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Jakob Terčon

Nato nel 1994, vive a Duino-Aurisina, nella provincia di Trieste, a due passi dal confine con la Slovenia. Nel 2019 ha vissuto in Brasile e dopo la laurea in Ingegneria gestionale al Politecnico di Milano ha iniziato a lavorare per l’azienda Zudek a Trieste che progetta, produce e installa impianti frigoriferi innovativi ad ammoniaca. Al di fuori dell’ambito lavorativo, si interessa di politica internazionale, geopolitica e storia.

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Lula è tornato

Il Brasile ha un nuovo presidente. Lula è tornato, vincendo di misura un’elezione che rimarrà nei libri di storia. Già da qualche mese, durante la campagna elettorale, si presagiva una battaglia all’ultimo voto, figlia della polarizzazione estrema che sta vivendo il Paese ormai da qualche anno. Ma la vera sfida inizia ora, quando bisognerà riconciliare un Paese che ha imparato a odiarsi, invece che ad amarsi. È questa la misura che descrive la spaccatura brasiliana. Per alcuni, al netto di tutte le questioni politiche, si trattava di scegliere tra amore e odio. Emozioni pure, tratti di irrazionalità, sentimenti, ma si sa, il Brasile è anche questo. Lula contro Bolsonaro. Due modi di vedere la vita e il mondo. Due personaggi tanto controversi quanto amati da alcuni e odiati da altri. È un Brasile radicalmente diviso quello che ha eletto Lula. Intere famiglie non si parlano più, a causa di preferenze politiche all’antitesi. In molti hanno votato turandosi il naso, rimpiangendo un’alternativa forte e credibile, per non essere costretti a scegliere tra due figure così divisive.

 

I traguardi sociali ed economici che Lula ha conseguito durante la sua presidenza (2003-10) sono innegabili e non vengono smentiti nemmeno da alcuni che oggi votano per Bolsonaro, pur avendo votato per Lula in passato. Gli scandali di corruzione, che hanno travolto Lula e il suo partito, il Partido dos trabalhadores (PT), negli ultimi anni, sono imperdonabili, una vera e propria macchia nera che ha rovinato l’ottima reputazione con la quale Lula aveva lasciato la presidenza. Per molti votare per Lula oggi significa accettare il fatto che “rubare vada bene” e fingere che la corruzione non ci sia stata. Bolsonaro, del resto, nel 2018 è stato eletto facendosi ambasciatore dell’antipetismo e così, quasi senza rendersene conto, il Brasile si è ritrovato con un presidente autoritario e di estrema destra che durante il suo mandato ha minacciato le istituzioni democratiche criticando la divisione dei poteri, è stato divisivo e intollerante verso il prossimo, dimostrando atteggiamenti razzisti e omofobi. Ha dimostrato di non credere nel cambiamento climatico e ha permesso alla lobby dell’agronegocio di continuare a bruciare la foresta amazzonica. È un nostalgico della dittatura militare e non rispetta i media, accusandoli di divulgare soltanto fake news. Ha inoltre deteriorato l’immagine del Brasile nel mondo e ha gestito la pandemia in modo catastrofico.

In molti pensano che per ricostruire il Paese e la democrazia brasiliana, bisogna sbarazzarsi di Bolsonaro ed è per questo motivo che hanno deciso di appoggiare Lula, nonostante gli scandali di corruzione. È questa la strada che la parte che si oppone a Bolsonaro ha scelto, per tornare ad amarsi, sorridere e ritrovare la speranza in un futuro migliore. Il PT è ancora egemone a sinistra, perché riesce a fare da collante tra la sinistra identitaria, più vicina alle questioni dei diritti civili, e la sinistra più attenta alle questioni socioeconomiche.

 

È stata una sfida all’ultimo voto: Lula si è attestato al 50,9% contro il 49,1% di Bolsonaro, poco più di 2 milioni di voti di differenza. È stata la più contesa elezione della storia del Brasile democratico. Per alcuni, odio, intolleranza e fascismo, contro amore, speranza e democrazia. Ma la divisione è anche geografica. Di primo acchito sembra che Lula abbia vinto grazie al Nord-Est, storico fortino del PT. Ma confrontando i risultati Stato per Stato tra il 2018 e il 2022, si evince dove Lula è riuscito a ridurre il margine con Bolsonaro, pur perdendo la disputa a livello locale. Sono gli Stati più popolosi e industrializzati del Sud-Est, con San Paolo, Minas Gerais e Rio de Janeiro in testa, a essere stati decisivi per la vittoria di Lula. Bolsonaro ha inoltre perso voti anche al Sud, pur vincendo in tutti e tre gli Stati che appartengono a questa regione.

