Atlante

Giovanni Ricci

Nasce a Roma il 27 aprile 1966. Figlio di Domenico e Maria Laura Rocchetti. Ha un fratello più piccolo di nome Paolo. Sociologo e criminologo studia e continua a studiare gli accadimenti che hanno segnato la sua vita: il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta, tra i quali vi era il proprio padre Domenico Ricci un carabiniere. (App. dei Carabinieri Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria e Medaglia d’oro di Vittima del terrorismo). Ha lavorato nello Stato come analista d’intelligence. Collabora con le Associazioni delle Vittime del terrorismo e delle stragi alla stesura della legislazione a tutela di tali categorie. Collabora con il ministero dell’Istruzione attraverso un protocollo d’intesa tra tale dicastero e le Associazioni delle Vittime del terrorismo per la conoscenza e trasmissione dell’infausto periodo del terrorismo e dello stragismo nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle università italiane. Collabora al progetto Youtube Memoriando.TV per raccontare cosa siano stati i cosiddetti “Anni di piombo e… non solo”. Ha collaborato alla progettazione e stesura di diversi libri e ha all’attivo centinaia di articoli giornalistici in materia di terrorismo. Da diversi anni organizza la “Giornata della memoria” nelle Marche dove l’obiettivo è portare le testimonianze delle Vittime del terrorismo e delle stragi ai ragazzi delle scuole, così come ha tenuto numerosi incontri e webinar con le scuole e le università italiane. Presidente dell’Associazione Domenico Ricci per la memoria dei Caduti di via Fani, porta la propria testimonianza di quegli anni nei vari Comuni italiani. Unitamente all’Associazione che presiede e al Comune di Staffolo (AN) ha contribuito, grazie anche al contributo del Liceo Artistico Mannini di Jesi (AN), alla realizzazione del primo ed unico Muro della memoria italiano delle Vittime del terrorismo e delle stragi. Insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana dal 2018 per meriti eccezionali “Motu Proprio” dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Pubblicazioni
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16 marzo 1978: via Fani e la giustizia riparativa

 

Sono Giovanni Ricci, mio padre era l’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci, membro della scorta di Aldo Moro ucciso il 16 marzo 1978 da terroristi delle Brigate Rosse (BR) insieme a quattro altri suoi colleghi: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Quel giorno fu devastante per me e per la mia famiglia. Io avevo 11 anni e il pomeriggio sarei dovuto andare a scuola, quando giunse improvvisa la notizia della strage. Il dolore di quanto era accaduto mi annientò, soprattutto quando vidi cosa conteneva l’edizione pomeridiana straordinaria del quotidiano la Repubblica del 16 marzo che qualcuno lasciò a casa nostra: in seconda pagina la foto di mio padre crivellato di colpi e senza lenzuolo. Mi distrusse. Questo fatto, insieme a quello di avere un padre che ti è stato tolto non per una malattia, un incidente o qualsiasi altro motivo, ma perché ucciso per mano degli uomini, di terroristi, di uomini malvagi, mi fece sentire non solo diverso dagli altri adolescenti che non avevano più un papà, ma innescò in me un odio e una rabbia immensi verso chi mi aveva tolto il mio dolce padre. Mi avevano portato via l’amico dell’infanzia, quello che mi avrebbe insegnato come vivere un’adolescenza piena, l’amico della mia vita adulta nonché il nonno dei miei figli. Ero diverso e questa diversità me l’avevano imposta degli uomini “cattivi”.

