prossima alla fine.

 

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L’Iran di Rohani

Intervista ad Arshin Adib-Moghaddam

Arshin Adib-Moghaddam è Reader in Comparative politics e International relations presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra e Chair del Centre for Iranian Studies. I suoi lavori spaziano dal campo delle relazioni internazionali, a quello degli studi sul Medio Oriente, alla politica comparata, agli studi post-coloniali, alla storiografia. Fra le sue opere: “A Metahistory of the Clash of Civilisations: Us and them beyond Orientalism”, “The International Politics of the Persian Gulf: A cultural genealogy”,  Iran in World Politics: The question of the Islamic Republic” e  “On the Arab Revolts and the Iranian Revolution: Power and Resistance Today”.

 

“Una vittoria dell’intelligenza, della moderazione e del progresso sull’estremismo” secondo il neoeletto presidente Hassan Rohani e “le elezioni più democratiche del mondo” per uno dei suoi più illustri predecessori, Hashemi Rafsanjani, che dopo l’esclusione dalla competizione presidenziale decretata dal Consiglio dei Guardiani è diventato sostenitore d’eccezione dello stesso Rohani. Dalle loro dichiarazioni si percepisce nitidamente l’entusiasmo che imperversa nel fronte moderato-riformista per la vittoria contro quello conservatore, che ha pagato a caro prezzo la frammentazione del voto sui suoi quattro candidati; mentre gli analisti politici sono già impegnati a cercare di spiegare cosa cambierà in Iran con il nuovo presidente eletto il 14 giugno. In una inestricabile tela che vede intrecciarsi politica interna e politica estera, dalla delicata situazione economica alla spinosa questione del programma nucleare fino al ruolo giocato da Teheran nel conflitto civile siriano, i grandi nodi della geopolitica iraniana appaiono ancora tutti da decifrare. Per cercare di capire verso quale direzione potrebbe muoversi l’Iran sotto la presidenza di Rohani, abbiamo parlato con Arshin Adib-Moghaddam, uno dei più importanti studiosi della politica del Paese.

 

Professor Adib-Moghaddam, dopo otto anni di presidenza Ahmadinejad e senza il sostegno della Guida Suprema Ayatollah Khamenei, il candidato moderato-riformista Hassan Rohani è stato eletto presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Perché gli iraniani hanno puntato su di lui e che cosa si aspettano dal nuovo presidente?

In linea di principio, la Guida Suprema Ayatollah Khamenei non ha esplicitamente sostenuto alcun candidato, ma è stato piuttosto attento a mantenere l’imparzialità che il mandato costituzionale gli impone. Rohani è stato eletto conseguendo una vittoria elettorale notevole e sorprendente perché gli iraniani desiderano stabilità in politica interna, un miglioramento delle relazioni con l’Unione europea e gli Stati Uniti, graduali e attente riforme del sistema politico iraniano e una migliore situazione economica. Rohani è un politico navigato e di lungo corso e ha la mentalità del riformista, ed è questo che gli è valso il consenso tributatogli.

 

  La fase precedente alle elezioni è stata caratterizzata da eventi rilevanti: l’ex presidente Hashemi Rafsanjani, considerato il candidato più importante del fronte moderato-riformista, è stato escluso dalla competizione, alcuni sostenitori di Rohani sono stati arrestati, successivamente il candidato riformista Mohammad Reza Aref ha deciso di ritirare la propria candidatura per sostenere Rohani. Quanto questi elementi hanno inciso nella vittoria elettorale del neo-eletto presidente?

La strategia riformista di sostenere Rohani è stata cruciale perché ha evitato la parcellizzazione del voto. L’ex presidente Khatami è stato in cabina di regia per garantire gli esiti positivi di questa operazione e Aref ha operato una scelta giusta e che gli fa onore. Al contrario, il voto conservatore si è frammentato su quattro candidati. Questo rivela il carattere dinamico della politica iraniana, tanto a destra quanto a sinistra, per quanto limitato sia lo spazio politico del Paese. È quello che ho definito “slancio pluralistico” nel mio Iran in World Politics: The question of the Islamic Republic, che studia l’Iran in prospettiva critica.

 

L’Iran è noto in Occidente per le questioni concernenti il suo programma nucleare e la sua dialettica con gli Usa e Israele, ma focalizzando l’attenzione su ciò che accade all’interno del Paese, l’FMI ha stimato una contrazione dello 0,9% del PIL reale per il 2012. Rohani ha duramente criticato la politica economica di Ahmadinejad e intende riportare l’Iran a crescere. Rohani ha vinto le elezioni sulla politica interna?

In Iran come altrove, politica interna e politica estera sono strettamente collegate. Nel Paese, l’insoddisfazione verso Ahmadinejad è profonda; il presidente uscente abbandona la scena politica come una delle figure più impopolari della storia iraniana. Rohani è la persona giusta al momento giusto e ha tratto beneficio dalla cattiva amministrazione e dall’assoluta indifferenza per la diplomazia mostrata da Ahmadinejad. Gli iraniani s’intendono di politica, sono assai istruiti, hanno stretto solidi legami con l’esterno e sono inseriti in una cultura globale della comunicazione. È la loro richiesta di cambiamenti graduali in politica interna e nelle relazioni internazionali del Paese ad aver portato Rohani al potere. Ciò che colpisce è che, per gli iraniani, il sistema politico è al tempo stesso valido e pienamente responsabile nei loro confronti sotto il profilo della accountability; altrimenti non si spiegherebbe una partecipazione così massiccia alle elezioni (oltre il 72%, ndr). Nessuno voleva il tipo di politica adottato da Ahmadinejad, e il voto espresso è stato una forma di resistenza allo status quo. La maggior parte degli iraniani vuole cambiamenti graduali e misurati, ma vuole anche un sistema più riflessivo e conciliante. Ho effettuato un’indagine sulle diverse forme di potere e di resistenza ad esso in prospettiva comparata nel mio lavoro On the Arab revolts and the Iranian revolution, in corso di pubblicazione, un lavoro che analizza gli importanti cambiamenti regionali dopo la cosiddetta “primavera araba” e contestualizza gli eventi nello scenario globale. Lo studio rivela che l’Iran è in uno stato post-rivoluzionario e, dal 1979, non si è mai realmente trovato in uno stato pre-rivoluzionario. Gli iraniani chiedono riforme, ma all’interno del sistema, ed è quanto mi aspetto avvenga con Rohani.

 

Rohani è anche uno dei maggiori esperti sul nucleare, essendo stato capo negoziatore nel periodo 2003-2005. Dopo l’ultimo round negoziale con i Paesi del gruppo P5+1, nulla sembra cambiato. Rohani sarà in grado di gestire adeguatamente la questione?

La questione del nucleare sarà sicuramente la cartina di tornasole della presidenza Rohani, ma occorre ricordare il ruolo da lui già giocato nella sospensione dell’arricchimento dell’uranio fra il 2003 e il 2005. L’Unione europea ha commesso un grosso errore a non tendere la mano rimuovendo alcune delle sanzioni come era stato promesso, perché questo ha aperto le porte alle posizioni ultra-intransigenti di Ahmadinejad sul nucleare rendendo impossibile a chiunque perorare la causa della sospensione. Questa volta le concessioni dovranno essere reciproche, a graduali passi in avanti dell’Iran bisognerà rispondere allo stesso modo. Immagino che Rohani farà concessioni per risolvere l’impasse, ma ciò che mi preoccupa sono le reazioni dell’Occidente, se ci si potrà rilassare o meno. L’Europa in particolare dovrà essere in testa nella prospettiva di una nuova apertura verso l’Iran.

 

L’Iran è considerato attore pivotale nella crisi siriana e i media occidentali affermano che Teheran sostiene e protegge Bashar al-Assad. Cambierà qualcosa nel contesto della guerra civile a Damasco con le elezioni iraniane?

L’Iran sostiene i regimi che gli sono amici, così come farebbe qualsiasi altro Stato. Dalle mie conversazioni con alcuni iraniani nel Paese, ho potuto dedurre i loro timori circa l’eventuale presa del potere in Siria di movimenti di matrice qaedista; preoccupazioni fondate considerando che il fronte di al-Nusra rappresenta la più formidabile frangia militare dell’opposizione ad Assad ed è alleato di al-Qaida, come lo stesso Ayman al-Zawahiri ha apertamente dichiarato. L’Iran è irremovibile sull’obiettivo di evitare un governo sul modello talebano in Siria, vista l’aperta ostilità di tali movimenti verso gli sciiti, ed è consapevole del fatto che queste sono le stesse forze che hanno disseminato bombe nelle moschee sciite di tutto l’Iraq, ragion per cui il primo ministro iracheno al-Maliki ha implicitamente fatto fronte comune con gli iraniani a sostegno di Assad. A mio parere comunque non si tratta di una questione legata alla figura di Assad; ciò che l’Iran vuole è un governo che continui a sostenere la causa palestinese attraverso Hezbollah e non coltivi alcun sentimento di ostilità verso Teheran, e non penso che questo atteggiamento cambierà. Come ho già sostenuto in Iran in World politics, il Paese ha alcune priorità strategiche che non cambiano con un cambio al vertice dell’amministrazione. Detto questo, è probabile che Rohani ponga l’accento sull’importanza della diplomazia per risolvere la crisi siriana e punti a tal fine sul coinvolgimento di attori geopolitici regionali, in particolare l’Arabia Saudita. Ci sarà dunque un importante cambiamento nel linguaggio della politica internazionale iraniana.

 

L’Iran è uno degli attori geopolitici più dinamici del Medio Oriente, ma le relazioni tese con Israele e l’ipotesi di un attacco preventivo da parte di Gerusalemme spaventano il mondo. Tuttavia, Rohani sembra avere un approccio più aperto del suo predecessore verso l’Occidente: quanto queste elezioni incideranno sul ruolo geopolitico dell’Iran?

È piuttosto interessante il fatto che Rohani abbia parlato di “Israele” piuttosto che di “entità sionista” come da prassi nella retorica dei leader iraniani dalla Rivoluzione in poi. L’Iran e Israele continueranno ad essere rivali strategici in Asia occidentale e Nord Africa, con agende confliggenti, ma la politica iraniana verso Israele sarà guidata dal pragmatismo e dall’interesse nazionale piuttosto che dalla pura ideologia. Allo stesso tempo credo che Rohani si preoccuperà decisamente meno di Israele rispetto al suo predecessore. Come un analista iraniano mi ha detto, c’è ben altro che bolle in pentola a Teheran e l’Iran avrà ben altri problemi da risolvere.

 

La traduzione delle risposte del professor Arshin Adib-Moghaddam è di Angela Paradiso e Vincenzo Piglionica.

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Iran e Stati Uniti, tra petroliere e nucleare

«Non considero Trump meritevole di alcuno scambio di messaggi».

Queste le parole – ferme e decise – pronunciate giovedì 13 giugno dalla Guida suprema dell’Iran Ali Khamenei davanti al primo ministro giapponese Shinzo Abe, impegnato nel tentativo di ricostruire la tela del dialogo fra Teheran e Washington. Una presa di posizione ampiamente attesa, che esclude dunque per il momento qualsiasi concreta ipotesi di confronto e di negoziato, in una regione mediorientale oramai cronicamente instabile e preda di interessi geopolitici contrapposti.

Proprio a partire dal 13 giugno le tensioni sono prepotentemente riaffiorate nell’area, sin dalle prime ore del mattino: due petroliere – la nipponica Kokuka Courageous e la norvegese Front Altair – sono infatti state attaccate nelle acque del Golfo di Oman, nei pressi di quel collo di bottiglia nevralgico per i traffici petroliferi globali che è lo Stretto di Hormuz. Grazie all’intervento di mezzi militari statunitensi e iraniani, l’equipaggio delle due navi è stato tratto in salvo, ma il nodo geopolitico rimane: chi aveva interesse a compiere un’azione del genere?

Per Washington, il quadro è stato da subito chiaro: dietro l’aggressione alle due petroliere ci sarebbe – secondo quanto dichiarato dal segretario di Stato Mike Pompeo – la Repubblica degli ayatollah, che con la sua spregiudicata iniziativa avrebbe minacciato la pace e la sicurezza internazionali, messo in pericolo la libertà di navigazione e alimentato ulteriormente le tensioni a livello regionale. A tale conclusione – ha precisato sempre Pompeo – gli Stati Uniti sono giunti grazie alle loro informazioni di intelligence e a seguito di un’analisi dell’attacco, che per le armi utilizzate e la complessità dell’organizzazione non poteva che essere stato perpetrato da un Paese come l’Iran.

Il Comando centrale militare statunitense (CENTCOM) ha provveduto a fornire una descrizione dettagliata di quanto accaduto: le forze navali USA avrebbero ricevuto una prima richiesta di soccorso alle 6.12 locali dalla Front Altair, per essere poi contattate intorno alle ore 7 anche dalla Kokuka Courageous. Un’ora dopo la seconda chiamata un velivolo statunitense avrebbe individuato una motovedetta iraniana e ulteriori unità d’attacco di Teheran nella zona in cui si trovavano le petroliere, mentre alle 9.26 i mezzi iraniani avrebbero accolto a bordo l’equipaggio della Front Altair precedentemente soccorso da un’altra imbarcazione. Alle 11.05 un cacciatorpediniere statunitense ha invece recuperato i marinai della Kokuka Courageous, dopo aver individuato nei pressi dello scafo quella che appariva una mina inesplosa. Verso le 14.05 poi, un’unità navale iraniana avrebbe raggiunto la Kokuka Courageous oramai abbandonata e provveduto alla rimozione della mina. A supporto della sua tesi – rispetto alla quale sono stati anche avanzati dubbi – Washington ha fornito prima un filmato e poi ulteriori prove fotografiche che mostrerebbero la nave di Teheran impegnata nelle operazioni di recupero della mina; il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha invece chiesto l’apertura di un’indagine indipendente per fare chiarezza sull’accaduto. Accanto agli Stati Uniti si è schierato il principale antagonista regionale dell’Iran, l’Arabia Saudita, con il principe e deus ex machina della politica del Paese Mohammad bin Salman che ha assicurato che Riyad è pronta a rispondere a qualsiasi minaccia alla sua popolazione, alla sua sovranità, alla sua integrità territoriale e ai suoi interessi vitali.

Teheran invece non ha solo respinto con fermezza le accuse – definendole ridicole e pericolose –, ma è anche partita al contrattacco, con il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif che ha definito ‘sospetta’ la coincidenza temporale tra l’aggressione alle petroliere nel Golfo di Oman – una delle quali giapponese – e l’incontro con le massime autorità iraniane del primo ministro nipponico Shinzo Abe.

Anche gli analisti politici si sono divisi sulla questione: da una parte, diversi commentatori hanno sottolineato come il coinvolgimento di Teheran nell’attacco sia plausibile, poiché un’azione dimostrativa nei pressi dello Stretto di Hormuz sarebbe stata funzionale alla riaffermazione del ruolo strategico del regime degli ayatollah in un’area cruciale per le rotte energetiche globali. In questo senso, il messaggio sarebbe chiaro: a livello regionale, la Repubblica islamica sa come farsi valere e utilizzare le risorse a sua disposizione. Dall’altra però, c’è anche chi ha fatto notare come il rischio di un danno d’immagine per l’Iran fosse notevole, sia per l’aggressione a una petroliera giapponese mentre Abe era impegnato a Teheran in un complicato tentativo di mediazione, sia per la presenza a bordo della Front Altair di personale proveniente dalla Russia, Paese con cui l’Iran non ha alcun interesse a deteriorare i rapporti.

L’incidente delle petroliere si inserisce in una cornice geopolitica più articolata e complessa, fatta di rapporti di forza ed equilibri di potenza, nella quale aspiranti egemoni collocati su fronti contrapposti cercano di rafforzare la loro posizione e di colpire l’avversario.

In questa partita, rimane di stringente attualità la questione del nucleare iraniano: dalla decisione annunciata nel maggio 2018 di ritirarsi dall’accordo (Joint Comprehensive Plan Of Action, JCPOA) raggiunto sotto la presidenza di Barack Obama, l’amministrazione di Donald Trump ha perseguito la strategia della ‘massima pressione’, attraverso una serie di iniziative mirate a fiaccare le resistenze dell’Iran e costringere la Repubblica islamica a sedere nuovamente al tavolo del negoziato, questa volta però con le armi spuntate e margini di manovra limitati. Il ripristino delle sanzioni, la decisione di estenderne l’applicazione anche ad alcuni importatori di petrolio iraniano che erano stati precedentemente esentati, la designazione del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica come organizzazione terroristica straniera, l’annuncio del rafforzamento della presenza militare nella regione sono tutte misure tendenti al perseguimento di quell’obiettivo. Da questo punto di vista – come ha scritto in una sua analisi il presidente del Council on foreign relations Richard N. Haass – alcuni risultati sono stati effettivamente raggiunti, considerando che l’isolamento economico di Teheran è più pronunciato e le sue esportazioni di greggio sono diminuite. Tuttavia, la Repubblica islamica ha già dimostrato a più riprese di saper resistere, irrigidendo talvolta le sue posizioni e addirittura rilanciando: nel mese di maggio, il presidente iraniano Hassan Rohani ha infatti annunciato che il Paese non avrebbe più rispettato alcune disposizioni dell’accordo sul nucleare se entro sessanta giorni non fossero state individuate soluzioni atte a proteggere settori nevralgici dell’economia di Teheran, sottoposti alle pressioni delle sanzioni USA: dunque, un modo per spingere le altre parti firmatarie dell’intesa a far sentire la loro voce a Washington. Nelle successive settimane, dall’amministrazione statunitense sembravano essere arrivate parziali aperture, con il presidente Trump a sottolineare come Washington non fosse interessata a un regime change in Iran e il segretario di Stato Pompeo a rendere nota la disponibilità degli Stati Uniti a un negoziato senza precondizioni. A inizio giugno però, Khamenei aveva immediatamente chiuso a qualsiasi prospettiva di confronto, parlando di un gioco politico che non avrebbe tratto in inganno l’Iran. Da ultimo – dopo l’aggressione alle due petroliere e le accuse statunitensi – la Repubblica islamica ha annunciato di essere pronta a superare il 27 giugno i limiti sulle riserve di uranio arricchito previsti dall’accordo del 2015, sottolineando inoltre di poter tornare ad arricchire il proprio uranio fino al 20%: ancora una volta, un messaggio all’Europa affinché si faccia valere e convinca Washington a rivedere le sue posizioni.

 

Immagine: Piattaforma della petroliera. Crediti: Anatoly Menzhiliy / Shutterstock.com

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L’Estremo oriente nel mirino del terrore

‘I soldati del califfo continueranno a crescere e a diffondersi nel Bengala, e la loro azione proseguirà’. Con queste parole - pronunciate nel novembre del 2015 - il sedicente Stato islamico annunciava l’intenzione di radicarsi ulteriormente in Bangladesh, espandendo la sua rete del terrore. Un proclama dettato più dall’esigenza di alimentare la propaganda che non collegato a una reale capacità operativa nei territori obiettivo di conquista? Forse in parte, ma oggi ­– a due settimane dal brutale attentato all’Holey Artisan Bakery della capitale del Bangladesh Dhaka, costato la vita a 20 persone e 9 nostri connazionali – quelle minacce assumono una diversa consistenza, vanno lette sotto una nuova luce e impongono una seria riflessione, perché il mondo non si faccia trovare, come troppe volte è accaduto negli ultimi anni, impreparato. Sull’attacco perpetrato in un locale notoriamente frequentato da stranieri, Daesh ha apposto la sua firma; una rivendicazione che il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni – nella sua informativa al Senato – ha dichiarato attendibile anche in forza delle valutazioni effettuate con colleghi diplomatici e dell’intelligence di altri paesi. E anche dalla premier del Bangladesh Sheikh Hasina Wazed - fino a pochi giorni fa decisamente più propensa a ricondurre entro un alveo più circoscritto i gravi episodi che da tempo si verificano nel paese e comunque ferma nella sua tesi che l’autoproclamato Stato islamico non avesse attecchito a Dhaka - è arrivata una prima, importante ammissione: nel paese esiste un problema di terrorismo islamico. Il radicalismo in Bangladesh non ha risparmiato nessuno dei ‘nemici giurati’ dell’Islam, dai cristiani ‘crociati’ alla minoranza indù, dagli infedeli musulmani sciiti ai membri della comunità LGBT, fino ai blogger brutalmente assassinati per aver osato difendere il valore del secolarismo. Le premesse per un’operazione terroristica su più vasta scala c’erano dunque tutte, anche se non sono state adeguatamente valutate. Con l’attacco all’Holey Artisan Bakery c’è però stato un evidente ‘salto di qualità’ dal punto di vista strategico: un attentato di massa ha maggiore risonanza rispetto all’uccisione di singoli obiettivi, e colpire cittadini stranieri comporta un’eco ulteriormente amplificata, tanto più se si tratta di occidentali. Gli attentatori erano giovani provenienti da famiglie benestanti, non appartenevano a quella retroguardia che guarda al futuro senza speranza, né tanto meno provenivano dalle banlieues e dalle periferie europee, ragazzi di quella seconda o terza generazione di immigrati cresciuti in una terra di nessuno e facili prede di una sanguinosa retorica. Né peraltro avevano studiato nelle madrasse, le scuole coraniche dove non di rado si registrano episodi di marcata radicalizzazione. Sintomo dunque di una retorica e di una propaganda sempre più raffinate, che riescono a colpire l’obiettivo e a farsi spazio in variegati segmenti di società. L’IS poi sta diventando il brand più attrattivo della galassia del terrore, e una più o meno diretta affiliazione – o comunque un richiamo alle sue modalità operative – finiscono per attirare l’attenzione sull’attacco compiuto, obbligando a prendere sul serio la minaccia. Ora che ad essere colpiti sono stati cittadini stranieri, il Bangladesh non potrà più minimizzare e dovrà fornire risposte, perché le cancellerie estere raramente si accontentano di motivazioni di comodo.

Sotto il profilo geopolitico inoltre, i fatti di Dhaka confermano una verità troppo spesso sottovalutata: il network del terrore è oramai a tutti gli effetti globale, e la sua presenza a oriente del Pakistan, nei territori del Subcontinente indiano e del Sud-Est asiatico, è una realtà con cui occorre fare i conti. Lo sa l’India, territorialmente prossima al Pakistan, al Bangladesh, e ‘colpita’ dalla minaccia del califfo di espandere le sue conquiste fino al Kashmir per combattere gli ‘apostati’; e naturalmente lo sa la Cina, finora estremamente prudente ma ben consapevole di dover vigilare sul suo enorme territorio, dove porzioni della minoranza musulmana degli uiguri dello Xinjiang possono cedere alle sirene di Daesh. Del resto, tanto al-Qaeda prima quanto Abu Bakr al-Baghdadi poi, non hanno fatto mancare le minacce a Pechino per il modo in cui gli uiguri vengono trattati, e ad oggi circa 300 di loro si sarebbero uniti all’autoproclamato Stato Islamico.

La minaccia non sfugge poi alla Thailandia, che con le sue attrazioni turistiche presenta diversi obiettivi sensibili che potrebbero essere colpiti perché frequentati dagli ‘apostati’.

Come poi ha ben ricordato Joseph Chinyong Liow, Senior fellow del Center for East Asia Policy Studies di Brookings, la minaccia terroristica non è affatto un fenomeno nuovo per diverse realtà del Sud-Est asiatico, ed è anzi radicata nella loro storia: a ricordarcelo, in tempi recenti, l’attentato di Bali in Indonesia nel 2002, quello all’Hotel Marriott di Giacarta nel 2003 – poi nuovamente colpito nel 2009 insieme al Ritz-Carlton – o ancora il sanguinoso attacco al traghetto Superferry14 nelle Filippine nel 2004, che costò la vita a oltre 100 persone. L’ascesa dell’IS nel 2014 e il suo successivo consolidamento, accompagnati da una efficacissima quanto martellante propaganda che ha contribuito a definirlo come principale attore del terrore sulla scena globale, hanno poi fatto sì che diversi gruppi espressione del radicalismo islamico in queste realtà dichiarassero la loro affiliazione al sedicente califfato. Una prima manifestazione d’influenza - ricorda sempre Joseph Chinyong Liow - si è avuta con la costituzione nel settembre 2014 di Katibah Nusantara, un’unità militare prevalentemente composta da malesi e indonesiani che combattono per al-Baghdadi nel teatro di guerra del Siraq, dove l’esperimento statale dell’IS – che pure sta perdendo territori – continua. Nel Sud-Est asiatico non sono poi mancati attacchi e rivendicazioni negli ultimi tempi, come nell’importante caso degli attentati di Giacarta di gennaio 2016 costati la vita a 4 persone. Per il momento, evidenziava l’analista di Brookings nel mese di aprile, le capacità operative dei gruppi affiliati all’IS nell’area sembrano relativamente limitate, né esiste un vero e proprio centro di comando del sedicente Stato islamico nella regione. Occorrerà tuttavia restare vigili: se saranno adottate strategie collettive di ampio respiro, la minaccia terroristica - che peraltro non si limita solo all’autoproclamato Stato islamico - potrà essere sradicata.

 

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L’Egitto: un potenziale perno diplomatico negli equilibri geopolitici medio orientali

Le dinamiche socio-economiche e socio-politiche che hanno costituito l’humus fertile per la fioritura della “primavere arabe” (l’uso del plurale vista la profonda eterogeneità dei processi ancora in corso appare opportuno), trovano la loro ragion d’essere nella situazione nazionale dei Paesi coinvolti.  Il costante aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la corruzione diffusa negli elefantiaci apparati burocratici di regime e lo stridente contrasto fra l’opulenza delle oligarchie al potere e la drammatica povertà di fasce sempre più ampie della popolazione, hanno infiammato gli animi ed innescato le rivoluzioni, producendo in poche settimane il rovesciamento delle pluridecennali dittature monarchico-presidenziali di Tunisia ed Egitto.
I radicali mutamenti interni che hanno interessato la regione nordafricana hanno tuttavia rapidamente superato i confini nazionali per proiettarsi – quanto meno sotto due profili – in una dimensione macrogeopolitica globale. In primo luogo, perché i pollini della rivoluzione hanno travolto la vicina Libia del colonnello Gheddafi (dove c’è stata una vera e propria guerra civile) per poi varcare il Canale di Suez e sprigionarsi in Medio oriente; in seconda istanza perché lo status quo geopolitico di una delle regioni più “calde” del mondo è stato sensibilmente alterato, cogliendo impreparate le diplomazie internazionali.
Particolare attenzione merita in questo articolato scenario l’Egitto, punto di congiunzione fra Maghreb e Medio oriente e storicamente al centro degli equilibri regionali.
Il tardivo ma risoluto invito del presidente statunitense Obama a Mubarak ad “ascoltare il grido del suo popolo e trarne le conseguenze”, lasciava in realtà trasparire tutta la tensione della Casa Bianca, da una parte affascinata dal furor dei manifestanti improvvisamente decisi a riappropriarsi del loro destino, ma dall’altra titubante nello sponsorizzare apertamente la caduta di un regime amico nel cuore del “grande Medio oriente” e per di più alle porte di Israele.
Il carattere marcatamente destrutturato e frammentato dell’offerta politica post-Mubarak, al netto del periodo di transizione presieduto dalla giunta militare (lo Scaf) e durato più di un anno, lasciava presagire che la vera sfida per il controllo del potere si sarebbe circoscritta alle uniche forze con una base di consenso già consolidata: le incrostazioni del regime e il variegato panorama dei soggetti islamisti, in particolare la Fratellanza musulmana. Le elezioni presidenziali di maggio-giugno 2012 hanno confermato questo quadro: al primo turno si è verificata una prevedibile atomizzazione delle preferenze del corpo elettorale, che si sono disperse in rivoli di consenso verso i vari candidati ( in cinque hanno superato il 10% dei voti), ma al ballottaggio sono arrivati l’esponente del partito “Giustizia e Libertà” diretta emanazione dei Fratelli musulmani e l’ultimo Primo ministro dell’era Mubarak. E alla fine, per meno di un milione di voti, la vittoria è andata al candidato della Fratellanza Mohamed Mursi, primo presidente non militare dell’Egitto repubblicano.
In questi ultimi mesi, il nuovo corso politico della terra dei faraoni è stato costantemente monitorato. Non è un mistero che Israele abbia guardato con una certa apprensione alla rivoluzione dei giovani di Piazza Tahrir e ai suoi successivi sviluppi, nella convinzione che le ottimistiche previsioni dei cantori della “primavera egiziana” come alba di una nuova stagione democratica, si sarebbero presto scontrate con una realtà molto diversa e geopoliticamente pericolosa per l’Occidente.
Oggi si può dire che il tanto temuto spostamento dell’asse diplomatico egiziano verso posizioni anti-israeliane e anti-occidentali non si è verificato, per lo meno non in maniera evidente. Se un parziale slittamento c’è stato, si è trattato più di un riposizionamento retorico-strategico che effettivo, dovuto alla necessità di liberarsi della fama di Stato troppo sbilanciato verso Gerusalemme e Washington che accompagna l’Egitto dai tempi degli Accordi di Camp David con Israele nel 1978 e si è rafforzata durante gli anni del regime di Mubarak.
Il presidente Mursi si trova fra due fuochi. Una parte della Fratellanza musulmana è costituita da uomini estremamente pragmatici ed intelligenti, che ben comprendono le ricadute di un eventuale smantellamento dell’architrave diplomatico di Camp David e di un ipotetico allontanamento dagli Stati Uniti. Qualsiasi manovra che si presti ad essere interpretata come ostile verso Israele, porterebbe Washington a chiudere i rubinetti degli aiuti economici destinati al Cairo e soprattutto a finanziare il suo esercito (1,3 miliardi di dollari all’anno), cosa che l’Egitto non può permettersi. Molto difficile sarebbe inoltre per il Cairo beneficiare dei 4,8 miliardi di dollari previsti dal Fondo Monetario Internazionale, istituzione nella quale gli Usa continuano ad avere un certo peso.
Senza contare che, in un eventuale scontro fra gli eserciti egiziano ed israeliano, ci sono pochi dubbi su chi avrebbe la meglio.
Esistono però anche segmenti della Fratellanza decisamente più imbevuti di ideologia, convinti dell’obbligo quasi morale di una rottura con Israele per abbracciare in toto la causa palestinese, in particolare a Gaza dove opera Hamas che proprio dai Fratelli musulmani trae origine.
La nuova classe politica al potere in Egitto ha voluto rassicurare l’Occidente sul pieno rispetto degli accordi internazionali sottoscritti in passato, ma la Fratellanza non di rado ha parlato di una necessaria ridiscussione di alcuni punti dell’Accordo di pace con Israele sottoscritto un anno dopo Camp David, su cui una parte dei delicati equilibri medio orientali si fonda.
Ciò che al momento traspare è una rinnovata voglia dell’Egitto di ricollocarsi sulla scena internazionale come attore pivotale nella partita geopolitica del Medio oriente. Mursi è stato il primo leader egiziano a visitare l’Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979, in occasione del vertice dei “non allineati”, allarmando le petromonarchie della regione del Golfo che sono in prima linea contro Teheran e guardano con sospetto e timore per la stabilità dei loro regimi all’ascesa della Fratellanza in Egitto. Il presidente egiziano ha comunque rassicurato sceicchi ed emiri: il Cairo non ha intenzione di esportare la rivoluzione al di fuori dei suoi confini; anche perché i petrodollari promessi dai sovrani dell’area farebbero molto comodo alle casse egiziane.
L’Egitto partecipa inoltre al gruppo di contatto sulla Siria con Iran (maggiore sostenitore di Assad nella regione), Turchia ed Arabia Saudita (che supportano i ribelli), anche se per ora non sono stati raggiunti risultati degni di sottolineatura per fermare la guerra civile a Damasco.
Positiva è stata invece la mediazione egiziana per la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza lo scorso novembre. Mursi ha adottato un approccio pragmaticamente realista senza con questo rinunciare a qualche piccolo sconfinamento nel campo della retorica populista, ottenendo un ritorno d’immagine significativo. L’Occidente ha infatti apprezzato gli sforzi profusi dal Capo dello Stato egiziano per la cessazione delle ostilità, come dimostrato dal plauso di Barack Obama; e Mursi è riuscito ad accreditarsi come difensore della causa palestinese nei primi giorni degli scontri, annunciando che l’Egitto non avrebbe mai lasciato Gaza sola e persino richiamando in patria il suo ambasciatore in Israele in risposta ai raid di Tsahal sulla Striscia.
In un contesto sempre più fluido, in cui Turchia ed Iran non negano le loro grandi aspirazioni regionali, l’Arabia Saudita cerca di mantenere il suo status geopolitico e il Qatar si rivela sempre più dinamico, l’Egitto ha dimostrato di potersi proporre come perno diplomatico nei complessi equilibri medio orientali, ma le sue possibilità di successo come attore regionale (fra i tanti) di riferimento sembrano oggi legate a doppio filo alle risposte che il Cairo saprà innanzitutto dare nel processo di stabilizzazione interna.
Le proteste di Tahrir a dicembre del 2012 contro il referendum sulla nuova Costituzione e i decreti dal sapore neofaraonico di Mursi, a cui hanno fatto da contraltare le manifestazioni a sostegno del presidente; sono la fotografia di un Paese ancora diviso e in fermento.
Sono la crisi economica e la stabilità politica i grandi problemi con cui l’Egitto è chiamato oggi a confrontarsi, e sarà il modo in cui il Paese riuscirà a plasmare se stesso che influenzerà profondamente ciò che esso sarà sulla scena internazionale.

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Il confronto politico USA nell’epoca della post-verità

Un discorso stanco, affaticato, pronunciato in apparente stato di alterazione, tanto da portare gli utenti a chiedersi cosa fosse successo o a lanciare sentenze senza possibilità di appello: chi parla è evidentemente ubriaco, o in precarie condizioni di salute, o ancora sembra essere stato colpito in quel momento da un infarto.

Sono questi i giudizi lapidari che una parte del popolo di Internet ha espresso sulla speaker della Camera dei rappresentati statunitense Nancy Pelosi, ritratta in un video che ha rapidamente fatto il giro del web e scatenato molteplici reazioni: come può una figura di tale prestigio, incaricata di presiedere uno dei rami del Congresso, presentarsi a un incontro in quelle condizioni?

Agli utenti manca tuttavia un dettaglio fondamentale: quel filmato è stato modificato ad arte, falsificato per screditare uno degli esponenti più in vista del Partito democratico e poi diffuso sul web, a beneficio di chi volesse lasciare il proprio commento di biasimo o esprimere la propria indignazione.

La ricostruzione dei fatti parte da mercoledì 22 maggio, quando la speaker Pelosi – assieme al leader democratico al Senato Chuck Schumer – è stata chiamata a partecipare alla Casa Bianca a un vertice sulle infrastrutture con il presidente Donald Trump. Di infrastrutture però sembra si sia parlato ben poco, nonostante un precedente incontro nel mese di aprile con la delegazione democratica che il presidente non aveva esitato a definire «eccellente». Oggi però la tensione tra le parti è chiaramente tangibile, in particolar modo – ma non solo – per gli strascichi del caso Russiagate: da una parte, la speaker Pelosi non manca di ricordare con insistenza al presidente i poteri e le prerogative del Congresso; dall’altra, Trump continua a rispondere colpo su colpo, rifiutando talvolta di sottostare alle richieste della Camera dei rappresentanti, cercando di limitarne al massimo il raggio d’azione e correndo sempre sul filo di un pericoloso scontro istituzionale, tanto che la parola impeachment è tornata a circolare negli ambienti della politica statunitense.

Sul fronte delle infrastrutture dunque, nessun passo in avanti; anzi Trump avrebbe lasciato il tavolo del negoziato per il clima ostile nei suoi confronti. Su come però si siano svolti i fatti, le versioni sono contrastanti: il presidente ha assicurato di aver mantenuto la calma sottolineando però di non poter tollerare l’atteggiamento dei democratici, che lo accusano di voler insabbiare dettagli compromettenti sul rapporto del procuratore speciale Robert Mueller circa le presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali del 2016. Di tutt’altro tenore invece le considerazioni di Pelosi, che ha ribadito le accuse dei democratici verso Trump e affermato che il presidente avrebbe lasciato il tavolo della trattativa dopo un violento scatto d’ira.

Proprio del confronto avvenuto alla Casa Bianca, Pelosi ha parlato nella giornata del 22 maggio in occasione dell’Ideas Conference del Center for American Progress: durante il suo intervento, la speaker ha attaccato il presidente, sostenendo che il suo nervosismo sarebbe motivato dall’ostacolo alla giustizia che sta perpetrando e dai tentativi di nascondere quanto contenuto nel rapporto Mueller, un comportamento che – ha rilevato – sarebbe passibile di richiesta di impeachment.

Da questo discorso è stato estrapolato un breve passaggio di circa tre minuti, proposto giovedì 23 su una pagina Facebook chiamata Politics WatchDog: nel video la voce di Pelosi appare impastata, le parole sono scandite con difficoltà, quasi come se l’oratrice non riuscisse a pronunciarle. La cascata di commenti sotto il filmato pare inarrestabile, le visualizzazioni crescono minuto dopo minuto, le condivisioni su Facebook e sugli altri social aumentano, la speaker della Camera dei rappresentanti è sotto attacco. Contro di lei arriva anche il tweet dell’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, avvocato personale di Trump: «Cosa c’è che non va in Nancy Pelosi? – cinguetta Giuliani – Il suo modo di parlare appare bizzarro».

Da sempre molto attivo su Twitter, anche il presidente commenta la vicenda, postando un video mandato in onda dall’emittente Fox News in cui Pelosi – davanti ai microfoni – si ferma per prendere una pausa o inciampa nella pronuncia di alcune parole: «PELOSI BALBETTA IN CONFERENZA STAMPA». Questo, in maiuscolo, il cinguettio dell’inquilino della Casa Bianca.