La notte del 30 ottobre ai brasiliani era concesso sognare, in attesa dell’alba di un nuovo giorno.

 

L’alba di un nuovo giorno

Per poter vincere Lula ha dovuto ricercare molteplici alleanze. La prima che ha dovuto stringere è quella con il suo vice, Geraldo Alckmin, storico esponente del tucanismo paulista del Partido da social democracia brasileira (PSDB) di centrodestra e più volte governatore dello Stato di San Paolo. Alckmin era l’avversario di Lula al ballottaggio che ha sancito la sua rielezione nel 2006. Anche Fernando Henrique Cardoso, eletto per due volte presidente del Brasile (1995-2002) battendo proprio Lula ai ballottaggi e autore del famoso Plano Real, ha espresso pubblicamente il suo sostegno a Lula. Più di dieci partiti hanno appoggiato Lula al secondo turno e l’endorsement della candidata di centro Simone Tebet (MDB, Movimento Democrático Brasileiro), che al primo turno ha ottenuto il 4% dei voti, è risultato decisivo. In Parlamento sarà il Partido Liberal (PL), storico membro del cosiddetto Centrão e attuale partito di Bolsonaro, ad avere il gruppo parlamentare più numeroso.

Anche in questa legislatura il Centrão avrà, come di consueto, il suo peso politico e sarà fondamentale per approvare le leggi. Il Centrão è un gruppo informale di partiti di centrodestra che di solito non hanno un candidato papabile per la presidenza, ma eleggono molti parlamentari e quindi mantengono un forte potere legislativo. Chiunque sia presidente, dunque, deve ricercare compromessi con i rappresentanti del Centrão.

Lula questo la sa bene: ha vinto le elezioni presidenziali, ma avrà bisogno di molto dialogo e pragmatismo, per poter governare e approvare le sue proposte. La sua intelligenza politica si dovrà dimostrare proprio in queste circostanze. È chiaro a tutti dunque che questo non sarà un governo del PT, ma piuttosto gestito dal PT. L’ampia coalizione necessaria per poter vincere andrà ulteriormente ampliata in Parlamento. Non è un caso che pochi giorni dopo l’elezione, Lula si sia incontrato con i presidenti del Senato, della Camera dei deputati e con i giudici del Supremo Tribunale federale. Lula ha promesso di rispettare le istituzioni che rappresentano la divisione dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario, la cui convivenza e legittimità durante il mandato di Bolsonaro è stata costantemente messa in dubbio dal presidente in carica.

 

Le sfide e le promesse da mantenere sono tante. L’obiettivo primario di questo governo sarà quello di normalizzare i rapporti tra le istituzioni democratiche del Paese. Lula inoltre vuole adeguare il salario minimo in base all’inflazione e generare occupazione e crescita attraverso investimenti in grandi opere e infrastrutture, riprendendo in mano la questione climatica per fermare il disboscamento della foresta amazzonica, ricucire i rapporti diplomatici con i partner internazionali, ma soprattutto riportare sui tavoli del popolo brasiliano tre pasti al giorno. Il problema della fame infatti è tornato a manifestarsi nel Paese: 33 milioni sono i brasiliani che non sanno se potranno mangiare ogni giorno, circa il 15% della popolazione, numero che è quasi raddoppiato rispetto a due anni fa. Lula in più occasioni ha ribadito che questo paradosso, in un Paese come il Brasile, il terzo produttore di alimenti al mondo, non è accettabile. Per questo motivo ha assicurato ai brasiliani che continuerà con il programma Auxílio Brasil di Bolsonaro, rinominandolo Bolsa Família, in memoria del piano sociale da lui adottato quando era presidente. Questo aiuto prevede 600 real, circa 120 euro, nonché metà del salario minimo, a persona, per le fasce più deboli, ai quali si sommano 150 real per ogni figlio.

