Atlante

Gino Satta

Gino Satta insegna Antropologia culturale presso l’Università di Bari “Aldo Moro”. Fa parte del direttivo dell’Associazione internazionale Ernesto de Martino. È direttore di Nostos. Laboratorio di ricerca etno-antropologica e membro della direzione di Parolechiave. Gestisce l’archivio digitalizzato di Ernesto de Martino, del quale è stato anche il principale realizzatore. Tra le sue pubblicazioni: Zone di contatto. Percorsi di ricerca e nuovi oggetti antropologici nell’era della mondializzazione, Cleup, Padova 2005; (a cura di) con C. Gallini, Incontri etnografici. Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Meltemi, Roma 2007.

Pubblicazioni
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Storie virali. Le meraviglie d’Oriente e la caccia all’untore

 

Fino al XVIII secolo, i racconti dei viaggiatori che si avventuravano nelle lontane terre d’Oriente raramente mancavano di riportare la presenza di una serie di popoli mostruosi: gli sciapoda, uomini con un unico grande piede che usano (oltre che per camminare) per coprirsi dal sole quando riposano; i cinocefali, uomini con la testa di cane, che invece di parlare abbaiano; gli acefali, senza testa ma con il volto (occhi, naso, bocca) situato al centro del petto; gli antipodi, con i piedi rivolti all’indietro; gli iperborei, che vivono mille anni. Queste e altre numerose creature fantastiche, passate dai più antichi resoconti greci sull’India al Medioevo cristiano attraverso autori latini (Plinio, Solino), continuano a essere descritte dai viaggiatori come se avessero occasione di osservarle (Wittkower 1987), e finiscono per comparire persino nelle prime tassonomie scientifiche (il Systema naturae di Linneo, ad esempio, classifica quella “mostruosa” tra le “varietà” umane, antenate delle razze). L’esperienza e l’osservazione diretta soccombono all’autorità della tradizione e della parola scritta.

 

Questa storia mi è tornata in mente guardando un servizio televisivo del tg regionale dove si lanciava l’allarme per le “troppe persone ancora in giro”. Ripetuto migliaia di volte al giorno da tutti media, il messaggio, parte della campagna governativa #iorestoacasa, era accompagnato da immagini che non potevano essere in più stridente contrasto con quanto veniva affermato: una Roma deserta, in una calda giornata di sole di inizio primavera, talmente priva di presenze umane da evocare scenari da film post-apocalittico. La verità del messaggio era evidentemente così scontata da non avere bisogno di conferma da parte delle immagini.

 

Ma c’è davvero “troppa gente in giro”? Dalla mia limitata e personale esperienza di recluso che esce solo, di quando in quando, per procurarsi beni di prima necessità, direi di no. E le fotografie di “assembramenti” che trovo sui quotidiani, inquadrature dove l’uso del teleobiettivo schiaccia talmente la prospettiva da poter far sembrare affollato qualsiasi luogo, nel loro essere così palesemente artefatte sembrano anche meno convincenti delle riprese del servizio televisivo. Del resto, i dati diffusi da Google, che con Maps traccia il traffico sia urbano che extraurbano, segnalano una diminuzione in Italia di circa il 90%. Nonostante il numero elevato di sanzioni irrogate, le stesse forze dell’ordine attestano che le disposizioni governative sono piuttosto rispettate; qualcosa che pare persino stupefacente, considerato il loro straordinario impatto sulla vita delle persone, e il totale caos normativo e comunicativo che le accompagna (emblematica la vicenda del continuo cambiamento del modello di autocertificazione, dietro il quale si cela il passaggio da una sanzione penale – di dubbio fondamento giuridico – a una sanzione amministrativa, altrettanto abnorme ma forse meno infondata).

 

Semplicemente: “c’è troppa gente in giro”, perché tutti sappiamo che è così, come gli antichi sapevano che in India c’erano gli sciapoda e i cinocefali. O piuttosto, perché abbiamo bisogno di crederlo, come gli antichi avevano bisogno di credere alle “meraviglie d’Oriente”. In effetti, è solo a partire dalla necessità di credere, indipendentemente da ciò che può essere oggetto di personale esperienza, che proviene la forza del messaggio.