Il fact-checking sul video è però implacabile: la manomissione è evidente.

Secondo quanto rilevato dai giornalisti del Washington Post e da alcuni ricercatori, il filmato sarebbe stato appositamente rallentato, per essere poi riprodotto al 75% della sua reale velocità. Gli editor del video – ancora ignoti – sarebbero inoltre intervenuti sull’intonazione, per provare a correggere l’effetto distorsivo derivante da una variazione della velocità del discorso: in questo modo, la voce di Pelosi sarebbe parsa più fedele all’originale.

Sentito dal Washington Post, il professor Hany Farid – docente all’Università di Berkeley ed esperto di informatica forense – ha confermato che il video è stato chiaramente alterato, sottolineando altresì come la relativa semplicità delle tecniche di manipolazione impiegate non abbia in alcun modo inficiato il raggiungimento dello scopo prefissato: assicurarsi che il maggior numero di persone credesse alla veridicità delle immagini proposte.

Ecco dunque che quanto accaduto finisce per riaccendere il dibattito su questioni complesse, controverse e di difficile soluzione: com’è possibile difendersi dalla falsa propaganda? Se contenuti alterati con tecnologie semplici ottengono una tale diffusione, quali strumenti possono essere messi in campo per tutelare gli utenti da una disinformazione spesso tecnologicamente molto più sofisticata? E ancora: quali strategie adotteranno i colossi del web per intervenire sul problema? Su quest’ultimo punto, è interessante notare come si possano riscontrare comportamenti fra loro assai diversi. YouTube ha per esempio proceduto alla rimozione del contenuto modificato, evidenziando come il video abbia violato la policy della piattaforma, mentre Facebook ha semplicemente allegato al filmato gli esiti dell’attività di fact-checking e ridotto la sua visibilità nella sezione delle notizie, puntualizzando però che il contenuto non può essere rimosso perché la policy del social non prevede che quanto postato on-line sia necessariamente vero. Su Twitter invece, il video continua ancora a circolare.

In poche ore, su Politics WatchDog il video aveva raggiunto 2 milioni di visualizzazioni, totalizzato oltre 45.000 condivisioni e raccolto circa 23.000 commenti. E proprio Politics WatchDog – definito dal Washington Post «tendente a destra» – si è difeso affermando di non aver mai sostenuto che Pelosi fosse ubriaca e che i commenti degli utenti non possono essere controllati, perché l’America è un Paese libero. Infine, un’affermazione che riecheggia parole tipiche della retorica trumpiana: «Washington Post is fake news!».

Il cinguettio di Giuliani è stato invece cancellato, ma sempre sul suo profilo l’avvocato di Trump ha sottolineato come Pelosi non dovrebbe pretendere delle scuse per una «caricatura che esagera la sua parlata zoppicante», quanto piuttosto scusarsi per le sue accuse che danneggiano un’intera nazione, allorché ha affermato che il presidente – a causa dei suoi scatti d’ira – avrebbe bisogno di aiuto.

Intanto, nonostante l’alterazione del video sia oramai stata rivelata, non manca chi sostiene che il singolo filmato potrebbe essere stato manipolato, ma che in altre occasioni Pelosi ha mostrato gli stessi problemi e difficoltà, pertanto nulla può essere escluso.

Nell’epoca della post-verità, dove il confine tra ciò che è reale e ciò che si percepisce come tale si fa sempre più labile, mentre i fattori emotivi e i convincimenti personali finiscono per contare più dei fatti stessi…niente di particolarmente sorprendente.

 

Immagine: Nancy Pelosi a New York (NY), Stati Uniti (25 febbraio 2019). Crediti: lev radin / Shutterstock.com 

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Verso le elezioni europee. Per cosa e come si vota

L’appuntamento elettorale è oramai alle porte. Dal 23 al 26 maggio, i cittadini dell’Unione Europea (UE) aventi diritto di voto saranno chiamati alle urne per rinnovare la composizione dell’Europarlamento, scegliendo i deputati che siederanno nell’emiciclo di Strasburgo fino al 2024.

Come nel 2014, anche questa volta si recheranno a votare gli elettori di 28 Paesi: se da una parte infatti nessun ulteriore allargamento dell’Unione si è verificato nel corso degli ultimi cinque anni, dall’altra non si è neppure concluso il processo di uscita dall’UE del Regno Unito, che manterrà i suoi 73 scranni parlamentari fino al perfezionamento della Brexit. Una volta terminato tale processo – in che modo e in quanto tempo è ancora tutto da vedere – i seggi britannici saranno parzialmente redistribuiti tra gli altri Stati membri e in una certa misura congelati, in vista di eventuali nuove adesioni all’Unione. La composizione dell’Europarlamento passerà così dagli attuali 751 a 705 deputati.

«Cambiare l’UE» pare essere il mantra di pressoché tutte le forze che si candidano ad avere una loro rappresentanza nell’assemblea di Strasburgo. La difesa dello status quo in un’Europa che negli ultimi anni ha mostrato tutte le sue vulnerabilità non è solo infatti politicamente impraticabile, ma soprattutto in questo momento elettoralmente controproducente. Il vero nodo politico delle elezioni non risiede tanto nel comune desiderio di cambiamento, quanto piuttosto nelle proposte programmatiche e nelle scelte politiche che dovranno dare concreta forma al cambiamento; tra chi propone un potenziamento del cammino comune finora sostenuto, chi restando nel solco dell’idea di Europa unita ipotizza l’approfondimento di percorsi di integrazione differenziati e ‘a più velocità’ e chi ancora – pur avendo per il momento messo da parte gli originari propositi di abbandono dell’Unione – auspica un nuovo accentramento delle competenze in capo agli Stati, che tornerebbero così a esercitare pienamente le loro prerogative sovrane.

Questi temi – per quanto spesso diluiti nelle questioni di politica nazionale e ‘piegati’ all’esigenza di conquistare il maggior consenso possibile – hanno caratterizzato il dibattito pre-elettorale, e si riproporranno in tutta la loro rilevanza anche dopo la chiusura dei seggi e lo spoglio delle schede.

Riservando ad altre sedi il dibattito sul futuro dell’Unione Europea, questo contributo si propone di inquadrare per cosa gli elettori europei saranno chiamati al voto e in che modo gli elettori italiani esprimeranno il loro consenso.

 

Per cosa si vota: il rinnovo del Parlamento europeo

I primi cittadini a pronunciarsi saranno quelli del Regno Unito e dei Paesi Bassi, convocati alle urne giovedì 23. Venerdì 24 sarà la volta degli irlandesi, mentre i seggi apriranno anche in Ungheria dove le operazioni di voto si terranno anche nel giorno successivo. Sabato 25 toccherà invece agli elettori maltesi, lettoni e slovacchi andare a votare, insieme a quelli di alcuni territori francesi d’Oltremare (Guadalupe, Guyana francese, Martinica, Polinesia francese, Saint-Barthélemy, Saint-Martin, Saint-Pierre-et-Miquelon). In tutti gli altri Stati membri – compresa l’Italia – si voterà domenica 26.

Il Parlamento europeo – inizialmente denominato Assemblea parlamentare europea – esercitava nelle prime fasi un ruolo essenzialmente consultivo, oltre a essere composto da rappresentanti designati dai singoli Parlamenti nazionali. Esso si è poi evoluto, ed è nelle sue evoluzioni che trovano forse la loro più concreta espressione i tentativi di rendere più ‘democratici’ tanto il processo di integrazione quanto il funzionamento delle istituzioni comunitarie. È dunque in quest’ottica che vanno inquadrati l’elezione diretta dell’istituzione parlamentare – il primo voto si tenne fra il 7 e il 10 giugno del 1979 – e il progressivo ampliamento delle competenze del Parlamento, oggi designato dall’art. 10 par. 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE) come l’istituzione in cui i cittadini sono direttamente rappresentati all’interno dell’Unione.

In base a quanto stabilito dall’art. 14 par. 1 TUE, il Parlamento europeo esercita insieme al Consiglio la funzione legislativa – con il Trattato di Lisbona la cosiddetta procedura di codecisione è divenuta procedura legislativa ordinaria – e la funzione di bilancio. Esso, inoltre, svolge funzioni consultive e dispone di rilevanti poteri di supervisione e controllo sulle altre istituzioni dell’Unione: in particolare, il Parlamento ha il diritto di eleggere o respingere la Commissione europea, i cui membri designati sono tenuti a svolgere audizioni durante le quali i parlamentari valutano la loro idoneità a ricoprire l’incarico. A norma del Trattato di Lisbona, inoltre, il Parlamento elegge il presidente della Commissione, indicato dagli Stati membri sulla base degli esiti delle elezioni europee. A partire dalle consultazioni del 2014 – sempre nella prospettiva di un rafforzamento della legittimazione democratica delle istituzioni dell’Unione – i partiti politici europei sono invitati a presentare i loro Spitzenkandidaten, ossia le personalità politiche che vogliono siano designate per la presidenza della Commissione nel caso in cui conquistassero il maggior numero di seggi in Parlamento. Un meccanismo quest’ultimo che l’assemblea di Strasburgo ha valutato in modo estremamente positivo, tanto da dirsi pronta come istituzione a respingere ogni candidato alla presidenza della Commissione che non sia Spitzenkandidat.

L’art. 14 par. 2 TUE stabilisce che il numero dei parlamentari europei non può essere superiore a 750, più il presidente. La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo «degressivamente proporzionale», con una soglia minima di 6 eurodeputati e una massima di 96 per ciascuno Stato membro.

 

Come si vota. Criteri comuni ed elezione degli eurodeputati italiani

L’elezione degli europarlamentari avviene sulla base di una disciplina che, partendo da alcuni criteri comuni definiti in sede europea, si traduce poi in formule differenti nei vari Stati membri. Rimane comunque fermo l’obiettivo – che non ha ancora trovato concreta attuazione – delineato dall’art. 223 par. 1 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che prevede l’elaborazione di un progetto volto a stabilire le disposizioni necessarie per l’elezione dei membri dell’Europarlamento secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri.

In base a quanto disposto nell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti nell’assemblea a suffragio universale diretto – firmato a Bruxelles nel 1976 e destinato a delineare le disposizioni essenziali per l’elezione diretta degli eurodeputati – i rappresentanti eletti al Parlamento europeo esercitano il loro mandato per cinque anni, mentre le consultazioni si svolgono nella data fissata da ciascuno Stato membro entro un lasso di tempo compreso tra la mattina del giovedì e la domenica immediatamente successiva. Le operazioni di spoglio delle schede possono invece avere inizio soltanto dopo la chiusura dei seggi nello Stato membro in cui gli elettori hanno votato per ultimi. L’Atto indica inoltre alcune condizioni di incompatibilità tra la carica di eurodeputato e altri incarichi.

La disciplina è stata poi modificata e aggiornata con la decisione 2002/772/CE, Euratom, che ha disposto in particolar modo l’elezione degli eurodeputati sulla base di un sistema di tipo proporzionale, previsto la possibilità di suddivisione del territorio degli Stati membri in diverse circoscrizioni, attribuito agli Stati la facoltà di introdurre una soglia di sbarramento per l’attribuzione dei seggi comunque non superiore al 5% dei voti e introdotto una clausola di incompatibilità tra l’incarico di parlamentare europeo e quella di parlamentare nazionale.

Ulteriori interventi emendativi sono poi arrivati con la decisione 2018/994 del Consiglio, che non si applica tuttavia alle imminenti elezioni.

Il sistema elettorale italiano per l’elezione degli europarlamentari è definito dalla l. 18/1979, integrata ed emendata attraverso successivi provvedimenti che ne hanno aggiornato il contenuto e hanno provveduto al suo adeguamento alla rinnovata disciplina comunitaria. Il diritto di elettorato attivo può essere esercitato dai cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età ed è assicurato anche agli elettori di altri Stati membri dell’UE residenti in Italia che abbiano provveduto a iscriversi in un’apposita lista. Per essere invece eletti, è necessario aver compiuto 25 anni.

Il riparto dei seggi avviene su base proporzionale a livello nazionale, con il sistema dei quozienti interi e dei maggiori resti. Il territorio del Paese è suddiviso poi in cinque circoscrizioni territoriali, nelle quali le forze politiche presentano le loro liste di candidati: Italia Nord-Occidentale (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia: totale 20 seggi), Italia Nord-Orientale (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna: totale 15 seggi), Italia Centrale (Toscana, Umbria, Marche, Lazio: totale 15 seggi), Italia Meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria: totale 18 seggi) e Italia Insulare (Sicilia, Sardegna: totale 8 seggi). L’assegnazione degli scranni avviene nel collegio unico nazionale; una volta calcolati i seggi spettanti a ciascuna lista, questi vengono poi riassegnati alle circoscrizioni sulla base dei voti ottenuti dalle liste in ciascuna di esse. Completata l’attribuzione dei seggi in ogni circoscrizione per ciascuna delle liste, risulteranno eletti i candidati che – sulla base di tale riparto – avranno conseguito il maggior numero di preferenze. Per partecipare alla distribuzione dei seggi, è necessario il superamento di una soglia di sbarramento del 4%; un candidato può presentarsi in più circoscrizioni e all’elettore è assicurata la possibilità di esprimere fino a tre preferenze, purché si tratti di candidati di generi diversi.

In base alla decisione 2018/937 del Consiglio europeo, all’Italia spetterebbero per la legislatura 2019-2024 76 seggi, ma il mancato perfezionamento della Brexit mantiene per il momento fermo il numero degli scranni ai 73 attuali. I 3 seggi mancanti saranno poi assegnati una volta che l’uscita del Regno Unito dall’UE sarà stata completata.

 

Immagine: Aula delle Assemblee del Parlamento europeo, Bruxelles, Belgio (26 giugno 2012). Crediti: Donlawath S / Shutterstock.com

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In Venezuela inizia l’era Maduro

“Se qualcosa dovesse impedirmi di esercitare il mio mandato e fosse necessario convocare nuove elezioni, scegliete Nicolás Maduro come presidente del Venezuela”. Con questa richiesta, che veniva “desde mi corazón”, Hugo Chávez si è simbolicamente congedato dal suo popolo l’8 dicembre del 2012, prima di partire per Cuba e sottoporsi all’ultima, inutile operazione contro un cancro che aveva oramai preso il sopravvento.
Una designazione ufficiale, con il padre della Revolución Bolivariana che indicava in diretta televisiva all’intera nazione il suo erede, peraltro avendo accanto a sé uno dei più accreditati antagonisti di Maduro nella leadership post-chavista, quel Diosdado Cabello presidente dell’Assemblea nazionale del Venezuela forte anche di un passato da militare, che nella corsa alla successione poteva rappresentare un punto di vantaggio.
Già ministro degli Esteri per oltre sei anni ed incaricato vicepresidente dopo la vittoria elettorale di Chávez nelle presidenziali di ottobre 2012, Nicolás Maduro ha mostrato a tutto il mondo il suo volto quando, in lacrime, ha annunciato in video la morte del comandante presidente il 5 marzo, dopo essersi cimentato in un collaudato esercizio di retorica antistatunitense denunciando un piano di destabilizzazione contro il Venezuela, che avrebbe portato alla malattia dell’amato líder – da scriversi rigorosamente secondo la fonetica spagnola – e che eminenti scienziati avrebbero potuto confermare. Convocate le elezioni per il 14 aprile, all’ex autista di autobus e sindacalista toccava il compito di non dilapidare il patrimonio di 1 milione e 500 mila voti in più che Chávez aveva conquistato nelle consultazioni di sei mesi prima contro lo stesso avversario, il governatore dello Stato di Miranda Henrique Capriles Radonski. Una missione considerata alla portata di Maduro, nonostante un evidente vulnus nell’esercizio di una leadership carismatica ulteriormente accentuato dal confronto con il suo illustre predecessore.
I richiami del giovane delfino al comandante presidente sono stati molto frequenti prima e durante la campagna elettorale, spesso nella romantica formula della narrazione mistica: nei racconti di Maduro, Chávez è così diventato un uccellino svolazzante che ha girato intorno a lui tre volte per benedirlo mentre era raccolto in preghiera, esortandolo alla battaglia per la vittoria; ma anche una nuova voce che si è fatta sentire in cielo perché il successore di Benedetto XVI fosse sudamericano.
Persino la canzone ufficiale del candidato chavista, “Maduro desde mi corazón”, è un concentrato di riferimenti al Bolívar dei nostri tempi: evidente il contenuto evocativo del titolo, che riporta alla mente le parole del discorso di Chávez con cui è stato aperto questo articolo, e il ritornello recita un inequivocabile quanto eloquente Chávez per sempre, Maduro presidente. Chávez te lo giuro, il mio voto è per Maduro”. Eppure, all’uomo che secondo un articolo comparso sul sito del quotidiano conservatore spagnolo ABC avrebbe pronunciato in campagna elettorale il nome di Chávez più di 7.000 volte, il ricordo del presidente scomparso è valso solo una risicata vittoria. Maduro è infatti riuscito ad avere la meglio su Capriles, ma ottenendo il 50,66% dei consensi a fronte del 49,07% del suo avversario, con uno scarto di soli 235.000 voti. Il governatore dello Stato di Miranda non ha accettato il responso e ha chiesto il riconteggio dei voti, ma il Consiglio elettorale ha dichiarato il risultato “irreversibile”. Nel Paese sono così scoppiati gli scontri, con gli antichavisti che sono scesi in piazza e gli uomini vicini al nuovo presidente che hanno parlato di progetti golpisti dell’opposizione, chiedendo ai loro sostenitori di mobilitarsi. Il bilancio delle violenze, secondo fonti locali, sarebbe al momento in cui si scrive di sette morti.
La vittoria di Maduro segna comunque l’inizio di un cammino presidenziale che non sarà affatto facile: il delfino di Chávez eredita un Paese in cui l’economia, nonostante una crescita del Pil che ha superato il 5%, è ancora in gran parte dipendente dai proventi della vendita del petrolio, il debito pubblico è in aumento anche se ancora intorno al 50% del Pil, l’inflazione galoppa al 22,2% e la scarsità dei generi alimentari ha assunto contorni estremamente preoccupanti. Come tuttavia ricordava Francesca D’Ulisse in una sua analisi su questo magazine, Chávez è stato il presidente che ha dimezzato il livello di disuguaglianza attraverso importanti investimenti nei programmi sociali a sostegno dei più poveri, le Misiones Bolivarianas, e per la prima volta quel popolo dimenticato dalle classi politiche al potere si è sentito rappresentato grazie a lui. Oggi, Maduro si trova davanti una sfida assai complessa e dovrà prendere importanti decisioni, che potrebbero cambiare il destino del Venezuela. Come suggeriva il Financial Times in un articolo pubblicato il giorno dopo la morte di Chávez, la contingente situazione economica potrebbe portare il neo-eletto presidente ad adottare un approccio marcatamente pragmatico, ma citando un analista dell’Eurasia Group, si evidenziava anche come non sia improbabile una ulteriore radicalizzazione delle scelte, per garantire quanto meno sotto il profilo formale la continuità con la rivoluzione chavista. Il dilemma teorico della riproducibilità del chavismo senza Chávez, su cui gli studiosi si sono interrogati, troverà con il tempo una risposta. Come si organizzerà la borghesia bolivariana – la “boliborghesia” - proliferata e arricchitasi negli anni al potere del caudillo venezuelano, è troppo presto per dirlo, ma può darsi che il calo dei consensi fatto registrare da Maduro sia imputabile anche alle crepe all’interno del fronte chavista oltre che alle carenze del nuovo presidente sotto il profilo della leadership. Henrique Capriles ha giocato la sua partita accostando il suo avversario al regime cubano e definendolo “candidato di Raúl Castro”, presentando se stesso come il candidato dei venezuelani. E anche dopo l’annuncio dei risultati, il governatore dello Stato di Miranda ha dichiarato che “lo sconfitto oggi è Maduro”, così come non è mancato chi ha parlato di “vittoria di Pirro” per il delfino di Chávez. Lo stesso Diosdado Cabello, che pure non ha esitato a definire Capriles “fascista” sul suo profilo Twitter, attraverso il celebre social network invita i chavisti ad una “profonda autocritica”, ritenendo “contraddittorio che parti della popolazione povera abbiano votato per chi li ha sempre sfruttati”. È troppo presto anche per capire che ne sarà della geopolitica di Hugo Chávez e dell’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA) di cui è stato fondamentale promotore, ma il quadro si farà con il tempo più chiaro. Capriles ha ragione quando, riferendosi a Maduro e ad eventuali paragoni politici con Chávez, dice che “se Batman indossa un mantello, non per questo vola come Superman”, ma fino al 2019 ci sarà l’erede del comandante presidente a Palazzo Miraflores.
Forse da chavista come e più di Chávez, o forse in un altro modo. Avremo sei anni di tempo per capirlo.

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Il voto in Spagna visto da vicino

«¡Hemos hecho que pase!».

Parole che ripropongono lo slogan della campagna elettorale – «Haz que pase» – e lo aggiornano, passando dall’esortazione della seconda persona singolare dell’imperativo Haz alla realtà di una prima persona plurale del passato prossimo, Hemos hecho. Dunque, da «Fa’ sì che accada!» ad «Abbiamo fatto sì che accadesse!», ossia «Ci siamo riusciti!». Dalla sede del Partido socialista obrero español (PSOE), Pedro Sánchez è raggiante: è lui il protagonista della cavalcata trionfale del partito verso la vittoria nelle elezioni nazionali, a undici anni dall’ultimo successo conquistato sotto la leadership di José Luis Rodríguez Zapatero. Una rivincita personale importante, che arriva dopo le sconfitte elettorali subite dai socialisti nelle due elezioni ravvicinate del dicembre 2015 e del giugno 2016: allora, fu proprio Sánchez a finire sul banco degli imputati all’interno del partito, non solo per i risultati elettorali deludenti, ma anche per la sua fermezza nel non facilitare la formazione di un nuovo esecutivo popolare guidato dal primo ministro uscente Mariano Rajoy. Una posizione netta di cui pagò le conseguenze, venendo di fatto sfiduciato e costretto alle dimissioni da segretario nell’ottobre del 2016. Pochi mesi dopo però – nel maggio 2017 – sarebbe tornato alla guida del partito, fino ad arrivare nel giugno del 2018 alla presidenza del governo, dopo l’approvazione di una mozione di sfiducia contro l’esecutivo Rajoy indebolito dallo scandalo di corruzione del caso Gürtel, che aveva travolto il Partido popular.

Poi – a soli otto mesi dall’insediamento del suo governo di minoranza – la scelta di ricorrere al voto anticipato, dopo che gli indipendentisti catalani si erano uniti al fronte formato dai popolari e da Ciudadanos nel respingere la proposta di legge di bilancio.

E le urne – in linea con le attese – hanno premiato i socialisti. Su scala nazionale, il PSOE ha ottenuto il 28,7% dei voti e potrà contare su 123 dei 350 seggi del Congreso de los diputados, Camera bassa del Parlamento spagnolo legata da un rapporto esclusivo di fiducia con l’esecutivo.

Al secondo posto si colloca il Partido popular, il cui consenso crolla però rispetto alle elezioni di giugno 2016 che lo videro trionfare con il 33% delle preferenze e 137 scranni: la forza politica guidata da Pablo Casado si è infatti fermata al 16,7% dei voti e ha conquistato soltanto 66 seggi, ottenendo il peggior risultato elettorale della sua storia e più che dimezzando la sua compagine parlamentare al Congreso de los diputados.

Al terzo posto si è attestato Ciudadanos, che forte del 15,9% dei voti potrà contare su 57 seggi – ben 25 in più rispetto a quelli conquistati nelle elezioni del 2016 – e provare a proporsi nell’immediato futuro come nuovo soggetto di riferimento del centrodestra spagnolo, complice la crisi dei popolari. Un risultato di cui il partito di Albert Rivera può essere soddisfatto, pur non avendo centrato l’ambizioso obiettivo del ‘doppio sorpasso’ ai danni del Partido popular – per il momento ancora avanti – e di Unidas podemos, che invece ha ceduto il passo a Ciudadanos ed è oggi quarta forza politica del Paese, con il 14,3% dei voti e 42 seggi.

Il risultato politico più atteso era però probabilmente quello dell’estrema destra di Vox, che dopo gli esiti positivi delle elezioni regionali in Andalusia nel mese di dicembre cercava una conferma a livello nazionale. Tra le parole d’ordine del partito di Santiago Abascal, Hacer España grande otra vez, rendere cioè di nuovo grande la Spagna; uno slogan che – visti i contatti avuti da Vox con Steve Bannon – riecheggia non casualmente il Make America Great Again di Donald Trump. Nel corso della campagna elettorale non sono poi mancati mantra come España, lo primero e Los españoles primero, edizioni iberiche del trumpiano «America first» e di quel «Prima gli italiani» su cui la Lega di Matteo Salvini ha costruito parte del proprio consenso e successo politico. E proprio da Salvini sono arrivati alla vigilia del voto gli auguri ad Abascal e a Vox, con l’auspicio di portare in Spagna «Lo stesso cambiamento che la Lega ha portato in Italia». Un messaggio di supporto e di vicinanza, ben lontano dai toni bruschi con cui proprio Abascal sollecitava Salvini su Twitter a non immischiarsi nelle questioni politiche spagnole, dopo che il leader della Lega – nel marzo del 2018 – aveva postato un cinguettio in cui sosteneva che gli arresti in Catalogna avrebbero soltanto aggravato la crisi. È infatti sulla dura opposizione all’indipendenza della Catalogna che Vox ha costruito buona parte del suo seguito, risvegliando il nazionalismo spagnolo in contrapposizione a quello catalano. Come però ha osservato in un suo contributo per Foreign policy Pablo Pardo – corrispondente dagli Stati Uniti per il quotidiano El mundo – Vox aggiunge a questo argomento di matrice marcatamente nazionale temi quali la rigida contrarietà all’immigrazione, la retorica anti-islam, il rafforzamento del diritto a possedere armi e il rifiuto delle posizioni ‘mondialiste’, che lo pongono in sostanziale continuità ideologica con i movimenti nazional-sovranisti che si sono radicati negli ultimi anni sulla scena politica globale. Oggi, Vox è la quinta forza politica di Spagna, con il 10,3% dei voti e 24 seggi al Congreso del los diputados. 

Terminato lo spoglio delle schede e celebrata la vittoria, il PSOE è ora chiamato ad affrontare i negoziati per la formazione del nuovo esecutivo, non disponendo della maggioranza assoluta per governare autonomamente. Per il momento, Sánchez non sembra aver chiuso la porta ad alcuna opzione di governo, anche se la portavoce di Ciudadanos Inés Arrimadas ha escluso qualsiasi possibilità di negoziato con i socialisti, sottolineando come il partito non possa scendere a compromessi con chi «ha fatto accordi» con l’attuale presidente della Catalogna Quim Torra, l’ex presidente catalano Puigdemont e i baschi di EH-Bildu, a ulteriore riprova di quanto la questione degli indipendentismi abbia segnato la campagna elettorale spagnola e farà sentire il suo peso nella formazione dell’esecutivo. Sánchez sarà dunque probabilmente chiamato a trovare un accordo con Unidas podemos – che preme sul PSOE per la formazione di un governo più orientato a sinistra – e con le forze nazionaliste e indipendentiste, riannodando in particolare la tela del dialogo con i catalani. A tal proposito, il leader socialista è comunque stato chiaro: il confronto dovrà avvenire nel quadro delle regole costituzionali e non sarà ammesso alcun referendum per l’autodeterminazione. Forte dei suoi 123 seggi, il PSOE resta ottimista e attende fiducioso gli esiti delle elezioni municipali e regionali in programma il 26 maggio, convinto che dal voto locale la sua posizione potrà uscire ulteriormente rafforzata.

Sánchez ha giocato la sua partita e l’ha vinta. Al riguardo, nel suo editoriale il direttore di El Independiente Casimiro García-Abadillo ha rilevato come la massiccia affluenza alle urne – pari al 75,8% degli aventi diritto – ricordi molto quella dell’80% registrata alle elezioni dell’ottobre del 1982, le prime dopo il tentativo di golpe del luogotenente colonnello Antonio Tejero nel febbraio 1981. Anche allora, a uscire vincitori dalle urne furono i socialisti con Felipe González. Sánchez è dunque riuscito a mobilitare l’elettorato contro il rischio di uno spostamento a destra del Paese, e a pagare il conto è stato innanzitutto il Partido popular, che proponendo una piattaforma decisamente più orientata a destra che in passato, da una parte ha perso voti al centro a vantaggio di Ciudadanos, e dall’altra non è riuscito a fermare l’emorragia di consensi verso Vox.

Intanto, come ha osservato su Twitter Pol Morillas, direttore del CIDOB - Barcelona Centre for International Affairs, tra sostanziale fine del bipartitismo, polarizzazione della competizione politica e affermazione di una forza di estrema destra come Vox – anche se con meno seguito che in altri Paesi del vecchio continente – anche la politica spagnola pare aver assunto i caratteri tipici degli attuali sistemi politici europei.

 

Immagine: Pedro Sánchez al raduno del Partito socialista operaio spagnolo (PSOE) a Gijon, Spagna (8 maggio 2015). Crediti: StockPhotoAstur / Shutterstock.com

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Nuova Via della Seta, l’Italia al centro

«L’Italia è una delle principali economie mondiali e un’importante destinazione per gli investimenti. Sostenere la Belt and road initiative offre legittimità all’approccio predatorio cinese agli investimenti e non apporterà alcun beneficio ai cittadini italiani». Le dure parole twittate dall’account del National security council della Casa Bianca lanciano un segnale inequivocabile a Roma: il supporto formale dell’esecutivo alle Nuove Vie della Seta cinesi non incontrerebbe il favore di Washington, contraria a un’iniziativa che interpreta come esclusivamente finalizzata alla tutela degli interessi di Pechino.

Le tensioni legate al mastodontico progetto infrastrutturale, commerciale e geopolitico cinese, alla sua proiezione verso Occidente e alle possibili reazioni degli Stati Uniti, sono tornate di scottante attualità nel corso dell’ultima settimana, quando il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci – nel corso di un’intervista pubblicata il 6 marzo sul Financial Times – ha dichiarato che l’Italia è pronta a firmare un Memorandum of understanding a supporto della Belt and Road Initiative (BRI). Da una parte – ha puntualizzato il sottosegretario – i negoziati non potevano considerarsi conclusi, ma dall’altra rimaneva l’intenzione di chiudere le trattative in tempo per la visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping tra il 21 e il 24 marzo, così da siglare l’intesa in quell’occasione. Quanto alle finalità della cooperazione italo-cinese, Geraci ha ricondotto l’interesse italiano verso le Nuove Vie della Seta a una dimensione prettamente economica: dunque, nessuna implicazione geopolitica, ma soltanto l’obiettivo di creare le condizioni affinché il made in italy possa avere maggiore successo in Cina e radicarsi più facilmente in un mercato di crescente importanza.

Le rassicurazioni così formulate – unite alla considerazione che il Memorandum of understanding non è uno strumento giuridico vincolante – non sembrano tuttavia aver convinto Washington, che attraverso il portavoce del National security council Garrett Marquis ha fatto immediatamente arrivare la sua replica dalle colonne dello stesso Financial Times. La BRI – questa è la posizione degli Stati Uniti – rimane un progetto pensato dalla Cina per la Cina, senza che alle controparti siano assicurati adeguati benefici; se poi c’è da credere che nell’immediato l’Italia non godrà dei benefici auspicati dall’intesa, nel lungo periodo la reputazione internazionale del Paese potrebbe risultare danneggiata. La posizione statunitense è dunque chiara: gli alleati non devono cedere al fascino della diplomazia cinese delle infrastrutture, ma al contrario sono chiamati a esercitare pressioni su Pechino affinché i suoi investimenti all’estero siano in linea con le migliori pratiche e gli standard internazionali.

Le parole del sottosegretario Geraci hanno poi trovato conferma nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha definito le Nuove Vie della Seta «un importante progetto di connettività infrastrutturale» e sottolineato come esse possano rappresentare – pur con tutte le cautele necessarie – «un’opportunità per il nostro Paese». Pur ribadendo poi che l’imminente incontro con Xi Jinping rappresenterà l’occasione per procedere alla firma del Memorandum, il primo ministro ha comunque voluto rassicurare gli scettici, evidenziando come l’accordo quadro non implichi alcun vincolo, ma consenta all’Italia di «entrare e dialogare» circa le potenzialità del progetto. Conte ha quindi reso nota la sua disponibilità a prendere parte al summit sulla Belt and Road Initiative in programma a Pechino per il mese di aprile.

L’interesse di Roma verso le Nuove Vie della Seta non può considerarsi una novità riconducibile esclusivamente all’azione di questo governo: da tempo, infatti, l’Italia è spettatrice attenta alle evoluzioni dell’iniziativa, per via di una collocazione geopolitica strategica che le consentirebbe – grazie ai suoi porti – di fungere da punto di raccordo tra la rotta marittima e quella terrestre del progetto. La disponibilità di Conte a recarsi a Pechino per il vertice di aprile, così come il viaggio in Cina del ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio lo scorso settembre, possono dunque essere letti nella prospettiva di una certa continuità con l’operato dell’esecutivo Gentiloni, che da primo ministro aveva partecipato nel maggio del 2017 al Belt and road forum for international cooperation e si era premurato di sottolineare la posizione privilegiata dell’Italia nel cuore del Mediterraneo nonché il potenziale del Paese sul fronte dei porti e della logistica. Proprio in occasione del forum, Gentiloni ebbe inoltre modo di sottolineare come fosse necessario pensare alla costruzione di una «Via della seta della conoscenza», puntando l’attenzione sui proficui scambi scientifici e culturali che – accanto agli importanti contatti commerciali – fanno parte da secoli dell’interazione tra Italia e Cina. Marco Polo e Matteo Ricci sono a tal riguardo figure emblematiche, così come lo è il sacerdote secolare e missionario Matteo Ripa, che tra il 1711 e il 1723 lavorò alla corte dell’imperatore mancese Kangxi e, tornato a Napoli con quattro giovani cinesi e un maestro di lingua e scrittura mandarine, fondò nella città partenopea il Collegio dei cinesi, primo nucleo da cui sarebbe poi nata – come si legge sul sito dell’Ateneo – l’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’.

Se però da una parte lo sguardo italiano verso Oriente non è una novità, dall’altra l’annuncio dell’imminente firma del Memorandum non lascia tranquilli gli Stati Uniti, al di là delle rassicurazioni circa la natura non vincolante del documento e sul suo valore come iniziale piattaforma di cooperazione. Secondo quanto riportato dal sito EURACTIV – che avrebbe avuto accesso al testo del Memorandum – l’accordo prevede un impegno comune di Italia e Cina nella promozione di sinergie e nel rafforzamento di reciproci comunicazione e coordinamento, oltre alla prospettiva di un consolidamento del dialogo politico sugli standard tecnici e di regolamentazione. Il documento definisce inoltre la cornice entro la quale collocare forme di cooperazione più specifiche e accordi commerciali meno rilevanti, compresi alcuni investimenti di società cinesi nel porto di Trieste.

L’Italia non sarebbe il primo Paese dell’Unione Europea a siglare il Memorandum of understanding con Pechino sulla BRI, ma sarebbe il primo del club del G7, diventando così la maggiore economia a supportare il progetto. Ed è questa – ha osservato il direttore del Reconnecting Asia Project presso il Center for strategic and international studies Jonathan Hillman – una novità non di poco conto, perché le realtà che hanno finora aderito all’iniziativa di Pechino presentano dimensioni economiche decisamente minori rispetto a quelle dell’Italia, e vedono nella mano tesa cinese una straordinaria occasione per dare corpo a progetti infrastrutturali che sarebbe difficile finanziare in altro modo. Per Roma però il discorso appare diverso ed è per questo che la firma del Memorandum con l’Italia avrebbe per Xi Jinping un significato particolare e di forte rilevanza innanzitutto politica: grazie all’accordo, infatti, Pechino potrebbe fregiarsi non solo del supporto di una delle più importanti economie dell’Occidente – ottenendo quindi una legittimazione di grande peso per il suo progetto –, ma anche di una realtà collocata in una posizione strategicamente rilevante, nel cuore dell’alleanza NATO e dell’Europa, spazi sui quali gli Stati Uniti esercitano un’influenza alla quale non intendono rinunciare. Di qui l’irritazione di Washington, che sa bene come accanto alla dimensione geoeconomica della BRI risieda una importantissima dimensione geopolitica, con Pechino impegnata ad ampliare il proprio raggio d’azione e a farsi valere come potenza globale.

Per l’Italia – ha osservato sul Financial Times James Kynge – le Nuove Vie della Seta rappresentano un’occasione per attrarre risorse in un momento economicamente complesso. Inoltre, il favore italiano verso la Belt and Road Initiative potrebbe convincere Pechino ad allentare i suoi controlli sugli investimenti delle compagnie cinesi all’estero e a mostrarsi più generosa verso Roma. Non è però un mistero che Washington – ancora impegnata in una guerra commerciale con la Cina – guardi con particolare diffidenza al dinamismo di Pechino e ai suoi investimenti, per le loro implicazioni geopolitiche e strategiche. In tal senso, esemplificativa è l’ostilità statunitense all’espansione di Huawei e ZTE, con Washington a esercitare pressioni sugli alleati affinché escludano dallo sviluppo delle tecnologie 5G le infrastrutture offerte dai colossi cinesi, per ragioni di sicurezza nazionale. Il sospetto americano è che quelle tecnologie possano infatti essere utilizzate per operazioni di spionaggio e per controllare cittadini e aziende: un ulteriore capitolo della rivalità sino-statunitense da cui l’Italia non è esclusa.