 

Crescendo poi cominciai a seguire le vicende processuali del cosiddetto caso Moro, a leggere le sempre continue novità e gli inquietanti misteri forniti dai quotidiani, cominciai a conoscere uno per uno i nomi e i volti di chi mi aveva reso diverso. Seguii tutti i numerosi processi, le commissioni parlamentari, le dissociazioni dei terroristi, il loro pentitismo e quindi conseguentemente il ridursi delle loro pene e il loro iniziare a essere uomini liberi nonostante l’efferatezza delle loro gesta e questo me li fece odiare con ancora più forza: volevo una vendetta. Ma più odiavo più mi sentivo male e non solo stavo male io, ma anche la mia famiglia. Ero pieno di odio e di rancore. Nel 1996 nacque mio figlio Domenico, che porta il nome del nonno, un bambino che avrebbe dovuto subire le conseguenze di quell’odio che mi stava dilaniando. Infatti, sino al 2007-08 abbandonai la mia famiglia a sé stessa perché preso dal lavoro e dallo studio degli atti processuali e dei “misteri” del caso Moro.

Una mattina dell’estate del 2008 mi svegliai dopo l’ennesimo incubo della figura di mio padre nella famosa Fiat 130 crivellato dai colpi. Capii. Capii che così mi sarei distrutto e avrei distrutto anche chi era intorno a me. Avevo necessità di affrontare il problema: quello di combattere l’odio e la rabbia che si annidavano dentro di me. Capii che dovevo affrontare il mio incubo peggiore, il mostro buio che tormentava le mie notti sin dall’adolescenza. Dovevo incontrare chi era il mio male, coloro che avevano ucciso mio padre. Ero a conoscenza, infatti, che altre vittime del terrorismo stavano seguendo in maniera riservata e protetta un programma di “giustizia ripartiva”. La giustizia ordinaria o penale che per anni avevo seguito come unico modo di far cessare il mio tormento interno non era riuscita a darmi quella pace e serenità che cercavo. La giustizia aveva fatto il suo corso, aveva inflitto le sue pene che erano state scontate fino all’ultimo giorno, ma tutto ciò non mi restituiva mio padre, non mi faceva stare meglio. La giustizia ordinaria giustamente si occupa, per quanto concerne in particolar modo i fatti di terrorismo, di sanzionare il reo, ma questo fa sì che nel contesto sociale oramai affermato la vittima nel suo ruolo sociale debba rimanere in silenzio e dolersi continuamente di quanto subito, mentre dall’altra parte, come dire, del muro, il reo deve rimanere relegato ai margini della società come un reietto: deve scomparire perché non ha diritto di esistere.

Capii come invece per superare l’odio e la rabbia avevo bisogno di altro, di qualcosa che non fosse “l’occhio per occhio, dente per dente”, perché solo così sarei riuscito a ricostruire – come sono solito dire – il film della mia intera esistenza: la vita di mio padre, la famiglia, il dopo, la mia nuova famiglia, ovvero la mia esistenza. Mentre io al tempo avevo in mano un singolo fotogramma di quel film, quello di quel terribile 16 marzo del 1978 in cui mio padre venne trucidato, dovevo riuscire a ricostruire l’intera pellicola e a proiettarla di nuovo.

Ecco allora che incominciai il mio pellegrinare su questa nuova strada, quella della giustizia riparativa, una strada dove le due parti cominciano un cammino dagli opposti e dove dei messaggeri (i mediatori) e dei garanti (che garantiscono il pieno rispetto delle parti e della dignità umana) cercano di rendere possibile l’incontro a metà strada. Una strada tortuosa, difficile e dal tempo di percorrenza molto lungo che a volte ti impone delle ancor più lunghe soste, un percorso fatto di anni, in cui la comunicazione è difficile e i messaggi che ci si trasmette sono anche a volte violenti e offensivi, ma che ti permettono comunque di continuare il cammino.