 

Nella breve nota Le (sens) interdit, Jean Pouillon (1993) affermava che la trasgressione è indispensabile per istituire la proibizione: non è sensato proibire laddove non c’è la possibilità di trasgredire, e la proibizione non esisterebbe affatto se non vi fossero effettivamente trasgressori. Se letta in questo senso, la credenza nella riluttanza della popolazione ad adattarsi alle misure governative rivela la sua necessità discorsiva: è la risposta all’emergenza nei termini di interdizioni e di politiche repressive a necessitare della riluttanza della popolazione piuttosto che il contrario.

 

Per un potere politico debole e confuso, ossessionato dai media, colto alla sprovvista dall’epidemia, che si è affidato alla risposta più facile e quasi automatica, quella repressiva “securitaria” (in perfetta continuità con il neoliberismo imperante; Wacquant 2006), la figura del trasgressore, sia esso il “runner”, il proprietario del cane che passeggia abusivamente, o il camminatore che si allontana indebitamente da casa senza giustificato motivo, è necessaria a legittimare la risposta: quella che Marco Olivetti, sull’Avvenire dell’11 marzo, ha definito «la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte».

 

Stupisce, semmai, che misure di tale gravità non siano state praticamente oggetto di dibattito pubblico. Raccomandate dagli “esperti” (virologi, epidemiologi, diventati star onnipresenti del panorama mediatico), la cui attuale dittatura non è affatto in contraddizione, ma è complementare alla incompetenza che domina nella nostra scadente classe politica, le misure sono state accettate di buon grado anche da intellettuali democratici con l’argomento secondo il quale il supremo bene della salute pubblica vale anche il sacrificio della libertà personale, purché a tempo determinato (così, ad esempio, Zagrebelsky su Repubblica). Argomento forse costituzionalmente ineccepibile, ma la cui validità è legata a un assunto assai fragile, e cioè la necessità e l’assenza di alternative. È davvero necessario, per contenere il virus, mettere un intero popolo agli arresti domiciliari, minacciando sanzioni durissime e sostanzialmente arbitrarie?

 

Il nesso logico tra l’uscire di casa e la diffusione del virus pare, infatti, nel migliore dei casi indiretto. Se il “distanziamento sociale” è considerato fondamentale per contenere il contagio, la detenzione casalinga è tutt’al più un mezzo per favorire il distanziamento (almeno in una parte dei casi, perché esistono anche le case affollate o altri luoghi, “case” di riposo o di detenzione ad esempio, dove il confinamento sembra favorire la diffusione del virus). Ma affermarne la necessità sarebbe come dire che, per evitare gli incidenti automobilistici, è necessario smettere di produrre automobili. Ineccepibile, forse, ma un tantino fuori misura, e con controindicazioni pratiche non indifferenti.

 

Assai più chiaro pare invece il nesso tra la diffusione del virus e alcune scelte politiche sbagliate o evidenti carenze organizzative, come, per esempio, quella di non predisporre percorsi separati per i malati di Covid-19 (ci si è arrivati con grande ritardo e non ovunque), di costringere i malati paucisintomatici a trascorrere in casa il periodo della malattia (rischiando, tra le altre cose, di contagiare tutti i coabitanti), di non sottoporre a esami diagnostici il personale sanitario, o di limitare i test a coloro che presentano sintomi avanzati. Responsabilità che farebbero sembrare l’ingiunzione di restare a casa e la persecuzione dei trasgressori finalizzate alla ricerca di un capro espiatorio almeno quanto all’effettivo contenimento del virus.

 

Se valutata da questo punto di vista l’efficacia della campagna sembra notevole. La caccia all’untore che si è scatenata – una antica passione italiana (Manzoni docet) che meriterebbe l’iscrizione nelle liste del patrimonio immateriale a fianco della pizza e della mozzarella – ha mobilitato in pieno una popolazione già da anni abituata ad attribuire i numerosi problemi sociali ed economici del Paese a capri espiatori (primi tra tutti i migranti); in molti hanno partecipato con gusto a esecrare, talvolta non solo via social media, ma anche con azioni dirette nelle strade, coloro che, camminando, correndo o portando a spasso i bambini o i cani, contribuivano irresponsabilmente a diffondere il morbo.

