Atlante

Alessandro Uras

Dottore di ricerca in Storia, istituzioni e relazioni internazionali dell’Asia e dell’Africa moderna e contemporanea, è attualmente cultore della materia presso la cattedra di storia e istituzioni dell’Asia, dipartimento di scienze sociali e delle istituzioni, Università di Cagliari. I suoi principali interessi di ricerca spaziano dall’analisi delle dispute marittime in Asia orientale all’evoluzione del regionalismo nell’area. Attualmente la sua ricerca si focalizza sull’analisi di nazionalismo e patriottismo marittimo in Cina.

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La rinnovata strategia USA nel Mar Cinese Meridionale

Le contese acque del Mar Cinese Meridionale ritornano a scaldarsi, dopo il comunicato stampa rilasciato dal segretario di Stato americano Mike Pompeo in data 13 luglio. Infatti, nonostante la più che ovvia avversione verso le mire egemoniche di Pechino nella regione, Washington non era mai andata oltre alcuni generici riferimenti alla tutela della libertà di navigazione e al sostegno verso i propri alleati in Asia sud-orientale. Oltre a ribadire la necessità di un Indo-Pacifico libero, la principale rottura rispetto alla linea dell’ex segretario di Stato Leon Panetta riguarda l’approccio verso le rivendicazioni territoriali cinesi: la dichiarazione di Pompeo le affronta in maniera molto diretta, definendole «illegittime, così come il bullismo che ha contraddistinto la strategia per mantenerne il controllo». A sostegno di questa posizione Pompeo cita l’ex ministro degli Esteri cinese, Yang Jiechi, che nel 2010 affermò che il fatto che «la Cina è un grande paese e gli altri sono piccoli paesi, è semplicemente la realtà dei fatti», e ufficializza l’allineamento statunitense alla sentenza della Corte permanente di arbitrato dell’Aja, che nel 2016 giudicò le rivendicazioni cinesi prive di qualsiasi fondamento giuridico. Il comunicato si chiude in maniera molto forte, annunciando che «il mondo non permetterà a Pechino di trattare il Mar Cinese Meridionale come se fosse il suo impero marittimo».

Le decise parole del Dipartimento di Stato portano in dote molte chiavi di lettura e interpretazione: come suggerito da diversi analisti, questa è sì una decisione che può inserirsi nel più ampio confronto tra Stati Uniti e Repubblica Popolare, ma ha alla base questioni già navigate e rappresenta più una prosecuzione dello scontro tra due vision diverse nella regione dell’Asia Pacifico. Libertà di navigazione o ingerenza negli affari domestici di uno Stato sovrano? Il pomo della discordia, non solo concettuale, è sempre ascrivibile alle diverse gradazioni di egemonia che i due Stati pongono su se stessi e sul contendente: cosa si può e cosa si vorrebbe controllare. In questo senso, una delle principali preoccupazioni americane riguarda la presunta volontà cinese di appropriarsi di giacimenti e risorse offshore rilevati nell’area contesa. Basti pensare alla crescente assertività cinese verso il Vietnam vista l’anno scorso, o quella più recente nei confronti del piccolo Brunei, che ha di fatto convinto un contendente altrimenti silenzioso ad unirsi al coro di denuncia verso il bullismo cinese.

Ma la reale portata innovativa del riposizionamento marittimo di Washington sta nella scelta di legarsi alla dimensione giuridica del contenzioso, solitamente prerogativa degli avversari regionali della Cina. Pompeo accusa Pechino di non avere nessun diritto di imporre unilateralmente la sua volontà nella regione, oltre a non aver mai fornito una coerente documentazione legale per giustificare la famigerata “linea a nove tratti” (U-shaped line) che racchiude il dominio marittimo cinese.

Sebbene rappresenti un’evoluzione nella postura regionale statunitense, ciò non significa che sia un passo risolutivo, e anzi si potrebbe parlare di mezzo passo avanti, dato che non risolve alcune ataviche questioni sul contenzioso. La Repubblica Popolare Cinese è indubbiamente il catalizzatore della vicenda e delle attenzioni degli altri attori internazionali, ma non è di certo l’unico Stato a porre delle rivendicazioni territoriali. E spesso viene tralasciato che gli altri contendenti non sono in contenzioso solo con Pechino, ma anche tra di loro. In questo senso, gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di entrare nel campo minato della sovranità territoriale: Washington si limita a ribadire che le rivendicazioni cinesi non hanno nessun fondamento giuridico, ma ciò non implica che quelle filippine, vietnamite, o malesi, acquisiscano automaticamente valore. Anzi, non vengono mai nominate. Quindi è più che plausibile che Washington manterrà questo storico agnosticismo su chi possa avanzare diritti di sovranità nel Mar Cinese Meridionale.

Come accennato in precedenza, tale decisione non risponde solamente alla tutela degli interessi statunitensi nella regione, ma è anche un ulteriore tassello del complesso confronto sino-americano portato avanti sia dall’amministrazione Trump che dalla leadership di Xi. Sarà quindi particolarmente interessante vedere la risposta cinese, oltre alle rituali lamentele, anche alla luce dei precedenti degli scorsi mesi. Il comunicato del Dipartimento di Stato, infatti, arriva poco dopo la prima esercitazione congiunta di due carrier strike group, la più completa formazione navale della Marina americana, nel Mar Cinese Meridionale. La somma delle parti potrebbe convincere la Cina a cambiare approccio nel gestire la presenza marittima e le attività militari degli Stati Uniti, già criticati e accusati di aver militarizzato la regione. Di conseguenza, la People’s Liberation Army Navy (PLAN) e la guardia costiera potrebbero presto ricevere ordini più aggressivi verso la libera navigazione delle imbarcazioni americane.

Alcuni analisti pensano che le parole di Pompeo porteranno ad un’escalation militare tra le due potenze, altri pensano che rappresentino l’ennesimo tentivo di Trump di usare il China bashing, a maggior ragione con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali. Entrambe le visioni sono forse estreme, soprattutto considerando l’intensità a cui ci ha abituato il contenzioso del Mar Cinese Meridionale. Ciò che appare chiaro è che questa dichiarazione non rappresenta un’estemporanea trovata di Pompeo e dei falchi dell’amministrazione Trump, ma è il risultato di una visione strategica che non potrà che perdurare nei prossimi anni, a prescindere da chi siederà alla Casa Bianca nel prossimo futuro.

 


Immagine: Navi della Marina nell’Oceano Pacifico durante un carrier strike group. Crediti: AlejandroCarnicero / Shutterstock.com

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Corea del Sud, la burrascosa estate di Yoon Suk-yeol

 

L’estate che si avvia verso la sua conclusione è stata particolarmente complessa per il governo sudcoreano, guidato dal presidente Yoon Suk-yeol, che si è spesso trovato tra il martello delle critiche interne, con un indice di gradimento in costante declino, e l’incudine delle pressioni da parte degli alleati internazionali, in primis Giappone e Stati Uniti, desiderosi di proseguire verso una nuova strada nei rapporti regionali. La pressione sull’esecutivo sudcoreano, in carica ormai da più di un anno, è stata consistente sin dal suo insediamento, e le promesse fatte da Yoon in campagna elettorale non sempre hanno avuto riscontro nella realtà, limitando la sua capacità di consolidare il consenso popolare.

Il gradimento del 60% ottenuto nella settimana dell’insediamento non è stato mai più riavvicinato, e questo ha costantemente oscillato tra il 48% e il 30%, con due distinte occasioni nelle quali si è addirittura scesi sotto tale soglia minima. Le principali critiche mosse al governo del People Power Party (PPP) sono principalmente rivolte alla postura diplomatica del Paese e all’inconsistenza nel risolvere le sempre più pressanti problematiche interne, soprattutto per quanto riguarda economia, occupazione e servizi al cittadino. L’ultimo sondaggio dell’agenzia di stampa Yonhap vede l’indice di gradimento di Yoon Suk-yeol al 38%, dato motivato principalmente da una generale insoddisfazione verso la gestione dell’economia e il benessere della popolazione, tematiche che per la prima volta hanno scavalcato la politica estera e la sicurezza nazionale. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 2,8%, una percentuale bassa in termini assoluti, ma la creazione di nuovi posti di lavoro, che è stata particolarmente rallentata dalla contrazione dei consumi interni e dal maltempo, ha toccato un minimo che non veniva raggiunto da più di due anni.

Per quanto riguarda la politica estera, i sostenitori di Yoon hanno particolarmente apprezzato il rafforzamento della partnership strategica con gli Stati Uniti e il costante tentativo di riavvicinamento con il Giappone, così come una posizione sempre più assertiva verso Corea del Nord e Cina. Il rovescio della medaglia è che queste stesse motivazioni rappresentano anche le principali critiche verso il governo, accusato di inasprire le tensioni geopolitiche e condizionare gli interessi nazionali sudcoreani a quelli di Washington e Tokyo. Ciò nonostante, lo stretto rapporto instaurato con il presidente americano Joe Biden e la volontà di rafforzare il ruolo strategico della Corea in Asia orientale sono probabilmente le principali ragioni che tengono a galla il governo del PPP.

Si pensava che il successo del meeting trilaterale di Camp David, tenutosi lo scorso 18 agosto tra Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti, avrebbe potuto portare in dote un nuovo balzo di popolarità. D’altronde, Yoon si è sistematicamente rivolto all’alleato statunitense per aumentare il suo prestigio (come promesso in campagna elettorale), e le sue visite a Washington e la partecipazione a grandi eventi internazionali, come il G7 e il G20, gli hanno permesso di recuperare consensi. Una situazione che rappresenta un proverbiale win-win per tutti gli attori coinvolti, dato che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a creare meccanismi di dialogo e cooperazione duraturi tra i tre Paesi, e possibilmente integrarli nelle iniziative più caratterizzanti del progetto Indo-Pacifico, come il Quad (Quadrilateral Security Dialogue) e l’AUKUS.

Il risultato più rilevante emerso dal meeting di Camp David riguarda il riconoscimento ufficiale degli interessi di sicurezza condivisi che legano, in maniera quasi indissolubile, Giappone e Corea del Sud e le rispettive alleanze con gli Stati Uniti. Sebbene non si sia ancora giunti al grande obiettivo di Washington, ossia un vero e proprio accordo di sicurezza collettiva che vincoli Tokyo e Seoul, la comunicazione di un intento condiviso nel rispondere alle sfide regionali, le provocazioni e le minacce che colpiscono gli interessi e la sicurezza collettiva è già di per sé un risultato considerevole. Nello specifico, queste minacce e sfide comuni non possono che rispondere alla Corea del Nord, che minaccia l’esistenza stessa dei due Paesi, alla Russia, che minaccia l’ordine internazionale con le sue azioni unilaterali, e alla Cina, sebbene in termini meno ambigui nonostante la sua natura revisionista. Ma le difficoltà intrinseche al rapporto tra Corea del Sud e Giappone, nelle quali Pechino è particolarmente abile a inserirsi, non sono tardate ad emergere. In questo specifico caso, il motivo della discordia è stata la decisione del governo Kishida di sversare in mare le acque contaminate provenienti dalla famigerata centrale nucleare di Fukushima. Questa decisione ha scatenato gli internauti cinesi e, in misura inferiore, sudcoreani, che accusano il Giappone di pensare solamente ai propri interessi senza considerare le conseguenze per gli altri Paesi. Un’accusa che di certo non suona come una novità, ma che ciclicamente riappare per condizionare i progressi tra il Giappone e i suoi vicini.

Sulla scia dell’evidente sintonia raggiunta nel Maryland, Yoon Suk-yeol si è esposto in difesa della decisione presa dal suo omologo giapponese, con risultati decisamente prevedibili. La risposta interna è stata infatti di estremo disaccordo e sdegno, con la percezione che gli interessi coreani vengano sacrificati a quelli giapponesi, e questa débâcle potrebbe aver completamente annullato i risultati positivi raggiunti nel trilaterale americano, oltre a influenzare le prossime elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale, che si terranno nell’aprile 2024. Anche il primo ministro giapponese Kishida è stato aspramente criticato da alcuni esponenti del mondo industriale, principalmente in campo ittico e marittimo, che temono un boicottaggio delle merci giapponesi in Cina e Corea del Sud.

I risultati delle decisioni prese da Yoon, e della sua postura internazionale in generale, saranno evidenti tra qualche mese, quando però potrebbe essere già troppo tardi per riconquistare il terreno perduto in questa complessa estate.

 

Immagine: Yoon Suk-yeol, presidente della Corea del Sud (12 luglio 2023). Crediti: Gints Ivuskans / Shutterstock.com

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India, Giappone e la guida di una nuova era in Indo-Pacifico

 

Il binomio tra India e Giappone sfugge spesso agli onori della cronaca, principalmente per la sorte comune di avere a che fare con ingombranti alleati, come gli Stati Uniti, e rivali, come la Cina. Queste triangolazioni con le due superpotenze globali hanno spesso impedito di cogliere determinate sfumature nel rapporto tra i due Paesi e l’importante ruolo che questi possono svolgere nel futuro della regione Indo-Pacifico.

Tokyo e New Delhi godono di un rapporto saldo e duraturo, frutto di una partnership strategica pluridecennale che si è ulteriormente consolidata negli ultimi mesi. Nello scorso marzo il primo ministro giapponese Fumio Kishida, infatti, ha scelto la visita in India e il bilaterale con Narendra Modi, suo corrispettivo indiano, per presentare la sua visione di un Indo-Pacifico libero e aperto. La scelta non è stata assolutamente casuale, dato che il primissimo passo di questo processo venne mosso proprio in India da un altro primo ministro giapponese, Shinzo Abe, che nel 2007 parlò della necessità di congiungere le forze e i destini dei popoli dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico durante un discorso al Parlamento indiano.

Kishida non si è particolarmente distanziato dall’idea originaria del suo importante predecessore, ma non si è neanche limitato a una pedissequa ripetizione: la volontà giapponese è quella di superare la creazione di un ponte tra due oceani che condividono l’idea di difendere l’attuale ordine internazionale, lo Stato di diritto, la libertà di navigazione e i valori democratici. Oltre questi capisaldi, Kishida ha sottolineato l’importanza dell’inclusività e dell’apertura, intese come opportunità di aprire le porte del gruppo e mantenere aperto il dialogo verso altri Paesi che non rispecchiano esattamente l’identikit richiesto. Il riferimento alla Cina è abbastanza chiaro, e per certi versi la volontà di Kishida sarebbe quella di coinvolgere Pechino per fugare definitivamente le voci che vedono l’iniziativa nata in funzione di contenimento anti-cinese. Ma anche per guadagnare credibilità agli occhi del Sud globale e dei Paesi che si trovano nelle tre regioni chiave per raggiungere una partecipazione veramente ampia, ossia Asia meridionale, Asia sudorientale e le isole del vasto Oceano Pacifico.

La volontà di affrontare le nuove sfide poste alla sicurezza regionale e globale, come il cambiamento climatico, la tutela della salute pubblica e la corsa agli armamenti, in modo realistico e pragmatico, riprendendo per certi versi l’ASEAN Way, rappresenta un punto di partenza ideale per questa “strategia di espansione”. In sostanza, ampliando il focus dell’iniziativa e superando i limiti della sicurezza interna e della territorialità, Kishida ha aumentato le possibilità di successo del progetto Indo-Pacifico nel gruppo ASEAN e nel Sud globale.

Ed è qui che entra in gioco l’India, storico rappresentante del Sud del mondo e partner ideale per rispondere direttamente alle preoccupazioni dei Paesi in via di sviluppo. All’inizio dell’anno l’India ha ospitato il Global South Summit, un evento che aveva l’obiettivo di creare consapevolezza e fornire un megafono globale sulle necessità e gli interessi del Sud del mondo. Il Global South Summit si inquadra all’interno dell’agenda che l’India ha deciso di portare avanti come guida del G20, con la sua presidenza che si concluderà con il Summit di Delhi programmato per inizio settembre.

India e Giappone intendono presentare l’Indo-Pacifico come futuro fulcro geopolitico ed economico del mondo e vettore di prosperità condivisa, ribadendo la necessità di difendere la pace a tutti i costi e condannare l’uso della forza per minacciare l’integrità e la sovranità territoriali. Inoltre, i due governi hanno già dimostrato con i fatti di meritare le proprie credenziali di capofila e le grandi possibilità offerte da un libero e aperto Indo-Pacifico: Tokyo ha investito in maniera decisa nelle principali aziende indiane e ha fissato un target di 5 trilioni di yen in investimenti pubblici e privati nei prossimi 5 anni. I settori nei quali si è concentrata la cooperazione includono l’alta velocità ferroviaria, per il quale è stato recentemente firmato un accordo da 300 miliardi di yen per il potenziamento della rete ferroviaria indiana, la creazione di energie pulite e rinnovabili, l’infrastruttura cloud e l’annesso know-how tecnologico, così come l’accordo con Indian Institute of Science per lo studio sulle smart city.

L’esempio di cooperazione e integrazione economica di Tokyo e New Delhi potrebbe diventare l’ideale biglietto da visita per presentare gli effetti benefici di un sistema economico libero e aperto. Il Giappone si presenta come sostanziale capofila del Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), progetto nato dalle ceneri del Trans-Pacific Partnership (TPP) dopo l’abbandono degli Stati Uniti, che mira a diventare la più grande area di libero scambio a livello globale e fornire un sistema di accesso ai mercati regionali, che però da solo non può essere sufficiente per sostenere le necessità, soprattutto infrastrutturali, dell’Indo-Pacifico. Nonostante il Giappone rappresenti la principale fonte di investimenti diretti esteri della regione, il suo sforzo deve essere accompagnato dalla capacità di attrarre capitali, soprattutto privati, da altri attori interessati alla crescita del sistema Indo-Pacifico, come Stati Uniti, Australia, Corea del Sud, ma anche Unione Europea. Il consolidamento e l’ulteriore messa in sicurezza di fondamentali rotte commerciali come quella tra Dhaka e Da Nang, così come la sicurezza e la transizione energetica potrebbero certamente rappresentare dei punti di interesse comune in grado di smuovere dei capitali verso i progetti nippo-indiani.

Il 2023 si presenta come un anno particolarmente importante per il destino del progetto Indo-Pacifico, così come per stabilire che ruolo Giappone e India saranno in grado di svolgere. Tokyo e New Delhi hanno aperto l’anno alla guida, rispettivamente, del G7 e del G20, mostrando una sicurezza e una comunità di intenti che raramente sono apparse così solide. Sarà loro compito convincere, una volta per tutte, i partner internazionali che l’Indo-Pacifico sarà il nuovo epicentro economico globale, una calamita dalla quale è meglio lasciarsi attrarre il prima possibile.

 

Immagine: Da sinistra, Narendra Modi e Fumio Kishida nella sede del Quad Leaders’ Summit, Tokyo, Giappone (24 maggio 2022). Crediti: YashSD / Shutterstock.com

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La grande sorpresa delle elezioni in Thailandia

Lo scorso 14 maggio si sono svolte quelle che, probabilmente, passeranno agli annali come le elezioni più importanti della storia recente della Thailandia. Infatti, in questa tornata elettorale è stato ancora più tangibile il completo distacco tra una sempre più corposa porzione della società civile thailandese e l’élite politico-militare che governa il Paese, spesso grazie alla forza delle armi, da anni. Partiamo dall’eclatante risultato offerto dalle urne: il principale partito di opposizione, il Move Forward (Phak Kao Klai) del giovane Pita Limjaroenrat, ha vinto le elezioni ed è la prima forza politica del Paese con 151 seggi. A seguire il favorito della vigilia e il partito che più ha sofferto le ingerenze dei militari negli ultimi decenni, ossia il Pheu Thai di Paetongtarn Shinawatra, figlia maggiore di Thaksin, con i suoi 141 seggi. Si può invece parlare di totale disfatta per Prayuth Chan-ocha, alla guida della Thailandia dal 2014, come golpista prima e presidente poi. La sua coalizione di partiti conservatori e pro-giunta ha raccolto un totale di 146 seggi, meno di quanto ottenuto dal solo Move Forward: il Bhumjaithai ha ottenuto 71 seggi, il Palang Pracharath del veterano Prawit Wongsuwan 41 seggi e il partito personalista guidato proprio da Prayuth, il Ruam Thai Sang Chart, ha raggranellato solamente 36 seggi.

 

La ricetta di Pita per raggiungere questo risultato si è basata sulla promessa di un innalzamento dei salari, soprattutto per quanto riguarda le fasce più disagiate, la creazione di un ambiente fertile per le piccole e medie imprese, principalmente attraverso una minore imposizione fiscale, e una modernizzazione del sistema educativo, considerato arretrato rispetto ai target estremamente competitivi della regione. Pita ha inoltre accusato Prayuth di essere troppo lassista in politica estera, appoggiandosi su Cina e Stati Uniti a seconda dell’occasione e dimenticando il fondamentale ruolo diplomatico che Bangkok ha storicamente svolto nell’Asia sudorientale e all’interno dell’ASEAN.

 

Sebbene la volontà popolare sia di difficile fraintendimento, questo risultato non implica automaticamente il tanto agognato cambio di passo democratico, poiché l’esercito e la monarchia hanno esteso un controllo tentacolare sugli organi che dovranno tradurre il risultato elettorale. Infatti, buona parte dei membri della Commissione elettorale, che ha il compito di ratificare il risultato delle elezioni, dei giudici della Corte costituzionale e dei senatori, che hanno un ruolo attivo nella scelta del primo ministro, sono stati nominati dalla giunta militare. Senza dimenticare il sovrano, che ha sostanzialmente la capacità di influenzare il destino di qualsiasi governo, che dovrà necessariamente ottenere il suo sostegno.

In questo senso, Pita è perfettamente consapevole del fatto che il risultato elettorale non è sufficiente, così come non lo è la possibilità di formare una coalizione con il Pheu Thai per ottenere i 376 voti necessari per governare il Paese. Proprio le elezioni del 2019, passate alla storia per la legittimazione elettorale di Prayuth, rappresentano un doloroso promemoria a riguardo. Ma la vittoria del Move Forward è troppo netta per non essere fiduciosi, e Pita deve incarnare il ruolo del leader pronto a tutto per portare la Thailandia fuori dalle sabbie mobili militariste.

Uno dei principali punti della campagna elettorale del Move Forward, però, potrebbe diventare un boomerang nel complicato rapporto con il Senato, ossia la volontà di riformare la sezione 112 del codice penale thailandese, il reato di lesa maestà, punibile con 15 anni di reclusione. L’intransigenza di Pita sull’argomento, così come le aspre parole usate in campagna elettorale, dovranno obbligatoriamente essere mitigate per raggiungere l’obiettivo: infatti, diversi senatori hanno già dichiarato pubblicamente che non sosterranno mai il Move Forward e la sua coalizione per il dispregio mostrato verso la monarchia e ciò che rappresenta per la Thailandia. Il pericolo principale derivante da questo apparentemente inconciliabile scontro è che il Pheu Thai, principale alleato di coalizione del Move Forward, possa decidere di andare avanti da solo ed esplorare nuove strade: per esempio, fornendo l’assist a Prayuth in cambio della grazia verso Thaksin, ormai settantatreenne e in esilio forzato, causa mandato di arresto per corruzione, dal 2008. Sebbene la famiglia Shinawatra sia la principale vittima politica della costante ingerenza politica dell’esercito, nonché della sua tendenza verso il colpo di Stato, questa possibilità non può essere di certo esclusa e dovrà per forza far riflettere Pita.

