Atlante

Linda Terziroli

Nata a Varese nel 1983, si è laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano, con una tesi dedicata a Guido Morselli. Insegna materie letterarie nelle scuole superiori e italiano per stranieri; collabora con “La Provincia di Varese” e con “Lombardia Nord Ovest”, periodico della Camera di Commercio di Varese. Ha ideato, insieme a Silvio Raffo, il Premio Guido Morselli e la mostra permanente all’interno della Casina Rosa, dimora dello scrittore, a Gavirate. Curatrice dei volumi Lettere ritrovate (NEM, 2009), Guido Morselli. Una rivolta e altri scritti (Bietti, 2012), si è occupata dello scrittore in diversi saggi e articoli.

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Shantaram e L'ombra della montagna

Qualcuno l’ha definito un “James Bond con un bel taglio di capelli” e, in effetti, Gregory David Roberts, occhi azzurri e lunghi capelli biondi raccolti, geometricamente, in una curiosa treccina, ha il physique du role dell’avventuroso eroe di Hollywood, anzi di Bollywood, dove ha lavorato come procacciatore di comparse di stranieri a Bombay.
Lo scrittore australiano del best seller mondiale, Shantaram (Neri Pozza, 2005), lo rivela in un video-intervista, “Le strade di Shantaram”, di Italo Spinelli per la regia di Jan Michelini, visibile su Youtube. Nello stesso video Roberts rivela che non sta nella pelle all’idea di vedere Johnny Depp, che ha acquistato i diritti del film che uscirà per la Warner Bros, e Amitabh Bachchan “due tra i migliori attori di questi tempi lavorare assieme, in India, a Bombay”. Eppure della pellicola ancora nessuna traccia. L’inizio delle riprese, annunciato per settembre 2008, nel video tra novembre e dicembre, sembra essere stato posticipato, e non di poco.
Nel frattempo Johnny Depp, che dovrebbe vestire i panni di Lin, Shantaram, “l’uomo della pace di Dio” appunto, sembra avere alcuni problemi con l’alcol e con la nuova compagna, la splendida attrice Amber Heard, sua seconda moglie (dopo Vanessa Paradis), che vuole il divorzio, perché l’attore avrebbe tentato di soffocarla. Una vita che adesso Johnny Depp vorrebbe vivere ritirato nella verde Svizzera, al confine con l’Italia (dove è anche anche più difficile l’estradizione). Una vita apparentemente in contrasto con il protagonista Shantaram, nel primo e nel secondo romanzo.
È uscito anche in Italia, il 3 dicembre 2015, il sequel, L’ombra della montagna, The Mountain Shadow, tradotto, anche questa volta, da Vincenzo Mingiardi, sempre per Neri Pozza. Circa un centinaio di pagine in meno rispetto al primo, “solo” mille e ottantuno pagine, di viaggi attraverso Bombay, spesso a bordo di motocicletta, tra slum in cui trovare rifugio e sontuosi palazzi di perfidi inganni, prigioni brulicanti di torture, calci sferrati da poliziotti corrotti e capannoni abbandonati dove sfidare killer spietati, in cui violenza e affetto coincidono, rovinosamente.
Passate diverse settimane da quando è uscito il sequel, ho potuto vedere, con una certa tristezza, in diverse librerie, una piccola montagna del secondo Shantaram, ancora invenduta. Pile di libri fasciati dalle scritte “attesissimo seguito” in attesa di lettori, una montagna che gettava ombra, anche se le luci studiate della libreria non rendevano l’effetto. Guardavo quei libri con malinconia e desiderio, quello che ti prende quando vedi un libro che ami. Forse è solo una questione di tempo, perché il primo libro di Roberts ha visto la luce nel 2003, in Italia nel 2005; intanto i suoi lettori hanno vissuto, gioito, viaggiato, visitato l’India, magari qualcuno di loro è pure morto, si sono arricchiti e impoveriti, hanno perduto la loro fortuna al gioco, hanno scelto la via della meditazione, al seguito di qualche Sadhu. Eppure al contrario dei facili pregiudizi, The Mountain Shadow è un libro bellissimo. I venti del successo editoriale sono imprevedibili, ma il talento no perché “il talento è il modo in cui lo usi”, come dice una volta Zia Mezzaluna, un personaggio davvero indimenticabile nel romanzo, tutto seduzioni e traffici di pesce e denaro.