 

Sono riuscito a incontrarmi, ho visto i miei mostri uscire dal buio. Un pomeriggio del 2012 in un luogo riservato ho incontrato Valerio Morucci, Franco Bonisoli e Adriana Faranda: gli assassini di mio padre. All’incontro erano presenti anche i mediatori e i garanti. Con il fiato in gola e una agitazione che mi faceva battere fortissimo il cuore, lì, quel giorno ho scoperto di avere davanti tre persone e non dei mostri. Persone da guardare negli occhi pieni di lacrime per il male fatto. Certo erano e rimangono “quei terroristi” colpevoli del male compiuto e nulla potrà mai togliere loro questo “marchio”, ma ai miei occhi sono apparse persone pienamente consapevoli del dolore inflitto per quanto di terribile commisero. Ho capito quanto la Croce che portavano fosse più grande della mia. Ho parlato con loro, ho ascoltato le loro parole, ci siamo “riconosciuti” come esseri umani. Da quel giorno ho iniziato un percorso lungo e a volte duro ma necessario: un cammino di giustizia riparativa insieme ad altre vittime del terrorismo, ad appartenenti alla lotta armata, ai mediatori, ai garanti e a persone della società civile di tutte le età che erano con noi per poter essere testimoni della forza che ci viene data se si percorre tale sentiero di giustizia. Un percorso che non vuole sostituire la giustizia ordinaria penale ma proporsi come complemento della stessa, creare una strada da una a due corsie. Dare un senso a coloro che dalla semplice pena inflitta non hanno ricevuto nulla che possa farli tornare di nuovo a vivere, siano essi vittime o rei.

Giustizia riparativa come la giustizia dell’ascoltarsi: ascoltarsi significa regalare tempo a una persona senza nulla in cambio; la giustizia del conoscersi per poter parlare e comunicare a chi è dall’altra parte i tuoi sentimenti. Giustizia riparativa come la giustizia dell’ago e del filo per poter ricucire le cicatrici delle nostre ferite. Certo, le cicatrici impresse su di noi vittime rimangono, ma almeno non rimangono ferite che sanguinano copiosamente e continuamente. Una giustizia che permette ai figli di entrambe le parti di poter vivere una vita senza dolore e senza torti: perché non paghino loro le colpe dei padri. Una giustizia che impara dalla Commissione per la verità e la riconciliazione (TRC, Truth and Reconciliation Commission) del Sudafrica, che ha permesso a quel popolo di andare oltre decenni di vittime innocenti di entrambe le parti durante il regime dell’apartheid.

 

Attraverso questa esperienza ho e abbiamo capito che il tempo dell’ascolto e del riconoscimento tra vittime e appartenenti alla lotta armata deve compiere ora il passo più delicato: quello del riconoscimento sociale. Infatti, la tragedia del terrorismo è ancora oggi una tragedia culturale dell’intera società italiana. Quella dell’incapacità di comprenderlo ed elaborarne le conseguenze profonde. L’immobilità di un dolore che si riapre per le vittime alle commemorazioni, con la sua funzione di testimonianza e di monito morale, per poi cadere di nuovo nella dimenticanza pubblica, oppure la ghettizzazione degli appartenenti alla lotta armata che debbono rimanere solo fantasmi senza né voce né corpo. Tutto questo non ha consentito al nostro Paese di alleviare la solitudine delle vittime né di elaborare il lutto collettivo che quegli anni hanno rappresentato.

In questo nostro incontrarci abbiamo sentito forte la necessità di andare oltre la “tirannia del passato sul presente”. A mano a mano che gli anni passano il ricordo del nostro caro straziato, nella sua dignità di uomo e di appartenente alla nostra famiglia, rimane un quotidiano atto di dolore che immancabilmente crea un ritorno al dolore di quel giorno terribile in cui venne a mancare. Una catena circolare che non si riesce a spezzare. È necessario invece tutti insieme fermare questo perverso meccanismo per ritornare a vivere: le vittime, i rei e l’intera società italiana. È il solo modo per fare i conti con il nostro passato, che noi tutti facciamo finta che non sia mai esistito, per non pensarci. Se, infatti, ti rimane un briciolo di amore per la vita prima o poi è necessario dire basta al rancore, all’odio, al passato di morte.

 

Immagine: Edvard Munch, Encounter in Space, 1898-99 circa. Crediti: Nasjonalmuseet, Oslo