Un altro grande ostacolo è rappresentato dalla Commissione elettorale, che nei prossimi mesi dovrà esprimersi sulla validità del voto e ratificarne il risultato. In questo lasso di tempo tante cose possono cambiare, e non necessariamente per il meglio: la precedente espressione politica del Move Forward, ossia il Future Forward (Phak Anakhot Mai), vide vanificato dalla Commissione il grande successo ottenuto alle elezioni del 2019, dove fu la terza formazione più votata. Dopo un’accusa di finanziamento illecito, nel febbraio del 2020 la Corte costituzionale sciolse il partito e alla sua leadership fu inibita qualsiasi candidatura politica per i successivi dieci anni. Una simile nube potrebbe addensarsi anche sul capo di Pita a causa del suo coinvolgimento in un emittente televisiva, sebbene defunta, posseduta dal padre. Infatti, la legge elettorale thailandese non consente nessun coinvolgimento nel mondo dei media ai candidati alla presidenza.

Gli innumerevoli precedenti, infine, non possono escludere a priori un nuovo intervento con la forza da parte dell’esercito, sebbene la maggior parte di analisti e osservatori la reputino come una possibilità remota. Un nuovo intervento militare, finalizzato a ribaltare per l’ennesima volta l’espressione del voto popolare, potrebbe avere la conseguenza di sancire la definitiva scollatura tra le istituzioni tradizionali thailandesi, esercito e monarchia in primis, e la società civile, che ha progressivamente rigettato il loro ruolo e la loro influenza nella vita politica del Paese. In questo senso, la scelta migliore potrebbe quindi essere quella di attendere gli sviluppi e garantire il regolare decorso dell’iter istituzionale. La promessa di non interferie nel processo democratico è stata già comunicata, ma questa venne fatta anche da Prayuth nel 2014 prima di prendere il potere.

 

Immagine: Pita Limjaroenrat con potenziali partner della coalizione, Bangkok, Thailandia (17 maggio 2023). Crediti: SPhotograph / Shutterstock.com

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L’inconciliabile geografia di Cina e India

 

In un momento in cui i riflettori sono puntati principalmente sulla partita strategica che la Cina sta giocando tra l’Ucraina e lo Stretto di Taiwan, con tanti dialoghi e visite ufficiali che si sono susseguiti ininterrottamente nelle ultime settimane, si è riacceso anche uno degli storici contenziosi in cui è coinvolta Pechino. Infatti, la tensione tra Cina e India è repentinamente tornata ad aumentare, dopo quasi due anni di tranquillità seguiti agli scontri che portarono alla morte di 24 soldati. Un’escalation preannunciata dalla recente decisione del ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, di aumentare lo stanziamento di truppe nel Ladakh, una regione himalayana contesa da Cina, India e Pakistan. Nel commentare questa decisione, Subrahmanyam ha ribadito come Pechino non abbia mantenuto la parola data nel 2020 e abbia continuato a rimpinguare le sue postazioni sul confine conteso, aspetto che rende la situazione ancora più volatile. Il ministro indiano ha inoltre sottolineato come non sia possibile tornare alla normalità, a meno che la Cina non faccia la sua parte e mostri piena volontà nel voler risolvere la disputa.

 

La risposta cinese non si è fatta attendere, e probabilmente non è stata quella che Subrahmanyam e lo Stato Maggiore indiano si attendevano. Lo scorso 3 aprile il ministero degli Affari civili ha diffuso un documento in cui viene modificato e standardizzato in mandarino, in maniera totalmente unilaterale, il nome di 11 città, luoghi e rilievi montagnosi all’interno di quello che Pechino chiama Tibet Meridionale. Al documento è stata allegata una mappa, in cui la zona contesa dell’Arunachal Pradesh è sostanzialmente inclusa nella giurisdizione della provincia cinese, così come alcune delle montagne rinominate. Questa decisione non rappresenta di certo una novità, anzi si pone in perfetta continuità con una consolidata strategia cinese, che vede usare questa sorta di politica cartografica e della toponomastica per ribadire la propria sovranità e minimizzare la posizione delle controparti: nel 2012 fece clamore il caso dei nuovi passaporti in cui la mappa della Cina comprendeva l’intero Mar Cinese Meridionale e le regioni contese con l’India, a cui proprio New Delhi rispose con la propria versione del confine.

 

Tornando ai giorni nostri, l’India ha ovviamente rifiutato qualsiasi legittimità del documento cinese e ha ribadito come l’Arunachal Pradesh sia, e sarà sempre, una legittima e inalienabile parte del territorio nazionale indiano. Il governo cinese non si è però fermato e, prendendo in prestito un’altra pagina dal manuale della disputa nel Mar Cinese Meridionale, lo scorso mercoledì ha annunciato la volontà di cambiare lo status amministrativo di due territori tibetani, Mainling e Cuona, che sarebbero assurti dal rango di contea a quello di città. Questo cambiamento è importante perché lo status cittadino permette, se non addirittura richiede, la creazione di un apparato burocratico e di sicurezza, con annessa costruzione di edifici governativi e caserme. La contea di Mainling è considerata un importante snodo strategico al confine tra i due Paesi, con una popolazione di circa 20.000 abitanti e un vasto territorio montagnoso attraverso cui passa la ferrovia che collega il territorio alla capitale regionale Lhasa, oltre essere dotato di un piccolo aeroporto. La contea di Cuona invece si trova in una zona più meridionale, al confine con il Buthan, e parte del suo territorio è tutt’ora occupato dall’India.

 

Come già accennato, in passato è accaduto qualcosa di simile nel Mar Cinese Meridionale: nel 2012 il Consiglio di Stato cinese decise autonomamente di conferire lo status di città-prefettura a Sansha City, un insediamento su Woody Island, nell’arcipelago delle Paracelso, conferendo alla città la giurisdizione su quasi 300 tra isole, avamposti e scogli e la quasi totalità della porzione marittima rivendicata dalla Cina. Questa decisione non ha assolutamente tenuto conto della posizione degli altri contendenti e, come accaduto anche in quest’ultima occasione, ha l’obiettivo principale di ribadire il predominio e la presunzione di sovranità cinese. Questo significa anche rafforzare la capacità di controllo sul territorio, quindi un maggiore flusso di risorse per costruire infrastrutture, formare personale e creare la classe dirigente in grado di mettere in pratica le disposizioni in arrivo da Pechino.

L’India però si trova in una situazione diversa rispetto agli Stati frontalieri del Sud-Est asiatico con cui la Cina condivide il contenzioso marittimo, e le possibilità che subisca passivamente le decisioni cinesi sono scarse. Il solido rapporto con gli Stati Uniti e il ruolo di Nuova Delhi nella più ampia strategia dell’Indo-Pacifico, ribadito dalla presenza nel quartetto del gruppo Quad (Quadrilateral Security Dialogue, cui aderiscono Australia, Giappone, India e Stati Uniti), le permettono di avere maggiori certezze e strumenti con cui fronteggiare la Cina. Per esempio, il Senato statunitense ha prontamente votato una risoluzione per riaffermare il sostegno al partner e il riconoscimento dell’Arunachal Pradesh come parte integrante dell’India. Questo rinnovato sostegno ha probabilmente inciso sulla decisione del ministro degli Interni, Amit Shah, di sfidare apertamente la Cina, recandosi nella provincia contesa per un breve comizio. L’accaduto è stato prontamente criticato dalla Repubblica Popolare Cinese ed etichettato come una violazione della sovranità cinese e l’ennesima dimostrazione che l’India non è interessata a creare una situazione di pace e tranquillità al confine tra i due Paesi.

Un progressivo coinvolgimento degli Stati Uniti nel contenzioso potrebbe avere conseguenze nefaste, allo stesso modo di quanto spesso preventivato nel caso in cui Washington decidesse di entrare nella disputa del Mar Cinese Meridionale. Proprio per questo motivo, è probabile che anche nel contenzioso himalayano la presenza statunitense possa essere più simile a un’ombra che aleggia sui contendenti. Una preoccupazione in più per la Cina, che in questo momento si trova a dover affrontare un numero di fronti “caldi” come mai visto nel recente passato.

 

Immagine: Struttura buddista e bandiere di preghiera, Tawang, Arunachal Pradesh, India. Crediti: Dhruba Jyoti Baruah / Shutterstock.com

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Tra Vietnam e Indonesia, un’intesa sul Mar Cinese Meridionale

 

La disputa marittima nel Mar Cinese Meridionale è solitamente caratterizzata da schermaglie, scontri tra imbarcazioni più o meno riferibili alle forze coinvolte, accuse dirette o velate e impasse politica. Un crogiuolo di trattative e negoziazioni diplomatiche tra Paesi che, nonostante tutto, condividono tanto e hanno bisogno l’uno dell’altro per riuscire a superare le innumerevoli sfide della contemporaneità. I tempi diplomatici all’interno del gruppo ASEAN (Association of South East Asian Nations), però, sono molto dilatati e spesso infruttuosi: basti pensare alle innumerevoli sessioni e infinite discussioni sul Codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale, che da ormai più di un ventennio tiene banco negli uffici dell’Associazione. Altre volte, invece, si riesce a raggiungere il traguardo dopo tanti anni di incontri e fumate nere, ed è questo il caso di Indonesia e Vietnam. Le due nazioni, tra i principali leader della regione del Sudest asiatico, hanno infatti raggiunto un accordo sulla delimitazione della rispettiva zona economica esclusiva (ZEE) dopo dodici anni di trattative. Un particolare che assume ancora più rilevanza se consideriamo che la lenta, ma costante, escalation nel contenzioso marittimo ha progressivamente portato l’Indonesia all’interno della disputa, prima come moderatore diplomatico e poi come attore politico sempre più coinvolto, sino a minacciare lo scontro, sia con Pechino che con Hanoi in più di un’occasione.

La porzione marittima contesa e discussa tra Vietnam e Indonesia riguardava sostanzialmente le acque circostanti le isole Natuna, nell’estremo sud del Mar Cinese Meridionale e la cui sovranità è indonesiana, particolarmente ricche di giacimenti di gas naturali. Come già accennato, la trattativa tra i due Paesi veniva portata avanti da diversi anni e andava oltre la ZEE: nel 2003, infatti, Hanoi e Jakarta trovarono un accordo sulle rispettive piattaforme continentali, e si supponeva che questo successo avrebbe fatto da apripista ad altri. A proposito è bene ricordare come il Vietnam fosse sostanzialmente un nuovo attore nel contesto ASEAN, dato che divenne membro dell’Associazione solamente nel 1995 e il suo retaggio era più quello di un avversario che di un partner. Le cose sono migliorate nel corso degli anni, sino alla firma del 22 dicembre scorso. Una data fortemente simbolica, come da tradizione diplomatica regionale, e che coincide con il quarantesimo anniversario della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS, United Nations Convention on the Law Of the Sea), considerata come una vera e propria bussola, politica e diplomatica, per dirimere disaccordi, contenziosi e dispute in maniera pacifica. La scelta di questa data non è solamente simbolica per l’anniversario che racchiude, ma anche perché Indonesia e Vietnam hanno deciso di attenersi in maniera categorica ai principi sanciti dalla dichiarazione UNCLOS. Una decisione che porta in dote un inequivocabile messaggio politico, sia verso gli attori regionali che hanno una diversa percezione del diritto del mare (la Cina) e sia verso la comunità internazionale nel suo complesso.

 

Grazie a questa decisione Indonesia e Vietnam hanno indubbiamente ottenuto legittimità politica, permettendo inoltre di ribadire i rispettivi diritti sovrani e rafforzare i propri interessi marittimi, senza sottovalutare lo sfoggio di rispetto e maturità, soprattutto considerando che i due Paesi sono stati spesso in forte disaccordo. L’adesione ai principi dell’UNCLOS, e quindi delle Nazioni Unite, per dirimere la contesa simboleggia questa nuova era di distensione e responsabilità, marcando ulteriormente la differenza rispetto ad altri contendenti più aggressivi e irredentisti. Inoltre, l’ufficializzazione dell’intesa presuppone anche l’ulteriore, e ufficiale, rifiuto delle rivendicazioni cinesi, dato che la famigerata U-Shaped Line di Pechino si spinge fino ai limiti delle piattaforme continentali dei due firmatari.

Procedendo verso una prospettiva più pragmatica, questa demarcazione permetterà a Jakarta e Hanoi di essere più incisive nel risolvere alcune problematiche relative a pratiche di pesca illegali, irregolari e non riportate, che hanno rischiato di incrinare i rapporti bilaterali negli ultimi anni. Prima della firma dell’accordo, le rispettive guardie costiere avevano già trovato un accordo informale che prevedeva un regolare scambio di comunicazioni e informazioni al fine di evitare incomprensioni e incidenti: una pratica virtuosa che non potrà che venire rafforzata e aprire le porte a nuovi progetti di cooperazione marittima.

Inoltre, la firma è stata indubbiamente facilitata dalla prospettiva di aumentare il volume degli scambi commerciali e un benessere economico condiviso. Arifin Tasrif, ministro dell’Energia di Jakarta, è stato infatti uno dei principali sostenitori dell’intesa, e il motivo è spiegato dal progetto che prevede l’inizio dell’esportazione del gas indonesiano verso il Vietnam attraverso il Tuna Block, un grande giacimento scoperto nel 2014 e particolarmente vicino alla zona contesa, entro il 2026. D’altronde il governo indonesiano ha recentemente approvato un investimento da circa 3 miliardi di dollari per lo sviluppo del giacimento, che dovrebbe arrivare all’apice della produzione nel 2027. Sebbene la sovranità della ricca zona marittima non fosse in discussione, la delimitazione ufficiale delle ZEE significa eludere una serie di problematiche tecniche e logistiche, come ad esempio i lavori di estrazione e il successivo trasporto delle materie prime.

Il successo di questa iniziativa potrebbe convincere gli attori coinvolti a espandere il proprio orizzonte e proporre accordi simili agli altri contendenti, in primis Filippine e Malaysia. L’idea di unire la bandiera dell’UNCLOS a quella dell’ASEAN è stata discussa per tanti anni, ma in passato non si è mai arrivati a un tale livello di cooperazione. Se gli Stati costieri dell’Asia sudorientale riuscissero a gestire le proprie dispute attraverso uno strumento riconosciuto a livello internazionale avrebbero anche la possibilità di acquisire maggiore potere contrattuale rispetto ad altre questioni, come ad esempio il Codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale. Solo il tempo potrà darci un riscontro sul reale impatto regionale dell’accordo tra Indonesia e Vietnam, ma i presupposti per un futuro di prosperità sono tangibili.

 

Immagine: La spiaggia di Mui Ne, Vietnam. Crediti: filmlandscape / Shutterstock.com

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Anno nuovo, vecchie ruggini nel Mar Cinese Meridionale

 

La disputa nel Mar Cinese Meridionale vive di alti e bassi, come tutti i conflitti a bassa intensità, e nel 2022 è stata progressivamente oscurata dall’evoluzione del conflitto in Ucraina e dalla crisi dello Stretto di Taiwan dello scorso agosto. Secondo alcuni analisti entrambi questi avvenimenti, per certi versi, avrebbero potuto innescare un effetto domino in grado di innalzare la tensione sino al punto di non ritorno. Questo nonostante la Cina abbia chiaramente e ripetutamente ribadito come la situazione ucraina non sia paragonabile a quella che caratterizza il contenzioso marittimo, sia prendendo in considerazione solamente Taipei che aggiungendo gli arcipelaghi meridionali, e che lo strumento diplomatico è l’unico adatto a risolvere la questione in maniera definitiva.

Ciò però non si è tradotto in un allentamento della presa da parte della Cina, che ha sicuramente indirizzato i suoi sforzi verso problematiche più impellenti (il fallimento della politica zero Covid, la galoppante inflazione e la crescita a livelli preoccupanti), ma non ha di certo lasciato campo libero agli altri contendenti. Infatti, nel 2022, si sono registrati incidenti con l’Indonesia e le Filippine, che vanno a sommarsi alla costante opera di costruzione di avamposti condotta da Pechino e da Manila, a cui si è poi unito anche il Vietnam. A questi però si aggiungono anche degli elementi di ottimismo, soprattutto per quanto riguarda il volatile rapporto tra Cina e Stati Uniti: l’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping, tenuto a margine del G20 di Bali, è arrivato in un momento particolarmente delicato e sembrerebbe aver riportato un minimo di serenità in un rapporto che ha toccato uno dei suoi minimi storici durante lo scorso anno. Il tenore di questa relazione non potrà che continuare a influenzare l’evoluzione della disputa nel Mar Cinese Meridionale, e l’agenda politica che sta seguendo l’incontro tra i due leader, soprattutto la probabile visita del segretario di Stato americano Antony Blinken, lascia presagire un 2023 di ulteriore distensione tra le parti.

 

Gli Stati Uniti sono un attore tanto rilevante quanto ambivalente all’interno del contenzioso marittimo. La presenza statunitense nella regione è ritenuta necessaria da alcuni contendenti, mentre altri ritengono che non faccia altro che esacerbare le tensioni e rafforzare l’irredentismo cinese. Le operazioni marittime portate avanti dalla Marina militare americana, chiamate Freedom of Navigation Operations (FONOPs), sono progressivamente diminuite sino a toccare il minimo (5) fatto registrare nel 2022, e questo potrebbe essere un altro fattore rilevante per il futuro del rapporto bilaterale e un catalizzatore di fiducia per il gruppo ASEAN. I membri dell’Associazione stanno infatti affrontando, su diverse gradazioni, gravi problemi interni, come la crisi economica, l’inflazione e l’ombra sempre più sinistra di una recessione globale, a cui certamente preferirebbero non aggiungere un’escalation militare nelle immediate vicinanze delle loro acque territoriali.

Il possibile riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti deve essere un’opportunità per l’ASEAN, in modo da consolidare il rapporto con entrambe le superpotenze e riproporsi come attore protagonista dell’iniziativa diplomatica. Nello specifico, il momento sembra decisamente propizio per riprendere le discussioni riguardo il tanto agognato codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale, il cui percorso verso una seconda bozza è ripartito nello scorso ottobre dopo essere stato sostanzialmente affossato dallo scoppio della pandemia. Anche Pechino ha bisogno di cavalcare il momentum e riproporsi con rinnovato vigore come potenza responsabile, desiderosa di pace e stabilità nella regione, ma anche immune da quelle che vengono considerate come delle ingerenze esterne. Ma è soprattutto l’ASEAN ad aver bisogno dell’assist diplomatico cinese, dopo che le cocenti delusioni archiviate nello scorso anno, in primis riguardo all’impotenza verso la crisi birmana, hanno fatto crollare la sua credibilità internazionale.

Il binomio tra competizione e cooperazione, declinato su molteplici campi, che caratterizza il rapportro tra Cina e Stati Uniti è tranquillamente applicabile alla situazione nel Mar Cinese Meridionale, ed è probabile che il 2023 non rappresenterà una cesura rispetto al passato: Washington continuerà con le sue esercitazioni marittime, coinvolgendo sempre di più i suoi partner regionali nel pattugliare e mantenere una presenza nelle acque contese, e Pechino denuncerà l’invasione del suo spazio e un coinvolgimento non richiesto da parte di un attore esterno.

 

Gli Stati Uniti, però, potranno contare su alleati sempre più vogliosi di fare la loro parte. Il Giappone di Kishida non ha solo aumentato in maniera considerevole il suo budget per la difesa, ma ha pure annunciato una strategia di sicurezza nazionale in totale controtendenza rispetto al passato. In questa sono infatti posti come obiettivi futuri la possibilità di colpire con degli attacchi preventivi e la dotazione di missili cruise, in modo da avere delle capacità offensive da affiancare alle consolidate posizioni difensive. Durante la conferenza stampa di annuncio, il primo ministro giapponese ha dichiarato di temere che le Forze di autodifesa possano non essere sufficienti a proteggere il Paese da minacce sempre più concrete. Il riferimento è ovviamente alla Corea del Nord, ma probabilmente si potrebbe estendere anche alla Cina. Sebbene la prospettiva di un Giappone così armato e assertivo non venga certo accolta con entusiasmo negli ambienti ASEAN, è altresì innegabile che possa fornire delle nuove opportunità di approccio alla diatriba. Gli Stati dell’Asia sudorientale, infatti, continueranno a cercare garanzie strategiche sotto l’ombrello dei partner extraregionali (Stati Uniti, Giappone, ma anche Australia), mantenendo allo stesso tempo il vitale rapporto economico che li lega a Pechino.

 

Immagine: Due navi militari nel porto del Mar Cinese Meridionale, Kaohsiung, Taiwan (27 febbraio 2017). Crediti: MOZCO Mateusz Szymanski / Shutterstock.com

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La Cina consolida la sua presenza in Medio Oriente

Sempre più osservatori propongono la Cina come una credibile alternativa agli Stati Uniti in Medio Oriente e, benché Pechino non punti dichiaratamente a soppiantare Washington, è altrettanto plausibile che l’obiettivo sia quello di consolidare la propria posizione, anche a discapito del competitor statunitense, soprattutto nei confronti dei suoi principali alleati nel Golfo. La recente visita di Xi Jinping in Arabia Saudita deve essere interpretata in quest’ottica, ed è proprio per questo motivo che ha avuto grande risalto sia nei media cinesi che in quelli internazionali.

Sebbene Cina e Arabia Saudita condividano una solida partnership sin dal 2016, Xi Jinping e re Salman hanno ritenuto che questo fosse il momento giusto per compiere il passo successivo nel rapporto bilaterale tra i due Paesi: i leader hanno infatti annunciato la volontà di espandere la partnership strategica con l’istituzione di un meeting tra i capi di Stato, con cadenza semestrale, oltre al corrispettivo upgrade delle interlocuzioni diplomatiche. In sostanza, Xi e Salman avranno una linea diretta per poter discutere celermente le diverse questioni di interesse comune.

Le parti hanno firmato un totale di 46 accordi e memorandum di intesa, e nella dichiarazione congiunta rilasciata lo scorso 9 dicembre viene enfatizzata la necessità di approfondire la cooperazione in tutti i campi, ma con particolare urgenza per quanto riguarda i settori tecnologico, energetico e della sicurezza. Oltre alla gestione del problematico terzo incomodo, ossia l’Iran: storico partner di Pechino e pericoloso antagonista di Riyad. In questo senso, le due parti hanno ribadito la volontà di lavorare assieme per garantire la natura pacifica del programma nucleare iraniano, oltre a mantenere un dialogo con Teheran riguardo alla non proliferazione nucleare e al mantenimento di una politica di buon vicinato, due questioni particolarmente care a Pechino e per le quali si è da tempo fatta garante per l’Iran.

Sono stati fatti importanti passi in avanti per quanto riguarda la cooperazione tecnologica, e durante l’incontro tra Xi e il principe Mohammad bin Salman, futuro governante del regno, sono state messe le fondamenta per una ricerca comune nel campo dell’intelligenza artificiale, oltre alla firma di un accordo con la multinazionale tecnologica Huawei per la fornitura di servizi di cloud computing. Una buona parte degli accordi citati in precedenza riguarda il settore energetico, ma con la prospettiva di allontanarsi progressivamente da un rapporto petroliocentrico: su forte richiesta di Riyad, e in virtù del progetto Vision 2030 che il regno sta portando avanti, è stato firmato un memorandum di intesa che prevede di incoraggiare gli investimenti diretti, in modo da diversificare la bilancia commerciale tra i due Paesi e sostenere le opere infrastrutturali che fanno da corollario alla Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino.