 

 

 

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Bibliografia per approfondire

 

R. Wittkower, Allegoria e migrazione dei simboli, Einaudi, Torino, 1987

J. Pouillon, Le cru et le su, Seuil, Paris, 1993

L. Wacquant, Punire i poveri, Derive/approdi, Roma, 2006

A. Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, Einaudi, Torino, 2012

 

 

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Immagine: Roma, Italia, 12 marzo 2020: la polizia controlla i movimenti dei turisti intorno a San Pietro, in Vaticano. A seguito della pandemia di Coronavirus, l'Italia è in lockdown. Crediti: Em Campos / Shutterstock.com

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Storie virali. Furore in Svezia

 

Commentando l’alternativa posta dall’editoriale di un quotidiano di Toronto tra “salvare l’economia” e “salvare nonna”, David Cayley (2020) ha sostenuto che pensare il dilemma etico dell’epidemia in questi termini porta inevitabilmente a mettere un cartellino del prezzo sulla testa della nonna. Se posto in quei termini, in effetti, il problema non può che tramutarsi – prima o poi – in quale sia il prezzo oltre il quale non è più possibile “salvare nonna”, e non si può far altro che abbandonarla al suo destino per impedire il collasso dell’economia. Cayley ha suggerito per questo di evitare di ragionare sulla base della entificazione di costruzioni fantasmatiche tipica del management, e ha invitato a pensare più concretamente alle persone e alle attività, piuttosto che a modelli e ad astrazioni statistiche.

Credo che i suggerimenti di Cayley possano essere di qualche utilità per ragionare intorno alla ormai imminente “fase 2” della gestione dell’epidemia. Senza un concreto sforzo di immaginazione, temo infatti che la “fase 2” sarà non meno densa di delusioni della tragica “fase 1” che stiamo ancora vivendo.

In questi giorni circolano diverse ipotesi sul modo in cui dovranno essere riorganizzate le più diverse attività, al momento sospese, per adeguarle alle esigenze della sicurezza contro il contagio da Covid-19. Finora, neanche una delle diverse ipotesi circolate sembra però individuare modalità realistiche di gestione ed erogazione dei servizi. Modalità cioè, che tengano conto da un lato delle caratteristiche (anche immateriali e simboliche) dei servizi e del modo in cui gli utenti li utilizzano, dall’altro delle risorse disponibili e delle compatibilità economiche.

I trasporti, ad esempio, potrebbero non essere in grado di ricominciare a operare sulla base degli stringenti requisiti di sicurezza ipotizzati dai quotidiani. Ryanair ha già comunicato ufficialmente che non potrà riprendere a volare se sarà tenuta a riempire gli aerei al limite del 66%, perché questo non consentirebbe in alcun caso di realizzare un profitto nella gestione del servizio (Repubblica 23 aprile). Altre compagnie aeree hanno immediatamente confermato. A Roma una sperimentazione di due ore sulle nuove regole per il trasporto pubblico urbano, condotta il 24 aprile in pieno lockdown, ha già fatto riscontrare un’insufficienza del trasporto a regime ridotto, che non potrà che peggiorare con la ripresa delle attività. E il sensibile aumento del numero delle corse (per compensare la riduzione dei passeggeri trasportati per singolo viaggio) sembra – date le condizioni fallimentari dell’azienda – più un sogno che non una concreta possibilità. La riapertura dei ristoranti con separatori di plexiglass a dividere gli avventori (una cosa simile è stata ipotizzata anche per le spiagge), per giunta dotati di mascherine, è stata giudicata come del tutto irrealistica da diversi ristoratori intervistati nei giorni scorsi; e non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per comprendere perché. Le regole per i negozi di abbigliamento, con la “sanificazione” obbligatoria dei capi a ogni prova, non faciliterà certo la “ripartenza” del settore, al punto che molti proprietari di esercizi ipotizzano di non riaprire affatto. Per non parlare della cultura (cinema, teatri, concerti, musei) che sembra ancora talmente in alto mare da dubitare che possa mai tornare in attività.

Il fatto è che il “distanziamento sociale”, e cioè l’evitazione di ogni contatto tra persone per evitare il contagio, sembra essere incompatibile con la gran maggioranza delle attività economiche, dal lato del consumo molto più che da quello della produzione. Perché qualcosa possa salvarsi dalla “crisi” non è infatti sufficiente che sia rimessa in moto la produzione. La riapertura delle attività produttive separata da una ripresa della vita sociale è inconcepibile sia «per ragioni di mercato (non vi è significativa circolazione di merci senza circolazione di persone)», sia «perché il segno di un lavoro produttivo separato dalla vita sociale è decisamente terrificante», come ha scritto Marco Bascetta sul manifesto (28 aprile).