L’ombra della montagna è un libro che attraversa l’India nelle sue seducenti contraddizioni, nei suoi costumi corrotti e nei suoi riti pagani e mistici come il “funerale in cielo” sul tetto del palazzo abbandonato dell’Air India, dove in un panorama su Bombay ruota il simbolo della compagnia, un sagittario scarlatto. E la montagna è salita accidentale e discesa ripida, è il simbolo dell’umanità e del suo contrario, è “l’onda perfetta, l’onda che continua a sostenerti senza mai farti sprofondare”, anche quando hai perduto per sempre il tuo migliore amico che è come un fratello e la tua fidanzata che però non ami come dovresti e che ti tradisce, mentre scopri che il tuo socio è un pedofilo che custodisce un vergognoso harem.
Il libro, nonostante gli scontri, il male e la morte che lo attraversa, è un inno alla fiducia e alla libertà dell’anima, alla libertà di cambiare ciò che siamo e ciò che facciamo. Non c’è retorica, dopotutto Gregory David Roberts ha copiato da sé stesso, dalla sua vita da fuorilegge, contraddittoria e spesa senza coerenza: da brillante studente di filosofia impegnato nella contestazione, a eroinomane e fuggiasco, da evaso a scrittore di fama internazionale. Dopo il fallimento del matrimonio, l’allontanamento dalla figlia, la caduta nell’abisso della tossicodipendenza. La prima rapina a mano armata, con una pistola giocattolo. Altre rapine, la condanna a ventitré anni e la fuga, dal carcere di massima sicurezza, di Pentridge diventando, in un colpo, il best seller dei ricercati in Australia, sul finire degli anni ’70.
Evaso australiano, ex drogato e scrittore esattamente come il protagonista dei suoi libri, battezzato Shantaram, “l’uomo della pace di Dio”, anche se sa maneggiare le armi e alzare le mani. Una parte cospicua della biografia di Gregory David Roberts è diventa letteratura. L’India è un paese in cui è possibile tutto, ridisegnarsi una vita, completamente diversa dalla precedente, in tasca soltanto un passaporto nuovo con un nome sufficientemente credibile. È il “Bombay dream”, come lo definisce lo scrittore, il sogno indiano che rappresenta la libertà, come spiega, guidando tra le strade di Bombay che ha descritto nel suo libro: “è la libertà che puoi avere a Bombay e in nessun’altra città che conosco e questa libertà viene da una tolleranza che è nel cuore di un popolo in cui c’è un grande rispetto reciproco”.
Nell’intervista, ripercorre il suo passato da galeotto nei vicolo dello slum in cui viveva, dove aveva improvvisato un’infermeria, nella vita come nel romanzo, semplicemente perché aveva salvato dall’overdose molti suoi amici tossicodipendenti in Australia, rispettoso e rispettato, mentre “la storia di Shantaram si stava scrivendo”. Eppure, dopo la cattura, nel 1990 a Francoforte, il carcere di massima sicurezza a Preungesheim, l’estradizione in Australia, inizia la redenzione, attraverso la scrittura. Lo rivela nei ringraziamenti: “ho impiegato tredici lunghi tormentati anni per scrivere Shantaram. Le prime due bozze del libro – sei anni di lavoro, seicento pagine – sono state distrutte in prigione. Le mie mani, afflitte dai postumi del congelamento, erano messe a dura prova dagli inverni trascorsi nel reparto punitivo: molte pagine del manoscritto, che conservo tuttora, portano tracce del mio sangue”.
All’ombra della montagna, nella luce fatta dalla tenebra del male, aleggia speranza di essere migliori di come siamo, una fiducia che alberga nelle nostre anime, nonostante la dissipazione, senza pace, delle nostre vite. Lo precisa in una nota, che sa di excusatio non petita, l’autore: “Alcuni personaggi del romanzo vivono esistenze autodistruttive. Per descriverli in modo autentico è necessario che bevano, fumino e assumano droghe. Non sostengo l’uso di alcol, fumo e droghe, e allo stesso modo non sostengo il crimine come scelta di vita, e la violenza come mezzo valido di risoluzione dei conflitti. Ciò che sostengo, invece, è lo sforzo di fare del nostro meglio per essere giusti, onesti, positivi e creativi con noi stessi e con gli altri”.
Gregory David Roberts, un paio di anni fa, ha deciso di cambiare nuovamente rotta alla sua vita, di fuggire di nuovo, di evadere dalla prigione della notorietà, semplicemente una lunga lettera d’addio sulla sua pagina Facebook, una nuova pagina bianca del capitolo da aggiungere al romanzo della sua vita. “Cari amici, lettori, colleghi scrittori, mi sono ritirato dalla vita pubblica. Non concedo più interviste, non ho email, telefonino o profilo social. Tutto il mio tempo è dedicato a nuovi progetti e alla mia amata famiglia. Non fuggo dalla vita. Vado verso una reclusione creativa...”