La cooperazione nel campo degli armamenti e della sicurezza è però l’argomento più dibattuto e con potenziali ramificazioni a livello globale. Voci di corridoio dicono che Riyad ha firmato un accordo da 4 miliardi di dollari al recente China International Aviation & Aerospace Exhibition di Zuhai. Non viene specificato per quale tipologia di armamenti, ma un’altra voce sempre più insistente dice che Cina e Arabia Saudita hanno iniziato un programma congiunto in campo missilistico da più di un anno. E la fonte di questa voce non sono altro che gli Stati Uniti, sempre più apprensivi riguardo l’evoluzione della situazione e la presunta avanzata cinese nel Golfo. Il rapporto tra la Casa Bianca e la famiglia Salman si è progressivamente deteriorato nel corso degli anni, soprattutto a causa dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi e del recente blocco alla produzione petrolifera deciso dai sauditi. Ma a prescindere dall’evoluzione del problematico rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita, il commercio negli armamenti tra quest’ultima e la Repubblica Popolare Cinese non è di certo una novità, risalendo a circa la metà degli anni Ottanta: spaventata dagli eventi della rivoluzione khomeinista e dalla successiva guerra tra Iran e Iraq, la monarchia saudita si rivolse a Pechino per acquistare venticinque missili balistici a medio raggio, principalmente per motivi di deterrenza. Spesso si dimentica come la Cina sia uno storico fornitore di armamenti, sebbene non di primissimo piano, e che ha un rapporto ormai consolidato con diversi Paesi mediorientali, tra cui appunto l’Iran. Come interpretare questo rapporto triangolare, che per certi versi ha spesso rappresentato un limite nella capacità cinese di conquistare i favori delle diverse monarchie del Golfo? Al momento sembra che la Realpolitik abbia preso il sopravvento, e sia Iran che Arabia Saudita abbiano accettato di condividere il rapporto, compresa la dimensione strategica, con Pechino. Così come non è pensabile una perfetta simmetria: Teheran sarà probabilmente infastidita dalla sempre più stretta partnership con i sauditi, mentre Riyad non ha probabilmente apprezzato l’accordo di partnership venticinquennale firmato l’anno scorso da Cina e Iran. In sostanza, entrambe sembrano accettare il rispettivo rapporto strategico, e la cooperazione militare, con la Cina finché questo si mantiene entro determinati limiti, senza sfociare in qualcosa di più formale e strutturato.

Sebbene diversi osservatori si aspettino una Cina sempre più coinvolta nelle questioni regionali del Golfo, è però probabile che queste aspettative non si concretizzeranno nel breve periodo. Pechino non mira a sostituire gli Stati Uniti come garante della pace e della sicurezza regionale, ma il suo scopo è quello di consolidare l’equilibrio diplomatico che caratterizza i suoi rapporti in Medio Oriente. E la sostanziale equidistanza, ma anche equivicinanza, tra Arabia Saudita e Iran potrebbe diventare un vero e proprio paradigma di questa postura.

 

Immagine: Xi Jinping (18 novembre 2022). Crediti: SPhotograph / Shutterstock.com

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La lunga coda delle elezioni malesi

Dopo più di due settimane di attesa, caratterizzate da negoziazioni e udienze, la Malaysia ha finalmente il suo nuovo primo ministro: si tratta di Anwar Ibrahim, storico leader delle opposizioni moderate che ha alternato la sua pluridecennale carriera politica e il suo attivismo tra la piazza e la prigione. Figura carismatica e apprezzato per essere un moderato, portatore di un Islam liberale e democratico, è stato processato e condannato per presunta corruzione e sodomia in più di un’occasione. L’ultima sentenza venne emessa nel 2015, ma neppure questo enorme ostacolo riuscì a chiudere la sua carriera politica. Anwar riuscì comunque a candidarsi, da carcerato, alle elezioni del 2018 e guadagnarsi il suo posto in Parlamento, ottenendo anche il perdono reale e uscendo una volta per tutte dal carcere. Anwar probabilmente non pensava di diventare addirittura primo ministro solo quattro anni dopo la sua scarcerazione, sebbene abbia rincorso questo obiettivo per tantissimi anni e vi abbia dedicato la sua carriera politica. Ed è per certi versi un traguardo doppiamente insperato, se consideriamo il risultato elettorale dello scorso 19 novembre e le lunghe trattative che ne sono derivate: i 222 seggi che compongono il Parlamento, infatti, non sono mai stati così combattuti e si è presentata, per la prima volta nella storia del Paese, una situazione di stallo totale.

La coalizione guidata da Anwar Ibrahim, il Pakatan Harapan (PH), ha infatti conquistato il maggior numero di seggi, ma 82 parlamentari non sono di certo sufficienti per governare. Il principale rivale di Anwar si è rivelato essere l’ex premier Muhyiddin Yassin, a capo della coalizione ultraconservatrice Perikatan Nasional (PN), che ha ribaltato le previsioni precedenti la tornata elettorale e ha conquistato ben 73 seggi. A seguire arriva il grande sconfitto di queste elezioni, il Barisan Nasional (BN). Il partito che più di tutti ha caratterizzato l’esperienza democratica della Federazione Malese ha raccolto solamente 30 seggi: troppo pochi per proporsi come leadership di governo ma sufficienti per non concedere subito la sconfitta e provare a far valere il proprio peso politico, trasformandosi in ago della bilancia. Un’altra clamorosa sconfitta è stata quella del più conosciuto, longevo e rappresentativo volto (nel bene e nel male) della politica malese, ossia Mahathir bin Mohamad. Nonostante i 97 anni e un’eredità politica che non ha di certo bisogno di ulteriori successi, il Dottore ha deciso comunque di candidarsi, perdendo però il seggio contro la coalizione di Muhyiddin Yassin. Per la prima volta in 53 anni, il Parlamento sarà privo della sua presenza.

Il risultato finale è che sia il Pakatan Harapan che il Perikatan Nasional hanno rivendicato la vittoria e il diritto di formare un governo, corroborando la loro richiesta con il sostegno di altre forze politiche. Una situazione che ha condotto allo stallo politico e che poteva essere risolta solamente dal re. La Malaysia, infatti, rappresenta un’esperienza peculiare nel panorama politico regionale, essendo sia una monarchia parlamentare che una federazione. Di conseguenza, il ruolo di Yang di-Pertuan Agong viene eletto ogni 5 anni dalla Conferenza dei governanti, che scelgono tra i diversi sultani che guidano gli Stati malesi. Attualmente il sovrano è Abdullah, sultano di Pahang, che è stato eletto nel gennaio 2019. Re Abdullah è stato quindi chiamato a dirimere la questione, applicando il dettame costituzionale che gli consente di porre delle specifiche richieste ai partiti, come presentare il nome del loro candidato premier e accettare l’insindacabilità della sua decisione.

La scelta è infine ricaduta su Anwar, che è riuscito a convincere il sovrano con la sua grande esperienza politica e la promessa di creare un governo di unità nazionale. La coalizione guidata da Anwar, infatti, comprende al suo interno il Pakatan Harapan e lo storico rivale Barisan, oltre al Gabungan Rakyat Sabah (GBR), il Warisan e il Gabungan Parti Sarawak (GPS), partiti che si sono dati battaglia senza esclusione di colpi sino a pochi giorni prima della nomina.

 

Il nuovo governo dovrebbe presentarsi per il voto di fiducia in Parlamento il 19 dicembre, una formalità secondo diversi osservatori, e mantenere l’unità della strana coalizione è indubbiamente in cima all’agenda politica di Anwar, soprattutto tenendo in conto che il Paese è reduce da un periodo di forte instabilità, con quattro premier che si sono avvicendati in soli cinque anni. Un possibile elemento di incertezza è rappresentato dal congresso del Barisan, che si terrà pochi giorni dopo il voto di fiducia: infatti, alcuni esponenti dell’ala più conservatrice potrebbero attaccare il partito per essersi alleato con gli storici rivali del Pakatan Harapan. La necessità di avere un governo forte e duraturo è sempre più improcrastinabile, soprattutto per rassicurare i mercati e gli investitori internazionali, che hanno progressivamente perso fiducia verso Kuala Lumpur ma che sembrano credere molto in Anwar, oltre che per stabilizzare la traballante economia nazionale. Per il 2023 è attesa una crescita compresa tra il 4% e il 5%, in calo rispetto al 7% fatto segnare quest’anno, e le previsioni vedono una Banca centrale pronta ad aumentare ancora i tassi di interesse per fronteggiare la galoppante inflazione. Pochi giorni dopo aver ricevuto il mandato, Anwar ha dichiarato alla stampa che la priorità del suo governo sarà allentare la morsa dell’aumento dei prezzi, e che avrebbe presto incontrato le agenzie governative di settore per discutere le prossime misure. In questo contesto, è possibile che Anwar assecondi le richieste del Barisan e approvi una serie di aiuti monetari e sgravi fiscali per le fasce di popolazione più deboli. Una misura che sarebbe sicuramente ben accolta a livello interno, ma che probabilmente non verrebbe accettata allo stesso modo dal mondo finanziario.

Passando alla politica estera, non sono previsti particolari cambiamenti rispetto alla storica postura internazionale del Paese. La figura di Anwar, particolarmente riverito dal mondo occidentale per la sua passata militanza, ma anche rispettato dai vicini regionali, tra cui la Cina, non può che consolidare il ruolo di bilanciamento regionale giocato dalla Malaysia. Una delle prime domande rivolte al fresco primo ministro riguardava proprio la sua visione del rapporto con Pechino, e Anwar ha certamente ribadito la centralità del rapporto con la Cina, ma allo stesso tempo ha ricordato l’importanza delle relazioni con gli Stati Uniti, con l’ASEAN, con l’Unione Europea. Ciò non significa mettere tutti allo stesso piano, ma ribadire ulteriormente come la Malaysia rispetti i suoi partner e sia pronta ad ascoltare con attenzione qualsiasi interlocutore.

 

Immagine: Anwar Ibrahim parla durante la prima conferenza stampa dopo essere stato eletto decimo primo ministro della Malaysia, Kajang, Malaysia (24 novembre 2022). Crediti: Abdul Razak Latif / Shutterstock.com

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La strategia regionale dell’Australia di Albanese

Uno dei principali obiettivi del governo laburista guidato da Anthony Albanese è quello di riposizionare l’Australia sullo scacchiere regionale, consolidando il rapporto con alcuni partner e cercando invece di recuperarlo con altri, ad esempio la Cina. Infatti, l’Australia è un fondamentale membro del Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), nonché l’artefice del famigerato accordo AUKUS, che ha fatto andare su tutte le furie il presidente francese Emmanuel Macron e indispettito il leader cinese Xi Jinping. Sebbene questa sia più l’eredità del precedente governo australiano, guidato da Scott Morrison, ciò non significa che Albanese intenda distanziarsene, tutt’altro. Ma dovrà lavorare duramente per trovare un equilibrio nella politica estera di Canberra, mantenere salde le alleanze e creare delle nuove fondamenta con Pechino, far convivere il falco e la colomba.

Albanese è stato protagonista al recente G20 di Bali e, sebbene per certi versi oscurato da altri meeting, su tutti quello tra Joe Biden e Xi Jinping, il suo operato ha avuto particolare successo. Lo scorso 15 novembre, a margine del meeting dei leader, Albanese e Xi Jinping hanno avuto un proficuo incontro bilaterale, durante il quale hanno cercato di trovare un nuovo terreno comune per far ripartire il rapporto tra i due Paesi. La nota ufficiale del ministero degli Esteri di Pechino pone grande enfasi sulla necessità di superare le difficoltà degli ultimi anni e ridare slancio a un rapporto fondamentale per la Cina, che ha nell’Australia un partner storico. Infatti, sia Xi che Albanese hanno ricordato come quest’anno, esattamente nel mese di dicembre, cada il 50° anniversario dall’istituzione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi, e Canberra rappresenta uno dei primissimi passi compiuti da Pechino nel rapportarsi con il “Primo Mondo” ed entrare nella comunità internazionale. Pochi giorni prima dell’incontro di Bali, la ministra degli Esteri australiana Penny Wong, per metà malese di discendenza cinese, ha ricordato come il destino di Australia e Cina sia indissolubilmente legato, ma ciò non impedirà al governo australiano di agire e prendere decisioni in nome del proprio interesse nazionale, mantenendo salda la propria versione della One China Policy, dove Pechino gode del riconoscimento ufficiale e il rapporto con Taipei è al massimo informale.

Una forte presenza all’interno del QUAD rientra probabilmente nella tutela dell’interesse nazionale australiano, e in questo senso assume ancora più rilevanza l’approfondimento della cooperazione, soprattutto nel campo militare e della sicurezza, con il Giappone. Lo scorso mese di ottobre, infatti, il primo ministro giapponese Fumio Kishida si è recato a Perth in visita ufficiale, a margine della quale è stata rilasciata una dichiarazione congiunta sulla cooperazione in materia di sicurezza, che delinea un piano decennale in grado di condurre il rapporto bilaterale verso il futuro. Nel documento vengono indicati una serie di punti di particolare interesse per entrambi gli Stati, come per esempio la volontà di approfondire le capacità di contrattacco, particolarmente importanti per Tokyo dopo le recentissime esercitazioni missilistiche della Corea del Nord. Kishida e Albanese hanno ribadito la volontà di continuare a lavorare per migliorare l’interoperabilità, anche attraverso l’ampliamento dell’addestramento e del calendario delle esercitazioni congiunte. Proprio per approfondire l’interoperabilità con le forze australiane, è stato annunciato che le Forze di autodifesa giapponesi si recheranno in Australia settentrionale (probabilmente alla base di Darwin) per addestramento ed esercitazioni congiunte. Oltre all’enfasi sull’aspetto militare, la dichiarazione congiunta si sofferma anche sull’aspetto economico della questione: attraverso i meccanismi del QUAD e del Supply Chain Resilience Initiative, un accordo trilaterale tra Australia, Giappone e India lanciato durante la pandemia con l’obiettivo di sostenere le imprese e creare catene di approvvigionamento più forti e resistenti, soprattutto in settori chiave come quello tecnologico.

Per quanto riguarda la più ampia cooperazione nella regione dell’Indo-Pacifico, alcuni punti di particolare interesse riguardano il rinnovato sostegno alla centralità dell’ASEAN e alla sua architettura diplomatica, in primis l’ASEAN Regional Forum e l’East Asian Summit, così come il riconoscimento degli Stati Uniti come alleato fondamentale e l’apprezzamento per il rinnovato e forte contributo di Washington alla stabilità e alla prosperità nell’Indo-Pacifico. Vengono anche ribaditi la volontà di approfondire la cooperazione all’interno del QUAD, il supporto all’AUKUS e la necessità di rafforzare i legami con i partner europei, per rispondere alle numerose sfide e problematiche nella regione. Considerando come alcuni di questi meccanismi siano stati creati con il palese intento di contenere la Repubblica Popolare Cinese, la posizione dell’Australia è particolarmente complessa e di certo di non facile gestione. A differenza però del suo predecessore Scott Morrison, che optò per un approccio sostanzialmente conflittuale nei confronti della Cina, Albanese sembra avere un chiaro progetto per riposizionare l’Australia in maniera più equilibrata, ma senza mettere in discussione i suoi capisaldi di politica estera. Questo non deve necessariamente essere visto come un problema, dato che Canberra è un alleato statunitense di lunghissimo corso e questo non ha di certo impedito di coltivare una partnership fondamentale con Pechino, ma come un’opportunità. In questo senso, il riconoscimento del ruolo dell’ASEAN nella regione e la volontà di rafforzare il legame con l’Asia sudorientale rappresenta anche una potenziale apertura verso la Cina, che vede l’Associazione come un contrappeso fondamentale per limitare l’influenza degli Stati Uniti.

In questo momento sembra che Albanese stia giocando con grande destrezza le sue carte diplomatiche: mantenere salde le alleanze storiche e approfondire importanti rapporti strategici, come quello con il Giappone, e allo stesso tempo recuperare un rapporto fondamentale per il Paese come quello con Pechino. Una prospettiva sicuramente più equilibrata e, probabilmente, più rispondente alle complessità che hanno sempre caratterizzato la regione. Una regione dove l’Australia è determinata ad assumere un ruolo centrale.

 

Immagine: Anthony Albanese durante la commemorazione della regina Elisabetta II, Canberra, Australia (22 settembre 2022). Crediti: Wirestock Creators / Shutterstock.com

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Gli Stati Uniti rilanciano la tech war contro la Cina

Il perdurare della guerra tra Russia e Ucraina ha inevitabilmente catturato lo sguardo e le attenzioni di analisti, ricercatori e stampa internazionale, giustamente focalizzati su uno scenario così delicato. Parallelamente allo scontro armato si è continuato a consumare il grande duello della nostra epoca, che forse ha addirittura tratto nuova linfa dal conflitto. Stati Uniti e Cina, infatti, non sono solamente i due principali attori globali e portatori di due visioni della comunità internazionale pressoché agli antipodi, ma sono anche i principali partner rispettivamente di Ucraina e Russia. Sebbene Pechino non sostenga direttamente l’intervento russo, ma abbia anzi avuto da ridire in più di un’occasione, ha sposato la teoria dell’accerchiamento progressivo che Mosca imputa alla NATO.

Andando oltre le divergenze riguardanti lo scenario ucraino, il rapporto tra Cina e Stati Uniti ha probabilmente toccato uno dei suoi punti più bassi in questo 2022. L’elezione di Joe Biden nel 2020 portò una sorta di ottimismo per il futuro dei rapporti bilaterali, nonostante in campagna elettorale il nuovo presidente USA si fosse dimostrato particolarmente duro e aggressivo nei confronti di Pechino. In tanti pensavano che fosse principalmente una mossa per controbilanciare il China bashing di Donald Trump, protagonista di una guerra doganale che aveva sostanzialmente congelato i rapporti con Xi Jinping. La realtà è stata, ed è tutt’oggi, molto diversa: Biden non ha mai rimosso i dazi ereditati dalla precedente amministrazione, e ha progressivamente alzato il tiro e sfidato la Cina su diversi campi, tra cui quello delicatissimo di Taiwan.

L’ultimo capitolo di questa rivalità è stato scritto durante le scorse settimane, particolarmente significative per entrambe le potenze. Il 16 ottobre si è infatti inaugurato il XX Congresso del Partito Comunista Cinese, che ha scelto Xi Jinping per un terzo, storico, mandato e ha presentato al mondo la classe politica che guiderà il Paese nel prossimo quinquennio. Solo pochi giorni prima, esattamente il 12 ottobre, la Casa Bianca ha pubblicato uno dei suoi principali documenti programmatici, ossia la Strategia di sicurezza nazionale (NSS, National Security Strategy). Nelle 48 pagine che compongono il documento, la Cina viene descritta come principale rivale e minaccia per gli interessi degli Stati Uniti, molto più della Russia di Putin, confermando così l’assertività della dottrina Biden. Questa non si discosta poi in maniera così netta da quella dei suoi predecessori, presentando gli Stati Uniti come guida per rispondere alle sfide di un futuro sempre più incerto e per questo descritto come un «decennio decisivo» per Washington. Il competitor del futuro è inequivocabilmente la Cina, l’unica che potrebbe avere le risorse e le capacità per proporre un cambio di paradigma a livello internazionale.

Sempre secondo il documento americano, la competizione strategica si giocherà su diversi fronti, tra cui due in particolar modo: in primis, la capacità degli Stati Uniti di mantenere delle salde alleanze, sia in Europa che in Asia orientale, e magari stringerne di nuove, anche con Paesi che non necessariamente condividono l’idea di democrazia liberale di stampo occidentale. Infine, limitare e possibilmente bloccare il progresso tecnologico di Pechino attraverso una stretta sempre più serrata su materiali e approvvigionamenti. In questo senso, dopo una serie di misure preparatorie, il governo statunitense ha annunciato una sorta di lotta tecnologica senza frontiere contro Pechino. Il 7 ottobre, il Bureau of Industry and Security (BIS), ossia l’agenzia governativa che si occupa di tecnologia e sicurezza nazionale, ha rilasciato un documento su indicazione del ministero del Commercio nel quale viene ufficializzata una stretta senza precedenti verso la Cina per quanto riguarda la possibilità di esportare semiconduttori, i materiali utilizzati per la loro creazione, e addirittura assumere personale qualificato. Una decisione presa con un obiettivo ben preciso, ossia bloccare sul nascere gli sforzi cinesi per la creazione di una filiera tecnologica nazionale in grado di soddisfare, progressivamente, la fame di chip e semiconduttori di Pechino.

La risposta cinese è stata veemente; Pechino ha preannunciato forti contromosse nei confronti della controparte statunitense. Ed effettivamente, questa è una mossa senza precedenti che mette la Repubblica Popolare Cinese in difficoltà: si tratta di una situazione molto diversa dalle sanzioni mirate verso Huawei o la Semiconductor Manufacturing International Corp (SMIC), o dalle norme che impedivano alle aziende americane l’esportazione di specifici chip verso il mercato cinese. Alcune previsioni sulle potenziali conseguenze della decisione statunitense sono decisamente catastrofiche: un report di Fathom China, un team di ricerca interno all’agenzia di investimenti Gavekal Dragonomics, ha ipotizzato che le principali aziende cinesi nel settore verranno distrutte o fortemente danneggiate, e che nessuna compagnia nel campo della componentistica e dei semiconduttori, neppure tra quelle più periferiche, rimarrà indenne. La criticità della situazione è stata ulteriormente confermata da un report di Bloomberg, secondo il quale il ministero dell’Industria e Informazione tecnologica avrebbe tenuto una serie di incontri d’emergenza, a porte chiuse, con le principali realtà manifatturiere del settore, per avere un’idea più precisa degli effetti delle nuove misure statunitensi. Uno di questi incontri ha avuto come protagonista la Yangtze Memory Technologies Corp (YMTC), principale produttrice nazionale di chip per memoria flash, che ha ribadito al Ministero come il futuro della compagnia sia in grave pericolo.

 

Secondo diversi analisti, Xi Jinping ha voluto rispondere a Biden nel suo discorso d’apertura del XX Congresso. Xi ha infatti sottolineato l’importanza della “sicurezza” nelle sue diverse sfaccettature, tra cui la sicurezza della supply chain (la catena cliente-fornitore) e quella derivante dall’autosufficienza tecnologica. Ma il chiaro messaggio lanciato dal leader cinese, ossia la necessità di raggiungere in tempi brevi l’autonomia in settori chiave come quello della produzione di chip, pare scontrarsi con la realtà dei fatti, presente e probabilmente futura. Il suo discorso, oltre alla necessaria nota autarchica e propagandistica, sembrerebbe tradire una piena comprensione del fenomeno in atto e delle sue ramificazioni. Pechino rischia seriamente di pagare un prezzo pesantissimo e di aumentare ulteriormente il già consistente gap tecnologico con gli Stati Uniti. Le aziende cinesi avranno ben presto bisogno di una risposta, se desiderano rimanere sul mercato, e la produzione interna di componentistica non sarà di certo in grado in tempi brevi di compensare le perdite date dal blocco statunitense. Il terzo mandato di Xi si apre dunque con una nota dolente, sui cui la leadership cinese dovrà necessariamente focalizzarsi per raggiungere la tanto agognata sicurezza.