Dunque, il confronto tra Washington e Pechino si accende, e l’Italia pare essere al centro della partita. Le Nuove Vie della Seta rappresentano un progetto a cui Roma non sembra voler rinunciare, convinta che le occasioni di cooperazione e investimento – anche oltre l’ambito infrastrutturale – siano in linea con l’obiettivo di tutela dell’interesse nazionale, un principio a cui peraltro i partner occidentali hanno non di rado accordato la preferenza anche a costo di far scricchiolare equilibri e alleanze esistenti. Fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che alla difesa degli interessi nazionali sarà dedicata la massima attenzione, con la protezione delle infrastrutture strategiche – incluse quelle delle telecomunicazioni – e la piena garanzia della sicurezza cibernetica. Con la precisazione che il quadro dei rapporti politici e la collocazione euro-atlantica dell’Italia non saranno ridefiniti da una collaborazione che Roma intende declinare su un piano economico-commerciale.

 

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Il vertice di Marrakech e il destino della Siria

“Yalla erhal ya Bashar”.
“È giunta l’ora che te ne vada, Bashar”.

È quanto recita una canzone divenuta popolare fra gli oppositori del sanguinario regime del dittatore siriano Bashar Assad, ma potrebbe anche essere una sintesi estremamente concisa dell’intesa raggiunta dal gruppo dei Paesi “Amici del popolo siriano” in occasione del loro quarto vertice, tenutosi nella città marocchina di Marrakech lo scorso 12 dicembre.
Durante la conferenza, le delegazioni degli oltre 100 Stati partecipanti hanno convenuto sul fatto che Assad non goda più di alcuna legittimità nell’esercizio del potere politico e dovrebbe pertanto favorire il processo di transizione, sottolineando altresì che un eventuale uso di armi chimiche da parte del dittatore alawita comporterebbe una dura risposta. 
Fin qui un copione già sentito; formulato sull’ormai consolidato canovaccio delle decine di dichiarazioni di condanna che si sono susseguite negli ultimi 21 mesi contro un regime brutalmente repressivo, su cui però una comunità internazionale rissosa e divisa non riesce a trovare una posizione comune. Nel frattempo, la rivoluzione ha subìto la tanto temuta metamorfosi trasformandosi in guerra civile, le contrapposizioni fra le diverse fazioni si sono esacerbate e la crudele “aritmetica del conflitto” di cui si è già parlato su questo magazine (https://www.treccani.it/magazine/societa/Siria_Aritmetica_di_un_conflitto.html) porta a oggi in dote con sé circa 40.000 vittime.
A Marrakech tuttavia, le diplomazie non si sono limitate a un mero esercizio di retorica. Nel corso del vertice è stata infatti annunciata la decisione di riconoscere la Coalizione Nazionale delle forze rivoluzionarie e di opposizione quale “legittima rappresentante” del popolo siriano, perché – stando alle parole del presidente americano Barack Obama che alla vigilia del summit marocchino aveva anticipato questa scelta per conto degli Usa -  “abbiamo constatato che la coalizione è oggi sufficientemente inclusiva da potersi considerare legittima rappresentante del popolo siriano in opposizione al regime di Assad”.
Ed è proprio l’annuncio degli Usa a rappresentare la novità più rilevante dell’incontro, perché Paesi quali la Turchia, la Francia, la Gran Bretagna e le petromonarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo avevano già provveduto al riconoscimento della legittimità rappresentativa della Coalizione Nazionale anti Assad.
L’inquilino della Casa Bianca ha tuttavia lasciato intendere che Washington monitorerà attentamente la situazione e che l’apertura di credito della superpotenza a stelle e strisce verso un soggetto rappresentativo di quel composito fronte mediaticamente presentato sotto l’onnicomprensiva e impalpabile etichetta di “ribelli”, rimarrà vincolata al rispetto di ben precisi criteri e requisiti. La frase “al riconoscimento seguono delle responsabilità” pronunciata da Obama non lascia del resto spazio ad altre interpretazioni.
Sotto il profilo politico – spazio entro il quale queste iniziative vanno rigorosamente collocate senza trascendere nella dimensione giuridica – il passo è sicuramente importante: la Coalizione Nazionale si vede infatti riconosciuta come forza di opposizione unitaria e può proseguire con rinnovato slancio la sua lotta contro Bashar Assad, forte dell’appoggio ufficiale di un’ampia platea di attori internazionali che dovrebbe tradursi in un concreto sostegno economico alla causa rivoluzionaria. Ed è soprattutto di questo che ha oggi bisogno la Coalizione nazionale, come ha fatto chiaramente capire il suo leader Moaz al-Khatib, che peraltro ha avuto nei giorni scorsi motivi di attrito con la Casa Bianca.
Gli Stati Uniti per il momento non solo non hanno intenzione di armare l’opposizione ad Assad – anche se alcune fonti sostengono il contrario – ma poche ore prima del vertice di Marrakech hanno inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche la brigata al-Nusra, che ha creato tante difficoltà ai lealisti del regime e sarebbe affiliata a cellule irachene di al-Qaida. “Possiamo essere in disaccordo con alcune compagini, con le loro idee e con la loro visione ideologica e politica, ma tutte le pistole dei ribelli hanno l’obiettivo di rovesciare questo regime tirannico”, ha affermato al-Khatib per esprimere le sue perplessità sulla posizione assunta dagli Usa nei confronti di al-Nusra.
In effetti, non sono in pochi ad aver puntato il dito contro Washington per una eccessiva passività sul caso siriano, a fronte di Paesi come Arabia Saudita e Qatar che hanno da tempo cominciato ad armare le forze ostili ad Assad. Obama ha tuttavia vissuto un anno politicamente molto delicato, in cui ha dovuto competere per la rielezione, e temeva che impegnare gli Stati Uniti in un altro fronte dopo quelli aperti da Bush in Afghanistan e in Iraq potesse giocargli contro; senza peraltro considerare la difficile sostenibilità economica dell’operazione per un Paese che ha comunque vissuto ( e in parte continua a vivere) una importante crisi economica.
Al momento, gli scenari futuri sono imperscrutabili, ma le decisione americana di riconoscere l’opposizione della Coalizione Nazionale come legittima rappresentante del popolo siriano ha un po’ smosso le acque, lasciando interdetta la Russia che assieme ad Iran e Cina si è fieramente schierata a difesa dello status quo regionale e ha declinato l’invito a partecipare al vertice di Marrakech. Il ministro degli Esteri di Mosca Lavrov ha affermato che la scelta statunitense “contraddice gli accordi raggiunti con il comunicato di Ginevra, che presumevano l’inizio di un dialogo comune sulla Siria”, lasciando trasparire una certa insofferenza. Difficile che per ora il Cremlino cambi la sua posizione sul caso siriano, ma con il passare del tempo Mosca potrebbe rischiare di rimanere diplomaticamente sempre più isolata, e se il regime di Assad dovesse un giorno essere sul punto di crollare, gli strateghi russi potrebbero silenziosamente defilarsi dalla difesa del dittatore alawita e cercare un modo onorevole per sauver la face e mantenere gli interessi geostrategici che hanno in Siria, su tutti l’uso della base navale di Tartus. E proprio nella zona di Tartus, assieme a due colleghi ingegneri probabilmente russi, è stato rapito il nostro connazionale Mario Belluomo, originario di Catania. La Farnesina ha attivato l’Unità di crisi e la famiglia ha chiesto il silenzio stampa.
Mentre i ribelli continuano a cantare “Yalla erhal ya Bashar” e l’“aritmetica del conflitto” avanza sempre più cinica, la speranza è che l’iniziativa di Marrakech riesca a rendere la guerra più breve di almeno un giorno.
E che presto arrivino buone notizie sul nostro connazionale rapito.

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Il vero Maometto? Ce lo svelerà il Qatar

Andy Wharol aveva predetto 15 minuti di celebrità per ogni individuo sulla Terra. La fama di Nakoula Basseley Nakoula, cristiano copto egiziano residente negli Usa e produttore del film “Innocence of muslims” che ha infiammato il mondo islamico, è durata un po’ di più ma è probabilmente destinata a tramontare nei brevi tempi previsti dal padre della pop art. Pian piano il fuoco delle proteste si va affievolendo, ma le immagini dei manifestanti davanti all’ambasciata americana del Cairo, dell’assalto al consolato Usa a Bengasi in cui ha perso la vita l’ambasciatore Christopher Stevens e la successiva diffusione in forma quasi “epidemica” delle rivolte, ci hanno consegnato un’istantanea di un’immensa regione geopoliticamente instabile ed in continuo fermento, dal Maghreb, alla Penisola araba fino al Pakistan. Anche nel piccolo e ricchissimo emirato del Qatar, noto agli analisti di geopolitica per il suo sostegno alla causa dei protagonisti della “primavera siriana”, non sono mancate le rimostranze per una pellicola che offende la sensibilità dei fedeli musulmani, che non soltanto rappresenta il profeta Maometto nelle sue fattezze umane – cosa di per sé già inaccettabile per l’ortodossia islamica – ma addirittura lo dipinge come un poco di buono ed un inguaribile donnaiolo. Circa 2.000 persone si sono riversate nelle strade della capitale qatariota Doha, sotto lo stretto controllo delle forze dell’ordine locali, per dirigersi verso l’ambasciata americana e far sentire la loro voce al grido di “Allah è il nostro Dio e Maometto è il suo profeta” e del più sinistro, anche se abbastanza isolato, “Obama, Obama, qui siamo tutti Osama! (bin Laden)” Proprio dal Qatar è però rimbalzata la notizia che una famosa compagnia nazionale, la AlNoor Holdings, avrebbe in cantiere la realizzazione di una trilogia dedicata al grande profeta dell’Islam Maometto, la cui produzione cinematografica dovrebbe essere affidata ad un produttore di chiara fama internazionale come Barrie Osborne, che ha già finanziato la saga de “Il signore degli anelli” e “Matrix”. Dunque un progetto ambizioso, i cui costi sono stati stimati in circa 150 milioni di dollari a pellicola e che avrà l’obiettivo, secondo quanto recita il comunicato emesso dalla AlNoor Holdings, di svelare al mondo “la vera immagine del profeta”. In realtà, le proteste seguite alla traduzione in arabo del trailer di “Innocence of muslims” pubblicato su YouTube hanno soltanto svolto l’involontaria funzione di cassa di risonanza per un progetto che aveva già preso forma nel 2009, come testimoniano i lanci di agenzia di tre anni fa che annunciavano la produzione di “un grande film (dunque non una trilogia, ndr) sulla vita di Maometto” che nelle parole di Barrie Osborne avrebbe rappresentato “un ponte fra culture diverse ed educato la gente sui veri valori dell’Islam”. Mettendo da parte la scarsa originalità nella redazione di due comunicati fra loro assai simili, c’è però una puntualizzazione nel testo diffuso nel 2009 che potrebbe aiutare a far luce su uno degli aspetti più controversi della questione: la raffigurazione umana del profeta Maometto. Negli ultimi giorni, numerosi commentatori hanno giustamente sottolineato come questa produzione rischi di gettare ulteriore benzina sul fuoco in un fronte estremamente incandescente per i tumulti della “primavera araba” e di rendere ancora più profonde le già ampie fratture esistenti fra le diverse anime dell’Islam; considerazione che non può essere sfuggita ai qatarioti della AlNoor Holdings. Anche se della cosa non si fa menzione nelle agenzie lanciate pochi giorni fa, il comunicato del 2009 affermava chiaramente che nel film non ci sarebbe stata alcuna rappresentazione di Maometto, in ossequio ad uno dei dettami della religione musulmana. Di tale particolare non si fa cenno nell’ultimo comunicato recentemente diffuso, ma è lecito chiedersi come sia possibile dedicare una trilogia a Maometto senza che il profeta venga mai rappresentato. Lasciando la risposta agli esperti di cinema, è bene tuttavia puntualizzare che sono stati consultati eminenti studiosi dell’Islam e figure di spicco nella conoscenza della sharia e che il progetto sarà seguito da vicino dal Presidente dell’Unione Internazionale degli Studi Islamici Yousuf Qaradawi, già importante esponente dell’organizzazione dei Fratelli musulmani. Il dinamico Qatar, che da tempo intende proporsi come polo culturale della regione e si è dimostrato molto sensibile al fascino del cinema tanto da istituire nel 2009 il “Doha Tribeca Film Festival” per promuovere le eccellenze della cinematografia araba, sarà sicuramente vigile sulle future evoluzioni e non lascerà nulla al caso.

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Putin, tra calo di consensi e nuove minacce

Nella giornata di mercoledì 20 febbraio, il presidente russo Vladimir Putin ha tenuto – per la quindicesima volta nella sua carriera politica – il discorso sullo stato della nazione davanti al Parlamento della Russia, l’Assemblea federale. Un appuntamento diventato oramai rituale nella politica russa, inaugurato in epoca eltsiniana e rinnovatosi di anno in anno, con l’obiettivo – stabilito dall’art. 84 della Costituzione – di informare l’Assemblea circa la situazione nel Paese e sulle linee guida della politica interna ed estera dello Stato.

Per il messaggio di quest’anno, Putin ha scelto il vecchio mercato coperto – e oggi centro espositivo – del Gostiny Dvor, mentre lo scorso anno le alte autorità del Paese furono accolte nel Manezh central exhibition hall: ancora una volta dunque, il presidente ha preferito svolgere il suo intervento fuori dal Cremlino, dove pure più di frequente il discorso è stato pronunciato.

Alla vigilia dell’evento, commentatori e analisti politici prevedevano un ritorno alla formula classica del discorso, tendenzialmente più incentrato sui temi della politica domestica che sulla proiezione internazionale del Paese. Da questo punto di vista, l’intervento del 2018 aveva rappresentato una parziale – ma comunque rilevantissima ‒ eccezione, anche perché svolto in un clima diverso da quello odierno e a poco più di due settimane dalle elezioni presidenziali. Allora, Putin colse l’occasione per fare leva sull’orgoglio nazionale dell’appartenenza a una grande potenza geopolitica e svelò i gioielli del suo arsenale, mostrando al mondo i muscoli e lanciando un chiaro messaggio ai rivali: Mosca non fondava le sue politiche su alcuna base di eccezionalismo – chiaro riferimento agli Stati Uniti –, ma rimaneva pronta a tutelare i propri interessi. Da una parte dunque, disponibilità al dialogo, dall’altra piena capacità di attuare misure di rappresaglia contro chiunque avesse attaccato la Russia o i suoi alleati.

Oggi però, Putin non gode della medesima popolarità su cui poteva fare affidamento prima di essere rieletto alla guida del Paese fino al 2024. La riforma delle pensioni con l’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 60 anni per le donne ha infatti inciso pesantemente sugli indici di gradimento del presidente, interrompendo quella ‘luna di miele’ con il Paese che di fatto andava avanti dall’annessione della Crimea nel marzo del 2014. Prima di allora, il consenso attorno alla figura del presidente era andato ridimensionandosi, finendo per attestarsi – nel febbraio del 2014 – sul 69%, dopo aver toccato nel novembre precedente un picco negativo del 61%. Poi, con la prova di forza crimeana, il gradimento era salito vertiginosamente all’80%, cifra attorno alla quale si sarebbe solidamente stabilizzato dopo aver toccato l’89% nel giugno 2015. Numeri che – da circa sette mesi – sono oramai un lontano ricordo, nonostante il successo organizzativo dei Mondiali di calcio: da luglio 2018 infatti – se si fa eccezione per il dato registrato nell’agosto successivo – il gradimento di Putin è rimasto al di sotto della soglia del 70%, fino ad arrivare al 63% di questo febbraio: numeri di gran lunga migliori rispetto a quelli del primo ministro Dmitrij Medvedev o di qualunque altra istituzione russa, ma pur sempre a testimoniare un preoccupante declino.

Per questo – nonostante la stampa estera abbia puntato i riflettori soprattutto sull’ultima parte del discorso dedicata alla politica internazionale – non sorprende che Putin abbia focalizzato gran parte della sua attenzione sui problemi interni del Paese, assicurando la piena disponibilità delle risorse per soddisfare alcune esigenze improrogabili. Tra le grandi sfide da affrontare – sottolinea Putin – c’è quella demografica: l’obiettivo centrale è che entro il 2024 si raggiunga una crescita netta della popolazione, superando una situazione di declino che riporta alla mente del presidente le massicce perdite in termini di vite umane della Seconda guerra mondiale e la crisi economica successiva al collasso dell’Unione sovietica. Il leader del Cremlino non si ferma però qui, ma parla della necessità di destinare maggiori risorse alle famiglie, in particolar modo a quelle più numerose e con bambini che hanno specifici bisogni; rileva l’improrogabile esigenza di sostenere i 19 milioni di russi che vivono in condizioni di povertà; richiama l’attenzione sull’obiettivo di potenziare definitivamente la rete degli asili nido entro il 2021. Quanto ai mutui poi, il presidente evidenzia come i tassi debbano essere rivisti. Ancora, ci sono i pensionati minimi da sostenere con integrazioni del reddito per compensare il previsto aumento del costo della vita; c’è un sistema sanitario da modernizzare soprattutto nelle aree rurali isolate, con la costruzione – entro il 2020 – di 1600 piccole strutture mediche; ci sono investimenti da supportare nella diagnostica e nella cura di patologie come il cancro; c’è un settore – quello del trattamento dei rifiuti – sul quale occorre intervenire radicalmente, per estirpare l’endemica corruzione che lo pervade e implementare nuove tecnologie pulite per la riduzione dell’inquinamento.

Nel campo dell’istruzione, Putin rileva come siano già stati conseguiti risultati significativi, assicurando all’85% degli studenti del Paese strutture scolastiche adeguate: l’obiettivo – assicura – è però ora quello di pensare al rimanente 15%, potenziando soprattutto l’insegnamento nelle piccole città e nelle aree rurali.

Quanto all’economia, sono quattro le sfide che Mosca intende raccogliere: incremento della produttività, potenziamento delle infrastrutture regionali, formazione di forza lavoro qualificata e miglioramento della giurisdizione russa per consentire alle compagnie operanti nel Paese di potenziare i loro investimenti. Su quest’ultimo punto, di particolare interesse sono le considerazioni di Putin circa l’esigenza di rendere la Russia più accogliente verso le attività di business, allentando alcuni vincoli e rigidità del sistema di law enforcement.

Se però le intenzioni appaiono delineate con sufficiente chiarezza, l’attuazione dei programmi potrebbe risultare decisamente più complessa: come ha osservato in un suo articolo per Bloomberg il giornalista Leonid Bershidsky, è infatti tutt’altro che scontato che gli obiettivi siano raggiunti semplicemente attraverso l’investimento di maggiori risorse statali, e perché un progetto così ambizioso possa realmente prendere forma, sarà necessario contrastare le oligarchie economiche e le reti di corruzione che finora in Russia hanno proliferato. Impresa, quest’ultima, certamente non agevole.  

Nel suo discorso, Putin non poteva comunque trascurare il tema della proiezione internazionale di Mosca, ambito in cui il Cremlino ha investito tempo e risorse. Ecco dunque che dopo il riferimento alla Russia come ‘nazione sovrana’, nell’intervento del presidente trova spazio l’annuncio statunitense del ritiro dal trattato INF sui missili con testata nucleare e a gittata intermedia, una decisione che – evidenzia il capo dello Stato russo – Washington avrebbe preso per avere le mani libere nello sviluppo della tecnologia missilistica. L’avvertimento del Cremlino è chiaro: Mosca non sarà la prima a dispiegare missili a medio raggio in Europa, ma è pronta a reagire se gli Stati Uniti lo faranno. E se ciò dovesse accadere, la risposta russa non si concentrerà soltanto sui territori da cui proviene la minaccia, ma interesserà anche i centri di controllo presso cui le decisioni sui missili vengono prese: un messaggio che Putin si augura possa giungere tanto alle orecchie europee quanto a quelle americane. Presentando i progressi compiuti sul fronte degli armamenti, il presidente sottolinea nuovamente come Mosca non abbia alcun interesse a una escalation, ma si sia attivata esclusivamente per preservare il suo potere di deterrenza. La Russia non sarebbe dunque una minaccia per nessuno, ma le sue azioni sarebbero orientate a distogliere qualunque Paese dall’idea di usare la forza contro di essa. E se le élites statunitensi continuano a essere persuase del loro eccezionalismo – è il messaggio di Putin – l’auspicio è che per lo meno sappiano contare: contino il raggio d’azione e la velocità degli armamenti sviluppati da Mosca e quindi operino le loro valutazioni.

 

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Il risveglio montenegrino

Intervista a Miodrag Lekić, leader del Fronte Democratico e candidato dell’opposizione alle elezioni presidenziali montenegrine del 7 aprile 2013.

 

Una piccola repubblica indipendente dal 2006, quando con un referendum interno sancì la sua separazione dalla Serbia a cui era unita tramite un vincolo federativo. Grande quanto la Campania e abitato da poco più di 670.000 persone, il Montenegro è un Paese in piena evoluzione politica, grazie soprattutto al risveglio civico di una popolazione sempre meno disposta ad accettare impassibile il rigidissimo status quo imposto da una nomenclatura che a Podgorica detiene il potere da vent’anni. Deus ex machina delle vicende politiche montenegrine dagli anni Novanta ad oggi è stato Milo Đukanović, leader indiscusso del Partito democratico dei socialisti del Montenegro (DPS) e dallo scorso dicembre primo ministro del Paese per la settima volta, dopo aver lasciato per un paio di anni l’incarico al giovane Igor Lukšić oggi ministro degli Esteri. Finora, il concetto di alternanza di governo in Montenegro non si è sviluppato nella tradizionale logica democratica dello scambio di ruoli fra maggioranza ed opposizione, bensì nella momentanea sostituzione di Đukanović dalla posizione di capo del governo, perché magari assurto alla carica di presidente della repubblica o perché intenzionato a defilarsi per un po’ dagli incarichi istituzionali.
Che qualcosa stesse ribollendo – come in altre realtà balcaniche – anche nel calderone montenegrino, si era già cominciato a capire con le elezioni parlamentari di ottobre 2012, quando per la prima volta il DPS non aveva raggiunto la maggioranza assoluta dei seggi, fermandosi a quota 39 scranni su 81. E con le elezioni presidenziali del 7 aprile 2013, la tendenza è stata confermata se non ulteriormente amplificata, in virtù della convergenza dei voti della composita opposizione parlamentare sull’unico candidato alternativo al DPS, l’ex ambasciatore di Serbia e Montenegro in Italia Miodrag Lekić. Il contestatissimo vincitore ufficiale – non c’è bisogno di dirlo – è stato il candidato del DPS Filip Vujanović, che avrebbe ottenuto il 51,2% dei voti, ma l’impressione è che Podgorica non sia più la stessa dal 7 aprile.
Di quanto successo – dopo averlo intervistato per questo magazine già un anno fa a proposito delle elezioni presidenziali in Serbia – abbiano parlato proprio con il diretto interessato Miodrag Lekić.

 

Ambasciatore, Lei è il leader del Fronte Democratico che nelle elezioni parlamentari di ottobre 2012 si è accreditato come principale forza di opposizione al DPS di Đukanovic, conquistando 20 seggi parlamentari. Come si è sviluppata in questi mesi la dialettica politica in Montenegro?

Il Fronte Democratico, senza dubbio la forza politica più rilevante dell’opposizione, rappresenta una larga coalizione composta da diversi partiti e altre organizzazioni civiche.
Sul piano della politica interna si batte per lo stato di diritto, la coesione nazionale con il rispetto della diversità multietnica e contro la corruzione e la criminalità organizzata. Per quanto concerne la politica estera, il Fronte ha invece una visione pro-europea e appoggia fortemente l’integrazione del Montenegro nell’Ue.
La radice di molti problemi del Paese è oggettivamente l’assenza dell’alternanza democratica, perche il DPS è al potere da 23 anni, situazione ancor più paradossale se si pensa che l’egemonia è iniziata con la nascita del sistema multipartitico.
Durante le ultime elezioni politiche e presidenziali è emersa una forte volontà popolare di cambiamento, ma nonostante ciò il DPS, considerato da molti il principale responsabile di drammi come gli alti tassi di corruzione e di criminalità organizzata, riesce ancora a mantenere il potere, questa volta in coalizione con partiti minori.
Il momento del cambiamento politico in Montenegro si sta però avvicinando, influenzato da una sempre maggiore spinta interna e dall’obiettivo di realizzare le riforme necessarie secondi i criteri europei­. Anzi, a questo punto direi che il cambiamento è quasi inevitabile.

 

Passiamo subito al tema delle presidenziali di aprile 2013. Solo Lei e il presidente uscente Vujanović siete riusciti a raccogliere le firme necessarie per presentare la candidatura, e questo ha consentito alle opposizioni di giocare compatte la partita delle elezioni contro il DPS. Vujanovic ha invece perso per strada alcuni pezzi, visto che il Partito socialdemocratico non ha sostenuto la sua candidatura giudicandola incostituzionale*. Crede che la strada di un grande fronte unitario sia la via maestra per rompere il ventennale predominio del DPS di Đukanovic?

Sicuramente un grande fronte unitario ha più possibilità di portare ai cambiamenti politici, economici e culturali necessari in Montenegro. La creazione e i risultati del Fronte Democratico hanno confermato questa tendenza, ma ci sono ancora molti spazi per rafforzare un fronte di larghe intese. Trovo inoltre molto importante l’appoggio della società civile, sempre più presente e interessato, per determinare una svolta democratica.

 

La commissione elettorale ha decretato la vittoria di Vujanovic con il 51,2% dei consensi, ma i dati in vostro possesso raccontano un’altra storia. Ci può illustrare le convulse fasi successive alla chiusura dei seggi?

Senza dubbio le numerose irregolarità durante le elezioni presidenziali hanno ulteriormente aggravato la crisi politica e istituzionale. Addirittura il partito socialdemocratico, alleato del DPS al governo, ha dichiarato che considera Vujanović un presidente incostituzionale. Nell’ultima seduta parlamentare svoltasi il 31 maggio, la maggioranza ha persino votato la proposta di annullamento dei risultati elettorali proclamati. Si avverte dunque un clima di tensione, che si è sentito anche durante la manifestazione popolare avvenuta il 20 aprile a Podgorica.
Inoltre la magistratura, spinta dallo scontento del popolo ma anche da Bruxelles, sta conducendo un'inchiesta contro il DPS, sulla base di prove inconfutabili che dimostrano un loro diretto coinvolgimento nelle pianificazioni dei brogli elettorali.
Quindi la partita elettorale suscita ancora molte polemiche e sicuramente determinerà i futuri processi della vita politica montenegrina.

 

Come ha ricordato, dopo le presidenziali siete anche riusciti a portare in piazza 5000 persone a Podgorica, risultato assolutamente importante. L’impressione è che, al di là di chi abbia vinto le elezioni, lo strapotere del DPS sia in crisi profonda e la semplice proiezione verso Occidente testimoniata dal dialogo con la NATO e dai negoziati per l’adesione all’Ue non sia sufficiente a soddisfare una popolazione in cerca di risposte. Quale futuro, secondo lei, attende dunque il Montenegro?

Dopo sette anni di indipendenza del paese la gente vuole conoscere i bilanci della situazione reale e soprattutto di quella economica, sempre più drammatica.
Si potrebbe dire che in questa fase siamo passati “dalla poesia alla prosa”, usando un'espressione di Croce che riguardava un importante passaggio della storia italiana .
Il Montenegro fu riconosciuto internazionalmente come Stato indipendente al Congresso di Berlino del 1878, è un paese insieme balcanico, mediterraneo ed europeo, ha una sua dignitosa storia e anche varie risorse per costruire una migliore qualità della vita dei cittadini. Nel referendum sull’indipendenza di sette anni fa, i cittadini montenegrini si sono divisi quasi a metà riguardo alla domanda: indipendenza o alleanza confederale con la Serbia?, e alla fine in modo assolutamente legittimo è prevalsa l’opzione indipendentista. Il problema è che spesso questo risultato è stato purtroppo propagandisticamente sfruttato dal partito al potere, con l’obiettivo di oscurare i reali problemi del Paese, soprattutto la pesante situazione economica, la presenza della criminalità organizzata e la corruzione.
Per creare un futuro migliore, il Montenegro deve costruire un clima di riconciliazione interna e di coesione nazionale, così come è altrettanto necessario avviare serie riforme come conditio sine qua non per incamminarsi sulla strada che porta all’integrazione del paese nell’Unione Europea. Credo in una prospettiva europea del Montenegro, paese vicino all’Italia con la quale ha solidi legami storici – anche dinastici** - culturali ed economici. 

 

*Il Partito socialdemocratico ha contestato la candidatura di Vujanović ad un terzo mandato presidenziale perché in contrasto con il limite di due mandati previsto dalla Costituzione. La Corte Costituzionale ha tuttavia ammesso Vujanović alle consultazioni, escludendo dal computo la prima elezione del 2003, quando il Montenegro era in federazione con la Serbia

 

** Il riferimento è ad Elena del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III

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Il riscatto di Erdoğan e il futuro della Turchia

‘Una vittoria per la democrazia e per il nostro popolo’. A Konya, città dell’Anatolia dove ha votato, il premier uscente Ahmet Davutoğlu accoglie con soddisfazione i risultati elettorali che danno il suo Partito per la giustizia e lo sviluppo – l’AKP – a più del 49% dei consensi, restituendogli ciò che aveva perso nelle elezioni di giugno. Allora, l’AKP si era fermato al 40,9% dei voti e soprattutto a 258 dei 576 seggi della Grande assemblea nazionale - il Parlamento turco - fallendo non soltanto l’obiettivo della conquista di maggioranze qualificate indispensabili per portare avanti i desiderati cambiamenti istituzionali e costituzionali, ma persino quello della maggioranza assoluta dei seggi costantemente detenuta dalle elezioni del 2002. E Davutoğlu, lontano dalla celebrazione della democrazia e del popolo, si limitò a un ben più laconico ‘Ho capito il vostro messaggio’.

Accanto al notevole ridimensionamento dell’AKP, il 7 giugno 2015 si era anche registrata la grande affermazione dell’HDP, il Partito democratico del popolo di Selhattin Demirtaş, che con il 13,1% dei voti era riuscito a superare l’elevatissima soglia di sbarramento del 10% per partecipare al riparto dei seggi e a eleggere 80 deputati. Dimostrando grande abilità politica e indiscutibili capacità di leadership, Demirtaş aveva avuto da una parte il merito di mantenere l’ancoraggio del partito alla sua matrice curda, al fine di assicurarsi il voto dell’ampia minoranza presente nel Paese, e dall’altra di proporsi come radicale alternativa al moderno sultano della Turchia – il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan – così da allargare il proprio bacino elettorale di riferimento e guadagnare il consenso di altri ambienti, da quello liberale a quello progressista, da quello della comunità LGBT fino al mondo della vibrante protesta di Piazza Taksim e del Gezi Park, che nel 2013 aveva scosso il Paese. In questa prospettiva, come scrisse Sinan Ülgen per Carnegie Endowment all’indomani delle elezioni, l’HDP si era davvero trasformato in un partito nazionale.

In mezzo, tra AKP e HDP, altre due forze politiche avevano conquistato seggi in Parlamento: il kemalista Partito popolare repubblicano (CHP), con il 25% dei voti e 132 deputati, e il Partito del movimento nazionalista (MHP), con il 16,3% dei voti e 80 seggi.

 

Fallite le trattative per la nascita di un governo di coalizione, nel mese di agosto Davutoğlu rimetteva il suo mandato nelle mani di Erdoğan, che indiceva nuove elezioni per il primo novembre.

Nei cinque mesi che separano la sconfitta politica dell’AKP dal suo orgoglioso riscatto, la Turchia ha subìto ferite profonde che ancora grondano sangue: la prima il 20 luglio 2015 a Suruç, nel Sud-Est del Paese, dove un attentatore suicida si faceva esplodere nei pressi del centro culturale Amara che ospitava circa 300 membri della Federazione delle associazioni della gioventù socialista. Il loro intento, raggiungere oltre il confine la vicina Kobane - il centro siriano assediato dai terroristi dell’autoproclamato Stato islamico (IS) e liberato dalle milizie curde – così da contribuire alla sua ricostruzione. Più di 30 i morti, oltre 100 i feriti. La Turchia, colpita dal terrorismo di matrice jihadista, reagiva effettuando raid aerei contro le postazioni dell’IS e autorizzando, tra le altre cose, l’utilizzo della strategica base di Incirlık da parte delle coalizione anti-Stato islamico a guida statunitense. Fino ad allora, l’atteggiamento turco nei confronti dei terroristi si era mantenuto assai prudente, quando non sospettosamente ambiguo: migliaia di combattenti stranieri – i foreign fighters – hanno infatti attraversato la penisola anatolica per arruolarsi tra i combattenti al servizio del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi, penetrando in una Siria dilaniata da una pluriennale guerra civile dove tuttavia continua a resistere – grazie anche al sostegno di importanti alleati come Russia e Iran – il regime Bashar al-Assad, la cui caduta sarebbe certamente gradita ad Ankara. Né inoltre Erdoğan è insensibile a quanto accade nel Nord-Est siriano presidiato dalle Unità di protezione popolare curde, che sul terreno si contrappongono all’avanzata dei miliziani dell’IS: un rafforzamento del fronte curdo in Siria non può che preoccupare il presidente turco, per gli evidenti rischi di un ‘effetto-contagio’ che una consolidata autonomia dei curdi siriani potrebbe produrre nel Sud-Est della Turchia.

Con la tragedia di Suruç, lo scontro turco-curdo è tornato a infiammarsi e il processo di pace, già da qualche tempo in crisi, è precipitato: da una parte, il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) ha ripreso i suoi attentati contro gli uomini delle forze di sicurezza turche e rivendicato l’uccisione di due poliziotti come rappresaglia per il massacro, accusando la polizia di collaborare con il Daesh, altro nome identificativo dell’IS; dall’altra invece la Turchia ha attaccato le postazioni della guerriglia curda in Iraq e lanciato una massiccia ondata di arresti nei confronti dei membri del PKK.

La seconda ferita si è aperta il 10 ottobre, davanti alla stazione centrale di Ankara, dove i manifestanti si erano radunati per protestare contro la nuova escalation del conflitto tra la Turchia e i curdi. Il nuovo attentato ha provocato 102 morti e oltre 400 feriti, e mentre il governo dichiarava tre giorni di lutto nazionale puntando il dito contro i terroristi dell’IS - senza tuttavia escludere le possibili responsabilità degli ambienti radicali curdi – la piazza accusava il presidente Erdoğan di non essere riuscito a garantire la sicurezza, perseguendo anzi una strategia del caos che avrebbe potuto garantire maggiori consensi all’AKP nelle imminenti elezioni.

E dalle urne, sorprendendo in parte anche gli analisti che fino alla vigilia prevedevano risultati non dissimili da quelli del voto di giugno, il Partito per la giustizia e lo sviluppo è uscito indiscusso vincitore: l’AKP ha infatti guadagnato circa nove punti percentuali rispetto alla precedente tornata elettorale conquistando 317 seggi, e se il risultato del CHP si è sostanzialmente mantenuto in linea con quanto accaduto cinque mesi fa (con il 25,3% dei voti dovrebbe contare su 134 seggi), sia l’MHP che l’HDP hanno subito una flessione. Secondo molti commentatori, la contrazione dell’MHP (11,9% dei voti) sarebbe in buona parte riconducibile agli errori commessi dal leader del partito Devlet Bahçeli nei negoziati per la formazione di un governo di coalizione, durante i quali ha mostrato un’intransigenza che gli è valsa il soprannome di ‘Signor no’; la riapertura del fronte turco-curdo e la retorica dell’AKP avrebbero poi contribuito in modo decisivo al travaso dei voti nazionalisti verso il partito di Erdoğan e Davutoğlu. L’HDP ha invece temuto fino all’ultimo di non riuscire a superare l’ostacolo della soglia del 10% per poi attestarsi sul 10,7%; ma pur avendo ridotto la sua rappresentanza parlamentare da 80 a 59 deputati, sarà la terza forza politica in Parlamento a seguito della contrazione della compagine dell’MHP. Il partito di Demirtaş sembra aver perso voti tra i curdi conservatori, che fino alle elezioni di giugno avevano espresso la loro preferenza per l’AKP e sono con tutta probabilità tornati a votarlo; Erdoğan non ha inoltre mancato di accusare l’HDP di essere sostenuto dal PKK, quando in realtà i rapporti tra le due entità appaiono decisamente più controversi. D’altra parte, non si può neppure parlare di insuccesso: tornare in Parlamento per la seconda volta consecutiva, è un risultato di cui Demirtaş può comunque dirsi soddisfatto.

A cinque mesi dal voto che aveva condotto alla paralisi, in un Paese ormai fortemente polarizzato e geograficamente ancorato a un Medio oriente instabile, il bisogno di sicurezza e stabilità è stato determinante, ed Erdoğan – che pure negli ultimi tempi era parso più debole che in passato – ne ha indiscutibilmente tratto giovamento. I 317 seggi conquistati dall’AKP sono poco meno della fatidica soglia dei 330 scranni necessari per contare sulla maggioranza dei 3/5 e sottoporre a referendum gli emendamenti costituzionali tanto voluti dal capo dello Stato per trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, ma con buona pace delle proteste dell’opposizione secondo cui il presidente violerebbe l’art. 103 della Carta fondamentale – in forza del quale dovrebbe mantenersi imparziale – Erdoğan continuerà a essere il centro di gravità della politica del Paese. Rispetto agli anni precedenti, Ankara non è la stessa; la crescita economica ha subito un notevole rallentamento e anche il modello di politica estera approntato da Davutoğlu nei suoi anni da ministro degli Esteri, fondato sulla sua dottrina della profondità strategica e sul principio ‘zero problemi con i vicini’ – evidentemente adesso lontano dalla realtà dei fatti – ha mostrato i suoi limiti. La stretta sui social network e sui media di opposizione, il pugno duro contro le manifestazioni del 2013, gli scandali che hanno coinvolto membri dell’AKP toccando anche la famiglia del presidente hanno poi avuto dei riflessi sull’immagine della Turchia, attore politico cui oggi l’Unione Europea guarda con ancor più marcato interesse per la presenza nello Stato anatolico di oltre 2,2 milioni di siriani scappati dalla guerra. La speranza coltivata a Bruxelles è evidentemente quella di trovare una soluzione per il controllo dei flussi migratori.