 

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L'eremo di Morselli sul lago diventa museo

Su questa terra non c’è l’eterno, non ci sono che attimi, per quanto incalcolabili.

Guido Morselli, Dissipatio H.G.

 

Percorro a piedi la salita, i famosi gironi che portano alla Casina rosa, e non rossa come lui l’aveva prefigurata in Realismo e fantasia, i muriccioli a secco sono ancora lì, rosicchiati dal tempo, dalle stagioni passate, qualche sasso è rotolato giù, lungo il pendio, lunghi rampicanti e ciuffi di erba, e gli alberi da frutta, ancora lì con i rami, come braccia tese, a regalare frutti. Il cammino non è agevolissimo. Forse in sella ad un sauro italiano, come la Zeffirino, cavalla acquistata alla Fiera di Verona da Giovanni per il figlio Guido, sarebbe sicuramente una passeggiata più comoda. La vista sul lago di Varese e sulle colline e colli prealpini circostanti, in questo autunno terso e ghiacciato, appare straordinaria.

Ci sono anche le rampe di scale, al bordo sinistro della proprietà, che conducono direttamente alla radura antistante la casina rosa, che non voglio percorrere, perché non esistevano, prima. “Santa Trinita era bellissima ma non ricambiò il suo sviscerato amore. Una ininterrotta serie di gravi inconvenienti gli impedirono di viverci e di lavorare tranquillo” scrisse l'amica di Morselli, Maria Bruna Bassi. La casetta semplice e rosa sembra civettuola, femminile, così stranamente in contrasto con il temperamento del suo abitante e ideatore, la facciata coperta dal gelsomino che d’estate spandeva un profumo persino sfibrante: da un lato una fuga di ghiacciai e, sopra tutti, il Rosa solenne.

Uno sguardo intorno e vedo grandi alberi e, davanti alla casina, un immenso prato “il laghetto verde” dove Zeffirino “capriuolava” e lui si sdraiava, sotto lo sconfinato cielo, in solitudine, una coperta blu a quadri, nelle sere di luna piena, nei momenti in cui era davvero felice. Guardo ancora l’orizzonte, che è abbagliante: il Rosa è innevato e sempre al suo posto, mentre il lago sembra una distesa d’argento infuocato e guardarlo può essere quasi doloroso, per gli occhi. L’atmosfera ottocentesca delle ville Liberty vicine al podere di Santa Trinita e la quiete che qui si respira contribuiscono a fare di questa passeggiata un momento meditativo, nonostante i cartelli che indicano la ginnastica da praticare lungo il percorso-vita. Meglio non fermarsi ad osservare quei cartelli, che trovo quasi dissacranti, e anche un po’ ridicoli. Ripenso, invece, alla vita del parco, che sopravvive, e al fatto che ciascuno possa e voglia intendere il parco come un luogo di ristoro, dunque anche di ginnastica.