 

Immagine: Lavoratrici intente nella produzione di accessori per apparecchiature elettroniche, come circuiti stampati, in un’officina di un’impresa high-tech, Jiujiang, Cina (26 maggio 2021). Crediti: humphery / Shutterstock

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Un nuovo spazio per l’India tra Washington e Mosca

L’attuale contesto geopolitico globale è inequivocabilmente dominato dal confronto tra Russia e Ucraina, e le rispettive forze alleate o che orbitano attorno ai due belligeranti. Se i partner dell’Ucraina sono riconoscibili in maniera chiara e netta, per quanto riguarda Mosca la situazione è decisamente più sfumata: la Bielorussia è certamente un alleato sempre più coinvolto, in prima persona, nelle operazioni militari, così come l’Iran fornisce equipaggiamento e armamenti all’esercito russo. Proseguendo verso oriente si individuano altri due attori che condividono con la Russia idee e visioni per il futuro, al punto da stringere delle partnership strategiche, ossia la Repubblica Popolare Cinese e l’India. Se della presunta alleanza tra Cina e Russia, del perché Pechino non applichi delle sanzioni nei confronti di Mosca, del perché Xi Jinping non intenda (e possa) schierarsi apertamente a favore di Putin, si è parlato abbondantemente, non si può dire altrettanto sul ruolo di Nuova Delhi. L’India viene sistematicamente identificata come una realtà periferica rispetto alla Cina, le cui contraddizioni sistemiche la rendono quasi incapace di plasmare una propria strategia regionale.

La Federazione Russa è stata uno dei più consistenti partner strategici e diplomatici, e una Russia eccessivamente indebolita rappresenterebbe un problema nella creazione di un nuovo ordine multipolare promosso anche dall’India di Modi. Un altro problema è dato dalla difficoltà nell’interfacciarsi con gli Stati Uniti, che sono un altrettanto fondamentale partner strategico: la decisione di Washington (e di buona parte del mondo Occidentale) di legare a doppio filo Pechino e Mosca, visti come un binomio autoritario che minaccia l’ordine e la pace mondiale, non rispecchia necessariamente la posizione indiana. Il rapporto con la Russia è caratterizzato da amicizia e cordialità, mentre la Cina è una rivale sotto diversi punti di vista, nonostante in determinate situazioni i due colossi asiatici riescano a dialogare in maniera proficua. L’esempio più recente è la perfetta sinergia in sede di votazione alle Nazioni Unite, dove l’India si è sistematicamente astenuta dal condannare l’operato russo, nonostante le pressioni dei suoi partner occidentali (principalmente Stati Uniti e Francia). Le stesse pressioni che si sono rivelate vane nel tentativo di convincere il governo Modi a unirsi al concerto delle sanzioni unilaterali, ritenute uno strumento inefficace nel perseguire l’obiettivo della pace, oltre a rappresentare un altro particolare che accomuna l’approccio di Delhi a quello di Pechino.

Questo non allineamento ha permesso all’India di proseguire il proficuo rapporto commerciale con la Russia. Nel secondo trimestre del 2022 le importazioni sono aumentate del 370%, per un valore di circa 9,30 miliardi di dollari, mentre le esportazioni hanno visto una leggera flessione. La principale ragione di questo balzo è l’accordo petrolifero tra Modi e Putin, particolarmente vantaggioso per la crescente fame di risorse di Delhi. Una mossa che non è stata di certo accolta con favore da politici e analisti americani ed europei, che hanno sostanzialmente accusato il governo indiano di complicità e di favorire il ricatto energetico di Putin, oltre che finanziare indirettamente la sua guerra in Ucraina.

Per certi versi questo approccio rappresenta appieno l’ambivalenza indiana, che è perfettamente capace di partecipare al Quad (Quadrilateral security dialogue) promosso dagli Stati Uniti, in funzione del contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, ma non intende rinunciare alla ricerca della multipolarità, come dimostra la sua posizione riguardo il conflitto ucraino. Vedere l’India rifiutare la cieca adesione ai valori occidentali e cercare la propria strada non è di certo sorprendente, soprattutto se consideriamo che la più grande democrazia al mondo fa parte di organizzazioni e gruppi come il BRICS (il gruppo che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e la Shanghai Cooperation Organisation (SCO), riconosciuti come competitor, se non addirittura come avversari, dall’Occidente. Rimanendo in argomento BRICS, vale la pena ricordare come, all’inizio di quest’anno, Pechino, Mosca e Delhi abbiano deciso di stringere ulteriormente le maglie del loro rapporto all’interno del raggruppamento. Una delle principali ramificazioni di questo accordo è stata la partecipazione indiana al Vostok 2022, esercitazioni militari organizzate dalla Russia nell’estremo oriente del suo territorio che si sono svolte nella prima settimana di settembre, a cui ha preso parte una moltitudine di Paesi tra cui Cina, Bielorussia, Siria, Nicaragua, Myanmar. Non esattamente gli interlocutori preferiti degli Stati Uniti, che infatti si sono prontamente lamentati della decisione indiana. La portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, ha infatti dichiarato: «Gli Stati Uniti esprimono la loro preoccupazione per qualsiasi Paese che decida di esercitarsi con la Russia, mentre questa conduce una brutale guerra in Ucraina. Ma ovviamente ogni Paese prende le sue decisioni». Le esercitazioni tenute tra il Mar del Giappone e il Mare di Okhotsk hanno anche causato una forte reazione da parte giapponese, che le ha definite come una provocazione inaccettabile.

In questo modo l’India ha cercato di massimizzare i vantaggi di una situazione estremamente delicata, giocando la difficile partita diplomatica dell’equidistanza tra Washington e Mosca. E, per il momento, il punteggio è sicuramente favorevole a Delhi: nel corso dei mesi, infatti, c’è stato un sostenuto viavai di leader e figure di spicco, tra cui il primo ministro giapponese Fumio Kishida e l’allora premier britannico Boris Johnson, oltre al ministro degli Esteri cinese e al suo corrispettivo russo. Infine, un’ulteriore prova di indipendenza diplomatica da parte indiana è arrivata al recente summit di Samarcanda, dove Modi ha avuto parole critiche verso l’operato di Putin, soprattutto in relazione alla minaccia nucleare e alla prospettiva di una guerra di lunghissima durata, controbilanciando con l’astensione in sede ONU di fronte alla risoluzione di condanna riguardo i referendum di annessione tenuti nei territori ucraini. Che sono stati però definiti «profondamente inquietanti» da Ruchira Kamboj, rappresentante permanente dell’India alle Nazioni Unite.

Finché la Russia continuerà a tenere l’India in così forte considerazione, evitando di puntare tutto sull’alleato cinese, e gli Stati Uniti continueranno a vedere Delhi come un alleato fondamentale per il futuro del Quad e della strategia di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico, al punto da tollerare qualche presa di posizione non esattamente in linea con la propria dottrina, il governo Modi continuerà a essere un interlocutore privilegiato per i principali attori dello scacchiere internazionale e potrà mantenere un elevato livello di autonomia diplomatica e strategica.

 

Immagine: Da sinistra, Narendra Modi, Vladimir Putin e Xi Jinping, Goa, India (25 maggio 2019). Crediti: YashSD / Shutterstock.com

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Vecchi e nuovi problemi dopo l’ultimo test missilistico della Corea del Nord

 

Torna ad alzarsi la temperatura in Asia orientale dopo i recenti test missilistici effettuati dalla Corea del Nord. Durante la mattina del 4 ottobre, un missile balistico (inizialmente si pensava al famigerato Hwasong-12, ma successivamente la Commissione militare centrale nordcoreana ha dichiarato si trattava di un nuovo missile) è partito dal territorio nordcoreano in direzione del Mar del Giappone, sorvolando l’arcipelago nipponico e inabissandosi dopo un volo di circa 4.600 km. Quest’ultimo particolare lo renderebbe il lancio più lungo nella storia del programma missilistico di Pyongyang, oltre a essere il primo missile indirizzato verso i cieli giapponesi dal 2017.

Lo sfoggio di forza del regime nordcoreano non arriva completamente a sorpresa, ed è probabilmente una risposta alla massiccia esercitazione congiunta che Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone hanno compiuto durante gli ultimi giorni di settembre. Il 26 dello scorso mese l’imponente USS Ronald Reagan ha navigato verso le acque coreane, segnando la prima visita di una portaerei statunitense dal 2018, per prendere parte alla pianificata esercitazione con le truppe di Seoul. La fine dei test è coincisa con la visita nella capitale coreana della vicepresidente americana Kamala Harris. Il tempismo della Corea del Nord è raramente casuale, così come la decisione di rispondere in maniera così decisa a qualcosa che viene percepito come una provocazione da parte di Washington.

Il comportamento del regno eremita è stato condannato dalla quasi totalità della comunità internazionale. Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha prontamente stigmatizzato la sconsiderata provocazione di Pyongyang e ha promesso una decisa risposta da parte della Corea del Sud e dei suoi alleati, in virtù di una sfacciata e deliberata minaccia alla pace e alla stabilità regionale. Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha condannato fortemente tale atto di aggressione, per poi annunciare l’immediato contatto telefonico con il suo corrispettivo statunitense Joe Biden. I due hanno concordato la necessità di imprimere un’accelerazione per quanto riguarda le capacità bilaterali di risposta e deterrenza, così come la volontà di prendere in mano la situazione anche in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, assieme alla Corea del Sud, con l’obiettivo di raggiungere la completa denuclearizzazione della Corea del Nord. La Casa Bianca ha confermato la telefonata tramite Jack Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, e con una nota ufficiale, nella quale gli Stati Uniti riaffermano il loro totale impegno nel garantire la sicurezza degli alleati. Il test nordcoreano viene definito come una minaccia per il popolo giapponese, oltre a destabilizzare la regione ed essere in chiara violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU.

Non è tardato ad arrivare anche il commento di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, che ha espresso la sua solidarietà a Giappone e Corea del Sud per poi condannare il deliberato tentativo del regime nordcoreano di mettere a repentaglio la sicurezza regionale, con un atto di aggressione ingiustificabile. L’ultima voce a farsi sentire è stata quella cinese, solitamente ancora più prudente del consueto quando è coinvolto l’imprevedibile partner. Il ministero degli Esteri cinese ha pubblicato una nota dove si invita alla calma tutti gli attori coinvolti, ricordando che il dialogo e la diplomazia sono gli unici strumenti per risolvere i problemi che affliggono la penisola.

Stati Uniti e Corea del Sud, però, hanno deciso di far seguire i fatti alle parole e, il giorno dopo il test ordinato da Kim Jong-un, hanno organizzato un’esercitazione con focus specifico sui bombardamenti di precisione. La scelta è caduta sugli MGM-140 Army Tactical Missile System (ATACMS), missili balistici a corto raggio lanciati dalla base di Gangneung, la più vicina al confine del 38° parallelo, verso le acque del Mar Cinese Orientale. A fare notizia, però, è stato il malfunzionamento che ha causato lo schianto a terra di uno dei missili appena lanciati, scatenando il panico negli abitanti della zona che temevano addirittura un attacco da parte di Pyongyang. Il confronto si è per il momento concluso con una sorta di faccia a faccia aereo, dopo che lo scorso fine settimana circa 30 caccia sudcoreani sono stati mobilitati con l'ordine di monitorare i movimenti dell’aviazione nordcoreana e impedire qualsiasi superamento della “linea di sorveglianza speciale” tracciata da Seoul, e il lancio di altri due missili a corto raggio da parte della Corea del Nord nella mattinata di domenica.

 

Cercare di comprendere le motivazioni del regime nordcoreano è sempre esercizio particolarmente complicato, nonostante il ripetersi di alcune situazioni in quello che è un vero e proprio cerimoniale missilistico, per cui il riconoscimento dello status di potenza nucleare è prima di tutto uno strumento di legittimazione interno. Ciò che però salta immediatamente all’occhio è la cadenza con cui la Corea del Nord ha effettuato i suoi test nel 2022. Infatti, sebbene i vari lanci non rappresentino di certo una novità nel modus operandi di Kim Jong-un, una preoccupante novità è rappresentata dall’accelerazione degli stessi poiché nel solo 2022 si sono svolti più esercitazioni e test missilistici (25 nel momento in cui si scrive) che nell’intero biennio precedente.

Questa serie di lanci, inoltre, apre la porta a possibili, se non probabili, sviluppi e significati: la Corea del Nord intende ricordare al mondo intero che la minaccia nucleare russa non è l’unica che la comunità internazionale dovrebbe considerare, se non temere. D’altronde, nel mese di settembre il regime di Pyongyang ha emendato le leggi che regolamentano la sperimentazione nucleare, e il leader supremo ha dichiarato che il Paese è una potenza nucleare «irreversibile». In questo senso, da Seoul arriva sempre più decisa la voce di un possibile nuovo test nucleare nelle prossime settimane, e anche questo sarebbe il primo dal 2017. Secondo diversi osservatori, Kim Jong-un potrebbe decidere di sfruttare il periodo a cavallo del ventesimo Congresso del Partito comunista cinese (PCC), che si aprirà il prossimo 16 ottobre. Altre fonti, principalmente sudcoreane, allargano questa finestra temporale sino alle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, previste per l’8 novembre. Questa imprevedibilità attesa da parte di Pyongyang non deve però portare a minimizzarne l’aggressività, così come sottovalutare l’ennesima escalation che ha condotto a questa situazione di tensione.

 

Immagine: Kim Jong-un (26 aprile 2019). Crediti: Alexander Khitrov / Shutterstock.com

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L’Indonesia alla prova di un G20 da protagonista

L’Indonesia si prepara a ospitare uno dei G20 più importanti e delicati degli ultimi decenni. Dopo mesi di avvicinamento caratterizzati da summit, riunioni di commissioni, forum e dialoghi ministeriali, il 15 e 16 novembre avrà luogo l’evento principale ossia il meeting tra i leader delle principali potenze mondiali. Ogni presidenza è caratterizzata dalla scelta di alcuni temi portanti, che caratterizzano lo scandirsi degli eventi nel corso dell’anno, e l’organizzazione indonesiana ha deciso di focalizzarsi su tre questioni: architettura sanitaria globale, trasformazione digitale, transizione energetica verso fonti sostenibili. Il potenziamento di queste tre aree risulterebbe fondamentale per rispondere alle principali sfide globali, come l’emergere di pandemie e le crisi, sanitarie ed economiche, ad esse associate, il riscaldamento globale, la guerra e le conseguenti crisi alimentari. Gli avvenimenti e le contingenze degli ultimi sette mesi, però, hanno costretto l’organizzazione indonesiana a ricalibrare l’agenda della sua presidenza, soprattutto in virtù dello scoppio della guerra in Ucraina e delle crescenti tensioni tra Cina e Stati Uniti, che hanno raggiunto il culmine nel mese di agosto con la visita di Nancy Pelosi a Taiwan e le conseguenti esercitazioni della Marina militare cinese. In questo senso, Jakarta è chiamata a sostenere la complessa opera diplomatica che ha portato avanti dallo scoppio delle ostilità e a tenere fede alla sua tradizione di Paese affidabile e neutrale. Infatti, per il governo indonesiano la stabilità e la sicurezza regionale sono prerequisiti per la prosperità nazionale.

Durante lo scorso mese di giugno, il presidente indonesiano Joko Widodo è stato il primo leader asiatico a visitare Ucraina e Russia. Una prova tangibile della volontà di giocare un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale, e non solamente limitato alla leadership regionale derivante dalla sua figura di primus inter pares all’interno dell’Association of South East Asian Nations (ASEAN). Successivamente al viaggio di Jokowi, la leadership indonesiana ha condotto due importantissimi meeting ministeriali, ossia quello dei ministri degli Esteri e quello dei ministri dell’Economia, accompagnati dai governatori delle Banche centrali. In entrambi i casi si sono discussi temi di estrema importanza, come la necessità di rafforzare il sistema multilaterale e trovare risposte per le rampanti crisi energetica e alimentare. Quest’ultima questione è una priorità assoluta dell’agenda di Jakarta, così come la necessità di creare una catena di cooperazione globale, che potrebbe prevedere la costituzione di riserve alimentari globali a cui gli Stati potrebbero contribuire a seconda delle condizioni delle loro riserve nazionali. In questo senso, sarebbe fondamentale la creazione di un meccanismo di controllo in grado di garantire la trasparenza dei governi coinvolti, evitando così speculazioni di qualsiasi tipo, con l’obiettivo poi di firmare un vero e proprio trattato. Sebbene non si sia raggiunto alcun risultato eclatante, così come non è arrivato l’auspicato comunicato congiunto, tutti i rappresentanti del gruppo si sono seduti al tavolo dei due meeting.

Un particolare decisamente rilevante, soprattutto ricordando le tensioni e le minacce di esclusione scambiate tra Putin e Biden. Questo risultato ha sostanzialmente corroborato le ambizioni di Jakarta, che si è vista riconoscere i suoi meriti per gli sforzi diplomatici e una leadership tale da giustificare la partecipazione di tutti gli attori coinvolti. Considerato il retaggio politico del Paese, per certi versi culla del neutralismo e del terzomondismo, non ha di certo rappresentato una sorpresa vederlo come portavoce degli Stati in via di sviluppo e delle economie emergenti al di fuori del G20. Per Jakarta, riuscire a entrare in questo gruppo è stato particolarmente importante, non solo per una questione di prestigio internazionale, ma anche per l’opportunità di avere una piattaforma dove presentare istanze importanti per il Sud del mondo.

 

L’Indonesia si presenta, infatti, come un attore in ascesa in un panorama internazionale particolarmente volatile e imprevedibile. Oltre a consolidare il suo ruolo regionale, principalmente con la guida del gruppo ASEAN all’interno della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), ma anche con il consolidamento dei suoi rapporti bilaterali con le grandi potenze, le sono stati affidati ruoli di assoluto rilievo globale, come la presidenza del G20 di quest’anno e la guida dell’ASEAN nel 2023. Consolidare il prestigio interno è un altro importante obiettivo di Jokowi, e perciò sono stati individuati due messaggi principali da veicolare alla popolazione: ospitare un evento come il G20 è molto importante poiché è in grado di creare benefici tangibili per tutto il Paese, e l’Indonesia doveva cogliere le opportunità strategiche che ne derivavano. Il governo di Jokowi ha cercato di capitalizzare al massimo la situazione, anche attraverso la pianificazione di attività in grado di coinvolgere direttamente la popolazione, in modo da accrescere la consapevolezza dei vantaggi più immediati dati dalla presenza delle varie delegazioni.

Risultati economici, ma non solo. Il ministero degli Affari esteri indonesiano ha pubblicato sul proprio sito una lista di benefici strategici derivanti dal G20, che includono anche la politica estera e lo sviluppo sociale. Quindi, assieme all’aumento della circolazione di valuta straniera pregiata e alle opportunità di investimento che l’Indonesia può offrire, viene anche sottolineato come presiedere un forum di tale caratura possa aumentare la credibilità internazionale del Paese in un contesto sempre più diviso, e divisivo, che ancora fatica a recuperare dalla pandemia da Covid-19. L’errore che l’Indonesia non deve compiere è quello di limitarsi nella pianificazione della sua agenda politica, e dare la priorità a obiettivi di lungo respiro che possano sostenere le sue aspirazioni globali, piuttosto che accontentarsi di risultati immediati che non supererebbero i confini locali. Sebbene l’amministrazione Widodo abbia tutto l’interesse a compiacere il suo pubblico, il G20 rappresenta un’occasione unica per mettere alla prova le sue capacità politiche e diplomatiche, oltre che permetterle di muoversi con decisione verso la tanto agognata rilevanza internazionale.

 

Immagine: Da sinistra, Joko Widodo e il presidente ucraino Zelenskij, Kiev, Ucraina (29 giugno 2022). Crediti: photowalking / Shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Cosa_significa_pausa_BTS.html

Cosa significa la pausa dei BTS per la società coreana?

I BTS non sono più solamente la band coreana più famosa al mondo ma sono diventati un vero e proprio fenomeno globale, trascendendo qualsiasi tipo di barriera culturale e linguistica. Secondo sempre più giornalisti, analisti e studiosi, la loro ascesa globale rappresenta un fenomeno di costume paragonabile a quello dei Beatles negli anni Sessanta. Di conseguenza, non deve stupire vederli associati a dibattiti solitamente non riservati a idol band, riguardanti questioni politiche sia a livello locale che a livello globale. I BTS sono infatti ambasciatori globali dell’UNICEF, e hanno avuto l’onore di parlare davanti l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Durante il loro recente tour negli Stati Uniti sono stati ospiti alla Casa Bianca, accolti personalmente dal presidente Joe Biden e dalla sua vice Kamala Harris, dove hanno tenuto un breve discorso che ha condannato i crimini d’odio e le discriminazioni nei confronti delle comunità asiatiche. Questi sono solamente due esempi per dare un’idea della portata della loro figura. A maggior ragione nel momento in cui sono sostanzialmente costretti a prendersi una pausa a tempo indeterminato, per motivazioni certamente più politiche che artistiche.

In Corea del Sud, infatti, vige ancora la coscrizione obbligatoria per tutti i cittadini di sesso maschile di età compresa tra i 18 e i 35 anni. A un periodo di addestramento e preparazione di circa cinque settimane, segue il vero e proprio servizio di leva che può essere quantificato in circa due anni di servizio. L’entrata in vigore dell’obbligo militare non è fissa, ma posticipabile sino al compimento dei 28 anni, un termine che è in realtà abbastanza elastico per chi si trova sotto la luce dei riflettori.

Un primo passo in avanti fu registrato nel 2020 quando, grazie a quella che è stata ribattezzata proprio “legge BTS”, il governo sudcoreano ha permesso di posticipare di due anni la chiamata alle armi per gli idol che avessero ricevuto onorificenze ufficiali per i loro risultati. Questa deroga non è ritenuta sufficiente dai promotori di una vera e propria riforma della leva militare, così come dai tanti fan del K-pop, mentre altre componenti della società civile, soprattutto gli uomini che non godono dello stesso favoritismo, denunciano il privilegio accordato a certi profili. Infatti, il dibattito sulle motivazioni politiche che impediscono l’equiparazione tra idol e sportivi, spesso dispensati dal servizio militare grazie alle loro vittorie (viste come un servizio al Paese), va avanti da diverso tempo, ma non ha prodotto i risultati sperati dai tanti fan dei BTS.

Tornando quindi alla pausa della band, nonostante la HYBE (la compagnia di management che si occupa di loro) sia intervenuta per una rettifica e per annunciare la volontà dei membri di concentrarsi su progetti solisti, questa è dovuta principalmente dall’approssimarsi della chiamata alle armi di Kim Seok-jin, in arte Jin, ossia il componente più anziano del gruppo, che compirà 30 anni a dicembre. A seguito di questo terremoto culturale, per il quale le azioni della HYBE hanno perso circa il 25%, alcuni importanti esponenti politici, come l’ex ministro della Cultura Hwang Hee, hanno rinnovato la loro richiesta di esenzione, citando il ruolo dei BTS nell’innalzare il prestigio e la reputazione internazionale del Paese. La società coreana continua a essere sostanzialmente a favore della questione, come rappresentato da un recente sondaggio Gallup che vede il 59% degli interpellati a favore dell’esenzione per le pop star, mentre il 33% si è dichiarato contrario. Quest’ultima percentuale, però, è in aumento rispetto a due anni fa, e rappresenta un crescente malcontento tra i giovani uomini nella fascia di chiamata in servizio, che sostanzialmente intravedono all’orizzonte una nuova categoria di privilegiati che si va ad aggiungere ai politici, agli sportivi, agli artisti, e probabilmente anche ai professionisti degli eSports. Il fatto che questa fascia demografica sia la stessa che ha portato alla vittoria del People Power Party alle elezioni dello scorso marzo fornisce un’ulteriore sfumatura politica. Soprattutto alla luce delle recenti dichiarazioni di apertura a una possibile esenzione da parte di alcuni esponenti del partito, che hanno deluso diversi elettori e che si pongono in controtendenza rispetto a quanto propagandato in campagna elettorale. In un certo senso, il dibattito sull’obbligatorietà del servizio militare si sta innestando nel più ampio discorso politico del conflitto di classe che caratterizza la società coreana, e che è iniziato a emergere ai nostri occhi grazie a pellicole come Parasite di Bong Joon-ho e Burning di Lee Chang-dong. Per sempre più giovani, i BTS non sono un’icona popolare e motivo di orgoglio nazionale, ma piuttosto una rappresentazione del privilegio e di ciò che può comprare il potere economico.