Ora che il moderno sultano della Turchia ha vinto le elezioni, si apre una nuova partita da cui dipenderà molto del futuro di Ankara, sia sotto il profilo interno – le possibili evoluzioni sul fronte turco-curdo sono tutte da decifrare - che internazionale. Ed Erdoğan, dal suo lussuoso palazzo presidenziale inaugurato nel 2014, continuerà a essere il principale giocatore.

 

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COP24 di Katowice, una roadmap per la lotta al cambiamento climatico

«Un traguardo eccellente! Il sistema multilaterale ha consentito di raggiungere un risultato solido. La comunità internazionale dispone ora di una roadmap per affrontare in maniera decisa il cambiamento climatico». Così Patricia Espinosa, segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) ha espresso la sua soddisfazione per l’accordo raggiunto a Katowice in occasione della 24a Conference Of Parties (COP24), dopo circa due settimane di negoziati intensi, confronti tra posizioni talvolta radicalmente diverse e lo spostamento di un giorno – al 15 dicembre – della chiusura della conferenza, per riuscire a trovare in extremis un’intesa sempre più urgente. Alla fine però l’obiettivo è stato perseguito, e il presidente della conferenza e ‘padrone di casa’ Michał Kurtyka – segretario di Stato del ministero polacco dell’Energia e dell’Ambiente – ha potuto scaricare la tensione con un liberatorio salto di gioia.

In una città simbolica come Katowice – cuore pulsante della Polonia alimentata dal carbone – e in un luogo anch’esso particolarmente evocativo – l’International congress centre dove si è svolta la conferenza sorge nei pressi di una vecchia miniera di carbone – i delegati di 197 Paesi hanno cercato di raggiungere un’intesa per dare concreta sostanza allo storico accordo raggiunto a Parigi nel dicembre 2015. Che il negoziato si sarebbe rivelato assai complesso era prevedibile per la natura stessa della discussione in programma: se infatti nella capitale francese il mondo aveva deciso di prendere pienamente coscienza della necessità di assumere impegni per contrastare il cambiamento climatico, in Polonia occorreva definire le modalità e le strategie di intervento, in un confronto assai tecnico da una parte, ma inevitabilmente impregnato di considerazioni di natura politica dall’altra.

A Katowice si sono incontrati e scontrati molteplici fronti, portatori tanto di punti di vista differenti quanto soprattutto di interessi contrapposti. Per i Paesi in via di sviluppo, la difficoltà sta nel compenetrare l’esigenza di preservare l’ambiente con la prosecuzione – a ritmi sostenuti – dei  processi di industrializzazione: per questo lo sforzo deve essere collettivo, ma nell’ottica di una responsabilità ‘comune ma differenziata’ i sacrifici spettano innanzitutto alle economie avanzate, cui sarebbero da imputare le principali responsabilità del cattivo stato di salute del pianeta.

Dall’altra parte, i Paesi sviluppati non sembrano poter sfuggire all’atto di accusa delle economie in via di sviluppo, ma sono anche convinti della necessità di regole comuni e di meccanismi trasparenti di controllo e monitoraggio, così da verificare concretamente e divulgare correttamente i progressi compiuti da ciascuno nella riduzione delle emissioni. Quindi, ci sono i Paesi più drammaticamente esposti alle conseguenze del cambiamento climatico e ai rischi legati a un mancato intervento tempestivo: per loro, la posta in gioco è la stessa sopravvivenza. A farlo presente meglio di tutti sono stati probabilmente i rappresentanti di due realtà in pericolo: per le Maldive, è stato l’ex presidente della Repubblica e capo negoziatore a Katowice Mohamed Nasheed a lanciare un messaggio inequivocabile, sottolineando l’esigenza di «abbandonare il linguaggio preistorico sul cambiamento climatico» – che vedeva i Paesi a rischio invocare il taglio delle emissioni su basi etiche – per rivendicare «solidi investimenti nelle energie pulite e rinnovabili». «Non vi stiamo chiedendo troppo – ha rimarcato Nasheed – Stiamo solo dicendo: per favore, non uccideteci». Per Vanuatu, Stato insulare dell’Oceano Pacifico, durissima è stata la presa di posizione del ministro degli Esteri Ralph Regenvanu, che è intervenuto sull’annoso dibattito relativo al semplice ‘prendere nota’ (take note) oppure ‘accogliere’ (welcome) le conclusioni dell’allarmante rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC). Secondo quanto evidenziato dall’analisi, in assenza di una decisa correzione di rotta, la temperatura media globale potrebbe crescere di 1.5 oC rispetto ai livelli preindustriali già tra il 2030 e il 2052, esponendo il pianeta a seri rischi sotto il profilo climatico e ambientale. La differenza tra il ‘prendere nota’ e l’‘accogliere’ potrebbe apparire solamente semantica, ma risulta in realtà profondamente politica, perché indica una diversa presa di coscienza e dunque un diverso modo di agire: non a caso, a favore della mera annotazione si sono espressi Paesi che continuano a puntare sui combustibili fossili, come l’Arabia Saudita, il Kuwait, la Russia e gli Stati Uniti. Le considerazioni di Regenvanu sul punto sono state assai taglienti: «Che decidiate di prendere nota, accogliere o ignorare vergognosamente tutta la scienza – ha evidenziato il ministro – rimane il fatto che tutto ciò è catastrofico per l’intera umanità, e quei negoziatori che stanno bloccando un progresso significativo dovrebbero avere un grosso peso sulla loro coscienza».

Opinione comune tra gli osservatori è inoltre il fatto che la trattativa sia stata ulteriormente complicata da una sostanziale assenza di leadership, a differenza di quanto accaduto in sede di negoziato a Parigi: se infatti nel dicembre 2015 gli Stati Uniti di Barack Obama non avevano lesinato gli sforzi perché si arrivasse a un’intesa, a distanza di tre anni gli orientamenti della politica energetica, climatica e ambientale di Washington sono profondamente cambiati, con il nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump che già nel giugno del 2017 ha annunciato l’intenzione di ritirare gli USA dall’accordo raggiunto nella capitale francese. E così, mentre i negoziatori si confrontavano sulle migliori strategie per attuare gli impegni presi a Parigi, a Katowice Wells Griffith – autorevolissima voce della politica energetica internazionale statunitense – evidenziava come nessun Paese debba essere costretto a sacrificare la propria prosperità economica e sicurezza energetica per la sostenibilità ambientale.

Che le trattative rischiassero di naufragare per le diverse posizioni in campo – anche su temi quali il finanziamento degli interventi a favore della mitigazione del cambiamento climatico e dell’adattamento ad esso – è parso chiaro anche al segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che a tre giorni dalla fine della conferenza ha evidenziato come il fallimento in un’occasione come quella di Katowice non sarebbe solo stato ‘immorale’, ma addirittura ‘suicida’. Alla fine però, l’accordo sull’atteso rulebook contenente le linee guida per l’implementazione dell’accordo di Parigi è arrivato. Le 256 pagine del Katowice climate package indicano dettagliatamente in che modo gli Stati dovranno fornire informazioni sugli impegni adottati e le azioni intraprese su clima e ambiente, dalle misure di mitigazione a quelle di adattamento. È inoltre previsto che nuovi target finanziari più ambiziosi saranno stabiliti a partire dal 2025, superando l’attuale obiettivo di mobilitare risorse per 100 miliardi di dollari annui dal 2020 da destinare ai Paesi in via di sviluppo nei loro sforzi di contrasto al cambiamento climatico. Gli Stati hanno poi elaborato linee guida sulle modalità di valutazione collettiva dell’efficacia della loro azione per il clima nel 2023 e sull’analisi dei progressi in materia di sviluppo e trasferimento delle tecnologie. Rinviato invece al 2019 un possibile accordo sui mercati del carbonio.

In un suo articolo sulla conferenza, The Economist ha sottolineato come l’accordo raggiunto a Katowice sia comunque da considerarsi positivo, alla luce soprattutto del fatto che l’intesa risultava tutt’altro che scontata: da una parte infatti, i Paesi in via di sviluppo hanno ottenuto rassicurazioni circa il sostegno finanziario dei Paesi più ricchi nella lotta al cambiamento climatico, mentre gli Stati più sviluppati hanno raggiunto l’obiettivo di linee guida uniformi nel taglio delle emissioni. Se dunque alcuni punti restano ancora da discutere e l’ambizioso target della limitazione dell’aumento della temperatura media entro 2 oC rimane estremamente difficile da raggiungere, la direzione intrapresa – rileva The Economist – rimane comunque quella corretta. Di diverso tenore le considerazioni del mondo ambientalista e delle organizzazioni che si battono per contrastare il cambiamento climatico, secondo cui – pur dovendosi riconoscere il risultato dell’accordo – i decisori politici avrebbero mostrato poca ambizione. Greenpeace ha rilevato come un anno di disastri naturali e l’allarme lanciato dagli scienziati avrebbero dovuto produrre risultati ben più consistenti: i governi tuttavia sarebbero rimasti sordi tanto alla scienza quanto agli appelli delle popolazioni più vulnerabili. Una posizione a cui hanno fatto eco le dichiarazioni di Bas Eickhout, uno dei candidati alla presidenza della futura Commissione europea per i Verdi: a Katowice – ha rilevato Eickhout – sono stati effettivamente compiuti dei progressi dal punto di vista tecnico, ma le migliaia di persone che si riversano in piazza chiedono interventi ambiziosi di protezione sul fronte del clima, e non manifestano semplicemente per ottenere un rulebook.

 

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Il presidente Mursi e la “nuova Tahrir”

“Sto mandando 150 euro a casa. La mia famiglia ha un bar vicino a Tahrir, ma in questi giorni è impossibile aprirlo. Speriamo che questo denaro basti finché le acque non si saranno calmate”. A parlare è un egiziano di mezz’età, in un internet point a Roma che funziona anche come servizio di money transfer. Dice di venire dal Cairo, e alla domanda sul quartiere di provenienza, risponde lapidariamente: “da dove sta succedendo il finimondo”.
A 21 mesi dalla deposizione del dittatore Hosni Mubarak, piazza Tahrir è tornata a riabbracciare i suoi figli, che in realtà non se n’erano mai andati. I protagonisti della rivoluzione hanno continuato a far sentire la loro voce durante la transizione guidata dallo SCAF – il Consiglio Supremo delle Forze Armate - per protestare contro una gestione del potere piena di zone d’ombra e per invocare una netta cesura con il passato regime, cedendo in tempi ragionevoli la parola al popolo elettore e sovrano. E oggi sono di nuovo tenacemente lì, in quella che ufficialmente si chiama piazza Sadat ma che per tutti rimane midan al-Tahrir, la “piazza della liberazione”. Si erano sbarazzati dell’ “ultimo faraone”, quel Mubarak salito al potere nel 1981 dopo l’assassinio di Sadat e rimasto sul “trono presidenziale” per quasi trent’anni, ma adesso temono di aver costretto alle dimissioni solo il penultimo dei faraoni.
Per la prima volta dall’inizio dell’era repubblicana negli anni Cinquanta, il palazzo presidenziale di Heliopolis ospita dal giugno 2012 un inquilino non proveniente dai ranghi militari: è il 61enne Mohamed Mursi del partito “Giustizia e libertà”, nato come costola politica della fratellanza musulmana.
Con un discorso infarcito di riferimenti ai valorosi martiri della rivoluzione e al popolo fonte suprema del potere politico, dopo la contestata elezione Mursi ha voluto prestare simbolicamente giuramento proprio a Tahrir, nel cuore pulsante della rivoluzione, davanti ad una folla in festa.
E come da copione, in tanti si sono abbandonati alla politicamente romantica illusione che i processi di stabilizzazione democratica trovino nelle consultazioni elettorali il loro picco ascendente dopo il quale inizia una ben più tranquilla e meno faticosa fase discendente. Il potere taumaturgico di una croce segnata con una matita indelebile su una scheda, il voto come panacea politica in grado di curare i mali di un Paese che la democrazia non l’ha sperimentata. Ora che gli egiziani hanno scelto, sarà tutto più facile.
L’affluenza del 46% al primo turno e di circa il 52% degli elettori al secondo e il non amplissimo margine di vittoria nel ballottaggio contro l’ultimo primo ministro dell’era Mubarak Ahmed Shafiq (meno di un milione di voti separavano alla fine del conteggio il candidato di “Giustizia e libertà” dal suo rivale, per uno scarto di 3,5 punti percentuali), avrebbero dovuto suggerire a Mursi e alla fratellanza musulmana un approccio più meditato e riflessivo, lontano da quella partigianeria diffusa che sta alimentando le rivalità interistituzionali ed infiammando il popolo.
Dopo aver incassato un indiscutibile successo diplomatico con la negoziazione del cessate il fuoco fra Israele e Gaza ed aver nuovamente proiettato l’Egitto al centro dei delicati equilibri del “grande Medio oriente” , sul fronte interno Mursi sembra aver commesso qualche errore tattico.
Il 22 novembre, il presidente ha emanato un decreto costituzionale con il quale venivano dichiarate non impugnabili le decisioni assunte dalla presidenza, di fatto elevandosi al di sopra dell’unico potere – quello giudiziario – al momento non nelle sue mani. Mursi è infatti già titolare del potere esecutivo e, in virtù di un apposito decreto del mese di agosto e in assenza della Camera bassa del Parlamento sciolta dalla Corte costituzionale, detiene temporaneamente anche il potere legislativo. Con buona pace di Montesquieu e del principio della separazione dei poteri, ma soprattutto di chi a Tahrir aveva sperato nella fine di un regime e non semplicemente in una sua sostituzione.
Mursi ha inoltre bloccato qualsiasi tentativo della Corte costituzionale di sciogliere la camera alta del Parlamento – la Shura - e ha protetto l’Assemblea costituente, a grandissima maggioranza islamista ed in predicato di essere sciolta perché votata da un parlamento la cui elezione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima. Il presidente egiziano ha tuttavia cercato di stemperare i forti contenuti del decreto attraverso alcuni precisi accorgimenti. In primo luogo, si è sottolineata la provvisorietà del provvedimento, in attesa che il Paese si doti di una nuova Costituzione e sia possibile procedere alla convocazione delle elezioni per la Camera bassa. In più, Mursi ha fatto leva sul sensibile tema della rivoluzione, ordinando la riapertura dei processi per i crimini perpetrati contro i manifestanti anti-Mubarak e rimuovendo dall’incarico di procuratore generale – pur senza essere in alcun modo legittimato a farlo - Abdel-Maguid Mahmoud, figura impopolare dopo l’assoluzione di tutti gli imputati nel caso della “Battaglia dei cammelli” del febbraio 2011, in cui le forze del regime di Mubarak avevano brutalmente represso una manifestazione a Tahrir.
Autoproclamarsi custodi della rivoluzione non è però bastato, e le opposizioni sono scese in piazza, contro Mursi e contro la fratellanza musulmana. E se da una parte il presidente ha invitato le parti al dialogo parlando di misure necessarie per scardinare i residui della dittatura e rompere definitivamente con il passato, i manifestanti si sono dimostrati risoluti nel non accettare compromessi con chi hanno cominciato a definire “Mubarak con la barba” e rappresentano sui cartelli della protesta con il tipico copricapo dei faraoni. Altra immagine molto diffusa è quella di un volto composto da due mezzi profili frontali: quello di Mubarak e quello di Mursi, quasi a dire che in poco meno di due anni non è cambiato nulla.
Nel frattempo, l’Assemblea costituente abbandonata per protesta da liberali, laici e rappresentanti delle Chiese cristiane, si è affrettata ad ultimare la bozza di testo costituzionale, che sarà sottoposta a referendum popolare il prossimo 15 dicembre.
Fra i punti critici il ruolo della sharia, che all’articolo 2 viene definita “fonte principale della legislazione” (e i salafiti hanno addirittura protestato parlando di testo fin troppo morbido sul tema), il problema della convivenza fra Islam, Cristianesimo ed Ebraismo e della non discriminazione delle altre confessioni religiose non esplicitamente menzionate, nonché l’indeterminatezza delle previsioni riguardanti i diritti e le libertà degli individui; ma sul sito di Al-Jazeera il professore di storia medio orientale Mark LeVine ha osservato come fosse abbastanza prevedibile che i liberali critici della costituzione si scontrassero con una realtà piuttosto conservatrice sotto il profilo religioso come quella egiziana.
Il dissenso ha continuato con il passare dei giorni ad avere voce e a farsi sentire, e alla richiesta di  ritiro del decreto si è aggiunta la protesta contro il referendum costituzionale, che rischierebbe di alimentare il clima di contrapposizione e di violenza.
In risposta alle contestazioni, i Fratelli musulmani hanno messo in moto la loro formidabile macchina di mobilitazione, richiamando i sostenitori ed organizzando davanti al palazzo presidenziale manifestazioni a sostegno del fratello Mursi, mentre i militari per ora stanno a guardare pur avendo annunciato di non essere disposti a tollerare escalation di tensione che degenerino in violenza .
Il 4 dicembre, il presidente ha addirittura abbandonato il palazzo di Heliopolis sotto assedio, per poi farvi ritorno il giorno dopo. Il bilancio delle rivolte è per il momento di 7 morti ed alcune centinaia di feriti, ma le proteste non sembrano destinate a placarsi. Mursi ha deciso di ritirare il contestato decreto del 22 novembre, ma il Capo dello Stato egiziano non intende elargire concessioni sul voto referendario per approvare la Costituzione, confermato per il 15 dicembre. Il presidente ha inoltre emanato un altro decreto - anch’esso non impugnabile - con il quale viene stabilita l’elezione di una nuova costituente in caso di vittoria del “no” al referendum e vengono cristallizzati gli effetti prodotti dalla dichiarazione costituzionale ritirata nel periodo di vigenza. Non si fa invece esplicita menzione del divieto di scioglimento della Shura, alla quale in caso di esito positivo del referendum dovrebbe passare la titolarità provvisoria del potere legislativo (art.230 della Costituzione, nella sezione delle disposizioni transitorie), fino alla prossima elezione della Camera bassa.
Grandi polemiche ha inoltre suscitato la decisione del presidente egiziano di conferire all’esercito poteri di polizia per garantire lo svolgimento del referendum.
Il Fronte di salvezza nazionale, guidato da Mohamed El Baradei, ha giudicato negativamente le risposte di Mursi alle istanze dei manifestanti e ha confermato l’intenzione di continuare a protestare, annunciando grandi manifestazioni contro il referendum, alle quali si contrapporranno le iniziative degli islamisti a sostegno del presidente.
I nodi restano però ancora tutti da sciogliere. La fratellanza musulmana sembra non godere più del consenso di qualche tempo fa, e la replica di Tahrir alle tentazioni neofaraoniche di Mohamed Mursi dimostra che c’è ancora un fronte molto ampio che non intende cedere a chi vuole esercitare senza controlli il potere politico, avvalendosi dello scudo ideologico della “difesa dei valori della rivoluzione” dagli attacchi dei controgolpisti e delle incrostazioni del vecchio regime.
D’altro canto, il fronte è talmente composito ed eterogeneo che non pare in grado di trovare un comune denominatore per mantenere l’unità anche dopo la protesta. È stato questo il vulnus che ha di fatto estromesso l’avanguardia della rivoluzione dalla competizione elettorale presidenziale, lasciando il centro della scena agli unici “corpi” strutturalmente organizzati - la fratellanza musulmana e i retaggi del regime - ; e questo rischia di essere il destino della “nuova Tahrir” che chiede scelte più partecipate e condivise ai nuovi detentori del potere politico.
La grande sfida continua ad essere quella di dimostrare che libertà e stabilità politica non sono due valori incompatibili e reciprocamente escludentisi lungo le sponde del Nilo, ma che combinati possono contribuire al rilancio di un Paese in crisi politica ed economica ed in attesa di un prestito di 4,8 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale.
Alla fratellanza, agli uomini del vecchio regime, ai militari, ai liberali, ai nasseriani, alla voce di Tahrir come a chi emette decreti da Heliopolis spetta dare prova che un’altra transizione per l’Egitto è davvero possibile.

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Il grande malato europeo alla vigilia del vertice di Bruxelles

“L’Eurozona crollerà giovedì?”: è questo l’interrogativo che si ponevano congiuntamente l’edizione on-line del Wall Street Journal e Market Watch il 26 giugno. Le nubi si addensano su Bruxelles e sul Palazzo Justus Lipsius che ospiterà il Consiglio Europeo del 28 e 29 giugno, e l’idea che la famosa profezia Maya contenesse un fondo di verità comincia a farsi strada: sicuramente il 21 dicembre di quest’anno non finirà il Mondo, ma l’Europa ed il sogno politico europeo potrebbero frantumarsi con 6 mesi di anticipo rispetto all’infausta premonizione, con conseguenze drammatiche per tutto il Vecchio Continente ad oggi non completamente prevedibili. La tanto attesa “boccata d’ossigeno” non è arrivata neanche dopo le consultazioni elettorali in Grecia e la vittoria alle urne del fronte europeista, anche perché negli ultimi giorni si è scoperto che Atene aveva ancora qualche scheletro nell’armadio e mentre prometteva alla troika Ue-Bce-Fmi il taglio di 45000 posti, assumeva 70000 dipendenti pubblici. L’impressione è che il vertice di Bruxelles sia, mutuando l’espressione dal gergo sportivo, un vero e proprio elimination game: se l’Europa perde la partita, potrebbero non esserci ulteriori prove d’appello, nonostante i segnali di allarme e gli inviti a non indugiare riecheggino praticamente inascoltati da più di un anno. Gli eventi degli ultimi giorni non hanno lasciato particolare spazio all’ottimismo: il rendimento dei Ctz (Certificati del Tesoro zero-coupon) e dei Btp emessi dal Tesoro italiano è aumentato e stessa cosa è accaduta per i buoni emessi da Madrid, Moody’s ha tagliato il rating di 28 banche spagnole, Cipro ha ufficialmente inoltrato una richiesta di aiuto finanziario all’Europa e il Ministro delle Finanze greco designato, Vassillis Rapanos, ha rassegnato le sue dimissioni adducendo motivi di salute su cui la stampa ellenica ha mostrato molti dubbi (per dovere di cronaca, è necessario sottolineare che poco prima del giuramento Rapanos è stato trasportato d’urgenza in ospedale).
Nonostante la tensione cresca di ora in ora e si faccia sempre più palpabile – come del resto le oscillazioni dei mercati drammaticamente ci ricordano – il cancelliere tedesco Angela Merkel ha confermato interamente la linea finora tenuta da Berlino: la Germania, una volta di più, non ha intenzione di cedere sul rigore. Nel ribadire il suo “no” all’ipotesi dell’emissione di Eurobond, la Merkel ha sottolineato che sarebbe opportuno concentrarsi su come controllare il debito piuttosto che discutere esclusivamente su come condividerlo, evidenziando un errore nell’inquadramento delle priorità dell’Unione che la cancelleria tedesca ritiene inaccettabile. In altri termini, secondo Berlino è innanzitutto necessario correggere la rotta ed educare i Paesi europei indisciplinati ad una virtuosa politica di bilancio, per poi definire le strategie più opportune per uscire dall’attuale crisi. Il ragionamento tedesco può considerarsi, sotto il profilo formale, assolutamente corretto e condivisibile, ma presenta un vizio di fondo: non tiene conto dei tempi strettissimi a disposizione dell’Unione e del drammatico vulnus europeo della mancanza di crescita, che sta di fatto erodendo le economie del Vecchio Continente. D’altro canto – sostengono giustamente i tedeschi – non si può pensare che Berlino accetti di caricare su di sé il peso dei debiti accumulati da Paesi che hanno gestito piuttosto allegramente i loro conti senza che a questo corrisponda un vero rafforzamento della governance economica e finanziaria europea. Una condivisione sovranazionale delle responsabilità implica necessariamente un controllo sovranazionale dei conti con conseguente cessione di porzioni di sovranità statale, come ha messo in luce in un editoriale su “Il Sole 24Ore” Beda Romano. Nonostante le aperture della Germania in tal senso, sarebbe tuttavia molto difficile trovare un accordo fra gli Stati europei, notoriamente gelosissimi delle loro prerogative.
Anche di questo si discuterà nel vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno. Nel frattempo, il Financial Times ha preannunciato che la bozza predisposta dai 4 Presidenti Van Rompuy (Consiglio europeo), Barroso (Commissione), Draghi (Bce) e Juncker (Eurogruppo) su cui il vertice sarà chiamato a discutere e che è consultabile sul sito del Consiglio dell’Unione Europea (http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ec/131201.pdf) prevede un rilancio dell’ipotesi di condivisione del debito, la fissazione di limiti comuni sugli equilibri annuali di bilancio e sui livelli di debito, la giustificazione ed approvazione preventiva di un eventuale sconfinamento dai parametri di debito prefissati per i Paesi dell’Eurozona, la proposta di una piena ed effettiva unione fiscale. La bozza, che il Financial Times ha definito “un significativo ridimensionamento” rispetto alle indiscrezioni che erano circolate in precedenza, cerca di compenetrare l’esigenza di un intervento immediato che salvaguardi l’Eurozona e la necessità di fornire una risposta ai timori della Germania, ma la Merkel si è già detta “perplessa” per le previsioni del testo sulla condivisione del debito ed ha confermato che sugli Eurobond non intende transigere.
L’Europa ed il resto del Mondo attendono con il fiato sospeso gli esiti del vertice, ma sono in tanti a pensare che l’incontro si concluderà con un nulla di fatto. Attraverso le colonne del Financial Times, il magnate George Soros ha esternato le sue preoccupazioni, affermando che il comportamento della Germania rende alto il rischio che il Consiglio europeo di Bruxelles “si risolva in un fiasco che potrebbe anche rivelarsi fatale, perché lascerebbe il resto dell’Eurozona sprovvisto degli anticorpi necessari per far fronte ad un’eventuale uscita della Grecia dall’Euro”. E nel caso in cui si riuscisse ad evitare la catastrofe, ha puntualizzato Soros, “…il divario fra creditori e debitori si amplierebbe e…si creerebbe un’Europa molto lontana da quella società aperta che ha acceso l’immaginazione dei popoli. La Germania diventerebbe così il centro di un impero con una periferia permanentemente subordinata, un modello che non rientra nei valori della Merkel e della maggioranza del popolo tedesco”. Nel maggio scorso, l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer ha lanciato un appello affinchè la Markel mostri maggiore flessibilità, condensando in poche parole - riportate dal Corriere della Sera - un secolo di storia europea: Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l’ordine europeo. Poi ha convinto l’Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando pienamente l’integrazione d’Europa, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione. Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell’ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è proprio questo”.
I prossimi giorni saranno decisivi. Le cure finora somministrate non hanno fatto guarire il paziente europeo, che secondo molti analisti e secondo gli investitori ha serie probabilità di morire. Starà alle istituzioni dell’Unione e a tutti i suoi Stati membri dimostrare, sin dal vertice di Bruxelles, che il paziente può essere rimesso in sesto, ma ci sarà più che mai bisogno di ottimi medici.

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Il quadro geopolitico della crisi russo-ucraina

Un conflitto ‘congelato’ sempre pronto a riaccendersi, tensioni a intensità variabile che montano fino al punto di deflagrare, e intorno attori geopolitici che cercano di decifrare i comportamenti dei protagonisti della disputa ed elaborare le loro strategie. Nel corso dell’ultima settimana, il fronte di crisi ucraino è tornato ad animarsi, richiamando l’attenzione delle cancellerie e sollecitando gli analisti a soffermarsi su un teatro di scontro geopolitico ancora incandescente e lontano dalla stabilizzazione. I fatti che hanno nuovamente orientato i riflettori su Kiev risalgono a domenica 25 novembre, quando le cannoniere ucraine Berdyansk e Nikopol e il rimorchiatore Yani Kapu – salpati dal porto di Odessa – sono stati colpiti e abbordati da unità russe mentre cercavano di entrare nel Mar d’Azov per raggiungere il porto di Mariupol, passando attraverso lo stretto di Kerch che separa la Russia dalla penisola di Crimea contesa. Lo scontro – che dopo mesi di tensioni nella zona non è arrivato del tutto inatteso – ha portato al sequestro delle imbarcazioni ucraine, alla cattura di 24 marinai e al ferimento di 6 di loro. La presa di posizione di Kiev è stata immediata: il presidente della Repubblica Petro Porošenko ha subito convocato il gabinetto di guerra per valutare la situazione, mentre il ministero degli Esteri ha condannato le «provocazioni russe nel Mar Nero e nel Mar d’Azov», denunciando una violazione delle norme della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e accusando Mosca di aver «superato la linea rossa usando illegalmente la forza contro navi della marina». Nella giornata successiva, il capo dello Stato ha poi richiesto la convocazione di un incontro della Commissione NATO-Ucraina: al termine del vertice, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha voluto sottolineare il pieno supporto di tutti i membri dell’Alleanza atlantica all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, sollecitando Mosca a restituire le imbarcazioni catturate, rilasciare l’equipaggio e assicurare piena libertà di navigazione all’Ucraina nel Mar d’Azov e attraverso lo stretto di Kerch. Davanti alla stampa, Stoltenberg ha poi evidenziato come l’incidente ricordi a tutti che nel Paese è in corso una guerra, e che sul conflitto la posizione della NATO è chiara: l’Alleanza condanna l’attivismo di Mosca sul fronte dell’Ucraina orientale e considera illegale e illegittima l’annessione della Crimea alla Russia.

Appare dunque questa la vera questione geopolitica attorno a cui ruotano le vicende contingenti relative al Mar d’Azov, ed è questo lo scenario all’interno del quale occorre contestualizzare la crisi: come hanno osservato Carl Bildt e Nicu Popescu in un articolo pubblicato su Foreign Policy, l’annessione della Crimea nel 2014 ha infatti consentito a Mosca di assumere il controllo di entrambe le sponde dello stretto di Kerch, dall’omonima penisola a quella di Taman´ situata nel territorio di Krasnodar. Da questa posizione di forza, la Russia è dunque in grado di esercitare pressioni rilevanti sull’economia dell’Ucraina orientale, che è legata a doppio filo ai commerci che si sviluppano nei porti ucraini del Mar d’Azov. A tal proposito, Bildt e Popescu hanno rimarcato come le autorità russe abbiano notevolmente rafforzato negli ultimi mesi i loro controlli sulle navi commerciali destinate a tali porti, ingessando gli scambi e provocando così ingenti danni economici alle regioni ucraine interessate. Per parte sua la Russia non nega le ispezioni, ma sottolinea come queste siano pienamente in linea con l’esercizio della sua sovranità e della sua giurisdizione nelle acque circostanti la penisola di Crimea. Inoltre, i controlli sarebbero stati potenziati per questioni di sicurezza legate alla prima fase di apertura del ponte sullo stretto di Kerch, e avverrebbero comunque in modo non discriminatorio, interessando anche imbarcazioni battenti bandiera russa. Pertanto – ha evidenziato il ministero degli Esteri russo in una nota – Mosca non avrebbe predisposto alcuna strategia per mettere in ginocchio l’economia delle regioni orientali ucraine, contrariamente a quanto asserito da Kiev, Washington e Bruxelles. 

A più di cinque anni dalle proteste di piazza Maidan a Kiev per la decisione dell’allora presidente Janukovič di sospendere la preparazione dell’accordo di associazione tra l’Unione Europea e l’Ucraina, la situazione continua dunque a essere estremamente complessa: alle manifestazioni e agli scontri, seguì nel febbraio del 2014 la destituzione del capo dello Stato, mentre in Crimea si apriva quel fronte di crisi che avrebbe portato all’occupazione russa e al successivo, plebiscitario referendum di marzo per sancire l’annessione della penisola a Mosca. Finora le reazioni dell’Occidente – dalle sanzioni comminate da Stati Uniti e Unione Europea fino all’esclusione della Russia dal consesso del G8 – non hanno sortito gli effetti sperati sul Cremlino, che continua a difendere quelli che ritiene interessi vitali per la propria strategia geopolitica. Al fronte crimeano si è poi ben presto aggiunto anche quello aperto dai separatisti filorussi del Donbass, con due consultazioni referendarie svoltesi l’11 maggio del 2014 nelle autoproclamatesi repubbliche popolari di Luhansk e Donetsk, a marcare ulteriormente le tensioni e le fratture all’interno del Paese. I tentativi di mediazione e gli sforzi diplomatici per il superamento della crisi e la conclusione del conflitto non sono mancati, ma all’effettiva implementazione di quanto concordato negli Accordi di Minsk non si è di fatto mai giunti. Ora, nel Mar d’Azov, rischia di aprirsi un terzo, pericoloso fronte di crisi, questa volta in campo marittimo, un fronte che potrebbe fiaccare ulteriormente regioni già segnate da pesanti carenze infrastrutturali e con importanti difficoltà economiche.

Il 26 novembre il Parlamento ucraino ha approvato l’introduzione della legge marziale voluta dal presidente Porošenko, limitandola però a una durata di 30 giorni ed applicandola esclusivamente in dieci regioni confinanti con la Russia, la Bielorussia e la Transnistria moldava. Dunque, un intervento più circoscritto rispetto a quello inizialmente proposto dal capo dello Stato, che aveva chiesto l’imposizione della legge marziale per 60 giorni in tutto il territorio del Paese: di qui, i sospetti avanzati da commentatori e analisti circa l’intenzione di Porošenko di utilizzare a proprio vantaggio la situazione e cercare di incrementare il suo debole consenso, in vista delle elezioni presidenziali programmate per il mese di marzo del 2019. E magari, provare a posporre la tornata elettorale. Una tesi, questa, che trova pienamente d’accordo Mosca, convinta che Kiev si sia lanciata in un atto deliberatamente provocatorio con l’obiettivo di ottenere il pieno sostegno dei suoi alleati occidentali, che dovrebbero così rafforzare le loro sanzioni nei confronti della Russia.

Le tensioni intanto proseguono: Porošenko ha esplicitamente invitato gli alleati della NATO a collocare le loro navi nel Mar d’Azov per rafforzare la sicurezza, sollecitando un’iniziativa che renderebbe lo scenario ancora più incandescente, mentre la Russia ha annunciato il dispiegamento in Crimea di una nuova unità del sistema missilistico S-400. La questione aleggia sul tavolo dei ‘grandi della Terra’ riuniti a Buenos Aires per il G20: la cancelliera tedesca Angela Merkel ha assicurato che affronterà il tema con Putin, ribadendo comunque che la soluzione non potrà essere militare. Per gli Stati Uniti, la prima a prendere posizione è stata la dimissionaria ambasciatrice presso le Nazioni Unite Nikki Haley, che ha definito l’intervento di Mosca nello stretto di Kerch pericoloso e arrogante. Intanto, a seguito del mancato rilascio dell’equipaggio e della mancata restituzione delle navi, Donald Trump ha annunciato nella giornata di giovedì attraverso il suo account Twitter di aver cancellato l’incontro con Putin a margine del G20.

 

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Cosa prevede la procedura di infrazione

«Nel complesso l’analisi indica che il criterio del debito dovrebbe essere considerato non soddisfatto e che è quindi giustificata una procedura per i disavanzi eccessivi basata sul debito». È la conclusione a cui è giunta la Commissione europea al termine della sua valutazione del documento programmatico di bilancio presentato dall’Italia, dopo che già il 23 ottobre Bruxelles aveva espresso le sue preoccupazioni, sottolineato l’inosservanza delle raccomandazioni rivolte a Roma nel mese di luglio e sollecitato la presentazione entro tre settimane di un nuovo testo riveduto. La correzione di rotta auspicata dall’Unione non ha tuttavia trovato risposta: il 13 novembre, il governo italiano ha infatti inviato alle autorità europee un documento a saldi e previsioni di crescita invariati, evidenziando come – nonostante le contro-argomentazioni della Commissione – le ragioni alla base dell’impostazione della proposta di bilancio rimassero valide.

Esigenze di rilancio dell’economia, necessità di aggredire le situazioni di disagio e la povertà, indifferibilità degli interventi di attenuazione delle norme in materia pensionistica: queste le prime motivazioni addotte dal ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria nella lettera inviata ai commissari Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici, per spiegare la posizione dell’esecutivo e ribadire come – nella visione del governo – l’espansione fiscale, le riforme introdotte e la riduzione delle tasse sulle imprese stimoleranno l’incremento del Prodotto interno lordo. Una missiva che però non ha convinto Bruxelles, neppure dopo la decisione di Roma di aumentare l’obiettivo di privatizzazione del patrimonio pubblico per il 2019 all’1% del PIL, così da recuperare 18 miliardi di euro da destinare alla riduzione del rapporto debito/PIL.

Di qui la bocciatura – ampiamente attesa alla vigilia – del documento.

Dal punto di vista giuridico, la governance economica europea si fonda su una complessa impalcatura di regole, contenute tanto nei Trattati quanto in altri rilevanti provvedimenti legislativi: obiettivo dell’Unione, assicurare stabilità nel breve periodo e sostenibilità delle politiche di bilancio nel lungo periodo. Già il Trattato di Maastricht – entrato in vigore nel 1993 – prevedeva il rispetto dei parametri del rapporto deficit/PIL inferiore al 3% e del rapporto debito/PIL inferiore al 60%; ma a conferire sostanza a tali disposizioni sarebbero poi intervenuti il Patto di stabilità e crescita – adottato nel 1997 e quindi rivisto –, il cosiddetto Six pack nel 2011, il Fiscal compact nel 2012 e i regolamenti del cosiddetto Two pack nel 2013. Si rileva dunque come i principali interventi di rafforzamento dei meccanismi di governance siano sopraggiunti dopo lo scoppio della crisi economico-finanziaria nell’UE e nell’eurozona, al fine di garantire un più rigoroso coordinamento delle politiche di bilancio e contrastare la propagazione di situazioni critiche, prospettiva inevitabilmente amplificatasi con l’accresciuta interazione tra le economie europee in un contesto sempre più integrato.