Si ripete da fonti governative che le nuove regole dovranno valere fino a che non sarà disponibile un vaccino. Ma questo, a giudizio di diversi esperti, non dovrebbe avvenire prima di un anno, nella migliore delle ipotesi. Un tempo lungo che non può essere pensato nei termini provvisori di disposizioni emergenziali. È dunque probabile che, ben prima che il vaccino sia disponibile, ci si trovi costretti a scegliere tra il fallimento di interi settori produttivi, con le conseguenze sociali che questo comporta, e una gestione del tutto differente del rischio del contagio. Per questo ripensare ora i servizi in termini realistici e razionali è fondamentale.

Nella stampa italiana ha fatto scalpore la notizia che la Svezia, dopo aver considerato i pro e i contro dei diversi modelli di gestione della crisi, ha deciso di non adottare il lockdown, o, se si preferisce, di adottarne una versione estremamente “morbida”, senza confinamento obbligatorio e senza chiusura delle attività. La scelta è stata rappresentata dai media italiani come cinica e sconsiderata, fondata su un ostentato disprezzo per la vita umana, testimoniato dalla scelta di non curare i malati oltre i 70 anni d’età (per una ricostruzione della disinformazione sul caso svedese, si rimanda all’articolo di Quirico e Salerno). E accogliendo con giubilo l’ammissione di colpa e il cambiamento di rotta (Corriere della sera, 5 aprile). Notizia peraltro falsa, che ha suscitato le proteste ufficiali dell’ambasciata svedese (Il post 16 aprile).

Il governo svedese presenta al contrario la propria politica come la scelta meno dannosa e pericolosa, date le drammatiche circostanze in cui ci troviamo. Fredrik Erixon, il direttore dello European Centre for International Political Economy, in difesa della politica del proprio governo ha sostenuto che, dal momento che “la teoria del lockdown non è provata, non è la Svezia che conduce un esperimento di massa. Sono tutti gli altri” (Cayley 2020). Naturalmente il governo svedese non sa se la scelta darà i risultati sperati ed è pronto a correggere le proprie politiche in base all’andamento dell’epidemia, tenendo come obiettivo principale di evitare la saturazione dei reparti di terapia intensiva. Allo stesso modo, andrebbe aggiunto, in cui noi non sappiamo quali saranno gli effetti delle nostre politiche di lockdown, né quali sarebbero stati gli effetti se fossero state adottate scelte differenti. Ma con la differenza che la strategia del lockdown più spinto, dannoso per le attività economiche e lesivo dei diritti costituzionali, sembra qui aver assunto il carattere di un dogma, anche a fronte dei suoi risultati tutt’altro che eccellenti. Basterebbe, infatti, un limitato confronto con la gestione di altri paesi per comprendere quel che dovrebbe essere radicalmente ripensato nel “modello italiano”. In un articolo del New York Times del 4 aprile sono illustrate le specificità che hanno fatto della Germania un esempio positivo di gestione: l’aver preparato piani precisi, rifornendosi delle attrezzature necessarie, l’aver praticato test quanto più possibile estesi, soprattutto agli operatori sanitari, l’aver tracciato i contagiati, l’aver disposto il ricovero preventivo dei malati sintomatici in prossimità del momento in cui l’infezione rischia di aggravarsi (Bennhold 2020). Al contrario, il modello italiano, sperimentato disastrosamente nella regione Lombardia, e poi esteso a livello nazionale (senza che alcuno sappia dire perché), a dispetto delle vistose differenze territoriali, è stato oggetto di analisi mirate a evidenziare tutti gli errori fatti nella gestione dell’epidemia per evitare che siano ripetuti (si veda l’articolo di Pisano, Sadun, Zanini 2020).

In un famoso saggio, intitolato Furore in Svezia, Ernesto De Martino analizzava gli episodi di cieca violenza e distruzione che, durante il capodanno del 1956, avevano devastato il Kungsgatan, la principale arteria del centro di Stoccolma. Dal punto di vista dell’etnologia, sosteneva De Martino, queste manifestazioni erano meno incomprensibili ed eccezionali di quel che sembrava: esse manifestavano «un pericolo che tutte le epoche e tutte le società hanno dovuto fronteggiare»: «l’angoscioso essere afferrati dalla nostalgia del non-umano, l’impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore dell’umanità e della storia» (de Martino 1962).