Permane, dopo decenni, una vaga idea di orto e, sulla sua carta d’identità, alla voce professione: Agricoltore. Il fatto di dedicarsi alla agricoltura era quasi un vezzo, certamente un modo di pensare l’agricoltura più che praticarla, come mi ha segnalato, in più occasioni, il fratello Mario. Anche se poi aveva chiamato a visitare la sua proprietà un grande orticultore. Santa Trinita era un luogo di vita anche per gli animali. La cavalla Zeffirino, la mucca Pedrina. Mi avevano segnalato un punto in cui, dissodando il terreno, avrei trovato il loro sepolcro, là dove non cresce più l’erba.

In occasione di una visita alla Casina Rosa – dove nel frattempo avevamo allestito una mostra permanente dedicata a Guido Morselli – il milanese Aldo Fantoni mi rivelò di aver conosciuto lo scrittore, durante un censimento delle mucche da latte: “...si arrivò a tale decisione in quanto era emerso che proprietari di 1/2 mucche conferivano, giornalmente 25/30 litri di latte (quantità enorme per le nostre zone: ogni associato pagava una cifra per capo in stalla). Alla verifica nella proprietà di Guido, gestita dal fattore, presenziò anche lo Scrittore e ci scambiammo delle battute sulle cose di tutti i giorni”.

Racconta Fantoni che lo scrittore fu molto colpito dall’“orrenda strage” di Gavirate, che appuntò sui diari e fu motivo di profonda riflessione: “L’anno successivo, un terribile incidente che coinvolse la moglie ed un figlio dell’agricoltore sconvolsero Guido Morselli (si stavano recando, di prima mattina, alla Santa Messa a Gavirate e, proprio nelle vicinanze della Chiesetta della Santissima Trinità, furono travolte da un’auto impazzita).

 

Dopo l’orrenda strage di S. Trinita

domenica 9 marzo

 

Se la buona e dolce Silvia con i suoi due ragazzi fosse uscita di casa alle 6 e 44 anziché alle 6 e 45, per andare alla Messa, quell’automobile, uscendo di strada, non li avrebbe uccisi...
Noi ci rifacciamo al caso, in eventi di questo genere, attribuiamo al caso queste “condanne” così evidentemente immotivate. (In fondo è questa anche l'interpretazione dei credenti nella Provvidenza, perché una Provvidenza a tal punto “imperscrutabile” risulta indistinguibile dal caso, dalla fortuità più cieca).
Ciò spiega come il Caso ci appaia con un volto feroce. Ma in realtà non è più “feroce” che mite. Basterebbe, per convincerne, ammettere che quando la gente va a Messa la mattina della domenica, e ci arriva illesa, senza che automobili sviate, frane, fulmini, terremoti o alluvioni la ammazzino, il felice risultato è a sua volta fortuito, Frutto del Caso, conseguenza della mancanza di intenzionalità nelle serie causali che s'incrociano. Il Caso né ci assolve né ci condanna. È tanto “necessario” che noi, su quel tratto di strada che percorriamo, passiamo indenni, quanto è necessario che vi troviamo la morte. L’una e l’altra eventualità, pressate come sono dalla necessità (la buona e dolce Silvia “non poteva” non passare di lì, in quel preciso istante: tutta la sua vita, anzi, tutta la storia del mondo ve la costringeva) sono assolutamente vuote di senso, e cioè di scopo. Non credo affatto che l’amor fati insegnato da Nietzsche sia meglio di una “bontade”: però è certo che il “fato” non è feroce. Fa sì che le belle piante del mio bosco, scampino alle tagliate a cui i proprietari miei vicini provvedono ogni 5 o 6 anni, uccidendo tante loro simili. Per le mie piante, il caso che le ha affidate a me è stato ben propizio.