Al fine di assicurare il rispetto dei parametri e dei vincoli di bilancio, il Patto di stabilità e crescita si articola in due bracci: il primo è il braccio preventivo, che attraverso le procedure di sorveglianza tende a far sì che gli Stati si conformino a politiche di bilancio sostenibili, con il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine. Di volta in volta – e sulla base delle specificità dei singoli Stati membri – le autorità europee valutano se i programmi di stabilità predisposti dagli Stati siano sufficienti o vadano rafforzati. Il secondo braccio è invece quello correttivo, che mira a garantire – previa valutazione della presenza di eventuali fattori mitiganti che giustifichino la violazione dei vincoli – il rispetto dei parametri del 3% di rapporto deficit/PIL e del 60% del rapporto debito/PIL. Il braccio correttivo si sostanzia nella procedura per i disavanzi eccessivi prevista dall’art. 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), dove la parola ‘disavanzi’ contempla sia lo sforamento del parametro del 3% che la violazione del vincolo del 60%. Ed è proprio questo lo scenario che si apre davanti all’Italia dopo la bocciatura del documento programmatico di bilancio.

Le considerazioni della Commissione sono esplicite: il debito pubblico dell’Italia – che nel 2017 si attestava sul 131,2% del PIL – supera il valore di riferimento del 60% stabilito nel Trattato e nuove valutazioni sui parametri si sono rese necessarie perché i piani di bilancio per il 2019 presentati da Roma modificano «in maniera sostanziale i fattori significativi analizzati dalla Commissione lo scorso maggio». Bruxelles ha inoltre constatato come il possibile peggioramento delle condizioni macroeconomiche non sia di per sé sufficiente a spiegare gli ampi divari dell’Italia dai parametri di riduzione del debito previsti, rilevando ancora che i piani del governo implicano «un notevole passo indietro» sulle riforme strutturali del passato e che permangono il rischio di una «deviazione significativa» dal percorso di aggiustamento raccomandato verso l’obiettivo di bilancio a medio termine nel 2018 e l’inosservanza particolarmente grave per il 2019 della raccomandazione rivolta all’Italia dal Consiglio UE il 13 luglio.

Occorre precisare che la procedura dettagliatamente esplicitata dall’art. 126 del TFUE appare lunga e laboriosa: se infatti ritiene che esista o possa determinarsi in futuro un rischio di disavanzo eccessivo, la Commissione è tenuta a trasmettere un parere allo Stato membro interessato e a informare il Consiglio, al quale poi compete – su proposta della Commissione e previa valutazione delle osservazioni formulate dallo Stato membro – decidere se il disavanzo eccessivo esista. Il Consiglio adotta quindi le raccomandazioni necessarie per far cessare la violazione, raccomandazioni a cui lo Stato – entro i tre e i sei mesi – è tenuto a conformarsi. Qualora lo Stato si dimostri adempiente, può essere avviato l’iter per la chiusura della procedura, ma se la violazione persiste il Consiglio – su raccomandazione della Commissione – può intimare allo Stato membro di adottare tutte le misure che siano ritenute necessarie per correggere la situazione. Finché lo Stato non ottempera, il Consiglio può decidere di applicare ed eventualmente rafforzare una serie di misure sanzionatorie, dalla richiesta di costituzione – da parte dello Stato interessato – di un deposito infruttifero presso l’Unione in un range compreso tra lo 0,2% e lo 0,5% del PIL, all’invito alla Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la sua politica di prestiti verso lo Stato membro in questione.

In tale prospettiva, appare dunque chiaro che a destare preoccupazione non sono le conseguenze di breve periodo direttamente riconducibili all’avvio della procedura, quanto piuttosto le possibili reazioni – in termini di più accentuata sfiducia verso l’Italia – degli operatori attivi sui mercati alle posizioni espresse da Bruxelles.

Da una parte, Moscovici ha evidenziato come il passo effettuato dalla Commissione rappresenti l’«inevitabile conseguenza» delle decisioni adottate dal governo italiano, ma dall’altra ha voluto precisare come la procedura per i disavanzi eccessivi non sia ancora stata attivata: gli Stati membri dovranno infatti esprimere le loro valutazioni entro due settimane, e solo successivamente l’iter proseguirà, includendo nuove raccomandazioni affinché l’Italia corregga la traiettoria del deficit e del debito. Le porte della Commissione rimangono dunque aperte al dialogo, ma in caso di avvio della procedura – ha precisato sempre Moscovici – oltre al confronto sarà necessario tanto sangue freddo. Intanto, il primo ministro Giuseppe Conte si è detto pronto a un «confronto costruttivo» sabato con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, per valutare come andare avanti.

 

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Incroci balcanici

Il mese di settembre si sta rivelando molto delicato per la definizione dei futuri equilibri nella regione balcanica. Tra tensioni e rivalità, conflitti latenti che si riaccendono e dispute territoriali ancora irrisolte, i Balcani restano fedeli alla loro storia di area complessa e problematica, segnata da una cifra di instabilità geopolitica quasi ‘genetica’. Nella regione che – secondo un celebre adagio – «produce più storia di quanta non riesca a consumarne», nuove pagine sono state scritte negli ultimi mesi, anche se spesso lontano dai riflettori: la vera sfida – e la difficoltà congenita – sta nello scrivere la parola ‘Fine’ per chiudere un capitolo e cominciarne uno nuovo.

Sul fronte dei negoziati tra la Serbia e il Kosovo, i colloqui del 7 settembre con l’alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini hanno confermato quanto il percorso per giungere a una piena pacificazione continui a essere tortuoso e denso di insidie.

Come già raccontato su questo magazine, le tensioni tra Belgrado e Priština erano riaffiorate con particolare vigore ad agosto, a seguito della mancata presentazione da parte kosovara della bozza di statuto dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo. Dopo un mese, le tensioni non paiono essersi stemperate, nonostante il presidente serbo Aleksandar Vučić e il suo omologo kosovaro Hashim Thaçi – incontratisi il 25 agosto ad Alpbach in Austria – avessero ribadito l’intenzione di proseguire nelle trattative per giungere a un accordo, senza escludere l’ipotesi di una ‘correzione dei confini’ di cui da tempo si parla. A Bruxelles però, la Mogherini ha avuto colloqui separati con i rappresentanti di Belgrado e Priština, a seguito del rifiuto opposto da Vučić di incontrare direttamente Thaçi. Secondo quanto riportato dal direttore serbo dell’Ufficio per il Kosovo Marko Ɖurić, Vučić avrebbe addirittura informato l’alto rappresentante di «inganni, bugie e minacce» provenienti da parte kosovara, ma è probabile che il presidente della Serbia non abbia soprattutto gradito le presunte restrizioni imposte dalle autorità di Priština sulle tappe del suo imminente viaggio in Kosovo. Intervistato poi dall’agenzia Reuters, il presidente serbo ha voluto precisare come un qualsiasi accordo con Priština non possa prescindere da una chiara definizione del futuro europeo della Serbia, sottolineando come Belgrado punti alla garanzia dello status di membro dell’Unione Europea nel 2025. Quanto all’intesa con la controparte, Vučić ha poi sottolineato come spesso il racconto sia eccessivamente semplificato: in realtà, se un accordo dovesse essere raggiunto, esso dovrà essere ampio e riguardare anche il cammino della Serbia verso l’UE e ulteriori progressi in campo economico.

Per parte sua Thaçi, che a Priština deve confrontarsi con forze politiche spesso estremamente critiche verso la sua posizione negoziale, continua a sostenere che l’accordo con Belgrado – con una correzione dei confini – rappresenta l’unica strada per garantire al Kosovo il pieno riconoscimento internazionale, l’ingresso nell’ONU e la prosecuzione del cammino euro-atlantico intrapreso. Solo il tempo dirà se l’opzione dello scambio di territori lungo linee etniche – ritenuta da più voci assai rischiosa per la possibilità di riattivare tensioni mai sopite negli Stati multietnici balcanici – sia realmente percorribile.

È invece in Macedonia che domenica potrebbe viversi un momento storicamente importante: gli elettori del Paese saranno infatti chiamati a esprimersi in un referendum sull’accordo che il primo ministro Zoran Zaev ha firmato nel mese di giugno con il suo omologo greco Alexis Tsipras, riguardo all’annosa disputa sul nome della giovane Repubblica balcanica nata con la dissoluzione della ex Iugoslavia. Sin dal 1991, Atene si è infatti opposta al riconoscimento della denominazione ‘Macedonia’ per il Paese confinante, tanto che Skopje fu ammessa alle Nazioni Unite utilizzando l’acronimo FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia): dietro il diniego di Atene, la convinzione che il nuovo Stato cercasse di appropriarsi di un’eredità culturale non sua e il timore che il riconoscimento del nome ‘Macedonia’ aprisse anche a rivendicazioni territoriali sull’omonima regione appartenente alla Grecia. La disputa sul nome ha rappresentato un ostacolo nel percorso di integrazione euro-atlantica di Skopje, con Atene sempre pronta a far valere la sua membership consolidata nell’UE e nella NATO per impedire l’ingresso del giovane Stato in queste organizzazioni internazionali. Dall’altra parte invece, le autorità macedoni hanno continuato a puntare su quel fattore culturale tanto contestato dai greci, erigendo monumenti che richiamavano al glorioso passato e intitolando l’aeroporto di Skopje ad Alessandro Magno.

L’accordo sottoscritto poco più di tre mesi fa rappresenta un passaggio decisivo per il superamento della controversia: in base all’intesa, la Repubblica ex iugoslava sarà riconosciuta come Repubblica della Macedonia del Nord, e sulla base di tale denominazione compirà il suo percorso per l’ammissione a organizzazioni internazionali come la NATO e l’UE; un percorso che la Grecia non ostacolerà. Skopje e Atene riconoscono inoltre la piena validità dei confini esistenti e si impegnano a rispettarsi reciprocamente sui fronti dell’esercizio della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica. Se una delle parti dovesse poi ritenere che uno o più simboli della sua identità culturale sia utilizzato dall’altro contraente, questo dovrà valutare quali misure correttive adottare al fine di risolvere la questione e assicurare la tutela del patrimonio storico-culturale oggetto di discussione.

Le autorità di Skopje sono pienamente consapevoli della sensibilità del tema del nome, e per questo il quesito referendario non fa riferimento alla denominazione di Macedonia del Nord. Domenica 30 settembre, gli elettori saranno chiamati a rispondere a una domanda incentrata sull’indirizzo politico da assumere, esprimendo il loro consenso sulla futura partecipazione del Paese alla NATO e all’UE, attraverso l’accettazione dell’accordo sottoscritto dalla Macedonia e dalla Grecia. Presumibilmente il ‘sì’ vincerà, ma perché il referendum sia valido è necessario che l’affluenza superi il 50%+1 degli aventi diritto. Sul raggiungimento del quorum nessuna ipotesi può essere esclusa: in primo luogo, gli elettori ufficialmente registrati sono circa 1,8 milioni, troppi per un Paese di circa 2 milioni di abitanti. È dunque probabile che nel corso degli anni le liste non siano state adeguatamente aggiornate, mantenendo artificiosamente alto il numero degli aventi diritto di voto: perché dunque il quorum sia raggiunto, oltre 900.000 persone dovranno recarsi alle urne.

Ci sono poi tutte le incertezze legate all’ambiguità della posizione dell’Organizzazione rivoluzionaria interna della Macedonia-Partito democratico per l’unità nazionale macedone (VMRO-DPMNE), principale partito di opposizione, che pur avendo criticato l’accordo ha lasciato libertà di scelta ai suoi elettori sul voto, senza dare specifiche indicazioni sulla partecipazione alla consultazione o sul suo boicottaggio. Il presidente della Repubblica ed esponente del VMRO-DPMNE Gjorge Ivanov ha già annunciato che non si recherà ai seggi. Pur avendo valore sostanzialmente consultivo, il referendum ha un significato politico estremamente importante: se da una parte infatti l’accordo contempla modifiche costituzionali per le quali sarà comunque necessario un voto a maggioranza dei 2/3 del Parlamento, dall’altra il socialdemocratico Zaev è pienamente consapevole del fatto che un incontestabile successo referendario metterebbe in difficoltà il VMRO-DPMNE, che non potrebbe a quel punto opporsi in Parlamento ai contenuti di un accordo forte della legittimazione popolare. Occorrerà però vedere quanto la prospettiva euro-atlantica funzionerà da richiamo per l’elettore macedone: come ha osservato su Foreign policy il politologo Florian Bieber, la partecipazione della Macedonia alla NATO collocherebbe Skopje nel pieno dello scontro tra l’Occidente e la Russia; posizione questa certamente scomoda. E che Mosca sia fermamente contraria all’allargamento dei confini dell’Alleanza atlantica e dunque alla membership macedone, è cosa acclarata. Quanto all’ingresso nell’UE, il percorso sarà inevitabilmente lungo e complesso, e anche nei Balcani Bruxelles comincia a esercitare meno fascino che in passato.

La parola passa dunque ai macedoni, che dovranno decidere quale indirizzo dare al Paese. Dopo il voto però, la partita non potrà dirsi chiusa: sull’accordo sarà infatti chiamato a pronunciarsi anche il Parlamento greco, dove non sono affatto mancate le voci critiche. E il leader di Greci indipendenti (ANEL) Panos Kammenos – alleato di Tsipras al governo – ha già fatto sapere di non essere intenzionato ad appoggiare l’intesa, costringendo il primo ministro ellenico a rivolgersi altrove per ottenere i voti necessari.

 

Crediti immagine: Diego Delso. Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)

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Uri Avnery, una vita per la pace

«Se venerdì non dovesse arrivarvi il mio pezzo, significa che sarò morto».

Così, nella tarda serata di mercoledì 8 agosto, la giornalista e attivista Anat Saragusti ha voluto dedicare un pensiero sul suo profilo Facebook a Uri Avnery, ricordando una frase che una volta – tra il serio e il faceto – proprio Avnery le aveva detto. Quella sera dell’8 agosto, l’attivista, giornalista e scrittore israeliano non era morto, ma la tradizionale consegna del venerdì non sarebbe stata rispettata: Avnery si trovava infatti in ospedale, in stato di incoscienza, a causa di un infarto che lo aveva colpito mentre si recava a una marcia per la pace a Tel Aviv. Poi, il 20 agosto, a meno di un mese dal compimento del suo novantacinquesimo compleanno, l’addio a una delle voci israeliane più tenaci nel rivendicare il diritto dei palestinesi a un loro Stato.

Nato a Beckum in Germania nel 1923 con il nome di Helmut Ostermann, figlio di una famiglia ebrea, Avnery si trasferisce assieme ai suoi cari nel 1933 nella Palestina sotto mandato britannico, abbandonando il Paese in cui era appena salito al potere Adolf Hitler. Ancora quindicenne si unisce ai paramilitari nazionalisti dell’Irgun, fortemente ostili al regime coloniale ancora vigente nei territori palestinesi. Abbandonerà l’organizzazione tre anni dopo, in contrasto sia con le sue attitudini sempre più marcatamente antiarabe che con il suo modus operandi di stampo terroristico. All’età di 18 anni, assume il nome ebraico di Uri Avnery.

Nella seconda metà degli anni Quaranta, arriva la maturazione del pensiero politico: nel settembre del 1947, Avnery pubblica un opuscolo dal titolo War or peace in the Semitic region, nel quale – come ricorda la sua dettagliata biografia online sul sito http://uriavnery.com – propone una sostanziale alleanza tra il nazionalismo ebraico e quello arabo per la liberazione della ‘regione semitica’, così identificata per evitare qualsiasi richiamo alla denominazione colonialista di Medio Oriente. Si tratta dunque di una prospettiva nuova, che prova a fare leva su una dinamica di respiro regionale finalmente libera dal gioco coloniale e imperialista.

Poco dopo però scoppia la guerra arabo-israeliana e Avnery si arruola nella brigata Givati. Durante il conflitto – nel quale rimane anche gravemente ferito – racconta la sua esperienza nelle unità di combattimento: quei testi, inizialmente pubblicati sui giornali, vengono poi raccolti e diventano un libro di immediato successo, In the fields of the Philistines, 1948. In un altro libro, però, Avnery racconta anche il lato più cupo della guerra e le tante atrocità che la animano: è The other side of the coin (“L’altra faccia della medaglia”), un’opera con personaggi reali a cui vengono attribuiti nomi fittizi, un lavoro di letteratura – che come tale si sottrae dunque alla censura – nel quale la trama si sviluppa attorno a fatti realmente accaduti. E qui la critica diventa durissima.

È però la guerra che rende Avnery un attivista per la pace: è lui stesso a scriverlo in un suo pezzo del maggio 2008, anno delle celebrazioni del sessantesimo anniversario della nascita di Israele. Ed è la guerra – sottolinea – che gli insegna «dell’esistenza di un popolo palestinese», che gli fa capire che «non sarà possibile raggiungere la pace se non nascerà uno Stato palestinese accanto al nostro».

Nell’aprile del 1950, Avnery rileva assieme ad alcuni compagni HaOlam HaZeh, di cui sarà caporedattore per 40 anni: con lui alla guida, il settimanale diventerà una delle voci più irriverenti e fuori dal coro della stampa israeliana, orgogliosamente anti-establishment e sempre pronto a raccontare scandali, fatti di corruzione o episodi controversi, sotto lo slogan «Senza paura, senza pregiudizi». C’è però anche l’esperienza parlamentare nella vita di Avnery, che viene eletto per la prima volta alla Knesset nel 1965, sarà poi confermato con le elezioni del 1969 e ritornerà in Parlamento tra il 1979 e il 1981. Ed è da deputato che, durante la Guerra dei sei giorni del 1967, Avnery scrive una lettera aperta al primo ministro Levi Eshkol, invitandolo – dopo che Israele aveva conquistato la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza – a proporre ai palestinesi la costituzione del loro Stato in quei territori. A quella missiva – stando a quanto raccontato dallo stesso Avnery in un articolo pubblicato nello scorso mese di aprile – il primo ministro risponde con una lezione di tattica negoziale: «Si offre il minimo e si chiede il massimo, poi comincia il negoziato e ci si incontra su posizioni intermedie. Vorresti forse offrire loro tutto senza che le trattative siano ancora cominciate?».

Nel 1974 prendono il via i contatti – inizialmente tenuti segreti – con i rappresentanti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), tra cui Said Hammami e Issam Sartawi poi entrambi assassinati dai dissidenti dell’organizzazione di Abu Nidal. Il 3 luglio del 1982, nel pieno della guerra del Libano, arriva l’incontro con Yasser Arafat, che gli varrà in seguito una richiesta di accusa per alto tradimento da parte di alcuni ministri israeliani. Attorno a questo dialogo, alle sue tappe e alle sue tante difficoltà, prende forma il libro My friend, the enemy, pubblicato nel 1986 e tradotto in più lingue.

Nel dicembre del 1992 – dopo che tra alti e bassi il confronto israelo-palestinese era proseguito – arriva l’espulsione in massa verso il Sud del Libano di 415 attivisti palestinesi, accusati di essere membri di Hamas e del Movimento per il jihad islamico in Palestina: in segno di protesta, assieme ad altri cittadini israeliani, Avnery pianta una tenda davanti all’ufficio del primo ministro Yishaq Rabin, rimanendovi per 45 giorni. Di lì, nasce nel 1993 Gush Shalom, il “Blocco per la pace” che negli anni successivi si sarebbe battuto per la nascita di uno Stato di Palestina e avrebbe animato diverse campagne e manifestazioni, come quella per il rilascio dei prigionieri palestinesi, per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dei due Stati o quella dello ‘scudo umano’ a difesa di Arafat nel 2003 a Ramallah, per timore che da Israele arrivasse l’ordine di uccidere il leader palestinese.

In tutti questi anni, Avnery ha continuato a scrivere i suoi articoli: l’ultimo è stato pubblicato a inizio agosto, con il titolo inglese Who the hell are we? (“Chi diavolo siamo?”). Il pezzo si apre con un dialogo tra l’attivista e Ariel Sharon. «Sono prima di tutto un israeliano. Solo dopo un ebreo» avrebbe detto Avnery, suscitando la reazione di Sharon che avrebbe con decisione invertito i termini della questione: «Prima di tutto sono un ebreo, e solo dopo un israeliano». Un dibattito apparentemente astratto – osserva Avnery – ma nel quale risiede il vero nocciolo di uno dei dilemmi politici più difficili da sciogliere. Di qui, parte una durissima critica verso il testo di legge approvato a luglio dalla Knesset, che riconosce Israele come Stato-nazione del popolo ebraico rischiando di emarginare tutti gli altri cittadini del Paese che ebrei non sono.

 

Crediti immagine: da Michael F. Mehnert [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) o CC BY-SA 3.0  (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons

 

 

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La NATO secondo Trump

«L’impegno degli Stati Uniti nella NATO è molto forte, rimane molto forte. Io credo nella NATO».

Con queste parole – pronunciate davanti alla stampa – Donald Trump ha riaffermato il solido ancoraggio di Washington all’Alleanza atlantica, provato a rassicurare i Paesi partner e cercato di placare gli animi, al termine di un summit NATO che si è rivelato denso di difficoltà. Per lo meno a beneficio di telecamere e microfoni, l’inquilino della Casa Bianca ha mostrato toni conciliatori, sottolineando come – nonostante le critiche avanzate nei confronti dell’Alleanza e di alcuni Stati membri – durante il vertice abbia prevalso un forte spirito di collegialità, senza alcuna animosità durante i confronti privati. Ovviamente, anche in questo caso Trump ha rivendicato i propri personali successi: l’obiettivo di una più giusta ripartizione dei costi della sicurezza tra gli alleati è stato infatti riaffermato, con gli Stati membri che hanno ribadito l’intenzione di raggiungere il prima possibile il target del 2% del PIL in spese per la difesa, concordato nel 2014 – con un orizzonte temporale decennale – durante il summit dell’organizzazione in Galles. Anzi, ha rimarcato sempre Trump con orgoglio, l’impegno di risorse potrebbe persino essere più sostanzioso, con un chiaro riferimento alla notizia emersa nelle ore precedenti sulla sua proposta che ciascun membro dell’Alleanza destini alla sicurezza il 4% del prodotto interno lordo.

Se però Trump ha lasciato Bruxelles complessivamente soddisfatto, tanto da twittare alla fine un rassicurante «Thank you #NATO2018!», il clima è parso decisamente più teso sia alla vigilia del summit che durante il suo svolgimento. Vertice dell’Alleanza atlantica, visita in un Regno Unito attraversato dalle tensioni politiche legate alla Brexit e incontro con Putin a Helsinki: questa l’agenda degli impegni nel vecchio continente per il presidente statunitense, che prima di partire per l’Europa aveva dichiarato di ritenere il colloquio con il suo omologo russo la parte più facile del viaggio.

Il rapporto tra Donald Trump e l’Alleanza atlantica è stato sin dall’inizio molto controverso: già durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali, l’allora candidato repubblicano – non particolarmente legato ai temi di politica estera – aveva infatti criticato l’organizzazione, definendola ‘obsoleta’ e attaccando gli altri Paesi membri, rei di non pagare la loro giusta quota per garantire la piena efficacia dei meccanismi di sicurezza collettiva. «Gli Stati membri della NATO devono pagare di più e gli Stati Uniti di meno»: è questa la filosofia, ribadita sul suo sempre attivo account Twitter alla vigilia della partenza, che ha ispirato sin dal principio l’azione di Donald Trump verso l’Alleanza atlantica.

In realtà – come hanno osservato molti commentatori e analisti – tale approccio non può considerarsi una novità nella politica estera statunitense: il problema del ‘burden sharing’, ossia della ‘condivisione degli oneri’ tra gli Stati membri dell’organizzazione, è stato infatti più volte evidenziato dagli inquilini della Casa Bianca, che hanno sempre reclamato un maggiore impegno degli alleati europei nell’ambito del Patto. «Gli Stati Uniti stanno facendo ben più della loro parte…adesso tocca agli Stati europei occidentali più ricchi fare la loro, e spero che lo facciano»: una frase che oggi sarebbe facile attribuire a Donald Trump, ma che – come ricordava James Goldgeier citandola in una analisi pubblicata sul Washington Post – fu invece pronunciata da John Fitzgerald Kennedy, che rimarcò anche come non fosse più sostenibile per gli Stati Uniti continuare a garantire la protezione militare dell’Europa mentre gli altri Stati NATO non si assumevano i loro oneri. Si tratta dunque di una dialettica non nuova, che ha animato il confronto tra Paesi percepiti esclusivamente come security consumers – pertanto ‘beneficiari’ dei meccanismi di sicurezza – e Paesi ritenuti security producers, in quanto ‘garanti’ di tale sicurezza.

Ancora una volta, Trump ha ripreso questo argomento prima del vertice dell’11 e 12 luglio, lamentando le eccessive spese sostenute dagli Stati Uniti per la sicurezza a fronte dello scarso impegno degli alleati europei, che non solo non destinerebbero alla difesa il 2% del loro PIL, ma dovrebbero versare anni di contributi arretrati. Una considerazione, quest’ultima, che con il tempo è diventata un vero e proprio mantra della retorica trumpiana verso la NATO, funzionale a guadagnare il consenso di una parte dell’opinione pubblica americana sulla sua ‘linea dura’, ma non corrispondente a un corretto inquadramento del finanziamento delle attività dell’Alleanza atlantica.

Se da una parte – come si è detto – il richiamo a una condivisione più equa degli oneri non rappresenta una novità nell’approccio statunitense alla NATO, dall’altra le posizioni espresse da Trump hanno destato molte più preoccupazioni di quanto non accadesse in passato. Questo perché tali posizioni si inseriscono in una cornice diversa e per certi versi non ancora completamente decifrata, quella della visione trumpiana delle relazioni internazionali – improntata al principio guida dell’America first – e della ridiscussione dei rapporti con gli alleati. Il colpo di scena al termine del vertice dei capi di Stato e di governo del G7, con la decisione di Trump di ritirare la propria firma dal documento congiunto, ha lasciato il segno; così come la marcata chiusura protezionista che non ha risparmiato neppure il Canada e l’Unione Europea. Il nodo dei commerci rappresenta peraltro un nervo scoperto per l’inquilino della Casa Bianca, come emerso anche durante il vertice NATO: come può l’Europa – è l’assunto di Trump – pretendere di godere della benevola protezione statunitense quando poi Washington paga un forte deficit commerciale rispetto ai Paesi dell’UE? A rendere ulteriormente teso il clima ha poi contribuito l’attacco diretto del presidente USA alla Germania, rea di versare ‘miliardi di dollari’ alla Russia per le forniture energetiche – e di essere attiva protagonista del progetto di gasdotto Nord Stream 2 – mentre beneficia dell’ombrello protettivo della NATO contro Mosca.

In merito alle decisioni del vertice, sotto il profilo operativo è stato deliberato il lancio della NATO Readiness Initiative, con la messa a disposizione di 30 unità navali, 30 squadroni aerei e 30 battaglioni meccanizzati capaci di mobilitarsi entro 30 giorni; è stato  ribadito l’impegno nella lotta contro il terrorismo e nel campo della difesa cibernetica e ancora confermato il lancio di una nuova missione di addestramento in Iraq oltre che un rafforzamento del sostegno alla Giordania e alla Tunisia.

Alla fine però i riflettori – ben più che sulle decisioni del summit – erano soprattutto puntati sulle parole e sugli atteggiamenti, sulle prese di posizione e sulle possibili risposte, sullo sviluppo della dialettica tra Washington e i suoi alleati. Una breccia nel fronte occidentale – complice la crisi che stanno attraversando le democrazie liberali – pare essersi aperta, ma per il momento gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a rinunciare alla NATO.

Anzi, ha dichiarato alla stampa Trump, oggi l’Alleanza atlantica è molto più forte di quanto non lo fosse ieri. E alla domanda di un reporter sulla possibilità che – come accaduto dopo il G7 canadese –  cambiasse idea una volta salito sull’Air Force One affidando a Twitter il suo pensiero, il presidente ha risposto: «No. Sono un genio molto stabile».

 

Crediti immagine: ANSA/EPA

 

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Falkland o Malvinas?

‘Islas Malvinas. Un amor soberano’. Un ‘amore sovrano’ impresso su una nuova serie di banconote da 50 pesos, a perenne memoria del fatto che per Buenos Aires, las Malvinas erano, sono e per sempre saranno argentinas. Sul fronte del biglietto, la mappa delle isole contese – non solo le Falkland/Malvinas, ma anche la Georgia del Sud e le Sandwich australi – sul retro, a cavallo mentre sventola una bandiera argentina, Antonio ‘el Gaucho’ Rivero, che guidò una rivolta contro gli occupanti inglesi nel 1833. Lo scorso febbraio, la Banca centrale argentina ha informato dell’imminente immissione in corso delle banconote, già a partire dal mese di marzo; dunque, circa 11 mesi dopo la presentazione della nuova serie da parte della presidente Cristina Fernández de Kirchner. Era il 2 aprile del 2014, Giornata dei veterani e dei caduti nella guerra delle Malvinas, 32 anni esatti dall’inizio del conflitto che vide contrapposti il Regno Unito e la repubblica sudamericana per il controllo delle isole. 2 aprile 1982: lo sbarco alle Malvinas per gli argentini, l’invasione delle Falkland per gli inglesi. La guerra durò poco più di due mesi, fino alla resa di Buenos Aires nel mese di giugno, portando con sé un bagaglio di circa 1000 morti – per la maggior parte argentini – e segnando la fine del potere di Leopoldo Galtieri. Diversi studiosi dei conflitti hanno fatto riferimento alla teoria della diversionary war per spiegare l’iniziativa argentina nelle Falkland/Malvinas nel 1982: semplificando un concetto tanto complesso quanto dibattuto, la ‘guerra come diversivo’ verso un nemico esterno può contribuire a ristabilire la coesione interna minata da situazioni conflittuali a livello domestico; dunque in tale prospettiva, l’operazione contro il rivale britannico nelle isole contese sarebbe servita a comprimere il crescente malcontento nei confronti di un regime fortemente repressivo e incapace di risollevare l’economia del paese. Alla conclusione del conflitto tuttavia, Galtieri risultò il migliore alleato involontario di Margaret Thatcher, fino ad allora premier tutt’altro che popolare ma poi, sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria bellica, trionfalmente confermata nelle elezioni dell’anno successivo.
La contrapposizione britannico/argentina sulla questione delle Falkland/Malvinas affonda tuttavia le sue radici in un passato ben più lontano del 1982; risalente all’epoca del colonialismo e, ancor più indietro nel tempo, ai secoli delle grandi scoperte geografiche. Fu una ricostruzione storica estremamente dettagliata quella che l’ambasciatore José María Ruda presentò poco più di 50 anni fa – il 9 settembre 1964 – dinanzi alla Sottocommissione III del Comitato speciale per la decolonizzazione delle Nazioni Unite, esponendo in quello che sarebbe diventato il celebre ‘Allegato Ruda’ le ragioni per cui Buenos Aires rivendicava la propria sovranità sull’arcipelago e sulle isole circostanti. In quell’intervento – spiegava l’ambasciatore – sarebbero stati riaffermati i diritti ‘irrinunciabili e imprescrittibili’ dell’Argentina sulle Malvinas, territorio ‘occupato illegalmente dalla Gran Bretagna nel 1833 in virtù di un atto di forza’. Non c’è passaggio della storia delle isole che Ruda non indaghi nella sua dichiarazione. La scoperta dell’arcipelago? Da attribuire a navigatori spagnoli della prima metà del XVI secolo, come testimonierebbero le mappe realizzate dai cartografi di Carlo V, e non a John Davis che l’avrebbe avvistato ‘solo’ nel 1592, senza che peraltro – secondo Ruda – ci sia traccia di tale luogo geografico nella cartografia inglese dell’epoca. Quanto all’occupazione poi, non ci sarebbero dubbi per il delegato argentino che sia da attribuire ai francesi, che tuttavia dopo aver fondato Port Louis nel 1764 riconobbero i diritti spagnoli sulle isole e le cedettero a seguito di un negoziato alla Spagna, nel 1766. Dunque, a nulla varrebbe la semplice visita sulle isole da parte di John Strong nel 1690, perché l’occupazione deve considerarsi effettiva. Gli inglesi stabilirono poi sull’arcipelago, nel 1766, la base di Port Egmont, ritirandosi tuttavia nel 1774. Secondo Ruda pertanto, la Spagna avrebbe esercitato i diritti di sovranità sui territori contesi sino al 1810, anno in cui quei diritti sarebbero stati ereditati dall’Argentina impegnata nella lotta per l’indipendenza. Buenos Aires sarebbe poi stata privata delle isole dall’occupazione britannica del 1833. Dunque, nell’opinione di Ruda e dell’Argentina, un atto di colonialismo, al quale tuttavia non si poteva porre riparo applicando in modo tradizionale il principio di autodeterminazione dei popoli statuito nella Dichiarazione sulla concessione dell’indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali: se infatti – come dichiarava l’ambasciatore – gli inglesi avevano espulso gli abitanti delle isole sostituendoli con cittadini britannici, l’attuazione del principio di autodeterminazione avrebbe perpetuato un’ingiustizia trasformando ‘un’occupazione illegittima in sovranità piena’. Il 18 settembre del 1964, la Sottocommissione riconobbe l’esistenza di una disputa tra Regno Unito e Argentina, chiedendo al Comitato speciale di invitare le parti a negoziare una soluzione pacifica in conformità con la Carta delle Nazioni Unite e nell’interesse degli abitanti delle isole. L’invito a procedere ‘senza indugio’ alle trattative fu poi confermato l’anno successivo, nel 1965, con la risoluzione 2065 (XX) dell’Assemblea generale. Il negoziato iniziò nel 1966, e nel 1968 fu predisposto un memorandum – tenuto segreto – in cui il Regno Unito apriva alla cessione della sovranità dei territori contesi una volta che Londra avesse ritenuto soddisfacenti le garanzie offerte da Buenos Aires sulla tutela degli interessi degli isolani. L’accordo non fu mai raggiunto, e a compromettere ulteriormente le speranze di risoluzione della controversia fu il conflitto del 1982. Nel 1983, gli abitanti delle Falkland/Malvinas ottennero la cittadinanza britannica, poi nel 1985 fu varata una Costituzione che riconosceva agli isolani il diritto all’autodeterminazione. Ancora oggi tuttavia, l’Argentina continua a rivendicare la propria sovranità sulle isole, rifacendosi spesso agli argomenti addotti da José María Ruda, e sollecita nelle diverse sedi internazionali la riapertura del negoziato con il Regno Unito, posizione sostenuta da numerosi paesi del Sud del mondo. La partita geopolitica poi, è resa ulteriormente complessa dalla questione relativa allo sfruttamento delle risorse di petrolio e gas nei fondali circostanti le isole, terreno di uno scontro tornato ad infuocarsi nel 2010 quando ai programmi britannici di esplorazione e trivellazione, l’Argentina rispose con un decreto che imponeva la preliminare autorizzazione governativa a tutte le imbarcazioni che, dirette verso i territori contesi, attraversassero acque sotto la giurisdizione di Buenos Aires.
Dal canto suo, Londra mantiene ferma la sua posizione: eccezion fatta per i 2 mesi di guerra del 1982, le Falkland/Malvinas, la Georgia del Sud e le Sandwich australi sono state sotto il controllo e l’amministrazione della corona britannica in modo continuativo e pacifico dal 1833; inoltre la prossimità territoriale delle isole all’Argentina non può essere invocata al di sopra del principio di autodeterminazione. Sul sito del governo locale di Port Stanley – Puerto Argentino per Buenos Aires – è inoltre disponibile un pamphlet che mira a confutare i punti salienti del discorso di Ruda del 1964: secondo gli autori del documento, le inesattezze storiche espresse dal delegato argentino sarebbero decine, tuttavia essi si limitano ad indicare le 12 più importanti. Tra queste, si citano l’assenza di qualsiasi riserva espressa di sovranità spagnola nell’accordo del 1771 successivo all’attacco della Spagna a Port Egmont, la nomina mai avvenuta di un governatore argentino delle isole nel 1823, il fatto che gli abitanti delle isole non si sarebbero opposti all’arrivo degli inglesi né sarebbero stati espulsi, il Trattato Arana-Southern del 1850 con cui veniva ristabilita l’amicizia tra Argentina e Gran Bretagna, ragion per cui – nell’opinione degli autori del pamphlet – la disputa territoriale sulle isole doveva ritenersi risolta a favore di chi in quel momento le occupava. Con un referendum tenutosi nel marzo 2013, gli abitanti delle Falkland hanno votato per restare Territorio britannico d’oltremare: dei 1517 votanti, solo in 3 si sono espressi contro l’opzione. L’Argentina ha ricusato gli esiti, sostenendo che la disputa può essere risolta solo da Londra e Buenos Aires. Più romanticamente, nel racconto autobiografico ‘L’autunno del ‘53’, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano affidava la soluzione della questione a una partita di calcio tra bambini: gli inglesi delle Falkland si erano impegnati, qualora avessero perso, ‘ad accettare che le isole si sarebbero chiamate Malvinas per sempre e su tutte le carte del mondo’. I piccoli calciatori argentini diretti verso l’arcipelago si persero tuttavia nel deserto, e la partita non si disputò. E, conclude Soriano, ‘se non ci fossimo persi nel deserto in quell’autunno memorabile, forse non sarebbe successo quello che successe nell’ ‘82”.