Facendo affidamento alle cronache dei nostri quotidiani, sembrerebbe quasi di trovarsi davanti a un ritorno di Furore in Svezia, alla «nostalgia del non umano» allo smarrimento del «lume della coscienza». A me pare invece che, se un simile rischio è ravvisabile, risieda molto più dalla parte delle nostre politiche ossessive di “sanificazione”. Mentre vedo piuttosto in Svezia il tentativo di impostare una politica razionale, basata su considerazioni realistiche, che mettono insieme questioni diverse, non tutte affrontabili nell’ottica ristretta della medicina, e della virologia in particolare. Roberto Beneduce, su queste pagine, ha individuato nel fatto che «la medicina è tornata a farsi scienza esitante, indiziaria» una delle “lezioni” dell’epidemia. Ma nella feticizzazione della Scienza, dietro la quale abdicano e si nascondono i nostri decisori politici, ogni traccia di questa lezione sembra assente, così come sembra mancare la consapevolezza della estrema complessità di un fenomeno che, come il fatto sociale totale di Mauss, non può essere ridotto a una sola delle sue molteplici dimensioni (sanitarie, sociali, economiche, politiche, giuridiche). È necessario trovare un modo per riprendere a vivere, in un senso più ampio di quello del bios, della “nuda vita” (Agamben 1995; Esposito 2002). Vivere in senso pieno, e non solo lavorare e proteggersi dal contagio, per non dover finire a mettere il cartellino del prezzo sulla testa di nonna.

 

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Bibliografia per approfondire

 

D. Cayley (2020), Questions about the currentpandemicfrom the point of view of Ivan Illich

M. Quirico e R. Salerno (2020), Glieretici di Stoccolma. Come e perché la stampaitalianadisinforma su Svezia e coronavirus

G.P. Pisano, R. Sadun, M. Zanini (2020), Cosa imparare dalle rispostedell’Italia al Coronavirus

K. Bennhold (2020), A German Exception?Why the Country’s Coronavirus Death Rate Is Low, New York Times 4 aprile 2020

E. De Martino, Furore, simbolo, valore, Il saggiatore, Milano 1962.

R. Beneduce (2020), Le lezioni di unapandemia

G. Agamben (1995), Homo sacer : il poteresovrano e la nudavita, Einaudi, Torino.

R. Esposito (2002), Immunitas. Protezione e negazionedellavita, Einaudi, Torino.

 

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Immagine: Stoccolma / Svezia - 21 aprile 2020: gli svedesi si godono il bel clima primaverile durante la pandemia di coronavirus, nella famosa piazza "Nytorget" a Södermalm, un quartiere nel centro di Stoccolma. Crediti: Susie Hedberg / Shutterstock.com  

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Storie corali. La via impervia della critica

Sono passati due anni da quando, dalla Cina, cominciarono a filtrare le prime notizie sulla diffusione di un Coronavirus sconosciuto, probabilmente giunto all’uomo attraverso uno spillover (così avremmo poi imparato a chiamare un “salto di specie”), in grado di causare una pericolosa epidemia. Pochi allora avevano mai sentito nominare la provincia cinese dell’Hubei, così come la città capoluogo di Wuhan da cui proveniva il virus che nel giro di poche settimane avrebbe rivoluzionato le vite e monopolizzato i discorsi a livello globale.

Quel che difficilmente si poteva immaginare allora era che due anni dopo saremmo stati ancora nel pieno della pandemia, alle prese con una nuova variante del virus e una “quarta ondata” in corso. Proprio questa durata, con il diffondersi di varianti, le ondate di contagi, il succedersi nelle politiche sanitarie di fasi restrittive e di riapertura, e il continuo proliferare di discorsi intorno al virus, mi pare rappresentare una dimensione emergente della pandemia che richiede qualche riflessione. Nel corso del tempo, infatti, abbiamo appreso molte cose, ma, nello stesso tempo, tutto ciò che abbiamo appreso è stato continuamente rimesso in discussione: dal luogo di origine alle modalità del salto di specie, dall’efficacia delle diverse politiche di contenimento alla durata dei vaccini. Le carte si sono più volte rimescolate, mostrando le difficoltà di chi in passato era sembrato un modello, e le virtù di chi era sembrato sul punto di soccombere. Quel che credevamo di aver appreso in un momento si è rivelato insufficiente o non del tutto vero in un altro. L’incertezza che ne è derivata mi pare uno dei tratti salienti della situazione attuale.