La decisione di fermarsi, a prescindere dai sofismi del management, deve quindi essere vista come un effetto diretto di questo stallo: i membri della band potrebbero semplicemente aspettare l’evoluzione normativa e del dibattito politico sulla materia, oppure prepararsi nel migliore dei modi ‒ sostanzialmente lavorando e rilasciando quanto più materiale possibile ‒ alla probabile chiamata militare. Jung Ho-seok, in arte J-Hope, ha già inaugurato questa tendenza, presentandosi come una delle principali attrazioni del Lollapalooza Music Festival di Chicago, una delle manifestazioni più importanti dell’estate statunitense, e chiudendo la terza serata di concerti.

Questa è un’ulteriore dimostrazione della forza del brand BTS e della fama globale di cui godono i sette idol, particolare che si presta a sostenere le posizioni di entrambi gli schieramenti riguardo l’obbligo militare. I membri della band sono ormai talmente famosi da rendere impossibile uno stop alle loro carriere, oppure sono in grado di mantenere lo stesso livello di successo anche da soli, per cui possono tranquillamente fare il servizio militare per poi riprendere? Queste domande riceveranno una risposta nei prossimi mesi, e l’approssimarsi della ferma militare per Jin potrebbe trasformarsi in una nuova sfida per il governo di Yoon Suk-yeol.

 

Immagine: I BTS arrivano al KIIS FM’s Jingle Ball 2019, Los Angeles, California (6 dicembre 2019). Crediti: DFree / Shutterstock

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La Corea del Sud, tra crisi interne e aspettative internazionali

 

In Asia orientale le ultime settimane sono state particolarmente fitte di avvenimenti: l’assassinio dell’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe ha catalizzato l’attenzione e portato tantissimi esponenti e analisti politici, non solo in Giappone, a riflettere sul futuro della regione. Abe è stato uno dei politici più controversi degli ultimi decenni, ma aveva la capacità di trasformarsi in una sorta di garante dell’ordine regionale, un affidabile ponte tra gli Stati Uniti e gli alleati. Il suo testimone potrebbe essere raccolto dall’attuale premier giapponese, Fumio Kishida, che ha ulteriormente rafforzato la leadership del Partito liberaldemocratico (PLD, Liberal Democratic Party) con la convincente vittoria alle elezioni per il rinnovo della Camera alta, tenute poco dopo l’omicidio di Abe, e che ha già dimostrato di essere un attento e prezioso interlocutore per Washington.

La stessa cosa non si può dire per l’altro grande alleato statunitense nella regione, ossia la Corea del Sud. Il passaggio di consegne tra Moon Jae-in, apprezzato dalla Casa Bianca, ma anche considerato spesso incostante nel sostegno all’azione americana, e Yoon Suk-yeol era stato accolto con moderato ottimismo, soprattutto in virtù del suo forte e chiaro allineamento alla visione strategica degli Stati Uniti e le critiche rivolte alla Cina. Queste aspettative, però, potrebbero essere ridimensionate a causa delle difficoltà e dei costanti attacchi che il governo Yoon sta affrontando sin dal suo insediamento.

Le accuse di inesperienza e incompetenza nella scelta della squadra di governo, di nepotismo e favoritismi verso la moglie, hanno contribuito al crollo verticale del suo indice di gradimento, che è passato dal 53% al 32% in meno di due mesi. Secondo alcuni analisti il fondo non è ancora stato toccato, e il dato potrebbe arrivare addirittura sotto il 30%. Questo rappresenterebbe una novità assoluta per la tradizione politica sudcoreana, in cui i presidenti neoeletti hanno storicamente mantenuto un indice di gradimento elevato, tra il 70% e l’80%, nei primi mesi di governo. Invece gli elettori sembrano aver velocemente perso fiducia nelle capacità di Yoon, particolare che ci ricorda anche il risicatissimo margine con cui si è aggiudicato il confronto elettorale e la difficoltosa gestione di un Parlamento dove il Partito democratico ha un deciso vantaggio numerico in termini di seggi.

Le principali accuse di nepotismo riguardano la composizione del suo gabinetto di governo e staff, in cui è particolarmente marcata la presenza di pubblici ministeri, arrivando addirittura a nominare più di 10 ex colleghi. Interrogato sulla questione, Yoon ha banalmente controbattuto accusando Moon Jae-in di aver fatto altrettanto durante il suo mandato, e che il suo era semplicemente un modo per controbilanciare il rapporto di forze negli uffici ministeriali. Una volta scoppiato lo scandalo, quattro membri del suo staff hanno rassegnato le dimissioni.

Inoltre, la popolazione pare essere ancora confusa riguardo il modo in cui Yoon intende gestire il suo ruolo. La sua politica della porta aperta, per così dire, e la disponibilità a farsi intervistare ogni mattina mentre si reca al lavoro, gli si è velocemente ritorta contro quando ha iniziato a minimizzare, prima, e poi non commentare le critiche che gli venivano rivolte e il progressivo calo dei consensi. Anche le sue dichiarazioni sul volere dei ministri costantemente sotto i riflettori come le star, fortemente cooptata dal mondo aziendale, non ha dato i risultati sperati, e ha ulteriormente contribuito a dipingerlo come un presidente che vuole sfuggire alle sue responsabilità.

Una personalità così volatile potrebbe non essere esattamente il partner ideale per gli Stati Uniti, soprattutto in un momento in cui l’equilibrio geopolitico è particolarmente precario. Ciò nonostante, Yoon pone il rapporto con Washington al primo posto nella sua agenda regionale e internazionale. Durante la campagna elettorale ha promesso di distaccarsi dalla politica estera ambigua di Moon e di dare un chiaro segnale ai tre principali attori con cui Seoul si interfaccia: Stati Uniti, Cina e Corea del Nord. La volontà di aderire il più possibile alle necessità americane, e allo stesso tempo affrancarsi da quella che viene percepita come un’eccessiva vicinanza a Pechino, può essere esemplificata dal diverso approccio verso il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD). Moon Jae-in ha preferito lasciar cadere l’invito per proporre agli Stati Uniti una cooperazione in diverse aree, principalmente per il timore di alienare il forte rapporto economico costruito con la Cina. Yoon ha invece prontamente dichiarato la piena disponibilità a riconsiderare positivamente l’invito, e ha avuto modo di ribadire il concetto durante la recente visita del presidente americano Biden in Corea del Sud, avvenuta circa due settimane dopo l’insediamento del nuovo governo. Poco dopo è arrivata un’ulteriore riprova di questa fedeltà, quando la Corea del Sud ha annunciato il suo ingresso nell’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), una partnership economica lanciata dagli Stati Uniti, con il sostanziale obiettivo di contrastare lo strapotere economico cinese nella regione. L’adesione coreana è stata criticata da alcuni analisti e osservatori nazionali, che hanno contestato una scelta che va quasi a cozzare con la realtà dell’economia coreana, ossia la dipendenza dalla Cina, con la conseguenza di andare a cambiare un paradigma che sembrava funzionare più che bene. Se il motto di Moon era “sicurezza con Washington, economia con Pechino”, quello di Yoon sembra essere più incline a seguire i dettami statunitensi. In questo senso, l’adesione all’IPEF potrebbe rappresentare una nuova opportunità per ripensare una bilancia commerciale probabilmente troppo squilibrata.

Così facendo, la Corea del Sud ha ulteriormente ribadito il proprio ruolo di alleato essenziale per gli Stati Uniti e la volontà di essere protagonista in un teatro regionale in continua evoluzione e sempre più caratterizzato dal confronto sino-americano. La crescente rivalità tra le due potenze globali pone la Corea del Sud in una posizione estremamente delicata, ma potrebbe anche rappresentare un’opportunità, dato il rapporto privilegiato con entrambe, per contribuire alla definizione di un ordine regionale più inclusivo e meno conflittuale, che offra opportunità di crescita a tutti gli attori interessati e che non abbia motivo di alienare alcun Paese.

Proprio per questo motivo, la Corea del Sud ha bisogno di una leadership decisa, affidabile e carismatica, in grado di consolidare i rapporti con gli alleati e appianare i problemi con i partner commerciali. Il governo Yoon sarà in grado di rispondere a queste sfide? I prossimi mesi saranno decisivi per capire che strada intraprenderà il suo governo e se sarà in grado di riconquistare la fiducia popolare.

 

Immagine: Yoon Suk-yeol (10 maggio 2022). Crediti: Republic of Korea. DEMA(Defense Media Agency). Official Photographer : YANG DONG WOOK [Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)], attraverso www.flickr.com

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Attentato in Giappone: ucciso l’ex primo ministro Shinzo Abe

 

L’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, il più longevo nella storia recente del Paese, è rimasto vittima di un attentato. Il suo decesso è stato confermato dopo un disperato tentativo dei medici di salvargli la vita. Nella mattinata giapponese di ieri (circa le 04:30 italiane) il leader del Partito liberaldemocratico (PLD) si trovava a Nara, nel Giappone occidentale, per un comizio in sostegno di un candidato locale in corsa per le elezioni della Camera alta in programma nel weekend. Poco dopo l’inizio del suo discorso, sono stati esplosi due colpi di pistola che lo hanno raggiunto al torace. Le condizioni di Abe sono sembrate subito estremamente gravi, e le parole dei primi soccorritori hanno testimoniato come non mostrasse segni vitali, cosa poi confermata da ulteriori esami sulle sue funzioni cardiache e polmonari. Dopo alcune ore, circa alle 11:00 italiane, la NHK ha annunciato il decesso dell’ex premier all’ospedale di Kashihara, dove era stato trasportato dopo l’attentato. A sparargli è stato il quarantunenne Tetsuya Yamagami, un ex veterano delle forze di autodifesa residente nella città in cui si è svolto il comizio. A quanto pare l’uomo era riuscito ad eludere la sicurezza spacciandosi per un fotografo, nascondendo l’arma da fuoco, una piccola pistola fabbricata artigianalmente, in una custodia per obiettivi fotografici. L’uomo è stato arrestato e condotto nella caserma locale, dove è stato accusato di omicidio.

Il primo ministro Fumio Kishida avrebbe dovuto tenere un comizio nella prefettura di Yamagata, anch’egli in supporto di un candidato locale del PLD, ma l’evento è stato annullato e il premier è stato velocemente riportato a Tokyo. Un Kishida quasi in lacrime ha parlato in una conferenza stampa organizzata in tutta fretta, dove ha espresso il suo cordoglio e chiesto di pregare per Abe, oltre a condannare l’accaduto come un «atto barbarico e inaccettabile». Il cordoglio si è esteso sino a raggiungere velocemente i diversi angoli del globo, unendo la quasi totalità della comunità internazionale: il segretario di Stato americano Blinken è stato uno dei primi a rivolgere un pensiero sull’evento, ribadendo la vicinanza degli Stati Uniti, a cui si sono poi aggiunti il presidente indiano Narendra Modi, il primo ministro thailandese Prayut Chan-o-cha, la leader taiwanese Tsai Ing-wen, il presidente australiano Anthony Albanese, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, l’ex presidente americano Donald Trump (molto vicino ad Abe), e anche il primo ministro britannico uscente Boris Johnson. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha espresso il profondo sconcerto della Cina. Circa le motivazioni del gesto, lo stesso attentatore, che ora rischia la pena di morte, ha dichiarato di non aver ucciso Abe per motivi politici, ma perché insoddisfatto del suo operato.

Le presidenze Abe sono state particolarmente controverse, ammantate di un profondo nazionalismo e revisionismo storico, e ricordate prevalentemente per i ripetuti tentativi di emendare la Costituzione giapponese e permettere così a Tokyo di riavere delle vere e proprie forze armate. Una questione quasi di famiglia per Abe, dato che uno dei primissimi richiedenti di questa modifica fu Nobusuke Kishi, primo ministro dal 1957 al 1960 e suo nonno materno. Nonostante le ripetute promesse, Abe concluse la sua esperienza al governo senza riuscire a modificare la Costituzione e, al momento, la questione non sembra essere più una priorità per il governo Kishida e per il PLD. Una delle principali motivazioni dietro la mancata rinascita dell’esercito giapponese, oltre alla costante opposizione di buona parte della società civile giapponese, è stata la durissima ostilità di Cina e Corea del Sud, le due principali vittime dell’espansionismo e imperialismo nipponico.

 

Immagine: Shinzo Abe (13 giugno 2019). Crediti: Khamenei.ir [CC BY 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/4.0)], attraverso Wikimedia Commons

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Quale futuro nel rapporto tra Cina e Australia?

L’Australia ha storicamente sofferto di una sorta di ambivalenza formale, essendo un Paese culturalmente occidentale, ma posizionato geograficamente e geopoliticamente ad Oriente. La dimensione asiatica del Paese, così come la consapevolezza di questa e di essere un attore fondamentale nello scenario dell’Asia-Pacifico sono qualcosa di molto recente, non ancora pienamente metabolizzato sia dalla politica che dalle istituzioni. Il paradigma di questa, per certi versi necessaria, proiezione asiatica è stato spesso rappresentato dal rapporto tra Australia e Cina che, nonostante i profondi alti e bassi, rimane ancora oggi di fondamentale importanza per entrambi i Paesi.

Durante il governo di Scott Morrison (2018; 2019-22) i rapporti si sono inequivocabilmente incrinati, per una serie di motivazioni: il fortissimo allineamento all’alleato statunitense, culminato nella partecipazione a meccanismi nati con finalità di contenimento nei confronti della Cina come il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD) e l’accordo AUKUS firmato con Regno Unito e Stati Uniti, così come le costanti critiche e accuse rivolte alla leadership cinese riguardo le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, la richiesta di un’indagine indipendente circa le origini del Covid-19 da parte dell’ex ministra degli Esteri Marise Payne, senza dimenticare il deciso sostegno al boicottaggio diplomatico delle recentissime Olimpiadi invernali di Pechino. Una linea molto dura che ha caratterizzato il quadriennio al governo del Partito liberale e che ha rischiato di mettere a repentaglio la relazione faticosamente costruita con la Cina. Un approccio più conflittuale che accomodante, che mal si presta ad accompagnare le celebrazioni per il cinquantennale dei rapporti tra Canberra e Pechino. Una conflittualità che potrebbe aver giocato un ruolo nel risultato elettorale del 21 maggio scorso, che ha visto il primo ministro uscente Morrison venire sconfitto dal candidato laburista, Anthony Albanese. La sorprendente vittoria di Albanese potrebbe aprire un nuovo capitolo nel rapporto bilaterale e riportarlo sul più saldo binario della diplomazia, della cooperazione e dei condivisi interessi economici globali. Un buon punto di partenza potrebbe essere il rinnovato supporto ai principi del multilateralismo, dato che le basi politiche ed economiche del legame tra Australia e Cina sono fondate sull’adesione a un sistema multilaterale aperto. Le priorità politiche ed economiche di Canberra sono inequivocabilmente nella regione dell’Asia-Pacifico, e il governo Albanese sembra esserne perfettamente consapevole: la sua prima visita ufficiale è stata in Indonesia, a cui hanno fatto seguito i recenti viaggi di Penny Wong, nuova ministra degli Esteri, in Malaysia e Vietnam. Una tendenza che sostanzialmente segue la bilancia commerciale australiana: la Cina è il principale partner commerciale del Paese, con un volume di scambi che ammonta a circa il 31% del totale, mentre se ampliamo il discorso all’Asia-Pacifico si passa a circa il 66%. I partner occidentali fanno segnare cifre nettamente inferiori, con il gruppo G7 che conta per il 27%, mentre il gruppo formato da fondamentali partner economici e strategici come Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Stati Uniti segna solamente il 17%.

Per queste motivazioni, un cambio di passo nei rapporti bilaterali sino-australiani sarebbe più che auspicabile e porterebbe notevoli benefici ad ambo le parti. L’avvicendamento al governo tra liberali e laburisti rappresenta l’occasione ideale per resettare il rapporto e ripartire con rinnovate ambizioni. Innanzitutto, Pechino dovrebbe rivedere le sanzioni, sia formali che informali, poste su diversi beni australiani in risposta alle diverse accuse lanciate dal governo Morrison. Delle sanzioni che hanno sì intaccato le esportazioni australiane, ma che paradossalmente hanno presentato il conto più salato, in termini politici e reputazionali, proprio alla Cina, prestando il fianco ad ancora più aspre critiche. Ovviamente sarebbero auspicabili dei gesti di distensione anche da parte australiana, e in questo senso l’abbassamento generale dei toni e della retorica anticinese e l’incontro a Singapore tra Richard Marles, nuovo ministro della Difesa australiano, e il suo corrispettivo cinese Wei Fenghe potrebbero rappresentare un incoraggiante inizio. Continuare a coinvolgere la Cina nello scacchiere multilaterale assieme agli altri partner regionali, sia a livello economico che a livello politico, potrebbe essere il miglior modo per recuperare il rapporto bilaterale, oltre che rappresentare una sorta di ritorno alle origini nella strategia australiana. Le occasioni di certo non mancano, partendo dal G20 e dai lavori della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), un accordo di libero scambio di cui fanno parte i membri dell’ASEAN e Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda, senza dimenticare il dichiarato interesse cinese verso il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), un accordo commerciale nato dalle ceneri del TPP (Trans-Pacific Partnership) dopo il ritiro statunitense deciso dall’amministrazione Trump.

Queste piattaforme rappresentano delle importanti opportunità per un engagement costruttivo, soprattutto in virtù delle preferenze di Pechino verso contesti di questo tipo, all’interno dei quali si possono poi programmare dei più approfonditi meeting bilaterali. Di conseguenza, perseguire interessi e obiettivi condivisi con la Cina, e nel processo coinvolgere quanti più partner regionali possibile, potrebbe diventare il percorso attraverso cui l’Australia riuscirà a rinnovare le fondamenta di un così importante legame. Inoltre, in questo modo Canberra potrebbe raggiungere anche un altro importante obiettivo, ossia assumere la leadership che molti suoi vicini e partner invocano a grande voce, e riproporsi come interlocutore privilegiato e facilitatore nei confronti della Cina.

 

Immagine: Le bandiere di Australia e Cina. Crediti: esfera / Shutterstock.com

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G7, NATO e BRICS: Cina e USA sempre più lontani

Il vertice del G7, che si svolge dal 26 al 28 giugno a Schloss Elmau, nelle Alpi Bavaresi, porta in dote un carico di aspettative e una serie di argomenti da discutere di estrema importanza, come ad esempio la necessità di trovare un fronte comune ancora più forte sul conflitto ucraino; le crescenti minacce alla sicurezza globale; gli effetti a lungo termine della crisi economica, energetica e climatica, la cui portata combinata potrebbe rivelarsi devastante. L’evoluzione del rapporto con la Cina si unisce a questa ricca rosa di questioni, ed è altamente probabile che il gruppo intenda proseguire le riflessioni inaugurate nel 2021.

Come sostanzialmente emerso durante il meeting dello scorso anno, uno dei principali obiettivi degli Stati Uniti è convincere gli alleati a prendere una posizione più decisa nei confronti di Pechino, soprattutto in relazione alle questioni che più influenzano l’equilibrio globale: questione taiwanese, contenzioso nel Mar Cinese Meridionale, e in generale il pericolo di un’espansione militare-strategica nella regione dell’Asia-Pacifico. Inoltre, durante il meeting di Carbis Bay si è discusso per la prima volta delle pratiche commerciali cinesi, definite coercitive e inique, e l’argomento verrà sicuramente approfondito, dato che sono emerse ulteriori preoccupazioni negli ultimi mesi, causate in primis dal rifiuto totale di Pechino di unirsi al concerto delle sanzioni verso la Russia. Infine, sempre durante l’incontro del 2021, il Gruppo dei 7 ha studiato un approccio comune verso determinate pratiche e questioni che riguardano la Cina, sostanzialmente accusando Pechino di ripetuti abusi dei diritti umani nello Xinjiang e di non rispettare il livello di autonomia politica che dovrebbe essere riservato ad Hong Kong.

In tutto ciò, la Cina è reduce da alcune settimane particolarmente impegnative, e non esattamente con i migliori auspici del caso. L’intensificazione dei lavori del Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), un’alleanza strategica formata da Stati Uniti, Australia, Giappone e India, nelle settimane precedenti al G7 non è certamente casuale, così come la proposta giapponese di organizzare un incontro quadrilaterale a margine del meeting NATO, previsto in Spagna una volta concluso il G7, estesa a Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Non è certamente la prima volta che la Cina si trova quasi accerchiata dagli Stati Uniti e dai suoi partner, ma in questa occasione sono emersi degli ulteriori elementi di confronto che rischiano di esacerbare ulteriormente un rapporto che è già precario.

Infatti, una delle novità più attese riguarderebbe una nuova fase del rapporto tra Cina e NATO. Pechino è tradizionalmente critica nei confronti dell’Alleanza atlantica, e per certi versi non potrebbe essere diversamente dati gli interessi cinesi e i capisaldi su cui si basa la sua politica estera, rimanendo coerente e consistente in questo anche dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Xi Jinping ha continuato a criticare la NATO, a suo modo di vedere incapace di prendersi le proprie responsabilità per lo scoppio della crisi ucraina e troppo pressante in quella che il leader cinese ha definito come vera e propria strategia di espansione. Le due parti non potrebbero quindi essere più lontane, e di conseguenza non dovrebbe rappresentare una sorpresa vedere la Cina nominata nello Strategic Concept 2022 della NATO, un documento di respiro decennale finalizzato a indicare le principali sfide alla sicurezza e delineare le strategie politiche e militari che l’associazione metterà in atto per rispondere. Il documento verrà rilasciato proprio a margine del summit di Madrid, e nonostante la Russia continui a rappresentare la più seria e tangibile minaccia per il futuro della NATO, è altresì plausibile che Pechino sia sostanzialmente la coprotagonista.

Come accennato in precedenza, viviamo un periodo di profondo confronto politico e ideologico tra Cina e Occidente: il blocco NATO critica la Cina per non aver apertamente condannato l’aggressione russa, mentre la Cina accusa la NATO di essere una concausa nello scoppio delle ostilità. Cercando di andare oltre la sostanziale inaccuratezza di entrambe le accuse, la frattura è innegabile ed è stata ulteriormente esposta durante l’ultimo meeting tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, gruppo conosciuto con il famoso acronimo BRICS. Pechino era l’host virtuale del meeting, che Xi Jinping ha aperto con un discorso che reitera la sua visione sulle sanzioni unilaterali imposte alla Russia, definite come un’arma a doppio taglio e un boomerang che strumentalizza, politicizza e militarizza l’economia mondiale. Ha poi concluso con un’altro chiaro riferimento all’Occidente, accusando coloro che sfruttano la loro preminenza nel sistema finanziario e monetario internazionale per imporre delle sanzioni avventate, che finiranno per danneggiare tutti e far soffrire sempre più persone in tutto il mondo. L’intervento di Xi è stato poi seguito da quello degli altri leader del gruppo, tra cui Vladimir Putin, che ha sostanzialmente ripetuto come la Russia sia disposta a una cooperazione onesta e reciprocamente vantaggiosa, visto come l’unico modo per uscire da una crisi causata dalle politiche egoistiche e sconsiderate di alcuni Stati. Le sanzioni hanno inoltre fortemente contribuito all’aumento della disoccupazione e alla scarsità globale di determinati alimenti, materie prime e componentistica necessaria per una vasta gamma di produzioni.