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L’Europa secondo il Gruppo di Visegrád

28 e 29 giugno: dopo confronti e scontri, prese di posizione e tentativi di mediazione, i nodi vengono al pettine. E da come questi nodi saranno sciolti, arriverà qualche indicazione sul futuro che attende l’Europa, sempre che di futuro si possa concretamente continuare a parlare. Oggi e domani, i capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’UE si riuniscono a Bruxelles per un Consiglio europeo da tempo atteso. Si parlerà di economia e finanza, di fiscalità e innovazione, nonché della futura gestione del quadro finanziario pluriennale dell’Unione; si analizzeranno i passi in avanti compiuti nel negoziato sulla Brexit e si affronteranno i temi della sicurezza e della difesa in vista del vertice NATO di luglio; ancora, si discuterà della riforma dell’Unione economica e monetaria. Tutti temi nevralgici, oscurati però nel dibattito pubblico dalla questione migratoria. Dimensione interna ed esterna delle migrazioni, compresa la riforma del sistema europeo comune di asilo e dunque – di fatto – anche la revisione del regolamento di Dublino: è su questo che i vertici europei sono innanzitutto chiamati a confrontarsi durante il summit, cercando di trovare una sintesi che per molti appare difficile da raggiungere.

Per un corretto inquadramento della situazione, è indispensabile partire dalla cornice politica generale che si sta delineando nel Continente: come ha osservato su questo magazine Nicolò Carboni, l’asse franco-tedesco, i cui orientamenti hanno tradizionalmente prevalso sulla scena europea, sta infatti vivendo un momento di crisi, a causa di forti pressioni – soprattutto interne – che finiscono per indebolire le leadership di Berlino e Parigi. In questa fase di parziale rimescolamento delle carte, i Paesi del Gruppo di Visegrád stanno dunque cercando di consolidare il loro ruolo in Europa e di far sentire il loro peso come blocco unitario, trovando un validissimo elemento di supporto nelle pulsioni conservatrici e sovraniste che stanno attraversando l’Unione. Il gruppo, formato da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, presenta in realtà posizioni molto più articolate e variegate di quanto non appaia a una prima analisi; tuttavia, soprattutto con riferimento ai temi del controllo e del contenimento dei flussi migratori, tende a mostrare il più possibile la sua compattezza. Autentico frontman del gruppo, per quanto la presidenza segua il criterio della rotazione tra gli Stati membri, è il primo ministro magiaro Viktor Orbán, più volte al centro dell’attenzione per le sue crociate antimigranti – da ultimo con gli emendamenti costituzionali che impongono severe restrizioni all’accoglienza – e per la missione quasi ecumenica di difensore dei valori cristiani dell’Europa di cui si è autoinvestito.

Con l’esplosione della crisi migratoria nel corso del 2015, la posizione dei governi di Budapest, Praga e Bratislava è stata da subito chiara: mai il blocco dei Paesi avrebbe accettato i meccanismi di redistribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo e dei migranti in evidente bisogno di protezione internazionale. Tali orientamenti non trovarono subito sponda nell’esecutivo polacco, allora presieduto da Ewa Kopacz del partito politico di centrodestra Piattaforma civica: in quell’occasione, il governo preferì seguire un percorso di collaborazione con Bruxelles e decise di votare a favore del processo di ricollocazione, disallineandosi rispetto agli alleati del blocco e venendo per questo duramente criticato dall’opposizione di destra del partito Diritto e giustizia. Tale forza politica si sarebbe però imposta nelle elezioni di ottobre 2015 e avrebbe portato pochi mesi dopo Varsavia a modificare la propria posizione, rifiutandosi di accogliere i rifugiati a causa dell’assenza di adeguate garanzie nel campo della sicurezza.

La posizione dei Paesi di Visegrád sul fenomeno migratorio – rimasta complessivamente stabile nel corso degli ultimi anni – è oggi rintracciabile nei più recenti documenti del gruppo, di cui l’Ungheria è stata chiamata a esercitare la presidenza tra il mese di luglio del 2017 e quello di giugno del 2018. Nella loro dichiarazione congiunta sul futuro dell’Europa, redatta lo scorso mese di gennaio, i Paesi di Visegrád hanno ribadito ancora una volta come sia necessario procedere a una netta separazione tra coloro che hanno diritto alla protezione internazionale e i cosiddetti migranti economici, evidenziando che le decisioni più efficaci in materia di politiche migratorie sono state raggiunte per consensus. Dunque, esplicito rigetto delle decisioni adottate a maggioranza e di conseguenza ‘imposte’ agli Stati membri contrari, come quella relativa alla redistribuzione dei migranti a cui Visegrád rifiuta ancora categoricamente di conformarsi. Peraltro tale allocazione – hanno da ultimo dichiarato i ministri dell’Interno del blocco – non risolverebbe il problema, ma produrrebbe ulteriore incertezza e nuovi rischi, collegati agli spostamenti dei richiedenti asilo nel territorio dell’Unione. Secondo Visegrád, è dunque sulla protezione delle frontiere esterne che l’UE dovrebbe concentrarsi, bloccando i flussi di migranti irregolari e pensando al tempo stesso a formule che garantiscano adeguata protezione nelle regioni di provenienza e nei Paesi di transito.

Come procedere però concretamente sul fronte della riforma del regolamento di Dublino? La proposta votata nel novembre 2017 dal Parlamento europeo per l’avvio dei negoziati prevede che il Paese di arrivo non sia più automaticamente il responsabile del trattamento delle domande d’asilo, stabilisce la ripartizione per quote dei richiedenti e contempla limitazioni nell’accesso ai fondi europei come sanzione per i Paesi che rifiutano l’accoglienza. Rispetto a tale base di partenza la Bulgaria, che esercita la presidenza semestrale del Consiglio UE, ha presentato una differente formula orientata al compromesso, ma la bozza ha incontrato le resistenze sia dei Paesi di Visegrád, che la ritengono troppo incisiva, sia dei Paesi mediterranei – Italia in testa –, che la ritengono troppo blanda. Il ministro italiano dell’Interno Matteo Salvini ha comunque evidenziato che con Orbán l’Italia cambierà le regole dell’Europa, per quanto appaia evidente che sul tema migratorio gli interessi di Budapest e Roma siano divergenti.

La situazione non pare poi essere migliorata dopo il minivertice del 24 giugno, ribattezzato ‘il summit per salvare la Merkel’ alla luce delle difficoltà che la cancelliera sta incontrando in patria: forti sono infatti le pressioni esercitate sul tema migratorio dall’alleato bavarese della CSU e dal suo leader, il ministro dell’Interno Horst Seehofer. Al summit, i Paesi di Visegrád avevano già detto di non essere intenzionati a partecipare.

Le prospettive paiono dunque cupe e una vera intesa per una gestione europea del fenomeno migratorio complessa da trovare. La presidenza bulgara si avvia alla conclusione, lasciando spazio a partire dal primo luglio all’Austria. A inizio giugno Vienna ha dichiarato che in assenza di un accordo potrebbe promuovere una ‘rivoluzione copernicana’ europea nel campo delle politiche migratorie. E Kurz ha partecipato come ospite all’incontro dei capi di governo dei Paesi di Visegrád il 21 giugno, ponendo l’accento sull’esigenza improrogabile di un rafforzamento dei presidi alle frontiere esterne. Una chiara anticipazione degli orientamenti della proposta ‘rivoluzionaria’ viennese, che ovviamente al blocco dell’Europa centro-orientale farà piacere.

Gli equilibri politici all’interno dell’Unione potrebbero dunque essere in corso di ridefinizione, ed è per questo che a Bruxelles – a partire da oggi – non si discuterà solo di migrazioni o di budget europeo. La posta in gioco sembra infatti essere la visione stessa del futuro dell’Unione.

 

Crediti immagine: da Kancelaria Premiera. Public Domain Mark 1.0

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Lo storico incontro tra Trump e Kim Jong-un

Hotel Capella, isola di Sentosa, Singapore.

Oggi, gli occhi del mondo sono puntati in questa direzione, per uno dei vertici più attesi dell’anno: quello tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il supremo leader nordcoreano Kim Jong-un. Un summit fino a pochi mesi fa difficile persino da immaginare, se si torna indietro con la memoria alla decisa accelerazione impressa da Pyŏngyang al suo programma nucleare e alle piccate risposte dell’inquilino della Casa bianca, pronto di volta in volta a ricordare alla controparte la straordinaria forza militare statunitense e quanto più grande fosse il bottone nucleare collocato sulla sua scrivania rispetto a quello nelle disponibilità della Corea del Nord. La Storia e la geopolitica non si lasciano tuttavia imbrigliare in schemi precostituiti e ora i due leader sono lì, pronti a suggellare ufficialmente l’allentamento della tensione e a discutere concretamente delle prospettive di stabilizzazione della penisola coreana.

Reduce da un summit del G7 in cui ha sconfessato via Twitter gli alleati occidentali, nel quadrante geopolitico dell’Estremo Oriente Trump sembra essersi mosso in queste ore con maggiore cautela, parlando al telefono sia con il primo ministro giapponese Shinzo Abe che con il presidente sudcoreano Moon Jae-in, importanti alleati di Washington nella regione. Da una parte, c’è piena cognizione del fortissimo significato dell’incontro, reso possibile grazie a un paziente lavoro diplomatico e ad aperture politiche prevedibili ma non per questo scontate. Dall’altra, c’è comunque la assoluta consapevolezza che l’incontro sull’isola di Sentosa rappresenta soltanto il primo passo di un percorso inevitabilmente lungo – «È l’inizio di un processo» ha riconosciuto Trump – e non privo di insidie, perché anche sulla semantica occorrerà discutere e negoziare, limare e correggere, rivedere e riscrivere.

A pochi giorni dal summit, gli analisti non si sbilanciavano: i due interlocutori, del resto, non lasciavano spazio a facili previsioni. Anzi, a poco meno di venti giorni dalla data fissata per l’incontro, tutto è parso sul punto di saltare: dopo un nuovo inasprimento della retorica, era stato infatti il presidente Trump ad annunciare – il 24 maggio – che il vertice non si sarebbe tenuto, denunciando l’‘aperta ostilità’ di Pyŏngyang nei confronti di Washington. Motivo dell’irritazione di Trump, le dichiarazioni della viceministro degli Esteri nordcoreana Choe Son-hui, che aveva definito il vicepresidente USA Mike Pence un ‘manichino politico’ per i suoi commenti «ignoranti e stupidi» circa il rischio che il regime della Corea del Nord – in mancanza di un accordo sulla denuclearizzazione – «faccia la fine della Libia». Meri fatti secondo Pence, una minaccia inequivocabile per Pyŏngyang: Gheddafi accettò infatti di rinunciare ai propri arsenali nel 2003, ma il suo regime fu poi rovesciato nel 2011. Trump lasciava però la porta socchiusa: dopo le ultime schermaglie, era forse opportuno constatare che i tempi non erano maturi per il summit, ma la Casa bianca era pronta a riconsiderare le proprie posizioni se il regime nordcoreano avesse mostrato le sue buone intenzioni.

Così, dopo lo storico vertice di aprile nel villaggio di confine di Panmunjŏm, Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon tornavano a incontrarsi, per lanciare un messaggio sulle reali intenzioni di dialogo di Pyŏngyang. Ed era proprio Moon a confermare che l’impegno di Kim alla denuclearizzazione della penisola coreana era sincero, puntualizzando però come il supremo leader – a suo parere – non si sentisse sufficientemente rassicurato dalle posizioni di Washington. Nel frattempo, anche la diplomazia a stelle e strisce si riattivava e una delegazione statunitense raggiungeva la Corea del Nord per discutere dei dettagli del summit con la controparte: il 12 giugno come data dell’incontro tornava così di attualità. Il 1° giugno toccava invece a Kim Yong Chol – importante autorità nordcoreana – recarsi alla Casa bianca per incontrare Trump e consegnargli una lettera del supremo leader, contenuta in una busta le cui notevoli dimensioni hanno incuriosito gli osservatori, impegnati a chiedersi quale significato potesse celarsi dietro tale simbologia.

Dunque, crisi rientrata e summit confermato.

Per Kim Jong-un, il solo fatto di sedere al tavolo con Trump è una vittoria, a dimostrazione della sua capacità di pensare strategicamente. Costruito il suo arsenale e raggiunte le capacità tecnologiche per colpire l’America, il supremo leader nordcoreano ha ritenuto di aver conseguito il massimo livello possibile di deterrenza, tale da distogliere Washington da qualsiasi tentazione di regime change. Così, ha deciso di giocare la carta dell’apertura diplomatica, innanzitutto verso Seoul – favorito anche dall’arrivo alla presidenza sudcoreana di una figura dialogante come Moon Jae-in – e poi verso gli Stati Uniti. Per Pyŏngyang dunque, il ‘sì’ statunitense al confronto è il simbolo inequivocabile del riconoscimento del suo status geopolitico, che non viene scalfito da relative concessioni alla controparte come la moratoria sui test nucleari e missilistici – oramai ritenuti non più necessari – o la distruzione del sito nucleare di Punggye-ri, con il regime che potrebbe costruire in qualunque momento nuovi tunnel per i suoi esperimenti.

Dall’altra parte, l’amministrazione Trump può invece fare leva sulle pressioni esercitate sulla Corea del Nord e indicare nelle sanzioni volute da Washington la reale motivazione che ha spinto il regime al dialogo, pena il rischio di soccombere. La prospettiva di contribuire in maniera decisiva alla stabilizzazione di un fronte aperto dai tempi della guerra fredda rappresenta poi per l’inquilino della Casa bianca un’occasione di grande rilievo per consolidare la sua immagine.

Dal punto di vista negoziale, gli Stati Uniti hanno assicurato che manterranno la barra dritta: a differenza di quanto accaduto in passato – e in particolare con le precedenti amministrazioni, secondo la narrativa di Trump – questa volta Washington non cederà alle mere dichiarazioni d’intenti di Pyŏngyang, ma si riterrà soddisfatta solo quando disporrà di prove certe della piena, totale e verificabile denuclearizzazione della penisola.

È qui però che entra in gioco la semantica, perché le parti hanno mostrato di avere un’idea diversa della denuclearizzazione: alla luce degli sforzi compiuti è infatti difficilmente ipotizzabile che Kim acconsentirebbe a rinunciare – sic et simpliciter e a scatola quasi chiusa – a quella che ritiene una vera e propria assicurazione sulla vita. Pyŏngyang ha sempre affermato con convinzione che la denuclearizzazione deve articolarsi per fasi progressive, e tale processo deve essere accompagnato da concessioni su più vasta scala, atte a garantire che il regime nordcoreano possa avere un presente e un futuro.

Da programma, Trump e Kim si sono prima incontrati per un faccia a faccia diretto, solo con gli interpreti presenti; poi sono stati raggiunti dalle rispettive delegazioni. Al termine del confronto, il presidente statunitense – che si era già detto sicuro che i colloqui sarebbero stati «un grande successo» – ha dichiarato di aver stretto un «legame molto speciale con Kim», sottolineando di aver visto in lui «un uomo di talento che ama molto il suo Paese». Anche il supremo leader – ricorrendo a toni meno enfatici – ha riconosciuto il valore storico del summit, evidenziando che il mondo vedrà ben presto i cambiamenti derivanti dalla decisione delle parti di «lasciare il passato alle spalle». Trump e Kim hanno inoltre siglato un documento in cui hanno definito l’obiettivo dello sviluppo di nuove relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord, l’interesse comune a una pace stabile e duratura nella penisola coreana e l’impegno di Pyŏngyang alla denuclearizzazione: punti abbastanza vaghi e generici, che hanno portato alcuni analisti a parlare di risultati modesti, ma da un primo incontro era difficile attendersi molto di più. 

«C’è eccitazione nell’aria!» aveva twittato al suo arrivo a Singapore il presidente statunitense, che già nella serata asiatica ripartirà alla volta degli USA. Perché gli sforzi diplomatici sortiscano effetti, è pero necessario che a questa prima, storica stretta di mano, ne seguano molte altre.  

 

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Il cruciale 2018 dell’America Latina

In che direzione va l’America Latina?

È la domanda che, in un articolo pubblicato sul New York Times lo scorso 5 dicembre, si poneva l’accademico ed ex ministro degli Esteri messicano Jorge Castañeda, a poco meno di due settimane dal secondo turno delle elezioni presidenziali cilene – poi vinte dal candidato di centrodestra Sebastián Piñera – e alla vigilia di un 2018 denso di importanti appuntamenti elettorali per il Subcontinente.

Rilevanti le questioni al centro del dibattito: da una parte – ricordava Castañeda – analisti e studiosi si interrogavano sulla resilienza delle istituzioni democratiche della regione in un anno elettoralmente cruciale; dall’altra emergeva l’interrogativo sulla possibile affermazione di leadership definite a vario titolo demagogiche, populiste quando non addirittura tendenti all’autoritarismo, in Paesi segnati da accentuate disuguaglianze e colpiti da una corruzione pervasiva. Ancora, si poneva il tema di un possibile ‘passaggio d’epoca’, con l’eclissarsi dell’onda rosa di sinistra che aveva attraversato il Subcontinente nel primo quindicennio del XXI secolo e un progressivo slittamento della regione verso formule politiche orientate a destra. Svolgendo la sua analisi, Castañeda evidenziava come, al netto di talune situazioni e ferma restando la possibilità di sorprese, non si stavano profilando all’orizzonte risultati particolarmente imprevedibili, e questo – in un generale quadro democratico – è da interpretarsi come un segnale comunque positivo.

Ora che il 2018 è in pieno corso e alcune consultazioni si sono già svolte, è possibile provare a formulare le prime, inevitabilmente parziali considerazioni. Tra febbraio e aprile si è votato in Costa Rica, dove il candidato del Partido Acción Ciudadana di centrosinistra Carlos Alvarado Quesada ha avuto la meglio sul conservatore Fabricio Alvarado Muñoz, mentre in Paraguay – sempre nel mese di aprile – è stato Mario Abdo Benítez ad aggiudicarsi la presidenza, confermando il predominio sulla scena politica del Paese del Partido Colorado, passato per la dittatura (1954-89) di Alfredo Stroessner e interrotto dal 1947 soltanto dalla parentesi della presidenza Lugo (2008-12). Quando si insedierà nel mese di agosto, il nuovo capo dello Stato sarà tuttavia chiamato a negoziare, non potendo fare affidamento sulla maggioranza assoluta in Senato.

È però in Venezuela e in Colombia che si sono tenuti gli appuntamenti elettorali più attesi della prima metà del 2018. Nel primo caso, nell’ambito di un voto che diversi Paesi avevano già dichiarato di non riconoscere e segnato dal boicottaggio della maggior parte delle forze di opposizione, ad aggiudicarsi una scontata vittoria è stato il presidente uscente Nicolás Maduro: il 20 maggio, secondo i risultati diffusi dal Consiglio elettorale nazionale, il delfino di Chávez si sarebbe aggiudicato il 67,8% delle preferenze, per un totale di 6.205.875 voti, seguito dal candidato della forza politica Avanzada Progresista Henri Falcón, fermo a 1.927.174 voti. L’affluenza alle urne si sarebbe attestata sul 46% degli aventi diritto, dato molto più basso rispetto alle precedenti tornate elettorali e peraltro probabilmente ritoccato al rialzo dal regime, mancando il controllo di osservatori indipendenti. Ai suoi sostenitori radunati davanti al palazzo presidenziale di Miraflores, Maduro ha detto che «sono la forza della storia convertita in vittoria popolare, in vittoria popolare permanente», ma al netto della retorica antimperialista con cui imputa le responsabilità della crisi ai nemici, interni e internazionali, della revolución, il rieletto capo dello Stato – protagonista di una stretta che ha di fatto azzerato qualsiasi contropotere – si troverà a guidare un Paese in ginocchio, che nel corso degli anni non ha mai sganciato il proprio sistema produttivo dalla dipendenza dal petrolio, in cui l’inflazione è proiettata – secondo le stime del Fondo monetario internazionale – al  13.865% e il 61,2% della popolazione è in condizioni di povertà estrema.

La crisi politica ed economica di Caracas non si limita però entro confini del Paese, ma produce effetti regionali più vasti, e tra le realtà più esposte agli spillover del caos venezuelano figura la Colombia. Secondo le statistiche, circa 1,5 milioni di cittadini del Venezuela avrebbero abbandonato il Paese dal 2014, trovando rifugio nel resto dell’America Latina: 600.000 si sarebbero fermati in Colombia, attraversando il confine che separa i due Stati. Sul punto però, non mancano pareri discordanti: non sono pochi infatti a essere convinti che i numeri vadano rivisti al rialzo, e che i venezuelani presenti in Colombia siano già 2 milioni. Nel frattempo, al fine di contenere i flussi, il governo di Bogotà ha stabilito che ogni cittadino venezuelano che intenda entrare nel Paese deve essere munito di passaporto; inoltre, dal mese di aprile, è stata avviata un’ampia operazione di identificazione e registrazione dei venezuelani presenti in Colombia, con l’assicurazione che le informazioni raccolte non saranno utilizzate a fini sanzionatori o per la deportazione.

Tale esodo, di non semplice gestione in condizioni di complessiva stabilità, si inserisce peraltro in una cornice di per sé già fragile come quella colombiana, con un Paese che sta con pazienza cercando di superare il cinquantennale conflitto con le FARC a cui ha posto fine l’accordo di pace del 2016. E proprio la Colombia, dopo le elezioni legislative dello scorso marzo, era attesa il 27 maggio dall’importante appuntamento del primo turno delle consultazioni presidenziali. Secondo le aspettative, ha concluso in testa questa prima fase il candidato del Centro Democrático Iván Duque, legato a doppio filo all’ancora popolare ex presidente Álvaro Uribe. In linea con le posizioni espresse dal suo mentore – tra le voci più critiche dell’accordo sottoscritto con le FARC – Duque ha assicurato che da presidente interverrà su alcuni dei nodi strutturali dell’intesa, ritenuta troppo indulgente verso i guerriglieri: questo perché – ha dichiarato in un’intervista all’Agence France-Presse – «i colombiani vogliono che chi ha commesso crimini contro l’umanità sia punito con sanzioni incompatibili con la rappresentanza politica, affinché non si configurino situazioni di impunità».

Nel secondo turno, Duque affronterà Gustavo Petro, un passato da guerrigliero dell’M-19 e già sindaco di Bogotà. Come ha osservato sul blog della London school of economics Tobias Franz, la proposta di Petro di aggredire gli interessi delle classi sociali egemoni e di stabilire un moderno modello di welfare state ha incontrato il consenso di diversi ambienti della società colombiana, superando persino la tradizionale diffidenza verso il ‘pericolo della sinistra’ ancora particolarmente radicato nel Paese. E su questa paura – collegata all’eredità della guerra – l’uribismo ha cercato di capitalizzare, ricordando come Petro sia stato un estimatore di Hugo Chávez e tracciando scenari di crisi ‘alla venezuelana’ in una Colombia che decidesse di affidare all’ex sindaco di Bogotà la presidenza. A decretare gli esiti – che dipenderanno anche da chi sarà in grado di intercettare il maggior numero di voti, Sergio Fajardo, giunto terzo con il 23,7% – sarà il ballottaggio del 17 giugno.

Intanto, si avvicinano gli altri due fondamentali appuntamenti elettorali che attendono l’America Latina nel 2018, quelli di Messico e Brasile. Le elezioni messicane del 1° luglio vedono al momento in vantaggio per la presidenza Andrés Manuel López Obrador, nazionalista di sinistra che – in controtendenza rispetto a un’America Latina che si sposta a destra – potrebbe qui beneficiare della crisi del neoliberalismo locale. A ottobre sarà invece la volta del Brasile travolto dagli scandali, segnato dalla destituzione di Dilma Rousseff e dalla condanna a 12 anni di reclusione dell’ancora popolare Lula: qui si sta consolidando il consenso del candidato alla presidenza Jair Bolsonaro, che si è lasciato andare a esternazioni sessiste e omofobe oltre ad aver espresso giudizi positivi sul periodo della dittatura militare.

Ed è in questo quadro che si inserisce la citata questione della resilienza delle istituzioni democratiche nei Paesi della regione, in un momento storico in cui la fiducia nella democrazia nel Subcontinente – secondo i dati dell’ultimo Latinobarómetro – è caduta al 53%, mentre il 25% degli intervistati si è detto indifferente al regime politico in vigore nel suo Paese. Secondo l’indagine del Latin America public opinion project poi, quasi il 38% della popolazione sarebbe persino favorevole a un golpe militare, se questo servisse a contrastare gli elevati tassi di criminalità e la dilagante corruzione.

 

Crediti immagine: da Latin America For Less. Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

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Curdi: una storia geopolitica

Intervista ad Erdelan Baran, presidente dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia e membro del Congresso Nazionale Curdo

 

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Un popolo senza Stato, che anzi appare culturalmente scollegato dall’idea occidentale di Stato. Oltre 30 milioni di individui concentrati in una delle regioni geopoliticamente più problematiche del globo, il Medio oriente, e alcuni altri milioni sparsi per il mondo a seguito di una poco nota diaspora. Sono i curdi, popolo che dalla firma del Trattato di Sèvres a conclusione della Prima guerra mondiale ha visto le sue rivendicazioni identitarie passare troppe volte inascoltate.
Alla trentennale rivalità armata con il governo centrale turco, il leader carismatico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (il PKK) Abdullah Ocalan ha annunciato di voler porre fino lo scorso 21 marzo, con uno storico cessate il fuoco e richiamando alla necessità di interrompere la spirale di violenza per una conquista democratica dei diritti.
La “questione curda” non è però confinata alla Turchia; essa spazia dalla penisola anatolica alla Siria oggi dilaniata dalla guerra civile, passa per l’Iraq e arriva fino a Teheran. Ne abbiamo parlato con Erdelan Baran, presidente dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia e membro del Congresso Nazionale Curdo.

 

La questione curda sta diventando più nota all’opinione pubblica, ma per lungo tempo è rimasta relegata a tema marginale in Occidente, oggetto di studio per appassionati ed esperti. Come si spiega la relativa ignoranza storica occidentale delle vicissitudini del suo popolo?

Come si sa dalla storia, i curdi erano riconosciuti come popolo dalla costituzione turca del 1921 e veniva loro accordato uno status di autonomia, solo che l’Occidente ci vedeva come un ostacolo al perseguimento delle sue ambizioni politiche ed economiche. Riconoscere una condizione di autonomia a una comunità di milioni di individui significava dover trattare con loro, dare loro una voce, e questo non corrispondeva agli interessi occidentali. Così, con il Trattato di Losanna del 1923, il Kurdistan fu spezzettato, la nostra storia è stata cancellata, e la nostra battaglia è rimasta inascoltata fino all’arrivo sulla scena politica del PKK.

 

La lotta armata con il governo di Ankara è durata quasi trent’anni, fra tentativi di pacificazione, annunci di cessate il fuoco e fallimenti nei negoziati. Poi, la recentissima riapertura delle trattative e lo storico annuncio di Ocalan di far tacere le armi il 21 marzo. Cosa ha determinato quest’ultima evoluzione?

Ci sono state nel tempo ben 8 chiamate al cessate il fuoco prima di questa, ma ogni volta che i curdi tendevano la mano la risposta di Ankara era un inasprimento delle violenze. Il governo centrale ha avuto spesso incontri con Ocalan dopo il suo arresto nel ’99, ma dietro l’annuncio della volontà di instaurare il dialogo c’era spesso una tattica per guadagnare tempo, una specie di guerra psicologica per convincere i curdi a desistere. Si faceva passare l’idea che si voleva risolvere la questione e invece nulla cambiava: la Turchia ha fatto 10.000 prigionieri politici, anche fra i non curdi che supportavano la causa curda, ma così il sostegno nei confronti del nostro popolo da parte dell’opinione pubblica, anche internazionale, è andato crescendo. Ankara ha capito che la sua strategia non poteva funzionare e adesso alcune delle proposte della roadmap elaborata da Ocalan nel 2009 per raggiungere la pace vengono comprese persino dalle autorità turche.

 

Dopo l’annuncio di Ocalan, la parola passa dunque alla Turchia. Erdogan ha parlato di “sviluppo positivi”, ma ha anche detto di attendere l’effettiva applicazione del cessate il fuoco. Alle buone premesse, seguiranno altrettanto promettenti evoluzioni?

È importante capire che la questione curda è diventata cruciale negli equilibri geopolitici medio orientali. Ocalan ha compiuto una vera rivoluzione della mentalità curda: il nostro popolo si è guardato alle specchio e ha preso coscienza di sé. Adesso dunque non si può più tornare indietro, i curdi stanno diventando sempre più uniti, i problemi vanno risolti. Anche se critici verso le decisioni finora prese da Ankara, siamo ottimisti per natura e pensiamo che una soluzione in senso democratico possa essere trovata. L’auspicio è che anche la nostra controparte abbia le medesime intenzioni. Abbiamo coesistito pacificamente per secoli, perché non possiamo farlo ora?

 

Una nutrita comunità curda è concentrata nel Nord-Est della Siria attraversata dalla guerra civile, e controlla alcuni centri di quest’area. Qual è la vostra posizione nel conflitto siriano?

Non parteggiamo né per Assad né per l’opposizione, perché hanno una visione sbagliata della Siria. I curdi non sono riconosciuti come popolo dalla Costituzione della Siria né tanto meno sono considerati cittadini alla stregua dei siriani arabi, anzi spesso venivano identificati come stranieri e troppi lo sono ancora. Ci sono 3 milioni di curdi in Siria, nella regione del Kurdistan occidentale, ma lì vivono persone appartenenti ad etnie diverse e che professano religioni diverse. I curdi vogliono proteggere tutte queste specificità, attraverso forme di autogoverno locale, ed è questa la ragione per cui un intervento esterno non è possibile. Per questo motivo si sono sviluppate forme di autodifesa, per ripararsi tanto da Assad quanto dai ribelli. Quindi sì, è vero che controlliamo alcuni territori in Siria, ma con l’obiettivo di proteggerli.

 

In Iraq si è consumata una delle grandi tragedie della storia curda, il genocidio ordinato da Saddam Hussein alla fine degli anni ’80. Il Kurdistan iracheno è cambiato molto negli ultimi anni, è oggi considerato una regione de facto indipendente ed è polo strategico per le sue risorse energetiche. Quali sono i rapporti fra curdi iracheni e il resto della resistenza curda?

Partiamo dalle risorse energetiche: è vero, il Kurdistan meridionale ne è ricchissimo, ma chi le sfrutta se non le compagnie straniere? Una società democratica deve fondarsi su una equa distribuzione delle risorse; sono passati 10 anni dall’inizio dell’occupazione e quante di queste ricchezze sono state impiegate per porre fine alle ingiustizie perpetrate in quella terra? Sosteniamo che ci sia bisogno di un maggiore coinvolgimento degli individui nei processi politici, ma per farlo serve un cambio di mentalità: per questo proponiamo un’idea diversa di Stato, un modello non più fondato sul nazionalismo, ma un “confederalismo” a cui aggiungiamo l’aggettivo “democratico” perché riteniamo che quello attuale, come nel caso dell’Ue, non lo sia a sufficienza. Dunque, compartecipazione ai processi decisionali, mentre nel Kurdistan meridionale il potere è fortemente centralizzato.

 

Poco si conosce invece della presenza curda in Iran. Qual è la vostra condizione sotto Khamenei e Ahmadinejad e come vi vedrebbe coinvolti la prospettiva di un conflitto fra Iran e Israele?

In Iran esiste una provincia chiamata “Kurdistan”, perché in teoria il sistema iraniano è organizzato su base federale. La lingua curda non è vietata in Iran come lo era in Turchia, ma la lotta è ugualmente proibita. In questi Paesi, sei curdo solo se aderisci alla definizione che ti impongono di “curdo”, ma se vuoi essere un curdo libero ti considerano pericoloso. Dietro la motivazione della blasfemia, molti attivisti sono stati giustiziati, e fra loro tantissimi erano donne e studenti. Parliamo dunque di un regime, nel quale i curdi non possono decidere il loro futuro. Per quanto riguarda le prospettive di cambiamenti geopolitici determinati da eventi conflittuali, i curdi certamente non resteranno a guardare e non aspetteranno che qualcuno dica loro cosa fare: essi proteggeranno ciò che hanno e ciò che sono.

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Cresce la minaccia della Corea del Nord

Un nuovo lancio, avvenuto all’alba nordcoreana del 29 novembre. A più di due mesi dall’ultimo test del 15 settembre, dopo un periodo di calma apparente che aveva portato gli analisti a sbilanciarsi su concrete possibilità di allentamento della tensione, Kim Jong-un alza dunque la posta in gioco, e lo fa con un test che porta Pyŏngyang a formulare un annuncio di grande valore simbolico per il regime: l’obiettivo di diventare una potenza nucleare è stato finalmente raggiunto. Con la consueta puntualità, la macchina propagandistica dello Stato a nord del 38° parallelo si è ovviamente messa in moto: a dare la lieta notizia alla popolazione, secondo una consolidata tradizione, è stata la nota anchorwoman Ri Chun-hee, volto storico dell’emittente KCTV con cui da qualche tempo anche l’Occidente ha familiarità. È dalla sua voce che, nella giornata di mercoledì, è arrivato infatti l’annuncio del lancio di un nuovo missile balistico intercontinentale, mentre le immagini mostravano i più recenti progressi della tecnologia missilistica nordcoreana e indugiavano sulla soddisfazione del supremo leader Kim Jong-un, immortalato prima al momento della firma dell’ordine di esecuzione dell’esperimento e poi esultante assieme ai suoi generali per la buona riuscita del test.

Secondo quanto riportato, il missile – denominato Hwasong-15 – avrebbe raggiunto la quota massima di 4500 km e percorso una distanza complessiva di 960 km in oltre 50 minuti, per concludere il suo viaggio nel Mar del Giappone all’interno della zona economica esclusiva nipponica. Il suo raggio d’azione sarebbe però ben più ampio del tragitto percorso, tanto da poter colpire – se opportunamente lanciato – qualsiasi obiettivo fino a 13.000 km: di qui, tutto il senso della minaccia di Pyŏngyang, perché di fatto il missile potrebbe raggiungere – e dunque minacciare – qualunque città degli Stati Uniti.

Anche in questo caso, come già accaduto in passato, non sono mancati i dubbi sui proclami del regime nordcoreano, in particolar modo dal punto di vista scientifico: le maggiori perplessità riguardano soprattutto la possibilità effettiva che il missile riesca a coprire una distanza così importante se equipaggiato con una testata nucleare, oltre che la sua capacità di resistere alle elevatissime temperature cui sarebbe sottoposto rientrando nell’atmosfera terrestre, senza riportare danni o comunque deviando rispetto alla traiettoria dell’obiettivo da centrare. I tecnici sono comunque concordi nel constatare che, sotto il profilo tecnologico, Pyŏngyang ha compiuto passi in avanti importanti in tempi relativamente brevi, tanto che è ipotizzabile che il regime sarà in grado di realizzare gli ultimi progressi necessari a garantire il trasporto di una testata su un vettore a lunga gittata entro il 2018.

Nonostante l’indiscutibile rilevanza di tali variabili, il quadro appare comunque delineato sotto il profilo geopolitico: l’escalation degli ultimi tempi lascia infatti intendere in maniera chiara quale peso Kim Jong-un attribuisca al completamento dei suoi programmi balistico e nucleare, ritenendo che dal loro successo dipenda la sopravvivenza stessa del regime. Durante l’ultimo biennio, le tensioni sono andate progressivamente crescendo: il 2016 si è infatti aperto con l’annuncio – avvenuto il 6 gennaio – di un test nucleare presso il sito di Punggye-ri, anche se la notizia dell’esplosione del primo ordigno all’idrogeno nordcoreano è stata accolta da subito con giustificato scetticismo dagli esperti e dalle autorità straniere. Ai lanci balistici dei mesi successivi ha fatto poi seguito una nuova detonazione nucleare il 9 settembre, ovviamente condannata dalle Nazioni Unite, dagli USA, dal Giappone e della Corea del Sud, con una presa di posizione anche della Cina.

Lontano da qualsiasi ipotesi di distensione, il 2017 è proseguito sulla stessa falsariga del 2016, con la Corea del Nord determinata nella prosecuzione del suo programma militare, gli Stati Uniti del nuovo presidente Trump a esibire – per lo meno retoricamente – un approccio muscolare mantenendo sul tavolo tutte le opzioni e il Consiglio di sicurezza ONU a inasprire le sanzioni nei confronti del regime di Pyŏngyang, senza però riuscire a sortire gli effetti sperati. Nel corso del 2016, la Corea del Nord ha lanciato complessivamente 24 missili; quest’anno invece – a partire dal mese di febbraio – i lanci sono stati 23 in 16 test, durante i quali i tecnici di Kim hanno potuto verificare i progressi compiuti a livello tecnologico. Senza dimenticare poi che il 2017 è stato l’anno della detonazione della bomba H nordcoreana (3 settembre).

I numeri dicono chiaramente che è stato il leader supremo Kim Jong-un a imprimere una brusca accelerazione ai programmi missilistico e nucleare della Corea del Nord: durante il suo regime – iniziato nel dicembre del 2011 – sono infatti stati effettuati 4 dei 6 test nucleari della storia del Paese, e i missili testati superano di gran lunga quelli lanciati dai predecessori Kim Il Sung e Kim Il Jong. Ampliando però l’orizzonte di analisi, è possibile rilevare come la Corea del Nord abbia iniziato ad articolare il suo percorso già dal 1976, quando avviò il suo sviluppo missilistico utilizzando gli Scub-B di fabbricazione sovietica provenienti dall’Egitto. Risale invece al 1993 il primo test positivo con un missile Rodong-1, effettuato peraltro in un momento in cui Pyŏngyang sembrava in procinto di uscire dal Trattato di non proliferazione nucleare, salvo poi ritornare sui suoi passi. Nell’ottobre del 1994, Stati Uniti e Corea del Nord raggiunsero un’intesa per il congelamento del programma nucleare di Pyŏngyang, in cambio Washington si impegnava ad assicurare al regime forniture annuali di carburante per consentirgli di avere elettricità fino alla costruzione di reattori nucleari ad acqua leggera, in sostituzione di quelli ad acqua pesante alimentati a grafite, ritenuti più pericolosi per i possibili sviluppi in campo militare. L’implementazione di quell’accordo procedette tuttavia a rilento e la Corea del Nord riattivò segretamente il suo programma in materia di armamenti, finché l’intesa non fu di fatto cassata e Pyŏngyang annunciò nel 2003 la sua uscita dal Trattato di non proliferazione nucleare.