La pletora di esperti, la cui irruzione nello spazio pubblico è stata salutata inizialmente come una provvidenziale “rivincita delle competenze”, ha finito per essere anch’essa travolta dall’incertezza, accusata di aver contribuito al crescente disorientamento dell’opinione pubblica. Molti opinionisti sono rimasti sconcertati dal fatto che gli esperti non sempre avessero certezze da dispensare in nome della Scienza, che non dicessero tutti le stesse cose, che potessero essere talvolta in conflitto tra loro, che cambiassero spesso opinione alla luce di nuove ricerche o di nuovi dati, che su diverse questioni evitassero di pronunciarsi o rispondessero semplicemente: «(ancora) non lo sappiamo». Il procedere per correzioni successive in territori in gran parte sconosciuti, tra specializzazioni disciplinari, indirizzi di scuola, competizione per le risorse, connessioni con i centri di potere locali e non, che costituisce la normalità nella produzione di conoscenza, è apparsa incompatibile con una concezione tardo-positivista della Scienza, evidentemente ancora molto diffusa; e inservibile per una comunicazione pubblica che esige contenuti semplici, univoci e dal forte tono emotivo.

È forse anche per questo che «visto con gli occhi di oggi il periodo del primo panico da COVID-19 dei mesi scorsi si tinge quasi di una luce nostalgica», come scriveva più di un anno fa Slavoj Žižek, annunciando che il vero dramma si sarebbe presentato al rimettersi in moto della società dopo il confinamento: «leggiamo spesso che l’epidemia è stato un trauma che ha cambiato tutto, che ormai niente è più lo stesso: è vero, ma allo stesso tempo niente è cambiato realmente, l’epidemia ha solo fatto emergere con maggiore chiarezza quello che era già qui».

Possiamo constatare, con un certo sollievo, che gran parte delle fantasie di chi si prodigava a immaginare un mondo futuro (inconsapevolmente distopico) dove ogni contatto umano sarebbe stato bandito, e l’intera vita sarebbe trascorsa tra sole attività “necessarie” (leggi: produrre e consumare) muniti di dispositivi per evitare il contagio (barriere di plexiglas, distanziamento fisico, guanti e mascherine, sostanze sanificanti su ogni superficie e nell’aria) si va dissolvendo, lasciando dietro di sé una molteplicità di segni e detriti, già prossimi a diventare vestigia.

Ma insieme agli incubi sembrano essere tramontate anche le speranze che avevano alimentato la cospicua prima ondata di riflessioni sulla pandemia che ha accompagnato il confinamento. L’idea che la sospensione forzata di un ordine sociale ed economico divenuto insostenibile avrebbe costituito un’occasione per ripensarlo radicalmente sembra al momento aver perso peso. Tutte le caratteristiche problematiche del mondo-di-prima sembrano essersi trasferite, esacerbate, nella “nuova normalità” postpandemica. La stessa parola d’ordine “resilienza” – la capacità di un sistema sottoposto a perturbazione di ritornare al suo stato iniziale – sembra indicare che la necessità di un cambiamento radicale non sia all’ordine del giorno.

Dal punto di vista dell’agibilità di un pensiero critico, l’attuale fase di incertezza sembra offrire anche meno di quella del confinamento. Allora l’infelice metafora della guerra al nemico invisibile («una figura retorica [...] direttamente incorporata nell’azione politica» l’ha definita Peter Sloterdijk) ha reso ogni discorso critico pressoché impossibile. In una mobilitazione bellica, con il suo apparato di bandiere alle finestre, inni cantati dal balcone, motti per tenere alto il morale (#neusciremomigliori), esecrazione per i renitenti e i disertori, per giunta con venature religiose e penitenziali (#iorestoacasa: il sacrificio come mezzo per guadagnare la salvezza), la critica non può trovare posto, schiacciata dal peso della propaganda: la prima vittima della guerra, dice un vecchio adagio, è la verità.

Qualche tempo dopo la fine del “lockdown” Gaetano Silvestri – ex presidente della Corte costituzionale – si  è chiesto se, anche a fronte di una emergenza grave e reale, fosse davvero necessario sospendere i diritti costituzionali, introducendo per via amministrativa restrizioni che «incidono inevitabilmente almeno sulle libertà personali (art. 13), di circolazione e soggiorno (art. 16), di riunione (art. 17), di religione (art. 19), di manifestazione del pensiero (art. 21), nonché sul diritto-dovere al lavoro (art. 4) e sulla libertà di iniziativa economica privata (art. 41)». Non si sarebbe potuto procedere come prevede l’art. 32, attraverso leggi (o decreti legge)? E poi, erano tali misure proporzionate e necessarie?