La Cina è indubbiamente il Paese che più ha criticato il sistema delle sanzioni, opponendosi ad esso in ogni modo, ma ciò non significa che sia una voce isolata, anzi. Il gruppo BRICS è così importante per Mosca proprio perchè è compatto nel rifiutare le sanzioni, permettendo così al governo russo di trovare nuova linfa per il proprio commercio. Putin ha infatti dichiarato che, nonostante i gravi problemi causati dalle sanzioni, il volume degli scambi commerciali tra la Russia e gli altri quattro partner è aumentato, prevedendo un altro balzo in avanti nel prossimo semestre. In chiusura del meeting, Xi Jinping ha promesso un ulteriore controllo sulla strategia macroeconomica cinese, in modo che possa sostenere lo sforzo del Paese nel raggiungere gli obiettivi di sviluppo economico e sociale fissati per il 2022. Inoltre, con un chiaro riferimento agli Stati Uniti e i suoi partner, ha ribadito la volontà della Cina di aprirsi sempre di più al mondo, con l’obiettivo di costruire un sistema ecomomico più aperto e inclusivo, basato su una comunità internazionale orientata al mercato e incentrata sullo Stato di diritto.

Nonostante la cooperazione in determinate aree prosegua in maniera più che soddisfacente, Cina e Occidente sembrano così lontani da appartenere quasi a mondi diversi e inconciliabili. Pechino accusa la formazione di una piccola cricca di potere che non fa che interferire nelle sue questioni interne, mentre Washington e i suoi alleati continuano ad accusare un revisionismo e un’assertività militare che vanno in contraddizione con il titolo di potenza responsabile che è stato spesso affiancato a Pechino. A questo si aggiunge l’ulteriore layer di conflittualità dato dal diverso approccio verso la Russia. In un momento di grave crisi, sotto molteplici punti di vista, è necessario che la distanza tra i due principali poli globali si riduca, non che aumenti verso nuovi record negativi.

 

Immagine: Le lettere dell’acronimo BRICS installate nel Parco Zarjad′e e, sullo sfondo, il Cremlino, Mosca, Russia. Crediti: Oleg Elkov / Shutterstock.com

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Perché la questione taiwanese è importante per il Giappone

 

Quando pensiamo alla questione taiwanese, viene in mente in maniera quasi automatica l’associazione con il triangolo geopolitico tra Taiwan, Repubblica Popolare Cinese (RPC) e Stati Uniti. Questi sono indubbiamente i tre attori più coinvolti, con Pechino e Washington che si sono confrontati, sfidati, e anche minacciati, su quale dovesse essere il destino di Taipei nel futuro prossimo. Ma una possibile escalation della tensione nello Stretto di Taiwan avrebbe delle profonde implicazioni anche per altri attori regionali, coinvolgendo la sostanziale totalità dell’Asia-Pacifico. Di conseguenza, venire a conoscenza dei piani di contingenza ed emergenza di alcuni Paesi non rappresenta di certo una sorpresa, ma è un’ulteriore riprova dell’apprensione con cui viene seguita la vicenda.

Uno dei Paesi che, per una serie di motivazioni, potrebbe trovarsi coinvolto in maniera importante è il Giappone. L’isola di Formosa dista infatti poco più di 100 km dall’estremo meridionale dell’arcipelago, ossia l’isola di Yonaguni nella Prefettura di Okinawa, e Tokyo rappresenta un fondamentale punto di riferimento in caso di coinvolgimento militare statunitense. Ma, come sottolineato anche da diversi analisti strategici ed esperti di sicurezza, il Giappone non ha mai posto nero su bianco una strategia, un piano in grado di guidare una reazione in caso di crisi. In questo caso, l’alleato nipponico si troverebbe in una situazione di sostanziale immobilismo e totale dipendenza dalle decisioni prese da Washington.

Come facilmente immaginabile, la recente politica taiwanese del Giappone è legata a doppio filo alle evoluzioni del rapporto con Pechino. L’ex primo ministro Shinzo Abe, durante il suo primo mandato (2006-07), cercò di distanziarsi dal suo predecessore Koizumi con un approccio più distensivo, ma di certo non accomodante, nei confronti della Cina. In questo senso, è possibile citare l’astensione dal visitare lo Yasukuni Shrine (il sacrario di Tokyo in cui sono conservati i resti dei soldati giapponesi, compresi quelli di alcuni generali condannati per crimini di guerra commessi durante la Seconda guerra mondiale, in particolare in Cina), che invece rappresentava un caposaldo della strategia aggressiva portata avanti da Koizumi, la ripresa dei dialoghi bilaterali interministeriali e il sostanziale congelamento dei rapporti diplomatici con Taiwan. L’amministrazione Abe puntò tutto sul rinnovo delle relazioni con la Cina, fondamentale soprattutto in materia economica, e addirittura arrivò ad annullare e rifiutare meeting diplomatici con i corrispettivi taiwanesi. Quel periodo rappresentò, allo stesso tempo, il momento di maggiore distanza tra Tokyo e Taipei e di maggiore autonomia regionale per il Giappone, anche se poco dopo si ritornò alla usuale dinamica triangolare Cina-Stati Uniti-Giappone, in cui quest’ultimo si è spesso ritrovato come attore non protagonista e vincolato agli umori del rapporto tra i due egemoni mondiali. Per esempio, quando aumentava la tensione tra Washington e Pechino allora il Giappone diventava più disponibile nei confronti di Taiwan, mentre quando gli Stati Uniti operavano con eccessiva autorità, senza consultare l’alleato, allora Tokyo si riavvicinava alla Repubblica Popolare e metteva in standby qualsiasi discorso con il governo taiwanese.

Un esempio di questa tendenza è sicuramente rappresentato dalla presidenza Trump: il suo approccio personalistico alla politica estera, unito a un sostanziale disinteresse verso la regione, ha messo in discussione alcuni dei più solidi rapporti costruiti dagli Stati Uniti, inaugurando un quadriennio di grande incertezza nei rapporti nippo-americani. Di conseguenza, il (secondo) governo Abe si è fortemente riavvicinato alla Cina e la sua politica taiwanese si è raffreddata, aderendo sostanzialmente ai dettami contenuti nella dichiarazione congiunta del 1972 che ha riallacciato i rapporti diplomatici tra Pechino e Tokyo: il principio di una sola Cina, per cui l’unico governo cinese legittimo è quello della RPC, e il principio che Taiwan sia un’inalienabile parte del territorio cinese. Questo periodo potrebbe rappresentare l’apice dell’equilibrismo politico giapponese e uno dei momenti di maggiore serenità nel rapporto con la Cina, ma le cose sarebbero cambiate, e per certi versi tornate alla normalità, in breve tempo.

Il 2020 è stato chiaramente caratterizzato dallo scoppio della pandemia, ma ha portato in dote anche importanti cambiamenti a livello politico, come ad esempio l’escalation della tensione nel rapporto tra Cina e Stati Uniti e l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca. Questi fattori hanno riportato il Giappone all’antico posizionamento, rinsaldandone il rapporto con Washington e, di conseguenza, quello con Taipei: basti ricordare la strettissima collaborazione tra Giappone e Taiwan, sia nei primi mesi della pandemia che per quanto riguarda la ricerca e la produzione dei vaccini contro il Covid-19, a cui poi è seguita una significativa dichiarazione di Shinzo Abe, sebbene non più in veste presidenziale, che suggeriva agli Stati Uniti di abbandonare l’ambiguità verso Taiwan e schierarsi apertamente a loro sostegno. Per Abe, qualsiasi piano che riguardasse Taiwan avrebbe riguardato anche il Giappone, e non poteva essere diversamente.

Questo rinnovato, e per certi versi più assertivo, panorama domestico e le crescenti pressioni dell’amministrazione Biden hanno portato il Giappone ad abbandonare la tradizionale cautela riguardo la questione taiwanese. Nel 2021, durante l’annuale meeting bilaterale con gli Stati Uniti, il Giappone ha espresso le sue preoccupazioni riguardo la tensione sullo Stretto di Taiwan, che sono state poi reiterate nel white paper sulla sicurezza nazionale pubblicato nei mesi successivi, in cui una situazione di stabilità sullo Stretto viene definita di vitale importanza. A prescindere da ciò, è però importante sottolineare come questo approccio non si traduca in sostegno per l’indipendenza di Taiwan. Una decisione che metterebbe fortemente a repentaglio il rapporto con la Cina.

La postura del Giappone sulla questione taiwanese è quindi legata a doppio filo al citato triangolo strategico con Cina e Stati Uniti, alla sua politica interna e allo stato dell’alleanza con Washington. Di conseguenza, è finalmente in corso un dibattito politico sull’opportunità di dotarsi di un piano di contingenza nel caso di un’operazione militare cinese nello Stretto di Taiwan. Ciò non significa che Tokyo intenda abbandonare la sua tradizionale predilezione per il dialogo, ma anzi continuerà a spingere per una risoluzione pacifica del contenzioso, in un senso o nell’altro. Il governo giapponese si trova ora in una posizione tanto importante quanto delicata, e la sua abilità nel bilanciarsi tra le varie parti coinvolte potrebbe realmente influenzare il futuro di Taiwan.

 

Immagine: Asia di notte vista dallo spazio con luci delle città che mostrano l’attività umana in Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e altri Paesi. Crediti: Rendering 3D del pianeta Terra su elementi della NASA. Foto: NicoElNino / Shutterstock.com

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L’impegno rinnovato degli Stati Uniti in Asia sudorientale

 

Il meeting tra Stati Uniti e ASEAN (Association of South East Asian Nations), che si è tenuto il 12 e il 13 maggio a Washington, rappresentava un importante snodo per la politica regionale dell’amministrazione Biden, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi internazionali e della volontà statunitense di tornare protagonista nel continente asiatico. Il rapporto tra Stati Uniti e ASEAN è storicamente complesso, caratterizzato da una forte comunanza di intenti durante la guerra fredda per poi cadere nella quasi irrilevanza dopo la fine del confronto bipolare. L’ascesa della Repubblica Popolare Cinese ha solamente contribuito a rendere ancora più palese questa precarietà, e gli USA non sono mai riusciti a recuperare il prestigio e l’influenza che una volta gli erano riconosciuti.

Il gruppo ASEAN, composto da 10 Paesi dell’Asia sudorientale, non semplifica di certo le negoziazioni poiché sostanzialmente diviso su una moltitudine di questioni: il rapporto con Washington, il rapporto con Pechino e la disputa nel Mar Cinese Meridionale, la guerra in Ucraina e la crisi politica e umanitaria in Myanmar sono solamente le più rilevanti e recenti questioni sollevate nei tanti meeting multilaterali che caratterizzano i lavori dell’Associazione. Per quanto riguarda il conflitto ucraino, il principale obiettivo statunitense era convincere quanti più Paesi possibile ad appoggiare le sanzioni contro la Russia. Sebbene esistano diverse posizioni all’interno dell’Associazione, esporsi in maniera così netta non è esattamente in linea con i valori e le consuetudini dell’ASEAN: nel mese di marzo sono stati rilasciati due comunicati nei quali il gruppo auspicava una veloce risoluzione del conflitto e la volontà di lavorare e cooperare con tutte le parti coinvolte. In questo senso gli Stati Uniti possono realisticamente ottenere una sorta di equidistanza, e accettare l’importanza che diversi Stati membri ripongono nel consolidato rapporto con la Russia. L’ASEAN non intende unirsi al concerto delle sanzioni, eccezione fatta per Singapore, ma è altresì probabile che il gruppo non si schieri apertamente contro di esso, nonostante la sostanziale dipendenza dalle forniture militari russe di Laos, Myanmar e Vietnam.

Questa divisione si riflette anche nel rapporto tra l’ASEAN e la Cina, in cui qualsiasi progresso in termini di cooperazione viene condizionato dalla disputa del Mar Cinese Meridionale, con posizioni che variano a seconda del livello di coinvolgimento nel contenzioso. L’incompatibilità delle rivendicazioni marittime degli attori coinvolti, il potenziale rischio di un’escalation militare e lo stallo nelle negoziazioni per un vero e proprio codice di condotta continuano ad essere i principali temi di dibattito con Pechino, che, sebbene supporti con convinzione la volontà di risolvere pacificamente il contenzioso, non è disposta a mettere in discussione la sua posizione e lo status quo venutosi a consolidare. Ciò nonostante, il rapporto tra Repubblica Popolare e ASEAN è più saldo che mai: il 2022 ha segnato il trentennale del dialogo tra le parti e la Cina è stata la prima ad ottenere lo status di partner globale dell’Associazione.

L’incontro tra Joe Biden e la leadership del mondo ASEAN si è tenuto presso il Dipartimento di Stato e, al netto dell’assenza del primo ministro birmano Min Aung Hlaing e del presidente filippino uscente Rodrigo Duterte, rappresentava un momento particolarmente importante, soprattutto per rassicurare alcuni degli storici partner riguardo l’impegno e la presenza americana nella regione. La fiducia verso gli Stati Uniti era crollata ai minimi storici durante il quadriennio Trump, ma ha ripreso slancio grazie all’impegno di Biden nell’incontrare e ascoltare i suoi corrispettivi dell’Asia sudorientale. Questo rinnovato feeling si è concretizzato con la nomina di Yohannes Abraham, uno dei principali consiglieri del presidente nonché capo dello staff del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, come ambasciatore americano all’ASEAN, ruolo che era rimasto vacante sin dal 2017. La nomina di Abraham non è stata l’unica novità emersa dal meeting, ma è stata preceduta dall’annuncio di un consistente investimento da parte americana, circa 150 milioni di dollari, per finanziare una serie di nuovi progetti in grado di modernizzare le infrastrutture pubbliche, sanitarie e marittime. Questo investimento fa eco all’incontro tra Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti, e i leader del blocco ASEAN, durante il quale sono stati reiterati il comune intento e la comune visione per il futuro della regione, ossia una pace duratura e il rispetto delle norme internazionali. Inoltre, grazie agli sforzi compiuti e alla buona fede dimostrata, Washington ha ottenuto il medesimo status di partner globale che è stato concesso a Pechino nel 2021.

Per consolidare questo rinnovato legame, in modo da non concedere nessun vantaggio alla Cina, diventa quindi fondamentale sostenere l’ASEAN nella cooperazione economica e per la sicurezza regionale. L’IPEF (Indo-Pacific Economic Framework for prosperity), pensato per facilitare i rapporti commerciali tra gli Stati Uniti e i suoi partner, potrebbe rappresentare un valido punto di partenza, anche perché ben 7 membri dell’Associazione sono tra i firmatari del documento che ha istituito il meccanismo. Altre ben note priorità dell’ASEAN riguardano la cooperazione marittima, la pianificazione infrastrutturale e lo sviluppo sostenibile e in questo senso Washington dovrà dimostrarsi particolarmente elastica e pragmatica, e in certi casi accettare la leadership dei partner asiatici in determinate categorie. Anche perché nuovi partner hanno già dimostrato una totale disponibilità nel seguire l’ASEAN Way, come ad esempio l’Australia, che ha ottenuto anch’essa lo status di partner globale nel 2021, e il Giappone.

Una forte cooperazione tra Stati Uniti e ASEAN all’interno del sistema Indo-Pacifico, concettualizzato da Washington, potrebbe indubbiamente rafforzare il ruolo dell’Associazione e la sua rilevanza nel panorama regionale, e allo stesso tempo permettere agli Stati Uniti di recuperare la tanto agognata centralità nel Sud-Est asiatico.

 

Immagine: Le bandiere di alcuni degli Stati aderenti all’ASEAN, Chonburi, Thailandia (27 febbraio 2022). Crediti: TongRoRo / Shutterstock.com

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La famiglia Marcos torna alla guida delle Filippine

Le elezioni presidenziali del 9 maggio sono entrate di diritto nella storia filippina, per una moltitudine di ragioni: per la prima volta dalla fondazione della Quinta Repubblica, entrambi i candidati alla presidenza e vicepresidenza hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ponendo il punto esclamativo su una vittoria per certi versi attesa ma che ha comunque sconvolto generazioni di filippini.

Le Filippine saranno guidate nuovamente da un Marcos, 36 anni dopo la rivoluzione del rosario che ha sancito la fine della dittatura di Ferdinand e la sua fuga negli Stati Uniti. Ferdinand Junior, comunemente chiamato Bong Bong e secondogenito del dittatore, ha infatti trionfato con percentuali e dati ragguardevoli, ottenendo più di 31,5 milioni di voti, ossia il 58,77% del totale. Gli altri candidati si sono dovuti accontentare delle briciole: Leni Robredo, vicepresidente uscente, non è riuscita a bissare il sorprendente risultato del 2016 e ha raccolto il 28% dei voti, mentre il famosissimo ex pugile Manny Pacquiao e il sindaco di Manila Isko Moreno hanno ottenuto rispettivamente il 6,81% e il 3,59%. Facendo un paragone con le scorse elezioni (2016), la netta vittoria di Duterte venne accompagnata da poco più di 16,5 milioni di voti. Rodrigo non sarà però l’ultimo Duterte a frequentare le stanze presidenziali, poiché sua figlia Sara è la nuova vicepresidente, grazie ai 32 milioni di voti (61%) ottenuti.

Per quanto possa apparire surreale, la coppia Marcos-Duterte sarà alla guida delle Filippine per i prossimi sei anni: il figlio dell’ultimo dittatore e la figlia del presidente che più ha seguito le sue orme. Questa alleanza è stata fondamentale per la vittoria di Bong Bong, e il sostegno del presidente uscente ha aiutato il giovane Marcos nella più difficile delle imprese, ossia ripulire il suo nome e, in un certo senso, ridimensionare la pesante eredità paterna: la decisione, avallata dalla Corte suprema delle Filippine, di spostare la salma di Ferdinand al Cimitero degli Eroi ha dato il via a una sorta di contronarrazione, che ridimensionasse alcuni degli elementi tipici del regime dittatoriale. Così lo strumento della legge marziale, ampiamente usato anche da Duterte, viene visto come necessario per il mantenimento dell’ordine. Bong Bong è riuscito a capitalizzare questo particolare momento, scrollandosi di dosso la figura del ragazzino ricco e viziato e proponendosi come il presidente di tutti, fortemente antipopulista e desideroso di trovare una soluzione per la crisi economica causata dalla pandemia. Duterte non ha fornito solo dei vestiti nuovi, ma ha sostanzialmente preparato il terreno per la vittoria di Marcos. Dal momento in cui è stata ufficializzata la candidatura di Sara Duterte alla vicepresidenza, il sostegno a Bong Bong è progressivamente aumentato, raggiungendo l’apice nel feudo personale di Digong. Nell’isola di Mindanao, infatti, il sostegno per Marcos è passato dall’8% del settembre 2021 al 64% del mese di dicembre. Una crescita senza precedenti ottenuta in un solo trimestre, un dato che rende ancora più evidente il ruolo fondamentale giocato dalla famiglia Duterte.

Un altro elemento che ha favorito il plebiscito a favore di Bong Bong è stata la debolezza e l’estrema divisione all’interno dell’opposizione. Leni Robredo rappresentava la principale alternativa progressista ed era un esponente di spicco del Partito liberale, che ha governato le Filippine dal 2010 al 2016 con la presidenza di Benigno Aquino III. Il suo profilo istituzionale era ulteriormente rafforzato dall’esperienza maturata negli ultimi sei anni di vicepresidenza, ma questo non è bastato di fronte ai ripetuti attacchi lanciati da Duterte. La sua affiliazione partitica e il conseguente legame con il governo Aquino, presentato come esempio di incapacità e corruzione, hanno sostanzialmente compromesso le sue possibilità, e Duterte non ha perso tempo nel definirla incompetente e inadatta all’arte del governo. Robredo non è mai riuscita a scrollarsi di dosso questa etichetta e la martellante campagna di disinformazione nei suoi confronti, condotta principalmente su Facebook e TikTok, ha fatto il resto. In questo senso, Leni ha compiuto il gravissimo errore di sottovalutare il potere dei social e decidere di non rispondere direttamente alle costanti accuse e alla disinformazione orchestrata da Duterte e dal suo entourage, sicura che il buon lavoro avrebbe parlato per lei.

Il ritorno di un Marcos al potere non è di certo passato inosservato agli occhi dei principali alleati e vicini regionali di Manila, ossia Stati Uniti e Cina. Soprattutto tenendo in considerazione il retaggio lasciato dall’amministrazione Duterte, che ha costantemente oscillato tra i due Paesi sino a mettere in discussione la storica alleanza con Washington. Bong Bong ha dichiarato che il primo contatto telefonico con Biden è stato positivo, caratterizzato dalla reciproca volontà di rafforzare lo storico legame che unisce i due Paesi, sia in campo diplomatico che commerciale. Ha altresì affermato di aver invitato il presidente Biden alla sua cerimonia inaugurale, che si terrà il 30 giugno, e che le Filippine avranno sempre la più alta considerazione degli Stati Uniti come amico, alleato e partner commerciale.

Da parte cinese si è invece optato per un approccio più formale, con Xi Jinping che ha fatto recapitare un messaggio di congratulazioni per la vittoria elettorale tramite l’ambasciatore cinese a Manila. Nella sua missiva, Xi si è reso disponibile a instaurare un proficuo rapporto di lavoro per consolidare i rapporti di buon vicinato, in modo da perseguire lo sviluppo e il benessere condiviso. Nonostante i buoni propositi, i rapporti tra Cina e Filippine sono in fase discendente, ben lontani dalla luna di miele dei primi anni di Duterte, e continuano a essere caratterizzati dalla disputa nel Mar Cinese Meridionale. In questo senso, è altamente probabile che Bong Bong manterrà la linea dei suoi predecessori, ossia cercare di ricavare il massimo dal rapporto con Pechino senza però sacrificare la propria posizione e le rivendicazioni marittime. E proprio in questi giorni si è verificato l’ennesimo incidente, con una vedetta della guardia costiera cinese che ha allontanato la RV Legend, un’imbarcazione taiwanese con a bordo alcuni scienziati filippini, impegnati in attività di ricerca marina. Per questo motivo, il dipartimento degli Affari esteri ha convocato un quadro dell’ambasciata cinese per presentare una formale nota di protesta.

Secondo il think tank americano Asia Maritime Transparency Initiative (AMTI), negli ultimi due mesi si sono verificati ben tre incidenti in cui le forze cinesi hanno impedito legittime attività di ricerca marina ed esplorazione di idrocarburi all’interno della zona economica esclusiva filippina.

I prossimi mesi saranno indicativi per comprendere il sentiero di politica estera scelto da Marcos, in un momento in cui il bilanciamento e una sorta di equilibrismo tra Washington e Pechino sono sempre più complicati.