Dunque, l’approccio ‘morbido’ adottato durante l’amministrazione Clinton non produsse il risultato voluto. Meglio non andò però alla successiva presidenza di George Bush jr., che nel 2002 inserì la Corea del Nord insieme a Iraq e Iran nell’asse del male. Al tavolo negoziale si tornò nell’agosto del 2003, in un formato a sei che – oltre a Pyŏngyang e Washington – comprendeva anche Mosca, Seul, Tokyo e Pechino. In alcuni frangenti delle trattative – proseguite negli anni successivi – non mancarono segnali incoraggianti, come quando nel 2005 il regime nordcoreano annunciò l’impegno ad abbandonare il suo programma nucleare e vincolarsi nuovamente al Trattato di non proliferazione; o ancora nel 2007, quando fu concordata la sospensione delle attività presso il sito nucleare di Yongbyon. Ancora una volta però, le prospettive di denuclearizzazione della penisola coreana furono deluse, e anzi Pyŏngyang nel 2006 effettuò lanci missilistici e il suo primo test nucleare, cui fecero seguito le sanzioni delle Nazioni Unite. Con l’obiettivo di rilanciare le trattative, l’amministrazione Bush rimosse la Corea del Nord dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo nell’ottobre del 2008, ma ancora una volta le speranze risultarono mal riposte e nel maggio del 2009 Pyŏngyang annunciò di aver effettuato il suo secondo test nucleare.

Nel frattempo, alla Casa bianca era arrivato Barack Obama, che avrebbe imperniato la sua azione di politica estera verso il regime nordcoreano sulla cosiddetta pazienza strategica: in sostanza, Washington attendeva che Pyŏngyang – messa alle strette da una situazione difficile soprattutto sotto il profilo economico e rischiando il collasso – si aprisse genuinamente al negoziato. Anche in questo caso però i risultati sono stati negativi, con la dinastia dei Kim che ha continuato a perseguire pervicacemente il suo programma di armamenti – incrementando anzi gli sforzi con l’inizio dell’era Kim Jong-un – e gli USA che non sono riusciti a raggiungere l’auspicato obiettivo di ‘forzare la mano’ a Pechino affinché richiamasse all’ordine il vicino alleato. Solo nel febbraio 2012 sembrarono intravvedersi tenui segnali di apertura, con la Corea del Nord che accettò di fermare il suo programma in cambio di aiuti alimentari statunitensi, ma le speranze sarebbero state presto disattese.

Il resto, tra lanci, annunci, proclami e sanzioni, è storia recente. Nel corso del suo primo anno alla Casa bianca, Trump ha annunciato un approccio diverso rispetto a quello obamiano, ma al di là di una retorica più accesa e infuocata, la strategia non sembra finora essere cambiata radicalmente. Dopo l’ultimo lancio del 29 novembre, Washington ha ribadito in sede di Consiglio di sicurezza ONU che con le sue azioni Pyŏngyang ha portato il mondo più vicino alla guerra, una guerra che gli Stati Uniti dichiarano di voler evitare ma dalla quale – ammoniscono – la Corea del Nord deve sapere che uscirebbe distrutta. Gli USA sono però d’altro canto consapevoli che un eventuale attacco preventivo provocherebbe una risposta del regime nordcoreano, con effetti potenzialmente devastanti e il rischio di generare un conflitto su scala regionale. Nel corso degli anni, la dinastia al potere a Pyŏngyang è andata avanti con il suo programma, senza che le sanzioni imposte a livello internazionale riuscissero a farla desistere dai suoi propositi. Per il futuro, nessuna opzione è esclusa, anche se l’annuncio di aver raggiunto la posizione di potenza nucleare potrebbe aprire qualche spiraglio: se il grande obiettivo della deterrenza è stato infatti conseguito, Pyŏngyang potrebbe essere disposta a trattare ed evitare ulteriori progressi in campo militare in cambio di concessioni.

La strada del negoziato continua a essere dura e piena di insidie, ma rimane l’unica percorribile per evitare degenerazioni potenzialmente distruttive.

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Dentro il puzzle libico

Intervista a Michela Mercuri

Un Paese strategicamente fondamentale, collocato nel cuore geografico del Maghreb/Mashreq e punto di raccordo lungo la direttrice geopolitica che dall’Europa passa per il Mediterraneo centrale e penetra nell’Africa del Sahara e del Sahel. Una realtà complessa, in cui le diversità erano state ricondotte a unità apparente da Muammar Gheddafi, che, anche grazie alla distribuzione delle rendite petrolifere, era riuscito a tenere sotto controllo per un quarantennio le spinte centrifughe. Quando però nel 2011 il regime è crollato, quell’unità apparente si è sgretolata, e oggi – a quasi sette anni dagli eventi che segnarono la fine del regime gheddafiano – la Libia pare degradata al rango di Stato fallito. Per provare a comprendere i fragili (dis-)equilibri che attraversano il Paese e capire in quale direzione va la Libia, abbiamo parlato con Michela Mercuri, docente presso la SIOI (Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale) e autrice del libro Incognita Libia: cronache di un Paese sospeso (ed. Franco Angeli, 2017).

 

A quasi sette anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia pare ancora lontana da concrete prospettive di stabilità. Può tracciarci un quadro del frastagliato panorama politico libico attuale?

Dal 2011, la Libia sta vivendo una crisi multiforme: politica, economica e di sicurezza.

Il contagio delle rivolte arabe ha distrutto l’edificio nazionale che Gheddafi – seppur col pugno di ferro – aveva cercato di costruire, e ha trasformato il Paese in un grande campo di battaglia, occupato da milizie tribali o jihadiste. L’intervento militare anglo-francese, con il sostegno degli Stati Uniti e quello riluttante dell’Italia, ha reso il Paese ancora più ingovernabile, e il caos interno ha agevolato le organizzazioni jihadiste e i gruppi criminali che lucrano sul traffico dei migranti diretti verso l’Italia. Gli ultimi anni hanno visto il revanscismo – o la nascita – di numerose organizzazioni estremiste, a partire da Ansar al-Sharia, i cui membri sono in parte confluiti nelle fila dello Stato islamico (IS) che, seppure defenestrato dalla sua capitale libica Sirte nel dicembre 2016, continua a essere presente in alcune zone del Paese.

A sud, nel Fezzan, oltre ai ‘residuati’ dell’IS, sembra essersi ben radicata la rete di al-Qaida nel Maghreb islamico (AQMI), rafforzata dall’arrivo, attraverso i porosi confini libici, di combattenti di ritorno da altri scenari del Nordafrica e del Medio Oriente. La spaccatura tra Tripoli – dove Fayez al-Sarraj non riesce a gestire le numerose milizie presenti nel territorio – e l’Est del Paese, controllato solo in parte dalle milizie dell’esercito nazionale libico di Khalifa Haftar, continua a mettere in crisi qualunque tentativo di stabilizzazione politica. Il generale, dopo un misterioso ricovero a Parigi, è rientrato in Libia, ma, a causa delle sue precarie condizioni di salute, da molti non è più considerato l’uomo forte della Cirenaica, bensì un leader sul viale del tramonto. Questo, se da un lato potrebbe ingenerare ulteriore caos a motivo delle possibili lotte interne per la sua ‘successione’, dall’altro potrebbe aprire a un nuovo dialogo tra le istanze dell’Est e dell’Ovest.

Sullo sfondo permane l’endemica crisi economica: il prodotto interno lordo, che nel 2010 era pari a circa 75 miliardi di dollari, oggi è più che dimezzato, in conseguenza del calo della produzione del greggio cui il PIL libico è legato quasi totalmente. È facilmente intuibile, dunque, il motivo per cui i traffici illeciti – di armi, di migranti, di merci di contrabbando e di tutto ciò che può fruttare qualche dinaro – siano divenuti il core business dell’economia locale.

In sintesi, la Libia oggi sembra virare sempre più verso un failed State. Un processo di stabilizzazione politica e di ripresa economica, supportato dalla comunità internazionale, sarebbe l’unica soluzione praticabile, ma al momento gli attori regionali e internazionali impegnati a vario titolo nel teatro libico paiono più propensi al perseguimento dell’interesse nazionale che alla ricerca di una soluzione comune.

 

Italia e Francia sono parse le realtà più interessate alle evoluzioni degli scenari in Libia. A cosa si ricollega il loro attivismo e quali strategie hanno seguito Roma e Parigi?

Le strategie sono diverse, ma finalizzate allo stesso obiettivo: la salvaguardia degli interessi nazionali, che evidentemente non convergono né sui temi economici, né sulla questione migratoria. Per comprenderlo basta osservare cosa è accaduto negli ultimi sette anni. L’intervento militare del 2011 è stato voluto dal governo francese dell’allora presidente Sarkozy per meri calcoli interni: necessità di allargare la fetta petrolifera d’Oltralpe e volontà di porre fine al Trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008 con cui il nostro Paese si era garantito la primacy su importanti rapporti commerciali. L’Italia ha deciso, suo malgrado, di prendere parte alle operazioni militari per tutelare interessi e investimenti importanti che nell’ultimo cinquantennio avevano reso il nostro governo l’interlocutore privilegiato di Tripoli. È evidente come entrambi i Paesi abbiano cercato di tutelare i propri interessi. Tuttavia, per l’Eliseo le cose non vanno come ‘da programma’ e la Francia si trova a fare i conti con uno Stato sempre più ingovernabile, in cui l’ENI resta l’unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas.

Le strategie di Italia a Francia sembrano convergere nel 2015 quando entrambe aderiscono al piano ONU per il Governo di accordo nazionale guidato da Sarraj. Tuttavia la comunità di intenti è solo apparente: se in sede ONU la Francia si era detta pronta a sostenere il neopremier, ha però continuato a supportare Haftar e i suoi sponsor regionali, utili per la vendita di armi e altri affari. L’Italia continua a sostenere Sarraj e a ‘lavorare’ con gli attori dell’Ovest, anche allacciando i rapporti con le varie milizie che controllano il territorio. Anche in questo caso è evidente il tentativo di salvaguardare gli interessi nazionali: dalle coste tripoline partono molti dei migranti che arrivano in Italia. Il terminal ENI di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti e sono italiane molte delle attività estrattive off-shore realizzate a largo delle coste tripoline. La partita, dunque, è ancora aperta e, al momento, al di là degli incontri formali e dei buoni propositi di facciata, non sembra esserci una convergenza tra Italia e Francia.

 

Nel dibattito politico italiano, di Libia si è spesso parlato per la questione migratoria. L’accordo stipulato con le autorità tripoline per il controllo delle migrazioni è stato oggetto di forti critiche; da più parti sono state inoltre denunciate le drammatiche condizioni dei migranti nei centri di detenzione. Protezione dei diritti umani e gestione ordinata dei flussi migratori sono obiettivi perseguibili insieme in Libia?

In un contesto come quello libico attuale sembrerebbe proprio di no. È difficile immaginare un’azione che possa tutelare i diritti umani e, al contempo, gestire i flussi migratori in un Paese senza un’autorità centrale e, per di più, in preda alle milizie. La politica messa in campo dall’Italia per il controllo dei flussi migratori è, in tal senso, emblematica. Se il piano consisteva nel depotenziare il ruolo delle ONG nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare appaltando il problema alla guardia costiera libica, con l’obiettivo di avere il minor numero possibile di migranti da condurre nei porti italiani, possiamo dire che, dati alla mano, l’operazione pare aver raggiunto l’obiettivo sperato: nei primi 4 mesi del 2018 è stato registrato un calo negli sbarchi del 70% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Ma se guardiamo oltre le cifre, le cose cambiano. Per la realizzazione di tale politica sono stati messi in campo soldi e aiuti per la guardia costiera, ma anche per alcune milizie precedentemente implicate nella tratta di migranti.

I rischi sono evidenti. In primo luogo, i gruppi armati – che cambiano casacca con estrema facilità – potrebbero rispettare gli accordi finché farà loro comodo, cioè fintanto che garantiranno un afflusso di denaro sufficiente a coprire i mancati introiti del traffico dei migranti. L’esperienza ci ha insegnato che dare soldi alla Libia significa spesso finire per pagare le armi di gruppi e milizie che poco hanno a cuore lo sviluppo del Paese. In secondo luogo, tale politica ha avuto come drammatico contraltare il ‘sequestro’ di migranti nei centri di detenzione libici. In questo momento ci sarebbero tra le 400.000 e le 700.000 persone intrappolate nei lager sparsi per il Paese. Nei 40 e più campi di detenzione ‘ufficiali’, secondo stime dell’UNHCR, sarebbero imprigionate circa 15.000 persone. Delle altre, invece, si sa poco o nulla. Tanto basta per spiegare come senza una stabilizzazione del quadro politico e una messa in sicurezza del territorio – che passa anche per il depotenziamento delle milizie e dei vari gruppi armati – nessuna politica di contenimento dei flussi potrà andare di pari passo con la tutela dei migranti.

 

Italia e Francia non sono gli unici Paesi interessati agli equilibri libici, e se gli USA paiono leggermente defilati, Russia, Turchia, Egitto e monarchie del Golfo cercano tutti di attuare le loro agende sulla Libia. Quanto questa situazione complica ulteriormente il quadro?

In Libia si sta giocando anche una guerra per procura tra attori regionali e internazionali che sostengono le varie fazioni locali. Questa è una delle principali cause della difficoltà di stabilizzare il Paese. Sarraj ha potuto fin qui contare sull’appoggio americano – per lo meno fino alla presidenza Obama – e italiano, nonché di alcuni attori regionali come Qatar e Turchia, mentre Haftar è forte del sostegno della Russia, della Francia e, a livello regionale, dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti. Ognuno persegue il proprio interesse.

La Russia, che non ha certo bisogno del gas e del petrolio della Libia, non disdegna di vendere know-how e tecnologie per i tanti impianti da saggiare nell’Est ricchissimo di petrolio. Inoltre, Haftar ha bisogno di armi per proseguire la sua guerra contro gli islamisti e Putin ha tutto l’interesse a fornirgliele. L’Egitto spalleggia il generale per tessere le proprie mire in Libia. È un segreto ormai svelato dalla storia la volontà del Cairo di allargare la propria influenza in Cirenaica, che al-Sisi considera una storica provincia egiziana alla stregua di re Faruq, che la reclamava già nel 1943. Inoltre l’Egitto condivide con la Libia un confine lungo quasi 1000 km: la sponda con Haftar per bloccare le possibili infiltrazioni jihadiste dall’Est libico è fondamentale per al-Sisi. Tra i supporter del ‘leader della Cirenaica’ vanno anche annoverati gli emiratini che hanno sovvenzionato e armato le milizie agli ordini del generale. Dall’altra parte la Turchia, pur avendo abbandonato la grand strategy post-primavere arabe di porsi come modello dei Paesi orfani dei vecchi regimi, si è schierata apertamente con la Fratellanza musulmana tripolina, riaprendo la porta alle aspirazioni di influenza attraverso una scelta di campo ideologica centrata sul sostegno agli islamisti.

 

Il 2018 dovrebbe essere un anno decisivo nella transizione libica, con l’elezione del nuovo Parlamento e del nuovo presidente. Dal punto di vista politico-istituzionale, ritiene maturi i tempi per un appuntamento elettorale? E quali potrebbero essere gli esiti del voto?

Quando l’inviato dell’ONU per la Libia, Ghassan Salamé, ha parlato di elezioni entro la fine dell’anno, la Libia ha vissuto una recrudescenza di violenze che non si vedeva da tempo. Prima il brutale assassinio del sindaco di Misurata, poi scontri nei pressi dell’aeroporto di Tripoli tra le forze di deterrenza Rada – vicine a Sarraj – e gruppi fedeli all’ex premier del Governo di salvezza nazionale Khalifa Ghwell e quindi lo scoppio di due autobombe a Bengasi che ha causato la morte di più di 30 persone. È plausibile ipotizzare che questo ‘fermento’ sia da addebitare proprio alle possibili elezioni, in vista delle quali ogni gruppo cerca di rivendicare il proprio potere o di indebolire gli avversari, per dimostrare di essere un attore indispensabile e assicurarsi dunque un posto al sole nei futuri equilibri politici del Paese. A sostegno di tale tesi paiono deporre da ultimo gli attentati suicidi del 2 maggio presso gli uffici della commissione elettorale a Tripoli, che hanno causato alcune vittime. Viste da questa prospettiva, allora, le nuove elezioni politiche in Libia potrebbero essere considerate una delle cause del deterioramento della situazione interna e non una possibile soluzione per il consolidamento di un nuovo status quo. Ciononostante, durante il vertice dello scorso 30 aprile al Cairo, il Quartetto per la Libia ha espresso il suo sostegno all’organizzazione del voto entro la fine dell’anno. Sarebbe invece necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. È evidente infatti che in un contesto così frammentato e instabile, chiunque sarà il leader vincitore dalla tornata elettorale — il generale Haftar, o Saif al-Islam Gheddafi come da molti ipotizzato, o una qualche coalizione di milizie e attori diversi — non sarà in grado di governare il Paese ma, anzi, potrebbe essere defenestrato, magari in maniera violenta, in poco tempo.

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Se Kim rinuncia ai test

Un annuncio di grande rilevanza, a pochi giorni dal vertice che dovrebbe sancire il riavvicinamento tra le due Coree e in vista di un altro summit mediaticamente e geopoliticamente attesissimo, quello con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

La novità è arrivata il 20 aprile direttamente dalla voce del supremo leader Kim Jong-un, durante la terza sessione plenaria del settimo Comitato centrale del Partito del lavoro di Corea: Pyŏngyang si è detta pronta a interrompere i suoi test nucleari e missilistici, procedendo inoltre – al fine di assicurare piena trasparenza circa le sue decisioni – allo smantellamento del sito di Punggye-ri presso il quale i test venivano effettuati.

La notizia ha immediatamente fatto il giro del mondo, alimentando il già crescente ottimismo sul raffreddamento dell’incandescente fronte geopolitico coreano. Particolarmente soddisfatto si è mostrato Donald Trump, che in questi giorni – nel suo buen retiro di Mar-a-Lago in Florida – ha discusso di Corea del Nord con uno degli attori geopolitici più interessati alle evoluzioni sul campo, il primo ministro giapponese Shinzo Abe.

Sul suo profilo Twitter, l’inquilino della Casa bianca ha voluto rimarcare come l’annuncio di Pyŏngyang rappresenti un importante passo in avanti per tutti, ribadendo di essere pronto al summit con Kim. Anche la Cina ha accolto positivamente il messaggio formulato dal suo spesso indisciplinato alleato: in una nota, il ministero degli Esteri ha infatti sottolineato che l’interruzione dei test aiuterà a ridurre ulteriormente le tensioni nella penisola coreana, contribuendo alla sua denuclearizzazione e al rafforzamento del percorso di soluzione politica della crisi. Dalle autorità di Pechino arriva però anche un monito: è ora indispensabile che tutte le parti coinvolte nel negoziato compiano azioni concrete per garantire una pace duratura e la stabilità geopolitica della regione.

Dal punto di vista politico, è indiscutibile che l’apertura del supremo leader nordcoreano testimoni un clima profondamente diverso da quello che si respirava soltanto pochi mesi fa, quando il regime non lesinava alcuno sforzo per raggiungere lo status di potenza nucleare e una pesante cappa di instabilità aleggiava sulla penisola. Sembrano lontani i giorni in cui Trump prometteva ‘fuoco e furia’ contro Pyŏngyang e Kim minacciava di colpire ‘il cuore dell’America’ se Washington avesse provato ad attaccare il regime.

Alla distensione ha sicuramente contribuito il radicale cambiamento del quadro politico sudcoreano, con la destituzione della presidente Park Geun-hye, le successive elezioni presidenziali di maggio 2017 e la netta affermazione di Moon Jae-in, decisamente più orientato a tessere la tela del dialogo nello spirito della cosiddetta sunshine policy che ad un improduttivo muro contro muro con il vicino nordcoreano. E se da una parte il discorso di inizio anno di Kim Jong-un è stato al centro delle cronache politiche internazionali per la nota diatriba con Donald Trump su chi avesse il ‘pulsante nucleare’ più grande, dall’altra non è sfuggito agli analisti come nello stesso discorso Kim esprimesse l’auspicio di una ricomposizione pacifica delle tensioni lungo il 38° parallelo.

In un suo commento pubblicato su Foreign affairs, il professor John Delury della Yonsei University ha osservato come i critici ritenessero poco credibile l’apertura di Kim, sottolineando come il dittatore nordcoreano non fosse nuovo in discorsi analoghi all’utilizzo di toni concilianti verso Seul. In quell’occasione però – ha evidenziato sempre Delury – il supremo leader non si limitò a tendere un tanto ipotetico quanto impalpabile ramoscello d’ulivo alla controparte, ma fece riferimento a un evento internazionale oramai alle porte come palcoscenico della distensione: le Olimpiadi invernali in programma nella città sudcoreana di Pyeongchang nel mese di febbraio. Così, non soltanto una delegazione di 22 atleti nordcoreani ha preso parte ai Giochi, ma ha sfilato accanto a quella della Corea del Sud durante la cerimonia di apertura dell’evento. Il tutto, sotto gli occhi degli alti ufficiali di Pyŏngyang e di Kim Yo Jong – sorella di Kim Jong-un –, immortalata dai fotografi durante una storica stretta di mano con il presidente Moon. In quell’occasione – hanno rilevato Victor Cha e Katrin Fraser Katz sempre per Foreign affairs – Kim Yo Jong consegnò anche una lettera al capo dello Stato sudcoreano: il supremo leader era disponibile a un allentamento delle tensioni con gli Stati Uniti. Il paziente lavoro della diplomazia è così proseguito sia sul fronte intercoreano, con la scelta del 27 aprile come data dell’incontro tra il Moon Jae-in e Kim Jong-un alla Casa della pace nel villaggio di confine di Panmunjom e l’attivazione di una linea di contatto diretta fra i due leader; sia sul fronte coreano-americano, con la definizione delle prospettive di un incontro fra Trump e Kim.

Tutti questi elementi, uniti all’annuncio dell’interruzione dei test missilistici e nucleari e alla visita in Corea del Nord del segretario di Stato in pectore Mike Pompeo nelle scorse settimane, testimoniano che qualcosa si sta muovendo lungo il 38° parallelo e che la diplomazia sta lavorando senza sosta per giungere a una soluzione della crisi.  

Come hanno osservato sempre Cha e Fraser Katz, l’amministrazione Trump non manca di rimarcare come l’apertura di Pyŏngyang sia anche da ricondursi al pugno di ferro voluto da Washington sul fronte delle sanzioni, che hanno messo in grande difficoltà il regime. Se però da una parte tale aspetto non va certamente sottovalutato, dall’altra è anche utile soffermarsi con maggiore attenzione su quanto dichiarato da Kim Jong-un in occasione della riunione del Comitato centrale, per approfondire – al netto della consolidata retorica di regime – la prospettiva nordcoreana. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa ufficiale KCNA, il supremo leader ha disposto l’interruzione dei test semplicemente perché non ci sarebbe bisogno di effettuarne altri.

Inquadrando la questione in tale prospettiva, assumerebbe dunque consistenza lo scenario tracciato da diversi analisti all’indomani del lancio del missile Hwasong-15 lo scorso 28 novembre e dell’annuncio nordcoreano di poter colpire gli Stati Uniti: una volta raggiunti i suoi obiettivi di deterrenza – necessari alla messa in sicurezza del regime – Pyŏngyang avrebbe aperto la porta al negoziato, sulla base di reciproche concessioni. In fondo, la prospettiva oramai estremamente concreta di un incontro con Donald Trump rappresenta dal punto di vista di Kim un riconoscimento di fatto del suo ruolo e del suo status geopolitico, tanto da spingersi ad affermare che la Corea del Nord – con il suo ultimo annuncio – dimostra il suo interesse a partecipare agli sforzi internazionali per l’interruzione di tutti i test nucleari, oltre a non essere in alcun modo intenzionata ad utilizzare la propria tecnologia nucleare o a trasferire ad altri i suoi armamenti nucleari se non concretamente minacciata.

A ulteriore riprova della capacità di Kim di pensare strategicamente c’è poi il viaggio segreto compiuto alla fine di marzo dal supremo leader in Cina, per incontrare Xi Jinping: così facendo, dopo che l’asse delle trattative si era spostato lungo la direttrice Pyŏngyang-Seul-Washington, Kim ha riportato Pechino al centro del discorso geopolitico sulla pacificazione della penisola coreana, ripristinando gli equilibri e riallacciando i rapporti con il suo solido alleato dopo mesi di tensioni.

Ora dunque non resta che attendere. Alcune prime indicazioni potrebbero già arrivare dall’incontro fra Kim e Moon del 27 aprile, con la prospettiva che si giunga tra le altre cose alla concreta definizione dei passaggi per porre ufficialmente fine alla guerra di Corea del 1950-53, interrotta da un armistizio ma mai conclusa con un trattato di pace.

Poi, sarà la volta del summit tra Kim e Trump. Washington è chiamata a muoversi con eccezionale cautela e attenzione, sia per la complessità del quadro regionale che per l’imprevedibilità dell’interlocutore. Il presidente dovrà dunque mostrare le abilità di negoziatore che ha sempre dichiarato di possedere da consumato uomo d’affari, conciliando un atteggiamento di apertura con la necessaria fermezza. A chi già lo accusa di aver concesso troppo a Pyŏngyang, Trump ha risposto tramite Twitter che finora l’America non ha ceduto su nulla, mentre la Corea del Nord avrebbe già accettato di avviare la denuclearizzazione, circostanza peraltro non corrispondente al vero e da non confondere con lo stop ai test. Il presidente si è detto consapevole del fatto che le trattative – come del resto già accaduto in passato – potrebbero fallire, e secondo quanto riportato dalla stampa, la Casa bianca non sarebbe intenzionata a garantire un alleggerimento delle sanzioni se prima il regime non avrà smantellato il suo arsenale nucleare.

I’ll fix the mess, ossia «Aggiusterò questo disastro: furono le dure parole di critica pronunciate da Trump lo scorso settembre contro le precedenti amministrazioni, incapaci di trovare una soluzione al caos geopolitico della penisola coreana. Nei prossimi mesi, il tycoon prestato alla politica dovrà dimostrare di essere in grado di ‘aggiustare’ quel disastro.

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Ancora Putin

Negli ultimi tempi, in prossimità di importanti appuntamenti elettorali nelle democrazie occidentali e subito dopo la chiusura delle urne, la Russia è comparsa prepotentemente nel dibattito politico, chiamata in causa per presunte ingerenze nelle dinamiche del voto. Sulle asserite interferenze nelle elezioni presidenziali statunitensi di novembre 2016, nonché sui contatti tra l’entourage dell’allora candidato Donald Trump e figure più o meno collegate all’establishment politico russo, continua ad indagare negli Stati Uniti il procuratore speciale Robert Mueller; in Europa invece, Mosca è stata chiamata in causa per possibili influenze nel voto sulla Brexit – che Facebook e YouTube non sembrano però confermare attraverso l’analisi dei loro dati –; negli appuntamenti elettorali francesi dello scorso anno e nelle consultazioni italiane del 4 marzo.

Tra pochi giorni però – domenica prossima 18 marzo – saranno gli elettori russi ad essere chiamati alle urne, per un appuntamento elettorale parzialmente oscurato nelle cronache europee dall’ulteriore acuirsi delle tensioni tra Occidente e Cremlino, a seguito dell’avvelenamento in territorio britannico dell’ex spia russa Sergei Skripal. Londra – supportata da Francia, Germania e Stati Uniti – punta il dito contro Mosca, ritenendo evidente il coinvolgimento delle autorità russe nell’aggressione a Skripal; la Russia dal canto suo nega qualsiasi responsabilità e ha già annunciato di voler rispondere all’espulsione di 23 suoi diplomatici dal Regno Unito con una analoga misura, in una tipica azione di tit-for-tat.

Che alle presidenziali russe sia stato riservato meno spazio di approfondimento rispetto ad altri appuntamenti elettorali si deve probabilmente anche agli esiti scontati delle consultazioni: nessuno  infatti mette in discussione che la posizione di Putin alla guida del Paese sia solidissima, e pare persino superfluo – perché si tratta di mera ipotesi di scuola – specificare che un eventuale secondo turno dovrebbe svolgersi l’8 aprile nel caso in cui nessun candidato riuscisse a conquistare la maggioranza assoluta dei voti.

Degli avversari che contenderanno al presidente uscente – e certamente rientrante – l’incarico di capo dello Stato, nessuno risulta infatti accreditato di percentuali particolarmente significative, e l’obiettivo del 10% dei consensi rimane per ciascuno di loro estremamente difficile da raggiungere. Del resto, al Cremlino la principale preoccupazione sembra riguardare non tanto i risultati, quanto piuttosto le ‘dimensioni’ della vittoria di Putin, da accompagnare possibilmente con una buona partecipazione al voto: il target – secondo quanto sostengono i bene informati – sarebbe il cosiddetto 70-70, ossia il 70% dei consensi al presidente uscente con un’affluenza alle urne del 70%. Per i prossimi 6 anni dunque, il mondo dovrà ancora confrontarsi – e non di rado forse scontrarsi – con il dominus assoluto della politica russa dell’ultimo ventennio, il cui record di longevità al potere – da presidente o primo ministro – ha superato nel corso del 2017 quello di Leonid Brežnev. Ormai, tra i leader russo-sovietici dell’ultimo secolo, c’è solo Stalin davanti a lui.

Appare indubbio che questa longevità sia stata costruita nel corso degli anni puntellando un regime di fatto autocratico, sostanzialmente allergico al dissenso e in cui tutte le leve del potere rimanevano saldamente nelle mani di una sola persona. Limitare tuttavia l’analisi a tale prospettiva rischia di restituire un quadro monodimensionale di una storia politica assai più articolata e complessa, in cui peraltro la legittimazione popolare gioca un ruolo non secondario.

Un istituto indipendente come il Levada Center – che nel 2016 è stato designato come ‘agente straniero’ e a gennaio ha annunciato la sospensione delle rilevazioni sulle presidenziali temendo possibili accuse di ingerenza – ha certificato come nello scorso mese di novembre il gradimento verso Putin si attestasse sull’81%, a testimonianza di una popolarità estremamente solida. Seguendo peraltro l’andamento storico dei sondaggi, è possibile osservare come l’approvazione nei confronti dell’uomo forte della politica russa non sia mai scesa sotto il 60% dal 2000 ad oggi, tornando – dopo un periodo di crisi – stabilmente sopra l’80% dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel marzo del 2014.

Succeduto al dimissionario Boris El´cin il 31 dicembre del 1999 ed eletto alla presidenza nel marzo del 2000, Putin ereditava un Paese in grande difficoltà, in cui gli oligarchi si arricchivano e la popolazione faticava ad avvertire i benefici della transizione politica ed economica dall’URSS. Salito al potere, il presidente ha così puntato alla stabilizzazione dell’economia, traendo anche beneficio dal positivo andamento dei prezzi del petrolio.

Negli ultimi anni non sono mancati i segnali di crisi – sia a causa delle sanzioni imposte dall’Occidente per il coinvolgimento russo nel conflitto ucraino che per il ridimensionamento dei prezzi delle risorse energetiche – ma come ha osservato Chris Miller in un articolo per Foreign affairs la ‘Putinomics’ è riuscita a ripartire, fondandosi su principali direttrici: in primis la stabilità macroeconomica, mantenendo costanti i livelli del debito e l’inflazione su percentuali gestibili; in secondo luogo puntando su bassa disoccupazione e pensioni stabili così da prevenire il malcontento, e infine cercando di incrementare l’efficienza del settore privato, nella misura in cui i suoi obiettivi economici non entravano in conflitto con la strategia politica del Cremlino.

C’è poi un ulteriore, decisivo elemento che ha rafforzato il consenso di Putin: la rinnovata assertività della politica estera russa, in forza della quale Mosca è oggi percepita come un attore con cui le potenze regionali e globali sono tenute a confrontarsi. Nel cosiddetto ‘estero vicino’, ossia quello spazio geopolitico ex sovietico che la Russia percepisce come sua naturale sfera d’influenza, il Cremlino non ammette interferenze; nei rapporti con l’Europa, la leva delle forniture energetiche rappresenta uno strumento particolarmente importante per far valere le posizioni di Mosca; in Medio Oriente poi – complice il ridimensionamento del ruolo americano nella regione – la Russia è riuscita a radicare la sua presenza e a tutelare i suoi interessi geopolitici. Mosca ha poi dimostrato di saper sfruttare con straordinaria abilità le difficoltà degli altri regimi politici, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione per massimizzare il proprio profitto geopolitico: in tal senso, esemplificativa è la capacità di utilizzo dei canali d’informazione affiliati al Cremlino o la presenza pervasiva sui social media per accentuare ulteriormente le fratture che animano alcune democrazie dell’Occidente, a tutto vantaggio della Russia

È dunque in questa assertività che è venuta a sostanziarsi quella che Jay Ogilvy – in un suo commento pubblicato su Stratfor – ha definito la transizione putiniana da una logica economica a una logica eminentemente geopolitica, che ha proiettato nuovamente Mosca sulla scena internazionale e risvegliato quell’orgoglio in parte ancora ferito per la perdita dello status di superpotenza di cui godeva l’Unione Sovietica.

In quest’ottica, non sorprende dunque che Putin si appresti a conquistare facilmente per la quarta volta l’incarico presidenziale, che gli consentirà di restare al potere per altri 6 anni. A ben guardare però, queste elezioni aprono da subito nuovi, interessanti scenari, da cui dipenderà gran parte del futuro della Russia. Nel 2024 – quando terminerà il mandato – Putin non potrà infatti ricandidarsi per via del limite di due mandati consecutivi, limite già rispettato peraltro quando nel 2008 assunse l’incarico di primo ministro e Medvedev fu eletto presidente della Repubblica. Allora, Putin avrà 72 anni, ed è dunque probabile che la sua parabola volgerà al termine: in questi 6 anni, se il presidente vorrà conservare intatta la sua eredità politica, sarà dunque indispensabile preparare la transizione. Per questo – come hanno giustamente sottolineato per l’European council on foreign relations Ivan Krastev e Gleb Pavlovsky – dopo il voto di domenica che lo confermerà presidente, Putin sarà anche impegnato a plasmare la Russia che verrà dopo di lui.

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Caos bulgaro. Dilemmi europei?

“Abbiamo dignità ed onore. È il popolo che ci ha dato il potere ed è al popolo che lo restituiamo oggi.”
Con queste parole, il primo ministro bulgaro Boyko Borisov ha annunciato le dimissioni del suo governo mercoledì 20 febbraio, prendendo atto del malcontento montante fra la popolazione scesa in piazza per manifestare contro l’aumento delle tariffe dell’elettricità.
Fa freddo d’inverno in Bulgaria, ma nel paese con il Pil pro capite più basso dell’Ue (oltre il 50% in meno del valore medio dell’Unione) sono in tanti a non potersi permettere un uso eccessivo del riscaldamento. Se poi il prezzo dell’energia cresce e le bollette diventano insostenibili, la rabbia si fa strada e si trasforma in tumultuosa protesta.
A dispetto del rigido clima invernale bulgaro, febbraio è stato un mese politicamente molto caldo a Sofia e Borisov, da leader in grado come pochi di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda della gente, ha compreso che ogni giorno in più trascorso nei palazzi del potere si sarebbe tradotto in un ulteriore calo di consensi per la sua forza politica “Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria”, già in piena emorragia di voti secondo i sondaggi.
Vincitore indiscusso delle elezioni del 2009 con quasi il 40% delle preferenze e 117 dei 240 seggi dell’Assemblea Nazionale, il primo ministro ha inizialmente cercato soluzioni d’effetto per placare un popolo bulgaro insolitamente determinato nella sua protesta, annunciando l’intenzione di revocare la licenza al più importante distributore di energia elettrica nel paese – la ceca Čez – e il “licenziamento” dell’impopolare ministro delle finanze Djankov.
La tanto auspicata stabilizzazione non è però arrivata e le piazze hanno continuato a riempirsi, fino a diventare teatro di scontri fra i manifestanti e la polizia. È qui che Borisov ha deciso di dire basta, evidenziando la sua incompatibilità con un governo “sotto il quale la polizia picchia la gente” ed aggiungendo che “ogni goccia di sangue è per noi una vergogna”.
Il 28 febbraio, il Presidente della Repubblica Rosen Plevneliev ha annunciato che le elezioni si terranno il prossimo 12 maggio, due mesi prima della naturale scadenza della legislatura, e per il periodo che separa il paese dalle consultazioni elettorali ci sarà un governo ad interim.
Una delle chiavi di lettura fornite dalla stampa e dagli analisti per spiegare la crisi bulgara è di matrice prettamente economica: le politiche di austerità adottate da Sofia, unite a standard di vita molto bassi per uno Stato membro dell’Unione europea, ad un tasso di disoccupazione che ha superato il 12% e a salari e pensioni il cui valore medio si attesterebbe rispettivamente sui 400 € e 135 €, sarebbero la benzina di una protesta che covava già da tempo e che il “fiammifero” dell’aumento dei prezzi dell’energia ha poi acceso.
C’è però un’altra ipotesi interpretativa da affiancare a quella economica, che riguarda la dimensione specificamente politica della crisi. Come ha osservato Stefan Ralchev - ricercatore presso il Centro per gli studi regionali ed internazionali di Sofia - la Bulgaria è abituata da tempo ai sacrifici, che hanno consentito di avviare un processo di ristrutturazione economica e di mantenere indicatori macroeconomici stabili (su tutti, un rapporto debito/Pil inferiore al 19%); pertanto una protesta che si esaurisca nella contestazione delle misure di austerity non pare fornire una spiegazione esaustiva degli eventi.
Allargando tuttavia il campo d’indagine, si può osservare come in Bulgaria imperversi la sfiducia verso una classe politica che si è dimostrata finora incapace di affrontare i problemi del paese e poco interessata ad intaccare strutture di monopolio economico in settori come quello dell’energia o dei media, dove si annidano importanti rendite di posizione. In tale contesto, la protesta assume consistenza e mostra i contorni della contestazione antisistemica, in cui la popolazione esterna la sua rabbia verso una politica inefficiente e una corruzione pervasiva e dilagante, individuando un bersaglio verso il quale indirizzare una frustrazione che il momento economico non certo felice ha contribuito ad alimentare.
Alcune rilevazioni riportate dal Wall Street Journal sembrano corroborare tale tesi: il partito “Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria” del premier uscente Borisov fa registrare una popolarità pari solo al 19,3%, mentre il Partito socialista bulgaro, pure in crescita rispetto al passato, si attesta comunque su un magro 22,5%. In un contesto così fluido ed incerto, ci sarebbe spazio per l’ascesa di movimenti populisti che si propongano come radicale alternativa al sistema precostituito, ma Ralchev invita alla prudenza: se una forza politica dovesse nascere dalla protesta, potrebbe riuscire a catturare il consenso degli insoddisfatti, ma il fronte appare troppo poco coeso per poter plasmare in così breve tempo un nuovo soggetto politico, peraltro senza una leadership al momento ben riconoscibile.
Il futuro della Bulgaria appare imprevedibile, e alle comprensibili istanze della piazza che chiede un miglioramento delle condizioni di vita, più trasparenza e maggiore partecipazione ai processi politici, si aggiungono spesso voci che propongono piste difficilmente praticabili, come quella della nazionalizzazione della distribuzione dell’energia che comporterebbe costi insostenibili. Per il momento, l’unica cosa certa è che un nuovo fronte d’instabilità politica – oltre a quello italiano dove l’incertezza sul governo è evidente - si è aperto nell’Unione europea, peraltro in un paese in cui l’Ue continua a godere di notevole credito.
Per gran parte delle popolazione bulgara, i corrotti sono a Sofia e la buona politica si trova a Bruxelles. La speranza è che proprio da Bruxelles arrivino segnali incoraggianti, per la Bulgaria e per il futuro di tutta l’Unione.