Mantenere queste promesse ovviamente ha un costo e il paese ha già iniziato a discutere su quale sia il giusto compromesso tra responsabilità fiscale e sociale. Lula è intenzionato a chiedere una temporanea sospensione della norma costituzionale che pone un limite alla spesa pubblica. Per approvare ciò e mantenere la sua promessa elettorale, ha bisogno di un ampio appoggio parlamentare. I mercati sono già in subbuglio e attendono con ansia l’indicazione di chi sarà il ministro dell’Economia designato, per vedere se si possono fidare del nuovo governo. Come detto, Lula dovrà cercare costantemente l’equilibrio tra le parti che lo sostengono, tra l’impegno sociale che si aspettano a sinistra e il rigore fiscale che richiedono gli alleati più liberali. Non sarà un governo rivoluzionario. Sarà piuttosto un governo moderato e pluralista, che cercherà di ripacificare e riunificare la nazione. In un Paese profondamente religioso come il Brasile, possiamo dire che Lula ha vissuto una vera e propria risurrezione. Se riuscirà nel suo intento, oltre a far del bene per il Paese, redimerà la sua reputazione, ripulendola dagli scandali che lo hanno travolto dopo aver lasciato la presidenza.

Se fallirà, l’ombra di Bolsonaro sarà pronta a tornare alla luce, in un Paese storicamente cattolico, ma che è sempre più a trazione evangelica.

 

Bolsonaro ha perso, ma il bolsonarismo si è rafforzato e ha dimostrato di essere ormai radicato nella società brasiliana. Dopo l’esito delle elezioni, galvanizzati dal silenzio del presidente che ha aspettato 45 ore prima di pronunciarsi, i suoi seguaci più fedeli sono scesi nelle strade a protestare, bloccando la viabilità delle principali arterie del Paese, chiedendo all’esercito di intervenire, perché, immersi in una realtà virtuale parallela, non accettavano il risultato di una elezione, a loro avviso, fraudolenta. In un Paese dove gran parte della propaganda politica ormai si fa sui social media, da Whatsapp a Telegram, le notizie false, i video deepfake e la disinformazione generale dilagano, senza controllo né possibilità di verifica. Chi, come Lula, ha detto che bisogna trovare una soluzione, viene accusato di voler limitare la libertà di espressione. Ma questo è un fenomeno globale che sta mettendo a dura prova tutte le democrazie liberali, ed è soltanto più accentuato in Brasile, dove le persone sono molto connesse al mondo virtuale.

 

Prima di salutare il mio amico Felipe che mi ha ospitato a San Paolo e dirigermi verso Rio de Janeiro, abbiamo ascoltato assieme l’inno brasiliano e dall’emozione gli sono scese le lacrime.

«Non immagini quanto sarà bello uscire di nuovo per strada con la maglia gialla della nazionale e cantare assieme a tutti quanti l’inno prima della partita della seleção ai mondiali».

La bandiera, la maglia e l’inno, infatti, già simboli popolari e appartenenti a tutti indipendentemente dal credo politico, negli ultimi anni sono diventati materiale esclusivo della destra bolsonarista, al punto da non poterle più esibire in pubblico senza essere etichettati politicamente. L’auspicio è che con i Mondiali tutto questo finisca. È stato lo stesso Lula a dire che vestirà la maglia della seleção, perché essa appartiene a tutti. Il calcio in Brasile è quasi una religione, è vita, è condivisione, è speranza. Quando nel 2002 Lula è stato eletto per la prima volta, il Brasile si era appena laureato campione del mondo. Se è vero che la storia si ripete, allora oggi potrebbe essere la volta buona affinché ciò accada, perché in Brasile la vittoria andrebbe oltre lo sport e potrebbe segnare il primo passo verso una pacificazione che travalica ogni credo politico. Boa sorte, meu querido Brasil!