 

Immagine: I manifesti della campagna elettorale di Ferdinand Marcos Jr. e Sara Duterte, La Trinidad, Benguet, Filippine  (15 febbraio 2022). Crediti: CaveDweller99 / Shutterstockc.com

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L’eredità del Massacro di Nanchino nei rapporti sino-giapponesi

 

Il rapporto tra Cina e Giappone è particolarmente complesso, soggetto ad un’altalenante intensità che ha ripetutamente rischiato di compromettere i risultati faticosamente raggiunti. Tale complessità ha radici storiche molto profonde, che nel tempo hanno prodotto diversi ribaltamenti nel rapporto di forze: da una Cina egemone che richiedeva il tributo del piccolo regno vicino, al Giappone imperialista che vedeva il disastrato impero cinese come soggetto ideale per sfogare le proprie ambizioni. La prima guerra sino-giapponese (1894-95) rappresentò un vero e proprio terremoto culturale e geopolitico, con la vittoria nipponica che diede una delle spallate definitive alla decadente dinastia Qing. Il Giappone ottenne il controllo della penisola coreana, ma non riuscì a conquistare il suo principale obiettivo, ossia la Manciuria. La competizione per la ricca regione nord-orientale convinse il Giappone a lanciare un’offensiva e, nel settembre 1931, l’esercito imperiale invase e occupò la Manciuria. Seguirono diverse schermaglie tra le forze giapponesi e quelle cinesi, che però non si concretizzarono in un vero conflitto su larga scala sino al famigerato incidente del Ponte di Marco Polo nel luglio 1937.

A prescindere dalla reale natura dell’incidente, molto probabilmente inscenato dalle forze occupanti, questo fornì l’input necessario per lo scoppio della seconda guerra sino-giapponese. Dopo aver consolidato la propria posizione in Manciuria, con la creazione dello Stato fantoccio del Manchukuo nel 1932, Tokyo poteva ora concentrarsi sulle principali città e porti cinesi, portando avanti una campagna di conquista tanto cruenta quanto inesorabile. Nel dicembre del 1937 l’esercito giapponese, dopo aver conquistato Shanghai, proseguì la sua avanzata verso Nanchino, l’allora capitale della Repubblica di Cina. Le forze cinesi, in ritirata e fortemente indebolite dopo la sconfitta patita a Shanghai, decisero di abbandonare la capitale, lasciando così la città in mano alle forze occupanti. Dopo una strenua resistenza civile, guidata principalmente da imprenditori e missionari stranieri attraverso la creazione di una zona demilitarizzata per tutelare donne e bambini, il 13 dicembre la città cadde in mano giapponese. Quello che accadde nelle settimane successive è passato alla storia come uno dei più brutali eccidi della storia recente, il Massacro di Nanchino.

I soldati giapponesi iniziarono la propria rappresaglia uccidendo tutte le persone che fossero sospettate di essere soldati o di aver legami con le forze di Chiang Kai-shek, passando poi a tutti i civili che si trovassero al di fuori della zona neutrale. Gli uomini vennero uccisi e migliaia di donne furono vittima di violenza sessuale, per poi essere trasformate nelle cosiddette confort women, schiave sessuali al soldo dei giapponesi. Nel gennaio del 1938, gli ufficiali giapponesi ordinarono l’abolizione della zona demilitarizzata poiché la città, o ciò che ne rimaneva, poteva considerarsi sottomessa. Quando le persone tornarono alle loro abitazioni, trovarono ad attenderle i soldati imperiali per un’ultima razione di violenza gratuita. La situazione raggiunse un equilibrio solo il mese successivo, quando i giapponesi decisero di instaurare un governo locale e concentrarsi su altri obiettivi.

L’efferatezza e la violenza perpetrata dal Giappone rendono pressoché impossibile un conteggio delle vittime, ma le stime ufficiali cinesi oscillano perfino su 300.000 morti, con una cospicua forbice a seconda della fonte presa in considerazione. Infatti, ancora oggi, il resoconto e il retaggio di una delle pagine più nere della Seconda guerra mondiale è fonte di frizione tra Pechino e Tokyo. Soprattutto da parte cinese, l’accusa è quella di minimizzare la gravità dell’accaduto attraverso diverse azioni di revisionismo storico: testi scolastici che ridimensionano notevolmente la spinta imperialista, e le conseguenti atrocità, e la rilevanza politica dello Yasukuni Shrine, un santuario shintoista dove è possibile commemorare e rendere omaggio ad alcuni dei più efferati criminali di guerra che ha visto negli anni la visita di numerosi premier giapponesi.

Nel 2014 la Repubblica Popolare ha istituito una giornata di commemorazione nazionale, alla cui cerimonia inaugurale ha partecipato anche il presidente Xi Jinping, e la memoria del massacro del 1938 viene rinnovata dal Partito comunista cinese ogni 13 dicembre. Secondo la leadership di Pechino, imparare dalla storia è fondamentale per far sì che quanto accaduto a Nanchino non si ripeta mai più. Questo approccio rappresenta il desiderio cinese di cooperare pacificamente con tutti i popoli, in modo da costruire un mondo basato sulla pace, la sicurezza reciproca, la prosperità condivisa, la comprensione e la tolleranza.

Un’apertura rivolta anche verso i giapponesi, nonostante siano i carnefici e, secondo la Cina, abbiano fatto ben poco per redimersi, soprattutto durante i due mandati presidenziali di Shinzo Abe (2006-07 e 2012-20), che non è stato solo espressione di un sentimento politico anticinese, ma anche il perfetto rappresentante del complesso retaggio storico che i due Paesi condividono. Il nonno materno di Abe era Nobosuke Kishi, protagonista di un brutale pugno di ferro in Manciuria e accusato di crimini contro l’umanità. Queste accuse caddero solamente perché gli Stati Uniti videro in lui un prezioso alleato contro l’espansione del comunismo in Asia, al punto da diventare primo ministro (1957-60). Le ripetute visite di Abe al Yasukuni Shrine e la piena adesione riguardo il revisionismo storico sull’occupazione giapponese, complicarono ulteriormente il già delicato rapporto bilaterale.

L’elezione a primo ministro del più moderato Fumio Kishida potrebbe rappresentare un primo passo in avanti verso una normalizzazione dei rapporti, nonostante alcune sue dichiarazioni sulla necessità di aumentare la spesa per la difesa e di un maggiore protagonismo militare giapponese. Inoltre, una sempre più consistente porzione della società civile, in entrambi i Paesi, pensa sia fondamentale trovare un equilibrio e che i due governi dovrebbero lavorare più duramente per risolvere le loro dispute. La pace nella regione e il consistente volume degli scambi commerciali, soprattutto in questo momento storico, sono due interessi condivisi che non possono minimamente essere messi in discussione. In questo senso, è quantomeno auspicabile ricercare un nuovo terreno comune, che riconosca e tenga conto di quanto accaduto nel passato ma sappia anche, nel rispetto delle vittime, andare avanti e pensare a un futuro condiviso.

 

Immagine: L’interno del Nanjing massacre memorial hall, Nanchino, Jiangsu, Cina (20 agosto 2020). Crediti: ThewayIsee / Shutterstock.com

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Vecchie abitudini e nuove sfide nel Mar Cinese Meridionale

 

L’invasione dell’Ucraina è indiscutibilmente l’argomento centrale in qualsiasi dibattito di politica internazionale, un pianeta attorno al quale non possono che orbitare altri argomenti satellite, con possibili scenari similari e analogie.

Uno dei casi principali riguarda la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e il suo irredentismo verso Taiwan e gli arcipelaghi del Mar Cinese Meridionale. Per quanto si tratti di un paragone particolarmente ardito sotto diversi punti di vista, sia per la diversa postura internazionale (anche in termini revisionistici) di Pechino e Mosca e sia per la diversissima natura delle rivendicazioni su Taiwan e Ucraina, la Cina dovrà probabilmente fronteggiare una situazione marittima sempre più volatile.

La disputa nel Mar Cinese Meridionale vede coinvolta una moltitudine di attori regionali, partendo dalle rivendicazioni della Cina (inclusa la Repubblica di Cina, ossia Taiwan) e passando poi per quelle di Brunei, Filippine, Malaysia e Vietnam, ossia la quasi totalità degli Stati rivieraschi dell’Asia Sudorientale. L’oggetto della disputa è il controllo su diversi arcipelaghi e gruppi di isole, incluse le acque circostanti: le Pratas, le Paracelso, le Spratly e Macclesfield Bank. Nonostante il contenzioso si sia storicamente sviluppato a bassa intensità, con picchi repentini di tensione seguiti poi da lunghi periodi di tranquillità, la possibilità di vedere una vera escalation non è da escludere.

La situazione è infatti in lento, ma progressivo deterioramento e, di fronte alla costante pressione messa in campo da Pechino, gli altri contendenti potrebbero perdere le speranze riguardo al raggiungimento di una soluzione diplomatica, spesso sotto forma di memorandum che non vanno oltre la dichiarazione di intenti.

Negli ultimi 18 mesi la Cina ha aumentato il numero di esercitazioni militari e pattugliamenti marittimi nelle acque contese, soprattutto dopo la promulgazione, nel gennaio 2021, di una legge che ha ulteriormente rafforzato le capacità di intervento della guardia costiera cinese. Questa decisione non rappresenta una sorpresa, ma è anzi un ulteriore passo in avanti nella strategia cinese di affiancare una guardia costiera sempre più assertiva alle operazioni della People’s Liberation Army Navy (PLAN). Pochi mesi dopo, Filippine e Vietnam hanno denunciato l’adunata di più di 200 imbarcazioni armate, appartenenti ad entrambe le entità sopracitate, nei pressi della zona contesa di Whitsun Reef. Manila e Hanoi hanno poi diffuso alcune immagini e video, convincendo così il comando navale cinese a dare l’ordine di abbandonare l’area, con le imbarcazioni che si sono prontamente disperse verso le zone circostanti. Ci sono stati diversi problemi anche con la Malaysia, principalmente riguardanti operazioni di esplorazione ed estrazione di petrolio e gas. La guardia costiera cinese continua a pattugliare la zona adiacente al giacimento di Kasawari, al largo di Sarawak, prendendo di mira sia le operazioni di perforazione che le navi da rifornimento. A questa provocazione è poi seguito il passaggio di alcuni jet cinesi nei pressi dello spazio aereo malese, a cui Kuala Lumpur ha risposto con una nota diplomatica di protesta.

Sebbene non ancora direttamente coinvolta nel contenzioso, anche l’Indonesia ha avuto un momento di tensione con la Cina per quanto riguarda l’estrazione di idrocarburi. Le operazioni di estrazione portati avanti da Jakarta in due pozzi posti all’estremità meridionale del Mar Cinese Meridionale hanno provocato la mobilitazione di diverse motovedette e una nave da ricognizione della guardia costiera cinese, che ha così inaugurato delle schermaglie con i corrispettivi indonesiani che vanno avanti da mesi.

Questa rampante assertività non poteva che ridurre drasticamente la fiducia nei confronti di Pechino e condurre verso un possibile ritorno della minaccia cinese, soprattutto considerando il momento storico in cui ci troviamo. Infatti si è presentata una rarissima situazione in cui la quasi totalità dei contendenti si trova concorde nel condannare le azioni destabilizzanti di Pechino, a cui poi si va ad aggiungere il coro di una comunità internazionale sempre più interessata alla regione e al contenzioso. La creazione dell’AUKUS è solamente l’esempio più recente.

Di conseguenza, non solo la situazione in Ucraina rappresenta la motivazione ideale per un ulteriore aumento della spesa militare, ma queste azioni da parte della Cina non fanno che rendere la cosa necessaria anche agli occhi dell’opinione pubblica più scettica. Senza contare i cambiamenti politici in atto nelle immediate vicinanze della Cina: la Corea del Sud ha espresso un presidente che ha tutta l’intenzione di ricalibrare il rapporto con la RPC, improntando la sua campagna elettorale su una forte retorica anticinese, e anche la corsa presidenziale nelle Filippine sta seguendo questa traccia.

Il mandato del presidente filippino Rodrigo Duterte è stato caratterizzato da una forte affinità con Pechino e da un rapporto quantomeno altalenante con Washington, persino minacciando un vero e proprio ridimensionamento dell’alleanza. Ora, invece, non ha solo confermato il programma di esercitazioni congiunte, ma ha addirittura posto le basi per un più approfondito framework marittimo. Filippine e Stati Uniti hanno ripreso i dialoghi strategici bilaterali, l’ultimo dei quali ha prodotto una dichiarazione congiunta dall’emblematico titolo Una visione condivisa per la partnership tra Filippine e Stati Uniti nel XXI secolo, e hanno annunciato la volontà di sviluppare nuovi piani e linee guida di difesa bilaterale. La conseguenza più immediata di questo ritorno di fiamma è stato l’invio di alcune motovedette della guardia costiera filippina nei pressi di Thitu Island, la più grande isola controllata dalle Filippine nelle Spratly. Il risultato delle elezioni presidenziali, previste per il prossimo mese, saprà dirci di più sull’evoluzione di questo rapporto triangolare, ma l’ago della bilancia filippina sembra pendere sempre più verso Washington.

Le Filippine non sono l’unico Paese ad aver manifestato la propria intolleranza verso l’atteggiamento cinese: la Malaysia ha annunciato, attraverso il suo ministro degli Esteri, di non avere alcuna intenzione di fermare le attività a Kasawari, con la consapevolezza che la Cina continuerà la sua opera di disturbo. Stessa cosa si può dire sull’Indonesia di Jokowi, che ha addirittura proposto un incontro agli altri contendenti per preparare una risposta congiunta. La profonda divisione tra questi governi, più concorrenti che alleati, ha storicamente facilitato la strategia marittima di Pechino, permettendole di consolidare la sua posizione attraverso una progressiva militarizzazione delle isole. La firma di documenti poco più che simbolici, come dichiarazioni di intenti, non sembra essere più sufficiente, e questa volta i Paesi del gruppo ASEAN potrebbero realmente pretendere la firma di un vero codice di condotta, vincolante e con un sistema sanzionatorio, sapendo di poter contare sulla sponda degli Stati Uniti.

 

Immagine: Piattaforme petrolifere e navi da trasporto nel Mar Cinese Meridionale. Crediti: corlaffra / Shutterstock.com

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La svolta conservatrice della Corea del Sud

Le elezioni politiche in Corea del Sud si sono svolte in un clima di grande tensione, in un contesto globale comprensibilmente concentrato sulla guerra in Ucraina e le sue possibili ramificazioni. Ciò nonostante, rappresentavano uno degli appuntamenti più attesi della stagione politica in Asia orientale, dato il sempre più rilevante ruolo di Seoul nella regione e il forte contrasto tra i due principali candidati alla presidenza su questioni fondamentali come il rapporto con la Corea del Nord e con la Repubblica Popolare Cinese.

La tornata del 9 marzo vedeva contrapposti ben dodici candidati, anche se appariva chiaro da tempo chi fossero i due sfidanti: Yoon Suk-yeol, il candidato del partito conservatore People Power Party, e Lee Jae-myung, il nome scelto dal Partito democratico di Corea per prendere il posto dell’uscente Moon Jae-in. La campagna elettorale è stata caratterizzata da continue accuse di corruzione, inadeguatezza e comportamenti scorretti, con il risultato che nessuno dei due candidati ha realmente conquistato il favore popolare, quasi trasformando il confronto in una sfida di impopolarità. Una sfida che comunque ha decretato un vincitore, sebbene con un margine risicatissimo. Infatti, Yoon Suk-yeol è stato dichiarato vincitore con il 48,6%, mentre Lee si è fermato al 47,8%.

Yoon Suk-yeol è un avvocato e pubblico ministero, salito agli onori della cronaca nel 2018 per essere uno dei principali esponenti del team che ha condannato due ex presidenti coreani, Lee Myung-bak e Park Geun-hye, per corruzione e abuso di potere. Il suo lavoro è stato particolarmente apprezzato da Moon Jae-in, che nel 2019 lo ha nominato procuratore generale. Il rapporto tra i due, però, si è velocemente incrinato, soprattutto a causa dell’indagine aperta nei confronti di Cho Kuk, fresco di nomina a ministro della Giustizia e papabile successore di Moon. Cho non era di certo nuovo agli scandali, ma l’indagine lanciata da Yoon si è concentrata principalmente sulla sua famiglia: la moglie è stata accusata di aver contraffatto un atto proveniente dall’ufficio del procuratore, ed entrambi sono stati accusati di aver falsificato i risultati accademici della figlia per permetterle di entrare alla prestigiosa Busan National University. Cho Kuk ha abbandonato la carica dopo appena un mese, nell’ottobre del 2019, mentre la moglie è stata condannata a quattro anni di reclusione nel dicembre 2020. L’attacco a Cho ha sancito la rottura definitiva tra Moon e Yoon, che è stato prima sospeso per presunto abuso di potere e favoreggiamento in alcune indagini. Nel marzo 2021 ha rassegnato le sue dimissioni e poco dopo annunciato la sua candidatura per le elezioni dell’anno successivo.

Questo momento rappresenta un tassello fondamentale nella narrazione eroicamente populista di Yoon, che proprio in virtù di questo rapporto conflittuale ha promesso di portare a galla tutto il marciume radicato nell’amministrazione di Moon. Ponendosi quasi come una vittima dei giochi di potere politici, Yoon è riuscito abilmente a presentarsi come un paladino della giustizia contro l’inequivocabilmente corrotto Partito democratico di Corea.

E questa narrazione, sebbene intaccata dagli scandali di cui lo stesso Yoon si è reso protagonista, probabilmente ha funzionato, soprattutto con l’elettorato più giovane che solitamente sosteneva i partiti più liberali. L’alta disoccupazione, il costo stratosferico degli immobili e l’inflazione galoppante hanno creato un clima di forte disillusione tra i giovani, che vedono drasticamente restringersi le possibilità di realizzarsi e creare una famiglia. In questo senso, il Partito democratico è stato efficacemente presentato come il colpevole della situazione, mentre Yoon ha basato la sua campagna elettorale sulla lotta alle diseguaglianze e alla disoccupazione, con un mix di interventismo statale e fiducia nell’autoregolamentazione del mercato. Ha promesso la costruzione di circa due milioni di abitazioni, in modo da contrastare la speculazione edilizia, oltre alla creazione di nuovi posti di lavoro attraverso un’ulteriore liberalizzazione e flessibilità del mercato del lavoro.

Le riforme promesse dal presidente eletto non saranno però di facile realizzazione, poiché la composizione del Parlamento non riflette la risicatissima vittoria del People Power Party. Il Partito democratico infatti, con i suoi 172 seggi, manterrà la maggioranza sino alle elezioni legislative del 2024 e non renderà di certo le cose facili al governo di Yoon.

Per quanto concerne la politica estera, quali potrebbero essere i principali cambiamenti apportati dalla presidenza di Yoon? Cosa possiamo aspettarci da questo ritorno a destra della Corea del Sud, in un momento così delicato?

Il presidente eletto ha più volte reiterato la volontà di affrancarsi dalla politica estera di Moon, che è stata attaccata su tutti i fronti durante la campagna elettorale. Una delle principali accuse è stata quella di aver quasi alienato la più importante alleanza per la Corea del Sud, quella con gli Stati Uniti, in favore della Cina e, di conseguenza, ha già preannunciato la volontà di resettare i rapporti con Pechino. Yoon si è detto quasi costretto a prendere questa decisione, poiché le politiche filocinesi di Moon non hanno fatto che creare malcontento e potrebbero sfociare in un sentimento anticinese, soprattutto tra i più giovani. Yoon ha quindi spesso menzionato la necessità di inaugurare una nuova era di cooperazione con la Cina, basata sul rispetto reciproco e una maggiore frequenza di incontri strategici ad alto livello. Però ha anche minacciato di riaprire il discorso riguardo il sistema THAAD (Theater High Altitude Area Defense) con gli Stati Uniti, lasciato cadere da Moon proprio a causa delle rimostranze e ritorsioni cinesi.

Anche la gestione del rapporto con la Corea del Nord, che avrebbe dovuto rappresentare l’eredità politica di Moon, è stata fortemente criticata per eccessiva accondiscendenza e passivismo. Di conseguenza, Yoon ha già promesso una linea decisamente più dura nei confronti di Pyongyang, e durante la campagna elettorale ha addirittura dichiarato che lancerebbe un attacco preventivo nel caso gli arrivassero notizie di un’imminente offensiva nordcoreana, dichiarazione per cui è stato molto criticato. Non dovremo quindi sorprenderci se la Corea del Nord decidesse di riprendere i suoi test, magari con i rumoreggiati missili balistici intercontinentali, proprio in concomitanza dell’insediamento di Yoon, previsto per maggio. L’idea di riallinearsi con Washington appare quindi come una logica necessità, in modo da controbilanciare la crescente minaccia nucleare nordcoreana con l’estesa deterrenza garantita dalla presenza americana. La Casa Bianca si è prontamente congratulata con Yoon per la sua vittoria, ribadendo la volontà di rafforzare ed espandere la cooperazione tra i due Paesi.

Da questo punto di vista, Yoon sembra allinearsi fin troppo all’epoca di grande incertezza globale che stiamo vivendo, lasciando trasparire molto chiaramente la volontà di ridiscutere la politica regionale di Seoul in termini di potenza e forza militare. Una scelta che non potrà che comportare una maggiore instabilità in una regione che presenta già numerose zone calde, e che non ha di certo bisogno di un innalzamento del livello di conflittualità.

 

Immagine: Striscioni dei candidati alla presidenza appesi durante la campagna per le elezioni presidenziali, Daegu, Corea del Sud (22 febbraio 2022). Crediti: Ki young / Shutterstock.com

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Quali sviluppi nel rapporto tra Corea del Sud e Stati Uniti?

 

Nel corso degli ultimi anni abbiamo sempre più sentito parlare della Corea del Sud e della sua cultura, grazie alla grande fama internazionale raggiunta da alcuni dei suoi principali esponenti: band come BTS e Blackpink sono tra le più famose al mondo, i premi Oscar conquistati da Bong Joon-ho con Parasite hanno portato alla ribalta il cinema coreano, senza dimenticare il fenomeno Squid Game che ha letteralmente sconvolto l’algoritmo di Netflix.

Per quanto riguarda invece una riflessione più incentrata sulla politica internazionale e sul ruolo di Seoul nella regione dell’Asia-Pacifico, il discorso è spesso monopolizzato dalla variabile nordcoreana e dalla pericolosa convivenza tra le due anime della penisola. Ciononostante, Seoul aspira ad un ruolo sempre più rilevante e autonomo nella regione, in un certo senso affrancandosi sia dal grande rivale che dallo storico alleato. Infatti, sebbene gli Stati Uniti siano più che disponibili ad includere la Corea del Sud nella propria strategia anticinese, il governo coreano è storicamente scettico sull’effettiva portata della cosiddetta minaccia cinese e preferisce un approccio che non pregiudichi i canali di comunicazione faticosamente costruiti con Pechino.

La presidenza Biden sembra offrire nuove opportunità rispetto alla precedente amministrazione, con Trump che vedeva la regione come un palcoscenico per i suoi publicity stunt oltre ad aver sostanzialmente trascurato tutti gli alleati. Il cambio di prospettiva è stato tangibile fin dall’insediamento di Biden, dato che il presidente sudcoreano Moon Jae-in è stato il secondo leader straniero ad essere invitato alla Casa Bianca. In quella occasione Moon portò al tavolo delle richieste tanto coraggiose quanto importanti: sollevare tutti i limiti al programma missilistico sudcoreano e la nomina di Sung Y. Kim (ambasciatore con una grande esperienza nella regione) come rappresentate speciale per gli affari nordcoreani, in modo che la politica dei due Paesi verso Pyongyang potesse essere più coordinata e armoniosa. Venne inoltre accordato un piano in grado di permettere alla Corea del Sud di consolidare la propria centralità a livello tecnologico, con un forte investimento in tecnologie di nuova generazione come 5G, intelligenza artificiale (IA) e la produzione di semiconduttori.