Passato il panico del momento iniziale, e dalla prospettiva un po’ più lunga di inizio 2022, le politiche sanitarie potrebbero in effetti diventare finalmente oggetto di valutazione e di dibattito. Nel suo rapporto Global State of Democracy, ad esempio, l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance mette in evidenza come in molti casi gli Stati abbiano risposto al Covid con «measures that were disproportionate, illegal, indefinite or unconnected to the nature of the emergency» (IDEA 2021, p. 6). La preoccupazione di chi temeva che l’emergenza costituisse l’occasione per sperimentare nuove misure di controllo, in continuità con una tendenza ormai pluridecennale al governo emergenziale diffusa in varie parti del mondo, non erano affatto fantasiose, e avrebbero richiesto un dibattito che non c’è stato.

Sebbene la retorica bellica sia evaporata, altri fattori rendono forse anche più impervia la via della riflessione critica. Mi riferisco al rischio, piuttosto concreto, che questa finisca per essere travolta dalla guerra di religione sui vaccini, e in particolare che finisca per essere fagocitata da parte della poderosa propaganda antivaccinale in corso sui social media, in cui si sente affermare che la pandemia non esiste, che è una banale influenza o, in alternativa, che è stata progettata a tavolino da Big Pharma per incrementare i propri profitti; che i vaccini sono “sperimentali”, non sicuri, inefficaci o, addirittura, che diffondono il virus; che esistono cure efficaci, nascoste per interesse da Big Pharma. Persino laddove si invoca la necessità di un pensiero critico sembrano affacciarsi i leitmotiv della campagna antivaccinista, accompagnati peraltro da paralleli arditi: tra i docenti che hanno insegnato da remoto e coloro che giurarono fedeltà al regime fascista, tra i “resistenti” di oggi e quelli che combatterono il nazifascismo.

Se proprio si volesse ragionare intorno al fascismo e alla sua eredità, sarebbe forse più utile interrogarsi sulla imbarazzante contiguità degli immaginari che si ricostruiscono dalla lettura dei documenti prodotti dalla galassia “antagonista” nogreenpass (nei quali la pandemia è sempre “cosiddetta”, i vaccini si chiamano “sieri”, e affiorano da più parti inquietanti fantasie della cospirazione, come quella che vede nell’installazione di un chip sottopelle il fine ultimo delle campagne vaccinali) con quelli dell’estrema destra.

 

                                                                              ***

 

«Il mondo di prima non c’è più, il bel mondo ordinato» riferiva agli psichiatri Alfred Storch e Caspar Kulenkampff un giovane contadino bernese affetto da un delirio di fine del mondo (Weltuntergangserlebnis). «La perdita della “normalità” del mondo è il perdersi della sua storicità, il suo uscire dal cammino che dal “privato” porta al “pubblico”», commentava De Martino.

Se il “mondo di prima” è ormai lontano e irraggiungibile, e la “nuova normalità” appare in forme minacciose, alienate, malate, deliranti, diventa urgente tentare di costruire una “normalità” abitabile.

«Un altro mondo è possibile» affermava il movimento che si proponeva di contrastare la globalizzazione neoliberista, promuovendo un mondialismo alternativo. Oggi, dopo più di vent’anni, la globalizzazione sembra essersi inceppata, ma il neoliberismo è rimasto, vestendo panni rinnovati e travestimenti d’occasione (statalisti, sovranisti, ecologisti). In una piazza, dall’altra parte della terra, un nuovo slogan fa sarcasticamente il verso a quello di allora: «un’altra fine del mondo è possibile».

 

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Bibliografia

Pierre-Andrée Taguieff, L’imaginaire du complot mondial, Fayard, 2006

Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2019

Gaetano Silvestri, Covid e Costituzione, 2020

Slavoj Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, Ponte alle Grazie, 2020

IDEA, Global State of Democracy, 2021

 

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Immagine: Messaggio di speranza «andrà tutto bene» mandato dai bambini all’inizio della pandemia di Coronavirus, Milano (marzo 2020). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com