 

Immagine: Luiz Inácio Lula da Silva (25 settembre 2022). Crediti: Photocarioca / Shutterstock.com

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Robert Fisk – Life after Isis

Il titolo dell’incontro, “Life after Isis”, ha catturato la mia attenzione ancora prima del nome dell’ospite, Robert Fisk.
Fisk ha iniziato con l’Egitto, sostenendo che i sindacati indipendenti sono gli unici movimenti a sfondo secolare che al giorno d’oggi conosciamo in Medio Oriente. Non poteva non citare Giulio Regeni il quale lo aveva capito bene, ma per sua sfortuna aveva scelto l’argomento giusto al momento sbagliato. Che verità ci può essere a parte quella che il giovane ricercatore sia stato ucciso per mano del governo di al-Sisi? E come si potrà mai mettere fine a queste atrocità e riportare la pace e la libertà in quella parte del pianeta se il nostro comportamento resta ambiguo, ipocrita, denunciando da una parte la violazione di diritti umani e dall’altra firmando accordi da miliardi di dollari con il governo egiziano per consolidare la partnership economica e la vendita di armi? Come riportare la pace in Medio Oriente se siamo schiavi di una finta alleanza con il regime saudita che fa sventolare l’Union Jack a mezz’asta, quando muore il loro re?
La nostra politica estera è un disastro. L’Isis è un’arma dei nostri “pseudo-alleati” del Golfo che sono noti per il loro fondamentalismo religioso e sono grandi oppositori di Assad. Proprio quest’ultimo dovrebbe quindi essere un nostro nemico, a maggior ragione, perché è alleato dei russi e degli iraniani. Ma proprio con l’Iran, acerrimo nemico dei sauditi, abbiamo appena firmato accordi importanti che cambieranno gli equilibri nel Medio Oriente. Forse ci siamo resi conto che l’alleanza con Rijad non è poi più così strategica. L’Isis è un gruppo finanziato dai regimi del Golfo, usato per riportare i sunniti al potere in Siria e Iraq, formato prevalentemente da ex generali iracheni sunniti che, dopo l’invasione americana nel 2003 e l’uccisione di Saddam Hussein nel 2006, hanno assistito al crollo di tutte le istituzioni statali e alla rinascita di uno stato iracheno di impronta sciita. Come se non bastasse, nello scacchiere si aggiunge anche la Turchia che tiene sotto scacco l’Europa intera sulla questione dei migranti e sta a guardare mentre i peshmerga curdi, ancora in cerca di un loro stato indipendente, combattono dignitosamente la loro guerra contro l’Isis. Per Erdogan infatti Assad e i curdi sono più nemici di quanto non lo sia l’Isis. Di un accordo con i russi invece non se ne parla nemmeno.
Fino a quando andrà avanti tutta questa ipocrisia? Per quanto tempo ancora potremo sopportare di vivere due vite parallele?
La forza che invece, secondo lui, guiderà la ricostruzione della Siria è l’esercito siriano che in questo momento è l’unico, con l’aiuto della Russia, in grado di sconfiggere l’Isis. Quindi né Assad né le cosiddette forze “moderate” stile al-Nusra avranno, o dovrebbero avere, molta voce in capitolo. Gli Stati Uniti stanno mantenendo un comportamento ambiguo. Si prendono parte del merito ottenuto dalle vittorie russe, anche se in realtà hanno fatto ben poco. 
Una volta sconfitto l’Isis, perché l’Isis militarmente prima o poi sarà sconfitto, la dobbiamo smettere di invadere Paesi, lanciare bombe, trafficare armi, destituire dittatori a nostro piacimento e una volta fatto il lavoro non avere la più pallida idea di cosa fare dopo. L’instabilità politica e sociale, l’insicurezza e la mancanza di fiducia sono terreno fertile per il proselitismo dei terroristi. Mandiamo piuttosto ingegneri, infermieri, dottori, architetti, costruiamo ospedali, scuole, università. Solo l’educazione potrà cambiare qualcosa e riportare la pace.