 

13 marzo 1969

 

Pensare di ritrovare la casa di Guido Morselli come lui l’aveva pensata, ideata, costruita è un’utopia. L’arredamento, i suoi oggetti, la sua casa come lui l’aveva abitata, la disposizione del mobilio e dei fiori nei vasi, i libri con dentro le banconote, le pipe, gli oggetti, tutto questo è andato tragicamente perduto, dissipato, con l’oblio colpevole seguito al suo suicidio, avvenuto a Varese. “Sarebbe come andare al Castello Sforzesco e pensare di trovare gli Sforza” mi suggerisce prontamente Loredana Visconti, figlia di Maria, la sorella di Guido. Tuttavia se non proprio tutto, con un po’ di concentrazione si può vedere il prato antistante la casina come Morselli lo aveva dipinto nelle descrizioni di Realismo e fantasia. Vedere attraverso la sua prospettiva risulta senza alcun dubbio un privilegio. Le case degli scrittori possono talvolta rivelare molto di più dei loro abitatori, rispetto a interviste e a pagine e pagine di romanzi.

A guardarla curiosamente rosa pastello o confetto acceso, semplice nella struttura, sembra tenera come uno scrigno. Un architetto varesino, Carlo Lavit, mi fa notare i comignoli di foggia veneziana, finora non mi ero mai accorta della stranezza. I nipoti mi raccontano che si entrava attraverso un piccolo corridoio dentro una cucinetta a gas (un fornelletto a gas, per il vero) ma chissà perché Morselli non mangiava mai a casa a mezzogiorno, pranzava quasi sempre al Ristorante Lago Maggiore, a Varese.

La piccola dimora, ai margini del bosco prealpino del parco del Campo dei Fiori, fu concepita e costruita nel 1952, e, per vent’anni, fu la scenografia della sua scrittura: la gran parte della sua opera narrativa nacque qui. Mio e di Silvio Raffo vivo desiderio era chiaramente quello di riportare il nome di Guido Morselli all'interno della “sua” Gavirate, dentro la sua Casina, che per testamento lo scrittore aveva donato al Comune di Gavirate. Ci recammo pertanto in Municipio, proprio di fronte a quel Caffè Veniani che lo scrittore frequentava per gustare il suo caffè d’orzo in tazza grande, la sua zaletta e scrivere e dimenticare poi i suoi guanti. La cavalla Zeffirino con la longhina allacciata alle inferriate (tuttora visibili) di casa Maggioni. A colloquio, nella sala riunioni al primo piano del Comune, con l’allora sindaco Felice Paronelli insieme al vice sindaco Claudio Brugnoni, l’idea di realizzare un piccolo museo all’interno della Casina rosa fu accolta serenamente e si dissero disposti ad aiutarci. Fu proprio quel giorno che capii che la strada percorsa era giusta perché a volte il caso, come direbbe Morselli, è “ben propizio”. Il primo segnale fu la lettera – che mi mise sotto gli occhi Brugnoni, quel giorno – di Maria Bruna Bassi, che pensava, nel lontano 1977, di realizzare proprio in quella sede un piccolo museo.

 

Varese 20 Settembre 1977

 