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Erdoğan in Vaticano

Una visita importante, a quasi cinquantanove anni dall’ultimo viaggio di un capo di Stato turco in Vaticano. Allora – era il giugno del 1959 – il presidente Celâl Bayar fu ricevuto da papa Giovanni XXIII, profondo conoscitore della Turchia per esservi stato delegato apostolico per circa un decennio: di lì a poco, nel 1960, la Santa Sede e lo Stato anatolico avrebbero stabilito relazioni diplomatiche ufficiali. Questa volta – con la città di Roma blindata, un importante dispiegamento di forze di sicurezza e la protesta soprattutto della comunità curda pronta a farsi sentire – a confrontarsi sono stati Recep Tayyip Erdoğan e papa Francesco: sul tavolo, un’agenda densa di temi assai sensibili per entrambe le parti.

Alla vigilia della sua partenza per l’Italia, il presidente turco non aveva mancato di sottolineare davanti alla stampa nazionale l’importanza del viaggio, come «significativa opportunità per attirare l’attenzione sui comuni valori umani e per trasmettere messaggi di pace e amicizia». Che ci fosse però anche una chiara dimensione geopolitica, appariva subito evidente dalla enunciazione dei temi che sarebbero stati oggetto di discussione durante l’udienza in Vaticano, dalla lotta contro il terrorismo all’accoglienza dei rifugiati, dall’instabilità sul fronte siro-iracheno fino alla questione israelo-palestinese. Centrale nei colloqui, il problematico nodo dello status di Gerusalemme, tornato di estrema attualità dopo l’annuncio formulato a dicembre da Donald Trump sul riconoscimento statunitense della città come capitale di Israele: una presa di posizione – quella del presidente americano – netta e controversa, che ha portato gran parte della comunità internazionale a esprimere le sue perplessità e papa Francesco a evidenziare la ‘speciale vocazione alla pace’ di un centro sacro per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, ragion per cui risultava indispensabile la tutela dello status quo.

All’indomani dell’annuncio dell’inquilino della Casa bianca, il presidente turco e il pontefice avevano già avuto modo di discutere telefonicamente della delicata questione e allora Erdoğan – oltre a rimarcare l’esigenza di giungere rapidamente alla costituzione di uno Stato palestinese indipendente e libero entro i confini del 1967 – espresse al papa il proprio personale apprezzamento per le sue parole su Gerusalemme/el-Quds. Rimanendo poi nel solco di quel filone geopolitico che la vede impegnata in prima linea oramai da alcuni anni nella difesa della causa palestinese, la Turchia ha ulteriormente consolidato tali suoi orientamenti dopo la presa di posizione di Trump, facendo anche leva sull’esercizio della presidenza di turno dell’Organizzazione della cooperazione islamica (OIC). È stato infatti Erdoğan a chiedere la convocazione di un summit straordinario dell’OIC a Istanbul per discutere della contestata decisione statunitense, non esitando a definire Israele uno Stato ‘occupante e terrorista’ e annunciando l’intenzione di aprire un’ambasciata turca a Gerusalemme Est, riconosciuta durante il vertice come capitale dello Stato palestinese. E proprio al ruolo turco di guida pro tempore dell’OIC, Erdoğan ha fatto riferimento sempre davanti alla stampa nazionale prima di partire per Roma, rimarcando come tale funzione collochi momentaneamente Ankara alla testa di un’organizzazione fortemente rappresentativa del mondo islamico, con papa Francesco – dall’altra parte – a rappresentare il mondo cattolico. Dunque, nella prospettiva del capo dello Stato turco, l’incontro con il pontefice era da inquadrarsi anche sotto questa particolare luce, soprattutto per il tema dello status di Gerusalemme/el-Quds.

L’udienza di Erdoğan è durata oltre cinquanta minuti, più di quanto – hanno osservato gli esperti – non accada tradizionalmente in occasione di colloqui analoghi. Tra le varie questioni affrontate dagli interlocutori, anche le relazioni bilaterali tra la Turchia e il Vaticano e le condizioni della comunità cattolica nello Stato anatolico; in merito alla situazione in Medio Oriente e in particolare a Gerusalemme, è stata poi evidenziata – si legge nella nota diffusa dalla sala stampa della Santa Sede – «la necessità di promuovere la pace e la stabilità nella regione attraverso il dialogo e il negoziato, nel rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale». Dunque, diventa d’obbligo l’astensione da iniziative unilaterali che rischiano di rendere ancora più precari i già fragili equilibri dell’area.

C’è però un ulteriore, importante dettaglio che emerge dalla nota della sala stampa: nel comunicato, i colloqui tra Erdoğan e papa Francesco vengono infatti definiti ‘cordiali’, a riprova del superamento delle tensioni collegate alle parole pronunciate dal pontefice nell’aprile del 2015, quando definì il massacro degli armeni durante la prima guerra mondiale «il primo genocidio del 20° secolo». In quella circostanza, la replica turca fu durissima, con Erdoğan che condannò le dichiarazioni e invitò il papa a «non commettere più lo stesso errore», mentre il ministero degli Esteri di Ankara convocava per protesta il nunzio apostolico in Turchia e richiamava per consultazioni il suo ambasciatore presso la Santa Sede. Oggi, il clima appare dunque decisamente più disteso che nel recente passato, e i colloqui con il pontefice sui nodi cruciali della geopolitica mediorientale rappresentano per Erdoğan un riconoscimento di grande valore. Che gli obiettivi di pace e stabilità nel contesto regionale passino anche per le decisioni e le strategie di Ankara, pare al momento difficilmente discutibile, quanto tali obiettivi siano concretamente perseguibili nell’incandescente scenario mediorientale – con la Turchia peraltro protagonista dell’operazione Ramo d’ulivo nel distretto di Afrin in Siria contro le Unità di protezione popolare (YPG) curde – è questione che va al di là delle mere dichiarazioni d’intenti.

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Austria: battaglia all’ultimo voto

Circa 30.000 voti in più e una vittoria proclamata il giorno successivo alla chiusura delle urne, dopo il conteggio degli oltre 700.000 voti postali. Alexander Van der Bellen, candidato dei Verdi, succederà ad Heinz Fischer nel ruolo di presidente della Repubblica austriaca, al termine di una competizione elettorale il cui significato politico è andato ben al di là della carica – in gran parte cerimoniale – per la quale si concorreva. Il 22 maggio i riflettori sono stati puntati su Vienna e dintorni, cuore geografico di una Mitteleuropa storicamente terra di grandi imperi e crocevia di delicati equilibri geopolitici: è da lì che è partito l’ennesimo, inequivocabile messaggio a un’Europa smarrita, indecisa e confusa, ancora incapace di dare risposte adeguate alle grandi sfide che la attraversano. Nel primo turno del 24 aprile, il 35,1% degli elettori recatisi alle urne ha accordato la sua fiducia a Norbert Hofer, candidato della forza di estrema destra dell’FPÖ un tempo guidata da Jörg Haider e oggi sotto la leadership di Heinz-Christian Strache. Per alcuni volto ‘gentile’ di un partito dalla netta impronta politica, per altri semplicemente un lupo travestito da agnello, Hofer ha mostrato subito di avere le idee chiare. La promessa? Österreich zuerst, l’Austria prima di tutto, superando qualsiasi diktat degli euroburocrati di Bruxelles. Il primo problema politico da affrontare? Nessun dubbio traspare dalla lapidaria risposta alle dodici domande che campeggiano sul suo sito internet: proteggere immediatamente i confini del Paese. Del resto, ha sentenziato, non c’è da stupirsi del fatto che – dati l’attuale situazione di incertezza e gli apparentemente inarrestabili flussi migratori – in Austria siano aumentati i proprietari di pistole. L’islam poi, semplicemente non fa parte del suo Paese. Dietro di lui, con il 21,3% dei consensi, Alexander Van der Bellen, ambientalista ed europeista, apertamente contrario al tetto all’accoglienza dei migranti fissato dal governo presieduto dal socialdemocratico Werner Faymann. Né d’altronde ci si poteva aspettare una posizione diversa da chi si è più volte definito ‘figlio di rifugiati’: per chi è nato da genitori scappati dall’Unione Sovietica staliniana, la politica delle porte chiuse può dare l’illusione della sicurezza, ma non è una risposta al problema. Nel secondo turno elettorale, Van der Bellen ha ribaltato il risultato: con il 50,3% delle preferenze, gli austriaci lo hanno scelto come nuovo presidente, complice anche un aumento dell’affluenza alle urne – dal 68,5% al 72,7% - che ha giocato a suo favore. Hofer – che si è detto triste per il risultato - ha ringraziato i suoi elettori e riconosciuto la vittoria del suo avversario, ma la FPÖ può comunque ritenersi soddisfatta. Grandi sconfitti, i due partiti che dal secondo dopoguerra si sono succeduti alla guida del Paese e che attualmente governano insieme in un esecutivo di Große koalition, i socialdemocratici della SPÖ e i popolari della ÖVP: i rispettivi candidati, Rudolf Hundstorfer e Andreas Khol, si sono fermati all’11,3% e all’11,1%, giungendo al primo turno in quarta e quinta posizione. L’exploit dell’estrema destra e il contestuale crollo della SPÖ sono costati inoltre il posto di cancelliere e leader del partito a Faymann, ormai privo del sostegno della sua stessa forza politica e duramente criticato per la sua svolta in senso restrittivo nelle politiche di accoglienza, dopo aver inizialmente sostenuto il modello delle porte aperte di Angela Merkel.

La vittoria di Van der Bellen è stata accolta con sollievo da chi temeva – in tutta Europa che l’ascesa dell’estrema destra populista fosse suggellata da un trionfo nelle presidenziali, ma gli esiti del voto austriaco impongono una riflessione critica: come giustamente hanno osservato Philip Rathgeb e Fabio Wolkenstein sul blog della London school of economics, gli esiti del primo turno elettorale hanno rappresentato la più chiara espressione del mutamento dello scenario politico austriaco e certificato l’erosione dello storico duopolio SPÖ-ÖVP, ma la tendenza a una marcata polarizzazione del confronto va ben oltre i confini del piccolo Stato mitteleuropeo, e di fronte a sfide complesse come la ripresa economica, la gestione dei flussi migratori o il controllo della minaccia terroristica i cittadini paiono sempre meno persuasi dalle risposte fornite dalle forze politiche ‘tradizionali’. È in questo quadro che si inserisce l’esponenziale crescita in Germania di una forza come Alternative für Deutschland nelle elezioni di marzo 2016 in Renania-Palatinato, Baden-Württemberg e Sassonia-Anhalt, o ancora l’agrodolce successo nelle elezioni regionali francesi di dicembre 2015 del Front National, che solo in virtù del doppio turno e delle intese tra destra repubblicana e socialisti non è poi riuscito a conquistare il governo di alcuna regione. Senza naturalmente dimenticare il consolidamento di forze apertamente di ultradestra in paesi come la Svezia e la Danimarca, l’affermazione in Polonia dei conservatori euroscettici di Diritto e giustizia, l’alfiere della chiusura dei confini europei Viktor Orbán in Ungheria o le posizioni rigidamente anti-immigrati del premier socialdemocratico slovacco Robert Fico, che ora governa anche grazie al sostegno del nazionalisti del Partito nazionale slovacco.

Dopo le elezioni presidenziali austriache, l’Europa appare ancora una volta a un bivio, e solo un deciso cambio di marcia nell’azione politica dell’UE potrà determinare una sempre più difficile inversione di rotta.

 

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Attacco al cuore dell’Europa

Bruxelles, aeroporto di Zaventem, ore 8 del mattino. Due esplosioni, nei pressi dei desk della American Airlines e della Brussels Airlines, devastano il terminal delle partenze internazionali dello scalo, facendo precipitare una città, uno Stato e un intero continente nel terrore. Poco più di un’ora dopo, alle 9.15, le viscere della capitale belga tremano, mentre la metropolitana scorre: è la stazione di Maelbeek a essere colpita, vicino alle sedi istituzionali di un’Unione Europea che gronda sangue e riflette sulla sua drammatica vulnerabilità. È la seconda volta in circa quattro mesi che l’Europa viene trafitta al cuore. La testa supera idealmente i confini belgi e fa riaffiorare il ricordo del 13 novembre 2015, la memoria di quelle terribili ore in cui i miliziani fedeli a un sedicente califfo seminarono morte nei luoghi parigini brulicanti di joie de vivre; i caffè, i ristoranti, quel teatro Bataclan che ha risucchiato la vita di 89 persone e nell’editoriale di Laurent Joffrin di Libération è diventato il simbolo di una generazione.

Allora, mentre il mondo si stringeva attorno a Parigi e ne condivideva il dolore, i riflettori cominciavano a spostarsi su Bruxelles, su quel quartiere di Molenbeek sempre pronto a rifornire di giovani reclute l’esercito in espansione del califfato. È dalle sue strade che proviene buona parte dei foreign fighters che dal Belgio si sono uniti alla causa del sedicente Stato Islamico, tanti di quei 450 combattenti belgi che secondo il Soufan Group difendono le conquiste dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi sono figli di questo pezzo di Bruxelles - e di Europa - oramai ribattezzato ‘Belgistan’. A Molenbeek è cresciuto e ha fatto ritorno, ben protetto da una rete che ha favorito la sua latitanza, Salah Abdeslam, il ricercato numero uno degli attacchi di Parigi. Il 18 marzo arriva la notizia della sua cattura, seguita da un illusorio quanto breve e inutile sospiro di sollievo. Non può essere la fine, anzi è solo un nuovo drammatico inizio: Salah si dice pronto a collaborare, non vuole essere estradato in Francia, informa gli inquirenti che stava pianificando nuovi attentati.

Il resto è cronaca odierna, e riporta alla mattinata di sangue che ha squarciato la quotidianità brussellese, con il suo carico di terrore e il suo inevitabilmente provvisorio bilancio di morti, 34 nel momento in cui si scrive. Tra i feriti, in modo non grave, ci sono anche 3 italiani.

La firma dell’IS pare subito chiara; alcune ore dopo arriverà la notizia della rivendicazione tramite la Amaq News Agency, insieme all’annuncio di altri attacchi contro l’Europa. La capitale belga intanto si ferma, vengono chiusi la metropolitana e l’aeroporto di Zaventem, evacuata anche l’Université libre de Bruxelles, l’allerta è portata al massimo livello; la paura cresce in tutta Europa e in Italia il ministro dell’Interno Angelino Alfano convoca il Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica.

Si rincorrono intanto le voci che inquadrerebbero gli attentati come una ‘vendetta’ per l’arresto di Salah, anche se - a poche ore dagli attacchi - qualsiasi valutazione rischia di essere smentita. I due eventi, prima facie, appaiono collegati, e non si può escludere che la cattura del ricercato di Parigi abbia impresso un’accelerazione a disegni terroristici da qualche tempo in cantiere. ‘Ciò che temevamo è avvenuto. Il nostro paese e i nostri concittadini sono stati colpiti da due attacchi ciechi, violenti, vigliacchi’: sono le parole del premier belga Charles Michel, fotografia istantanea di un paese che sa di dover affrontare un nemico difficile persino da identificare, ma che abita nei suoi quartieri ed è pronto in qualsiasi momento a entrare in azione. Non lupi solitari, ma combattenti radicati in una rete dalle maglie fittissime, in grado di coordinarsi e di colpire in più punti delle grandi città europee, cellule il cui collegamento con la ‘centrale’ siro-irachena è complesso da decifrare ma la cui brutale efficacia è stata provata a novembre a Parigi e confermata oggi a Bruxelles. Mentre ci si interroga sulle possibili falle dell’intelligence, il Belgio gronda sangue, ma è l’intera Europa a essere ferita, colpita nel suo cuore pulsante, a un passo da quegli edifici che sono il simbolo dell’unità continentale. E la risposta a una minaccia collettiva, in una Unione che continua a vacillare attraversata da forti tensioni, dovrà necessariamente essere unitaria.

 

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Trump, un anno dopo

Tempo di valutazioni e bilanci, di giudizi e analisi sulle prospettive future, spartiacque tra ciò che è stato fatto dal primo giorno della nuova presidenza e ciò che dovrà essere fatto di qui a novembre, quando nel voto di mid-term gli elettori statunitensi saranno chiamati a rinnovare la composizione della Camera dei rappresentanti e di 1/3 del Senato.

Si torna dunque al 20 gennaio dello scorso anno, quando Donald Trump prestava giuramento come quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Erano trascorsi poco più di due mesi da quell’8 novembre in cui il tycoon newyorkese era riuscito sconfiggere la candidata democratica Hillary Clinton, penalizzata dal meccanismo del collegio elettorale pur avendo prevalso nel voto popolare. Due mesi durante i quali analisti e commentatori politici si erano succeduti uno dopo l’altro a spiegare come fosse in realtà facilmente prevedibile ciò che, prima del voto dell’8 novembre, quasi nessuno aveva previsto: il trionfo elettorale dell’outsider politico, del magnate che grazie a una retorica accesa si era fatto paladino dell’anti-establishment, del miliardario che con poche e semplici parole d’ordine – sinuose alle orecchie dell’America profonda – aveva prima scalato un partito repubblicano tutt’altro che ben disposto nei suoi confronti e poi conquistato la Casa bianca.

Il 20 gennaio 2017 – nel discorso d’insediamento pronunciato sulle scale del Campidoglio a Washington D.C. – tornavano a riecheggiare quelle parole d’ordine che tanto avevano contribuito al successo elettorale di Trump: allora, il neopresidente volle rimarcare il significato ‘speciale’ di quella cerimonia, perché con quel passaggio di consegne da un’amministrazione all’altra, il potere veniva ‘riaffidato al popolo americano’ dopo essere stato per troppo tempo nelle mani di un establishment animato esclusivamente dallo spirito di conservazione. Nell’Inaugural address, Trump tornava così a giocare con la retorica della contrapposizione tra una capitale – intesa come centro di potere – prospera e un Paese affaticato, una classe politica ricca e autoreferenziale e i comuni cittadini sfiduciati, una nomenclatura interessata a perpetrare all’infinito il suo privilegio e l’America dei centri rurali o della rust belt, disillusa e stanca perché trascurata da Washington durante il suo apparentemente inarrestabile declino. «The forgotten men and women of our country will be forgotten no longer», dichiarava solennemente Trump sulle scale del Campidoglio: «Gli uomini e le donne dimenticati del nostro Paese non saranno più dimenticati». Un vero e proprio manifesto politico, che portava a un nuovo gioco di contrapposizioni: per troppo tempo l’America aveva arricchito le produzioni straniere a scapito di quelle autoctone, troppo a lungo aveva contribuito alla prosperità degli altri Paesi senza pensare a sé stessa, troppe volte aveva difeso i confini altrui senza pensare ai propri. Quella stagione però – annunciava il presidente – andava concludendosi, per lasciare campo libero a una nuova visione: America first, ossia l’America prima di tutto, naturale presupposto nella narrazione trumpiana per rendere il Paese great again, di nuovo grande.

 

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Gerusalemme: le parole di Trump e le preoccupazioni del mondo

La decisione è presa, in linea con le anticipazioni delle ore precedenti e soprattutto con quanto promesso durante la campagna elettorale.

Sono le 13.07 del 6 dicembre a Washington quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump prende la parola dalla Diplomatic Reception Room della Casa bianca, preparandosi a formalizzare quell’annuncio che – già alla vigilia del suo discorso – aveva messo in allarme i grandi attori dello scenario mediorientale e le cancellerie occidentali: gli USA riconoscono Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e procederanno al trasferimento in città della loro ambasciata attualmente situata a Tel Aviv. La questione è di estrema delicatezza e sensibilità, perché attorno allo status di Gerusalemme/el-Quds si sono accese rivalità e consumati conflitti: la presidenza statunitense non lo ignora, ma Trump rivendica di essersi insediato alla Casa bianca assicurando un ‘nuovo approccio’ alle grandi sfide internazionali, perché le strategie adottate in passato non hanno prodotto i risultati auspicati.

Per spiegare questo ‘nuovo approccio’, il presidente parte dal Jerusalem Embassy Act, il provvedimento con cui il Congresso – nel 1995 – sollecitava il governo federale a spostare a Gerusalemme l’ambasciata statunitense e a riconoscere la città come capitale dello Stato d’Israele. Da allora, per oltre 20 anni, i presidenti hanno però firmato ogni sei mesi un atto di temporanea ‘rinuncia’ a rendere pienamente operative quelle disposizioni: secondo qualcuno – osserva Trump – ai suoi predecessori è mancato il giusto coraggio, o semplicemente i loro giudizi si sono basati su come essi interpretavano allora la questione; ma questa impostazione ha fallito nell’obiettivo di assicurare un accordo di pace solido e duraturo tra Israele e i palestinesi. Dunque, è giunto il momento di cambiare prospettiva e di sancire ufficialmente ciò che – secondo il presidente degli Stati Uniti – oggi risulta ovvio: a Gerusalemme hanno sede il Parlamento israeliano – la Knesset – e la Corte suprema, nonché le residenze del primo ministro e del presidente della Repubblica. La città inoltre – sottolinea il presidente – non è più soltanto «il cuore di tre grandi religioni», ma anche «la casa di una delle più importanti democrazie del mondo», nella quale «ebrei, musulmani e cristiani sono liberi di vivere secondo la loro coscienza e di pregare per ciò in cui credono». Se dunque i suoi predecessori hanno deciso di non riconoscere la realtà – ribadisce Trump – la sua amministrazione intende correggere la rotta, disponendo anche l’avvio delle procedure – con l’assunzione di ingegneri, architetti e la definizione di un progetto – per la costruzione della nuova ambasciata statunitense a Gerusalemme.   

L’inquilino della Casa bianca precisa però che tale decisione non modifica in alcun modo l’impegno statunitense per il raggiungimento di un accordo tra Israele e i palestinesi, né sta a significare che Washington abbia preso una posizione sui limiti della sovranità israeliana su Gerusalemme oltre che sugli altri confini oggetto di disputa. L’obiettivo resta dunque quello della pace per Israele, la Palestina e tutto il Medio Oriente; un obiettivo che il vicepresidente Mike Pence confermerà nel suo imminente viaggio nella regione. Quanto alla soluzione dei due Stati, essa resta sul tavolo e sarà gradita agli Stati Uniti se le parti la concorderanno.

Già prima dell’annuncio – quando gli orientamenti di Washington erano comunque sufficientemente noti – le prese di posizione in senso contrario al nuovo approccio statunitense non erano mancate: tra gli alleati occidentali, il presidente francese Emmanuel Macron – contattato telefonicamente da Trump – non aveva nascosto la sua preoccupazione, sottolineando come la questione dello status di Gerusalemme debba essere inquadrata nel più ampio contesto del negoziato di pace israelo-palestinese e della two-State solution, con due Paesi che convivono pacificamente e in sicurezza.

Anche il Regno Unito – tra i più solidi partner statunitensi – si era detto preoccupato dell’imminente annuncio e, dopo il discorso di Trump, è stata la stessa Theresa May a sottolineare come la decisione di Washington non sia di aiuto per le prospettive di pace nella regione mediorientale. Dello stesso tenore le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, che ha rimarcato come le aspirazioni di entrambe le parti vadano soddisfatte e sia indispensabile individuare – attraverso la strada del negoziato – una soluzione sullo status di Gerusalemme come futura capitale sia dello Stato israeliano che di quello palestinese.

Dal Medio Oriente, era stato il re giordano Abd Allah II – tra i principali alleati di Washington nella regione – ad ammonire sui rischi legati alla decisione, foriera di pesanti ripercussioni sulla stabilità e la sicurezza dell’area. Anche il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, parlando al telefono con Trump, aveva invitato il suo omologo statunitense a non adottare determinazioni che avrebbero reso più difficoltoso il cammino verso la pace, sottolineando come Il Cairo rimanesse fedele alla posizione in base alla quale la questione dello status di Gerusalemme debba essere risolta nel suo quadro di riferimento internazionale. Decisamente più esplicito nelle sue considerazioni il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, secondo cui l’annuncio di Trump metterebbe la regione in un cerchio di fuoco e farebbe il gioco dei terroristi, consentendo loro di recuperare un argomento potenzialmente formidabile – e peraltro già utilizzato – per la loro propaganda. In precedenza, il capo dello Stato turco si era addirittura spinto oltre, rivestendo i panni di ‘avanguardia’ della causa palestinese e minacciando la rottura delle relazioni diplomatiche con Israele se effettivamente l’annuncio statunitense fosse arrivato. Quanto però questo rientri nelle reali prospettive di Ankara – che ha faticosamente normalizzato i suoi rapporti con Tel Aviv dopo una prolungata rottura per l’incidente della Mavi Marmara – non è facile da prevedere.

Di particolare interesse sono poi le parole giunte da Riyad, con la famiglia reale che ha espresso il suo ‘profondo dispiacere’ per una decisione che potrebbe produrre ‘pericolose conseguenze’ per il Medio Oriente. Ed è su questo punto che la rilevanza geopolitica della questione emerge con particolare forza: da tempo infatti, si discute delle relazioni tra Jared Kushner – genero del presidente Trump e suo uomo di fiducia nel processo di pace mediorientale – e l’erede al trono saudita Muhammad bin Salman. Che l’asse Washington-Riyad passi per Tel Aviv in funzione di contrasto del dinamismo iraniano nel Medio Oriente, è questione centrale nelle cronache regionali. Nei giorni scorsi, la stampa aveva addirittura diffuso i dettagli di un presunto piano di statualità palestinese presentato dal principe erede saudita ad Abu Mazin, con l’esercizio di prerogative sovrane su porzioni complessivamente limitate di territorio e capitale dello Stato presso Abu Dis, a est di Gerusalemme. Dunque, una vittoria di Israele su tutta la linea, a testimonianza di come per Riyad la questione palestinese sarebbe passata in secondo piano. L’Arabia Saudita, dal canto suo, ha smentito categoricamente di aver formulato la proposta, certamente consapevole del fatto che una posizione simile rappresenterebbe uno sbilanciamento a favore di Israele difficilmente accettabile dall’opinione pubblica di gran parte della regione. Che Riyad possa spingersi a tanto in funzione anti-iraniana, è un punto assai controverso nelle complesse dinamiche geopolitiche regionali.

Quanto al fronte palestinese, impegnato in una delicata operazione di ricucitura tra le sue anime, è probabile che Abu Mazin sia spinto dalla decisione di Trump su posizioni più dure, anche per provare a consolidare la sua assai traballante credibilità interna: e infatti, il presidente palestinese ha dichiarato che l’annuncio mette la parola fine alla prospettiva dei due Stati e alimenta gli estremismi. Di «segnali di incompetenza e fallimento», già prima dell’annuncio, aveva parlato la Guida suprema iraniana Ali Khamenei, mentre il presidente Hassan Rohani aveva avvertito che una presa di posizione come quella di Trump non sarebbe stata tollerata.

Intanto, le autorità palestinesi hanno proclamato uno sciopero generale, mentre il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha chiamato a una nuova Intifada.

Gli esiti delle manifestazioni di protesta che presumibilmente proseguiranno nei prossimi giorni non sono al momento prevedibili. Netanyahu ha parlato di ‘decisione storica’, ma le fiamme in Medio Oriente potrebbero farsi ancora più incandescenti di quanto già non lo siano.

Trump però può dichiarare – come ha già fatto – che a differenza dei suoi predecessori le promesse elettorali le mantiene, in questo caso verso quella frangia di elettori ebrei più oltranzisti e degli evangelici che tanto hanno sostenuto la sua corsa alla Casa bianca.

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11 settembre 2012

Il fronte torna ad infiammarsi e i fantasmi ricompaiono. La data è sempre la stessa, quell’11 settembre che sembra oramai entrato a far parte del destino americano, quasi si fosse inscritto nel patrimonio storico-genetico a stelle e strisce. Alla vigilia della cerimonia commemorativa delle quasi 3000 vittime degli attentati che 11 anni fa hanno segnato indelebilmente gli Stati Uniti, Barack Obama aveva parlato di un Paese “più sicuro, più forte e più rispettato nel mondo”, cercando di dare una risposta alle paure che permeano la mente e il cuore degli americani da quando le Torri Gemelle si sono sbriciolate sul suolo di Manhattan. A Ground Zero, l’America continua a sanguinare. Concluso il rituale tour presidenziale fra i luoghi del dramma, Obama era pronto a rituffarsi nella campagna elettorale per le elezioni di inizio novembre e a rispondere agli attacchi del ticket Romney-Ryan, che gli contende la sedia oggetto della parodia di Clint Eastwood alla convention repubblicana. I telefoni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato hanno cominciato a squillare insistentemente in tarda serata: le sedi diplomatiche americane di due dei Paesi protagonisti dei tumulti della “primavera araba” erano sotto attacco. Alcuni manifestanti inferociti si erano recati presso l’ambasciata statunitense del Cairo per protestare contro il trailer lanciato su YouTube del film “Innocence of Muslims”, caldamente sconsigliato ai cinefili per la pessima qualità del montaggio e della recitazione. La pellicola sarebbe opera del sedicente produttore Sam Bacile, cittadino statunitense che dice di avere 52 anni, di essere ebreo e di risiedere in California. Il suo obiettivo, “svelare il vero volto dell’Islam” e dimostrare che questa religione professata da oltre un miliardo di fedeli è un “cancro” del nostro Mondo. Fra l’assalto di un gruppo di fanatici islamici ad una farmacia di cristiani copti, l’uccisione di una ragazza rea di portare un crocifisso al collo e scene girate chissà dove alle quali è stato aggiunto uno sfondo desertico con tanto di cammelli, Bacile ci presenta un Maometto raffigurato nei suoi tratti umani (e già questo per alcuni musulmani è da considerarsi blasfemia) e soprattutto come un impostore e un incallito donnaiolo che non disdegna la pedofilia. Una provocazione gratuita che ha urtato la sensibilità di qualche fedele e fornito un ottimo pretesto alle cellule dell’estremismo che si sono immediatamente messe in azione. Mentre il caos avvolgeva l’ambasciata americana in Egitto e il terrorizzato personale diplomatico sotto assedio malediceva quei 14 minuti del film pubblicati sul web, nel consolato statunitense di Bengasi in Libia si consumava il dramma di Christopher Stevens, a capo della delegazione diplomatica di Washington nello Stato maghrebino ed in prima linea nelle concitate fasi del rovesciamento del regime di Gheddafi. Le ricostruzioni sono ancora incerte, ma le ipotesi accreditate sono che Stevens sia morto asfissiato durante l’assalto alla palazzina che ospita il consolato americano a Bengasi o che la sua vettura sia stata colpita da un razzo nel tentativo di allontanarsi dal luogo degli scontri. Oltre all’ambasciatore, altre tre persone hanno perso la vita. La dinamica dell’attacco e la coincidenza temporale con l’anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle lasciano pensare ad una premeditazione che andrebbe al di là dell’ondata di sdegno suscitata dalla diffusione di alcuni spezzoni della pellicola blasfema, e l’intelligence americana sembra confermare questa tesi. Nel frattempo, Al Qaeda ha rivendicato la paternità dell’attentato ed alcuni siti qaidisti hanno parlato di “reazione della milizia Ansar Al-Sharia alla conferma della morte di Abu al-Libi”, uomo di punta del network del terrore ed ucciso in Pakistan da un drone americano. Gli Usa sono immediatamente corsi ai ripari, hanno inviato due navi da guerra al largo delle coste libiche e 200 marines per “motivi precauzionali” e continuano a monitorare i siti nei quali potrebbero nascondersi i jihadisti, ma sorprende che non sia stata prestata la dovuta attenzione ad obiettivi americani sensibili in un giorno altamente simbolico come l’11 settembre. Il governo libico si è affrettato a chiedere scusa agli Stati Uniti per quanto successo, mentre Obama ha invitato energicamente il presidente egiziano Morsi a vigilare sulle evoluzioni della protesta al Cairo e a garantire l’incolumità della rappresentanza diplomatica americana nel suo Paese. Il dibattito proseguirà presumibilmente lungo due binari distinti, uno internazionale ed uno interno agli Stati Uniti. Il primo riguarda lo stato attuale di quel tumultuoso processo etichettato come “primavera araba”, che l’Occidente ha sposato con entusiasmo ma al quale non è ancora corrisposta una stabilizzazione del quadro geopolitico regionale. I jihadisti hanno voluto dimostrare di essere ancora presenti e pronti a combattere, svegliando chi si era cullato nell’illusione che la pacificazione e la normalizzazione dell’area sarebbero diventate realtà con l’indizione delle elezioni nei diversi Paesi. C’è poi la dimensione americana della questione, la cui rilevanza è esponenzialmente amplificata dalla vicinanza temporale delle elezioni presidenziali. Mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton si chiedeva come fosse stato possibile un attacco in “una nazione che gli Usa hanno aiutato a liberarsi da un tiranno”, veniva diffuso un comunicato dell’ambasciata statunitense al Cairo, con il quale l’impaurito personale diplomatico condannava “i continui tentativi di qualche irresponsabile di colpire la sensibilità dei musulmani così come le offese verso i credenti di ogni religione”. Obama si vedeva così costretto a prendere le distanze da quel testo troppo “morbido” e ribadiva che “gli Stati Uniti respingono qualsiasi denigrazione del credo religioso, ma si oppongono inequivocabilmente all’insensata violenza che ha tolto la vita a dei servitori dello Stato”. Romney non si è però lasciato sfuggire l’occasione: il candidato repubblicano non sembra aver finora dimostrato particolare competenza sui temi di politica internazionale, per quanto quello sia lo spazio nel quale il complesso meccanismo istituzionale statunitense di “checks and balances” conferisce al Presidente il più ampio raggio d’azione. Rotta la “tregua” concordata per non avvelenare il clima delle celebrazioni dell’11 settembre, Romney ha affondato il colpo, affermando che “la prima risposta doveva essere di indignazione verso chi ha violato la nostra sovranità e assalito la nostra ambasciata in Egitto, mentre si è quasi simpatizzato con loro” e aggiungendo che “scusarsi per la difesa dei valori americani non è mai la giusta soluzione”. I riferimenti alla pellicola, al diritto alla libertà di espressione e alle parole di Obama che ha comunque stigmatizzato qualsiasi comportamento che possa infiammare i fedeli musulmani, appaiono evidenti nelle parole del candidato del GOP, giunte forse in un momento in cui l’America dovrebbe riflettere sul futuro che la attende piuttosto che perdersi in discutibili polemiche. Intanto, le proteste davanti alle ambasciate americane hanno raggiunto anche l’instabile Yemen, Sam Bacile sarebbe stato identificato come un cristiano copto di origini egiziane di nome Nakoula Basseley Nakoula ed Obama, lapidario, ha risposto a Romney definendolo “uno che prima spara e poi prende la mira”. Gli analisti politici sono invece in fermento e si chiedono quanto l’evento peserà sulla corsa di Obama per la riconferma alla Casa Bianca, proponendo anche un parallelismo con l’assalto degli studenti iraniani all’ambasciata americana a Teheran che si concluse con un azzardato blitz nel quale persero la vita 8 soldati Usa e che costò la rielezione a Jimmy Carter. Ogni pronostico rischierebbe di essere smentito dalle urne il 6 novembre, anche perché la crisi economica interna continua ad essere il tema più caldo, ma non è improbabile che la politica estera torni ad essere centrale nel dibattito elettorale. Nel frattempo, il geopolitico “vaso di Pandora” dell’area della “primavera araba” è stato scoperchiato e servirà il lavoro di tutti i protagonisti attivi nella regione per richiuderlo. Ricordando però che anche dopo che il coperchio sarà stato ricollocato, il vaso continuerà a ribollire.