Questo, agli occhi di qualcuno, potrebbe sembrare un nuovo “buon imperialismo.” E quindi dobbiamo chiederci cosa intendiamo con il termine imperialismo. Per Fisk imperialismo significa dimostrazione di forza, fare qualcosa solo perché lo si può fare. Richiamare i nostri soldati invece, per sostituirli con insegnanti e dottori, senza imporre niente a nessuno, non è il tipo di imperialismo colonialista che abbiamo in mente di solito quando sentiamo questa parola.
Come ogni giornalista che si rispetti, anche Fisk, non poteva non analizzare il Medio Oriente senza guardare al passato. Quelle terre e quei confini sono figli della guerra combattuta da suo padre e del famoso accordo segreto di Sykes-Picot con il quale la Francia e il Regno Unito si sono spartiti il Medio Oriente, prevedendo già nel 1916 il collasso dell’impero ottomano. Promettevano agli arabi uno stato nazionale indipendente e la fine dell’occupazione Turca. Purtroppo il risultato è stata una divisione strategica, con confini tracciati con il righello in mezzo al deserto che hanno portato ad una nuova occupazione. Quando rimanere lì è diventato economicamente sconveniente e pericoloso, abbiamo continuato a fare accordi con i nuovi dittatori. Il risultato di queste politiche è che la gente ha perso la fiducia e non crede più alla favola dell’Occidente esportatore di democrazia e libertà.
E con le politiche sull’immigrazione continuiamo a non capirle queste cose e ci aspettiamo che le persone restino lì. Non ci rendiamo conto della portata di questo evento. La gente sbarca a Lesbo con i bambini morti in braccio, i genitori piangono davanti ai propri figli, quando partono per cercare riparo, per scappare dalla più mostruosa tra le tante, troppe guerre che il Medio Oriente abbia conosciuto negli ultimi anni. Cosa possiamo fare noi? Aiutarli, cercare di accoglierli, oppure odiarli e respingerli. Magari pagando altri stati come la Turchia, subappaltando parte del confine meridionale ad Erdoǧan. Questi sono gli accordi che porteranno l’Unione Europea alla disgregazione.
La gente scappa da lì, perché non vuole vivere in quelle condizioni. Sono in cerca di pace, quella pace che solo l’Europa può garantire. I migranti decidono di lasciare le loro case, perché non sono terroristi, perché non condividono le idee dei terroristi. Si incamminano verso l’Europa e non verso Raqqa, perché vogliono stare con noi, non con l’Isis. Per quanto tempo continueremo a non capirlo? Respingendoli, li consegneremo in braccio ai terroristi, alla guerra e allora si che avranno un motivo per odiarci. Manca una politica con la “p” maiuscola in grado di promuovere piani a lungo termine, guardando al futuro con coraggio e ambizione.
Per i migranti i confini tracciati dai francesi e dagli inglesi non hanno più alcun valore, sono privi di significato. E l’Isis questo l’ha capito bene. Quando gli uomini di Al Bagdadi si sono spostati dall’ Iraq in Siria, perché avevano visto lì un terreno fertile martoriato dalla guerra civile, Fisk aveva intravisto la fine dell’era di Sykes-Picot. E così come non hanno più alcun senso quei confini, sono privi di significato anche i nostri confini, quelli europei. Proprio gli stessi confini che alcuni stati europei, al posto di considerarli obsoleti, stanno cercando di ritracciare. Per i migranti i confini non esistono più, c’è solo un confine: quello tra la vita e la morte. Vogliamo veramente essere noi a tracciare questo confine?