Egregio dottor Oldrini, ho riflettuto molto sui progetti da lei espressi l’altra sera in casa dei miei ragazzi, riguardanti la proprietà Morselli.
Dovendo scartare sia quello dell’asilo, troppo scomodo e dislocato, sia quello della colonia estiva che agirebbe soltanto due mesi all’anno, mi pare ottima l’idea di fondare nella parte inferiore della casetta un piccolo museo contenente oggetti che gli sono appartenuti e che potrebbero essere significativi della sua personalità. Per es. io conservo il “macchinone” da scrivere, la sua vecchissima Olivetti su cui lui ha battuto con un solo dito tutti i suoi lavori; ho il violino che studiava da bimbo e da ragazzo, due antiche poltrone che gli erano particolarmente care, qualche stampa, molte fotografie, la sdraio su cui riposava quando era stanco, una antica stufa di maiolica colorata, e infine la poltrona da giardino su cui si uccise. E altro ancora. Se si potesse avere parte dei libri che giacciono ancora in uno sgabuzzino del Comune di Varese, tutti letti, studiati e postillati, sarebbe una preziosa aggiunta. Persino la sua piccola vecchia Ardea, ormai già un cimelio, da lui tanto amata e che ricoverava nel grande soggiorno quando si sentiva troppo solo, troverebbe lì la sua perfetta collocazione.
Certo per prima cosa bisognerebbe sistemare per il custode l’appartamento del primo piano; due enormi stanze, un camerino da bagno e cucina senza spese aggiuntive e eccessive.
La prego di pensarci e di appoggiare l’idea presso la commissione che se ne occupa.
Come lei saprà, io ho deciso di devolvere tutti i proventi dei diritti d’autore in beneficienza, netti di tasse e spese. Molto ho già elargito nel corso degli anni; ora ho dato incarico al mio amministratore di presentarmi la situazione perfettamente aggiornata onde io possa sapere di quanto disporre per aiutare eventualmente l’effettuazione dei lavori da eseguire.
Per il terreno penso che il custode potrebbe occuparsi della pulizia dei vialetti d’accesso, del prato antistante la casa e impedire che si taglino altri alberi. Al resto si potrà pensare con calma. L’esposizione è ottima, frutta e verdura davano il meglio, ma un esperto in agraria potrà dare i suoi consigli.
La prego di ricordarmi alla sua signora e di gradire i miei migliori saluti in attesa della sua risposta.

 

Maria Bruna Bassi

 

Credo che l’eredità di Guido Morselli non solo letteraria ma culturale, nel senso più ampio (“la cultura non è di chi sa, ma di chi apprende”, scriveva), contenga questi due concetti: filantropia e amore per la natura. Queste espressioni-chiave possono sintetizzare e chiarire l’atto, che a molti sarà sembrato certamente singolare, di fare dono di un bene alla collettività affinché essa stessa possa goderne e gioirne. Amore per la natura è un’espressione più calzante e corposa rispetto alla troppo diffusa “ecologia” che evoca spesso scenari di raccolta differenziata e slogan politici. Questo amore era “l’affezione squisita e intensa” che ci lega ai luoghi. Se il riconoscimento della grandezza di autore gli è stato tributato postumo, un altro genere di riconoscenza e, anzi, una gratitudine per i luoghi credo che gli sia dovuta. Penso che, se già la fruizione di un’opera d’arte, e in questo caso letteraria, sia un privilegio, l’invito, a vivere il topos letterario, esca dal luogo in cui un’opera d’arte viene concepita, per andare a rappresentare la vita stessa. Quanto più un luogo è maestoso ed evocativo, tanto più vitale e grandioso sarà il capolavoro letterario scolpito dal genio creativo che lo ritrae. Una targa in ottone apposta dai nipoti di Morselli, Loredana e Gianluca Visconti, finalmente, recita che Guido Morselli donò la Casina Rosa e il podere di Santa Trinita, sua piccola patria, al Comune di Gavirate. Un piccolo passo contro la damnatio memoriae è stato compiuto.
Percorro a ritroso i miei passi verso via Mazza e la stazione delle Nord, il sole sta tramontando, la natura cambia colore, “è una musica”, contemplandola, a mente sgombra da nubi, diventa, veramente, paesaggio d’anima.

 

Un paesaggio bisogna contemplarlo con la mente sgombra da altri interessi. Tu lo vedi trasfigurarsi. Muta volto, assume il colorito del tuo animo, diventa cosa tua. E tu senti il tuo piccolo mondo dilatarsi, divenire immenso quanto l’orizzonte.

 

Testo tratto da Un Gattopardo del Nord, a cura di Silvio Raffo e Linda Terziroli, Pietro Macchione Editore. Il libro raccoglie gli interventi dei diversi studiosi al premio Morselli per romanzi inediti, tra cui Valentina Fortichiari, prima e storica conoscitrice dell'opera dello scrittore varesino, Giordano Bruno Guerri, Gianfranco de Turris, Giuseppe Curonici, Fabio Pierangeli, Alberto Buscaglia.

 

Foto: Antonio Armano