 

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Alla scoperta del viaggio

L’uomo ha una paura intrinseca del buio. L’oscurità intesa come ignoto, smarrimento, perdita, ignoranza, ci spaventa. Abbiamo paura di ciò che non conosciamo, di ciò che non capiamo. Questo sentimento spesso ci spinge a reagire in modi sbagliati, ad arrabbiarci, a limitarci, a rifiutare, a negare. Come combattere, quindi, questa situazione? Forse l’unica forza motrice che può trascinare l’uomo fuori dal vortice dell’ignoranza è la curiosità. L’essere umano è infatti anche un po’ masochista, e quindi è attratto, paradossalmente, anche da ciò che lo spaventa. L’essere curiosi è la condizione necessaria per elevarsi alla scoperta di ciò che ci circonda. La curiosità ci aiuta a capire, a domandarci, a metterci in discussione, a non banalizzare, a paragonare, a riflettere.

Ci sono varie categorie di curiosi, ma una è sicuramente quella dei viaggiatori. Il viaggio è anch’esso presente nella natura umana per definizione. La specie umana è partita dall’altopiano etiope alla scoperta del globo e non si è mai fermata. Nel susseguirsi dei secoli le persone hanno viaggiato sia per curiosità, alla scoperta di nuovi confini o alla conquista di nuovi mondi, oppure hanno migrato per necessità in cerca di un posto migliore dove rifugiarsi e vivere. Entrambe le forme di viaggio sono tutt’ora presenti e ci accompagneranno, inevitabilmente, fino alla nostra estinzione.

Si potrebbe dividere il viaggio in tre fasi: la partenza, la scoperta e il ritorno. Il ritorno può talvolta essere inglobato nella scoperta stessa, qualora uno parta per non ritornare. In questo caso il ritorno è soltanto mentale e avviene quando ci si accorge di esserci stabilizzati e che non si è più in viaggio. Ritorno, dunque, come rivelazione, conclusione temporanea del cammino intrapreso. Perché, come ogni viaggiatore ben sa, un cammino senza fine è privo di ogni significato. Tutte le fasi sono a loro modo molto interessanti.

La partenza è molto simile al primo giorno di scuola, o all’inizio della lettura di un romanzo, quando si è pieni di aspettative, domande, sogni, prospettive, desideri. Quando si parte alla scoperta di qualcosa che non si conosce, guidati appunto dalla curiosità.

La scoperta è forse quella più banale, poiché spesso ci poniamo troppe aspettative, denigrando ciò che già conosciamo, prendendo come dogma che il nuovo sarà necessariamente migliore. Penso invece che si dovrebbe partire liberi, con la sola convinzione che qualsiasi momento vissuto o rivelazione raggiunta saranno solamente esperienze in più da registrare sul libriccino chiamato vita.

E infine il ritorno, la rivelazione, che gioca un ruolo fondamentale nel cammino, senza il quale l’avventura perderebbe la sua vera essenza che è quella di farci rendere conto del cambiamento che è avvenuto dentro di noi. Non commettiamo l’errore di banalizzarlo a un ritorno alla monotonia, alla quotidianità, ad un ritorno a casa. Il ritorno è più di tutto questo: il mondo è dinamico, noi siamo dinamici e tutto è costantemente in mutazione. È in questa fase che ci rendiamo conto della metamorfosi, delle esperienze vissute, della maturità acquisita, delle conoscenze fatte e delle informazioni che abbiamo ricevuto su noi stessi e sul mondo che ci circonda. È qui, nella malinconia del ritorno, che sentiamo il tempo scorrere, che ci sentiamo vivi, che sentiamo il rumore dei passi che stiamo facendo e che echeggiano alle nostre spalle.

Ci sono infine due, semplici, tipi di viaggiatori: quelli che sanno stare da soli e quelli che, invece, devono sempre stare in compagnia di qualcuno. Chiaramente non c’è un modo giusto o sbagliato di partire e ogni modalità offre stimoli ed esperienze diverse. Bisogna però stare attenti a bilanciare i due tipi di relazioni personali che si instaurano durante queste due diverse tipologie di viaggio. L’uomo è un individuo in relazione con gli altri e spogliato di questa connessione cessa di esistere. Noi esistiamo perché siamo in relazione con gli altri. Anche per questo semplice motivo, una società puramente individualista prima o poi è destinata a soccombere, perché priva l’uomo del bisogno che ha di dipendere da qualcuno.

Allo stesso tempo, però, per poter offrire all’esterno una persona buona, o, per dirla con Aristotele, un animale politico sano, un rapporto costruttivo, onesto, rispettoso, amoroso, bisogna prima essere in pace con il proprio io, sapere e seguire i propri principi, sapendo come ascoltare la nostra voce interiore, nutrirla e curarla. Il viaggio solitario ci può offrire tutto ciò: ci dà più possibilità di vedere altri punti di vista o di ritrovarci in circostanze meno usuali. Situazioni che si riveleranno preziosissime lezioni di vita.

Il viaggio è tutto questo, il viaggio ci mette alla prova, viaggiando ci perdiamo per poi ritrovarci, magari diversi, magari no, e viaggiando si alimenta l’animo che ci definisce e che ci ha traghettato fino a qui, dove siamo ora. La paura del cambiamento appartiene a chi non ha mai viaggiato, a chi non si è mai perso.