In cambio di queste concessioni, Moon accordò un diretto riferimento allo Stretto di Taiwan e al Mar Cinese Meridionale nella dichiarazione congiunta che venne rilasciata a margine dell’incontro, nella quale la Corea del Sud si univa alla lotta contro «tutte le attività che minassero, destabilizzassero o minacciassero il sistema internazionale» oltre a sposare la causa dell’Indo-Pacifico libero e aperto a tutti. L’opinione pubblica sudcoreana ha accolto con favore questo ritorno alla normalità con Washington, poiché la presenza militare americana è vista come fonte di stabilità a fronte delle possibili minacce alla sicurezza regionale, in primis la Cina.

Ma l’establishment politico sudcoreano non ha una posizione così netta, e preferisce mantenere la ormai abituale altalena tra Washington e Pechino, cercando di non scontentare nessuno. La strenua fiducia di Moon nell’engagement diplomatico ed economico verso la Corea del Nord è particolarmente affine a quanto storicamente richiesto dalla Cina, e si pone in contrapposizione con la strategia di “massima pressione” portata avanti dagli Stati Uniti. La maggiore indipendenza strategica a cui anela Seoul, infine, si concretizzerebbe idealmente con la cessione del comando operativo delle forze statunitensi in Corea, che gli Stati Uniti non sono ancora pronti a discutere anche in virtù dell’ambiguità di certe posizioni dell’alleato.

Ciononostante la Corea del Sud ha operato un costante aumento del budget riservato alla difesa, in modo da sostenere la pianificata crescita delle capacità militari e il prosieguo delle riforme in atto. Questa spinta riformista ha l’obiettivo di rinnovare le forze armate sudcoreane in maniera netta, trasformandole in una risorsa in grado di affrontare le numerose sfide future per la sicurezza nazionale. Il piano di riforma della difesa è stato lanciato durante i primi mesi del governo Moon, con l’obiettivo di facilitare il raggiungimento dei target precedentemente fissati e velocizzare l’identificazione di nuovi ed ambiziosi obiettivi, per creare dei corpi militari più efficienti, versatili e funzionali non solo in termini di deterrenza verso la Corea del Nord ma anche verso i possibili cambiamenti che potrebbero sconvolgere lo scacchiere regionale.

Questa crescita e questa ambizione sono strettamente collegate alla sopracitata volontà di ottenere il controllo operativo, per cui è necessario un sostanzioso aumento della forza militare che possa permettere alla Corea del Sud di cambiare passo. Sostanzialmente, l’obiettivo auspicato sia da Seoul che da Washington è che il costante rinnovamento della difesa sudcoreana possa condurre ad una maggiore indipendenza nell’affrontare la minaccia posta dal ‘regno eremita’.

Sebbene le discussioni sul possibile passaggio di consegne siano in stallo, così come la prospettiva di una riconciliazione con Pyongyang sia sempre la prima opzione, è indubbio che la Corea del Sud abbia bisogno di una maggiore autonomia all’interno dell’alleanza indo-pacifica e una maggiore rilevanza a livello internazionale, in modo da accordarsi con il suo peso economico e militare.

 

Immagine: Le bandiere coreana e americana su un’auto, durante le proteste contro Moon Jae-in, Seoul, Corea del Sud (8 febbraio 2020). Crediti: Javier Badosa / Shutterstock.com

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Quale ruolo per la Cina nella crisi ucraina?

Dopo giorni di dubbiosa attesa, segnati dall’alternarsi di speranze sul dialogo e disillusione sulla reale possibilità di arrivare a un compromesso, il presidente russo Vladimir Putin ha rotto gli indugi e, dopo aver riconosciuto ufficialmente le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, ha lanciato un attacco su vasta scala nei confronti dell’Ucraina.

La risposta dell’Occidente, sotto forma di NATO e Unione Europea (UE) a cui poi si sono aggiunti anche Giappone, Australia e Canada, non si è fatta attendere: un primo set di sanzioni è stato introdotto poche ore dopo l’offensiva russa, concentrandosi principalmente sul sistema bancario e finanziario, export tecnologico, trasporti, energia (anche se solo in parte). Nel momento in cui scriviamo, un ulteriore blocco di sanzioni è al vaglio e potrebbe velocemente aggiungersi alle limitazioni sopracitate. Le misure restrittive sono ormai un caposaldo dei rapporti tra Occidente e Russia, sebbene ne venga storicamente messa in discussione l’efficacia, sia da parte di analisti che da esponenti politici. Ciò nonostante, al momento pare l’unico strumento disponibile per cercare di rispondere all’avanzata dell’esercito russo.

Se scorriamo la lista dei governi che hanno aderito al sistema di sanzioni, salta subito all’occhio l’assenza di uno dei principali protagonisti dello scenario internazionale, ossia la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Un’assenza scontata per studiosi e analisti, ma che ha invece creato stupore in diverse redazioni, che si sono prontamente scagliate verso Pechino per non essersi accodata al concerto occidentale. Di conseguenza, l’ambivalenza della Cina è divenuta oggetto di discussione e il governo cinese è stato accusato di “opportunismo strategico” per non aver preso posizione.

La Cina è chiamata a gran voce a fare qualcosa, ma esattamente cosa ci si aspetta che faccia?

Appare lecito chiedersi quale ruolo possa, ma soprattutto voglia, giocare Pechino in questo delicatissimo momento internazionale. Un approccio in gran parte condizionato da pregiudizi – e che manca di concentrarsi sul fondamentale ruolo diplomatico che la RPC potrebbe giocare per convincere gli attori coinvolti a sedersi al tavolo negoziale – si è focalizzato su due questioni: perché la Cina non ha partecipato al concerto delle sanzioni verso la Russia? Pechino coglierà l’attimo per lanciare un’offensiva nei confronti di Taiwan? A riguardo, il ministero degli Affari esteri cinese, rappresentato dalla portavoce Hua Chunying, ha prontamente organizzato una conferenza stampa per esporre la sua visione sulla tragica situazione in Ucraina.

Per quanto riguarda la questione delle sanzioni, sarebbe stato abbastanza sorprendente vedere la Cina unirsi al coro guidato dagli Stati Uniti e dall’Europa. La Cina ha sempre rifiutato le sanzioni unilaterali, è convinta che siano un ostacolo per la diplomazia e uno strumento dannoso per la ricerca del dialogo. In questo senso, Hua ha ribadito la totale devozione della Cina verso la promozione della pace e del dialogo, e la volontà di giocare un ruolo costruttivo nella ricerca di una soluzione pacifica. Ha anche fatto sapere che una proposta cinese esiste ed è stata formulata al presidente francese Macron durante un colloquio telefonico con Xi Jinping, ossia la riproposizione del format negoziale inaugurato in Normandia nel 2014: tavolo negoziale con Russia, Ucraina, Francia e Germania. Un gesto di fiducia nei confronti dell’Europa, accompagnato dalla evidente estromissione degli Stati Uniti, considerati co-responsabili dell’esplosiva situazione ucraina.

La Cina ritiene che l’obiettivo non sia percorribile attraverso l’imposizione di sanzioni unilaterali, una scelta coerente con la sua tradizione diplomatica ma che ha sollevato un certo scetticismo, soprattutto alla luce dell’incontro di inizio febbraio tra Xi Jinping e Vladimir Putin, in occasione dell’inaugurazione dei Giochi olimpici di Pechino. Durante il meeting venne ripresa una precedente linea di dialogo su cooperazione energetica, infrastrutturale e finanziaria. Se l’accordo principale riguardava l’acquisto di gas e la costruzione di un nuovo gasdotto, è stata firmata anche un’intesa tariffaria, per cui la Cina avrebbe sollevato i dazi verso alcuni prodotti russi e viceversa, come ad esempio il grano, bene che è diventato così una sorta di simbolo della contrapposizione tra Occidente e Cina. Sebbene frutto di un accordo precedente l’inizio delle ostilità, è indubbio che la Cina si avvantaggi di questa situazione. Così come gli Stati Uniti e l’UE hanno deciso di porre dei distinguo sulle sanzioni, escludendo il gas e la quasi totalità del settore energetico, per tutelare l’economia e la popolazione da ulteriori aumenti del prezzo di energia e benzina. In sostanza, sebbene la posizione cinese non sia immune dalle critiche, di certo non si può dire che non sia coerente con la sua dottrina e con i cinque principi della coesistenza pacifica.

E qui si riallaccia la seconda questione, ossia l’idea che la Cina possa in qualche modo giovarsi della situazione per concretizzare le sue mire su Taiwan. Il parallelo tra Ucraina e Taiwan è salito velocemente alla ribalta, per quanto fuorviante e di facile strumentalizzazione, anche a causa delle preoccupazioni espresse dalla leadership taiwanese. La risposta di Pechino è stata particolarmente stizzita, con Hua Chunying che ha accusato le autorità taiwanesi di imprudenza e di voler strumentalizzare la questione ucraina a loro vantaggio. Taipei e Kiev rappresentano due casi molto diversi: la questione Ucraina è intesa come uno scenario geopolitico dove si scontrano gli interessi di diverse potenze; la questione taiwanese è inequivocabilmente intrinseca alla storia cinese e Taiwan è vista come una parte inalienabile del territorio cinese. Di conseguenza, per quanto la Cina possa aver compreso le ragioni e la preoccupazione di Mosca, soprattutto circa un possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO e le annesse conseguenze da un punto di vista strategico-militare, il confronto tra i due Paesi non viene considerato da Pechino come una questione interna russa.

La questione taiwanese è molto diversa dalla questione ucraina, e pensare che la Cina possa sfruttare la grande confusione europea per fare una mossa verso l’isola ribelle è quantomeno un azzardo, che andrebbe in contraddizione con praticamente ogni caposaldo della politica estera cinese.

Da un certo punto di vista, rappresenta un’ulteriore dimostrazione delle difficoltà, che ogni tanto rischiano di trasformarsi in insofferenza, nel comprendere la Cina e le sue aspirazioni, le quali vengono troppo spesso rappresentate come irrazionali e imprevedibili, i suoi leader come volatili e la sua politica come revisionista. E l’automatica associazione tra Taiwan e Ucraina, tra Cina e Russia, ne è ulteriore dimostrazione. La Cina non ha alcun interesse ad essere associata alla Russia – i due Paesi non sono alleati ma partner – e a vedere un mondo destabilizzato e non in grado di sostenere la ripresa economica mondiale. Pechino tradizionalmente non ama il caos, ed è per questo motivo che il principale obiettivo cinese è trovare velocemente un modo per portare gli attori coinvolti al tavolo negoziale e giungere rapidamente a una risoluzione pacifica.

 

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Immagine: Xi Jinping (23 marzo 2019). Crediti: Alessia Pierdomenico / Shutterstock.com

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Le nuove (vecchie) sfide del Giappone di Kishida

Il Giappone ha un nuovo primo ministro, e il suo nome è Fumio Kishida.

Kishida si è insediato poco più di un mese fa, esattamente il 4 ottobre, dopo aver vinto le primarie del suo partito, il Partito liberaldemocratico (LDP, Liberal Democratic Party) il 29 settembre. Non ha raccolto la più facile delle eredità, dato che il governo di Yoshihide Suga è stato uno dei più criticati della recente storia giapponese. Una gestione della pandemia per certi versi disastrosa, l’ostinazione nel voler svolgere comunque i Giochi Olimpici, nonostante la forte contrarietà di una considerevole fetta di società civile e il ritiro di alcuni importanti sponsor. In tutto questo, si approssimavano le elezioni per il rinnovo della Camera bassa del Parlamento e diversi osservatori ipotizzavano una débâcle per l’LDP.

Durante le elezioni generali tenute il 31 ottobre scorso, il Partito liberaldemocratico ha mantenuto l’ormai storico controllo sul Parlamento, sebbene con un leggero calo per quanto riguarda il numero di seggi controllati. Infatti, l’LDP ha ottenuto 261 seggi, 23 in meno rispetto ai 284 del 2017, mentre l’alleato di governo Komeito ne ha incassati 32, con un leggera crescita rispetto alla precedente tornata elettorale. Per quanto riguarda le opposizioni: il Partito democratico costituzionale del Giappone (CDPJ, Constitutional Democratic Party of Japan), nato nel 2017 per riunire le diverse anime del Partito democratico e del Partito socialdemocratico, ha esordito ottenendo 97 seggi mentre l’Ishin, partito di ispirazione populista guidato dal sindaco di Osaka Ichiro Matsui, ha conquistato 41 seggi, facendo segnare la maggiore crescita (+30 seggi) rispetto alle scorse elezioni. A chiudere, si segnalano gli 11 seggi per il Partito democratico del popolo (DPP, Democratic Progressive Party) e i 10 del Partito comunista giapponese (JCP, Japanese Communist Party). Una sostanziale disfatta per la coalizione di centro-sinistra, che si è presentata alle elezioni con una rinnovata unità e competitività ma che alla fine ha ottenuto meno seggi rispetto al 2017.

In sostanza, la composizione della Camera dei rappresentanti non è cambiata in maniera così radicale rispetto al passato e la coalizione tra LDP e Komeito è riuscita a mantenere la maggioranza assoluta.

In questo senso, diversi analisti si sono interrogati circa le possibilità di un maggior attivismo, soprattutto in campo riformista, da parte del Partito liberaldemocratico, anche in virtù della fama di Kishida, apparentemente desideroso di avviare un’era di maggior protagonismo giapponese nella regione. Paradossalmente, non potrebbe esserci un momento migliore, con il confronto tra Cina e Stati Uniti in pericolosa ascesa e la volontà di Washington di rimettere radici in Asia-Pacifico.

Poco dopo la nomina a primo ministro, Kishida ha annunciato la volontà di iniziare i lavori di revisione sui principali documenti riguardanti la difesa, come ad esempio la Strategia di sicurezza nazionale del Giappone. Volontà che è stata reiterata anche durante la campagna elettorale, con uno dei principali slogan dell’LDP che prometteva un deciso rafforzamento delle capacità difensive di Tokyo dal 2022. Il manifesto elettorale prevedeva innanzitutto una maggiore operatività della guardia costiera giapponese, in modo da permetterle di cooperare in maniera più incisiva con le Jietai, ossia le Forze di autodifesa, e creare così un deterrente per le sortite cinesi nel Mar Cinese Orientale, sede della disputa tra i due Paesi sull’arcipelago delle Senkaku/Diaoyu.

Kishida non ha neppure escluso un maggior coinvolgimento per quanto riguarda la questione taiwanese, con addirittura il primo dibattito pubblico circa l’opportunità di sostenere attivamente gli Stati Uniti per quanto riguarda la difesa di Taipei. Sanae Takaichi, ex ministro degli Interni e personalità molto vicina all’ex premier Shinzo Abe, ha tenuto un meeting virtuale con il primo ministro taiwanese Tsai Ing-wen. Sposando sostanzialmente la linea politica del suo capogruppo, Takaichi ha ribadito che il Giappone dovrebbe adeguarsi agli standard della NATO e investire il 2% del PIL sulla difesa, invece del solito 1%. Un’opzione che ha trovato una sponda nell’agenda di Kishida, che ha già fatto sapere di non volersi vincolare al tradizionale limite di spesa.

Una dichiarazione che ha velocemente attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali, ma che in realtà potrebbe essere l’ennesimo esempio della retorica assertiva dell’LDP che poi trova ben altro riscontro nella realtà. Il manifesto politico incriminato, infatti, non indica nessuna tabella di marcia per arrivare a un simile aumento della spesa, ma si limita a nominare l’indicatore della NATO come un obiettivo da raggiungere in un non esattamente determinato futuro.

Ciò nonostante, questa prospettiva ha velocemente creato diverse aspettative. Per quanto gli Stati Uniti possano accogliere la cosa in maniera estremamente positiva (d’altronde spingono in questo senso da anni) non si può dire altrettanto dei vicini regionali, per cui l’idea di un Giappone potenzialmente in grado di “muovere guerra” rimane inaccettabile. Quantomeno da Pechino non arriverebbero di certo parole accomodanti.

E, per certi versi, una prima prova di questa possibile nuova congiuntura strategica si è già concretizzata. Infatti, durante lo scorso venerdì, la Inazuma, un cacciatorpediniere delle Forze di autodifesa marittime, ha scortato la Warramunga, una fregata della Marina australiana, durante un’esercitazione congiunta lungo le coste dell’isola di Shikoku. È la prima volta che un’imbarcazione giapponese scorta un mezzo navale diverso da quelli della Marina statunitense.

La posizione intermedia di Kishida, che non è apertamente aggressiva verso la Cina o ideologicamente e politicamente legata a posizioni revisioniste, potrebbe trovare così il sostegno popolare necessario, aprendo a una gamma di opportunità che erano state negate al gabinetto Abe proprio per l’estremismo di alcune sue posizioni. Il nuovo premier dovrà anche dimostrarsi abile a saper mediare con le forze parlamentari coinvolte in questo processo: se infatti l’alleato Komeito è storicamente contrario sia all’aumento della spesa difensiva che alla revisione costituzionale, l’Ishin si è invece dichiarato interessato in più di un’occasione, proponendosi come un potenziale interlocutore nonostante una posizione fortemente anti-LDP.

Il partito e il Paese si troveranno così a fronteggiare questioni storicamente dibattute e ormai consolidate nell’agenda politica giapponese, ma Kishida ha la possibilità di lasciare un segno ben più concreto rispetto al suo predecessore.

 

Immagine: Fumio Kishida, Tokyo, Giappone (settembre 2021). Crediti: Naresh111 / Shutterstock.com

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Taiwan e Mar Cinese Meridionale nel confronto USA-Cina

 

La tensione nel Mar Cinese Meridionale è pericolosamente tornata a salire durante questa settimana, dopo l’ennesimo botta e risposta tra Cina e Stati Uniti. Nella giornata di ieri, la Marina statunitense ha confermato che il sottomarino USS Connecticut si è scontrato con un corpo estraneo, che ha causato non solo dei danni considerevoli al mezzo ma anche il ferimento di 11 marinai dell’equipaggio. La notizia non è stata subito resa pubblica per permettere il rientro in sicurezza degli uomini alla base di Guam, dove è stato poi trasferito anche il sottomarino per ricevere le necessarie riparazioni. Sebbene al momento non ci siano conferme, le voci più accreditate indicano una collisione con il relitto di un’imbarcazione o un container incagliato negli insidiosi fondali del Mar Cinese Meridionale. Nei giorni precedenti due portaerei americane, la USS Carl Vinson e la USS Ronald Reagan, e una britannica, la HMS Queen Elizabeth, avevano navigato le acque contese per le usuali operazioni di scorta e pattugliamento, azione sistematicamente condannata da Pechino. Ma, ad oggi, sembra esclusa una qualsiasi responsabilità cinese per quanto riguarda il problema del sottomarino.

Questo incidente arriva in coda a giorni di intensissimi scambi tra Pechino e Washington, riguardanti principalmente l’annosa questione taiwanese. Infatti, un report del Wall Street Journal ha rivelato come un’unità delle forze speciali americane e un contingente dei marines stiano addestrando in segreto i militari taiwanesi per garantire una risposta efficiente alla spesso minacciata invasione dell’isola da parte della Repubblica Popolare Cinese. Sempre secondo il report, le operazioni andrebbero avanti da circa un anno con un discreto dispiegamento di forze: una ventina di ufficiali delle Forze Speciali si starebbero occupando delle forze di terra, mentre i Marines starebbero lavorando con la Marina di Taipei, principalmente sull’utilizzo di imbarcazioni leggere. Dal Pentagono non sono arrivate conferme o smentite di sorta, così come dai ministeri della Difesa e degli Esteri taiwanesi, ma il tempismo del leak lascia spazio a pochi dubbi. Infatti, la scorsa settimana i cieli sopra Taiwan sono stati particolarmente affollati: più di 150 aerei cinesi, tra cui caccia J-16 e bombardieri strategici H-6, hanno sorvolato l’isola, in una delle più clamorose manifestazioni di forza recenti, ennesimo promemoria sull’irremovibilità delle rivendicazioni e mire di Pechino.

Durante un intervento al forum militare di Yushan, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen non ha commentato le voci sulla presenza americana ma ha voluto reiterare la sua preoccupazione sull’estrema volatilità nella regione, e che l’esacerbarsi delle tensioni tra gli attori coinvolti potrebbe avere effetti devastanti sulla sicurezza internazionale e sull’economia globale se non risolte in maniera pacifica. La risposta cinese alla presunta operazione strategica tra Washington e Taipei non si è discostata dal solito dettame, con la richiesta agli Stati Uniti di bloccare la cooperazione militare con Taiwan, intendendo nello specifico lo stop immediato alla vendita di armamenti. Il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian, ha ribadito che la Cina intraprenderà qualsiasi misura necessaria per proteggere la propria sovranità e integrità territoriale, oltre ad invitare gli americani a riconoscere e rispettare la sensibilità della questione, che dovrebbe essere risolta senza l’ingerenza di potenze straniere. A tal proposito, è opportuno ricordare che questo inasprimento si somma alla recentissima intesa raggiunta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, conosciuta con l’acronimo AUKUS, con lo scopo di controbilanciare l’influenza e le capacità cinesi nell’area dell’Indo-Pacifico.

I venti di guerra che soffiano sullo Stretto di Taiwan non rappresentano però l’unico incrocio tra Pechino e Washington in questa frenetica settimana. Negli stessi giorni in cui la tensione su Taiwan ha raggiunto livelli critici, i rappresentanti di Cina e Stati Uniti si sono incontrati a Ginevra. Questo meeting era particolarmente atteso, poiché dava seguito all’incontro di marzo ad Anchorage, Alaska, dove le parti non si erano lasciate nel migliore dei modi. Yang Jiechi, ex ambasciatore cinese negli Stati Uniti ed ex ministro degli Esteri, e Jake Sullivan, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, hanno trattato una moltitudine di argomenti e questioni che hanno reso così delicato il rapporto tra i due Paesi, come ad esempio il rispetto dei diritti umani in Tibet e nello Xinjiang, la situazione di Hong Kong, Taiwan e il pericolo di uno scontro militare nel Mar Cinese Meridionale. Sia Yang che Sullivan si sono dichiarati soddisfatti dell’incontro, che non ha di certo eliminato le profonde differenze di vedute tra i due governi, ma che si è altresì chiuso con un tono decisamente più amichevole rispetto a quello di Anchorage. Il governo cinese ha accolto con favore la disponibilità di Washington ad ascoltare senza pregiudizi e in nome del rispetto reciproco, e le parti hanno concordato un futuro meeting virtuale tra Xi Jinping e Joe Biden. La buona riuscita dell’incontro di Ginevra non ridimensiona di certo quanto accaduto dall’altra parte del globo, ma ci ricorda invece l’estrema complessità delle relazioni sino-americane e quanto queste abbiano una forte rilevanza a livello globale.

Le prossime mosse delle due superpotenze saranno fondamentali per capire l’evoluzione del confronto, che potrebbe portare a una nuova, e potenzialmente disastrosa, escalation o inquadrarsi nei binari del business as usual, dove il confronto militare lascia il posto alla trattativa diplomatica.

 

Crediti immagine: Bannafarsai_Stock / Shutterstock.com

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La nuova sfida dell’AUKUS per Cina e ASEAN

Il nuovo triangolo geopolitico tra Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti, il cui acronimo AUKUS ha velocemente fatto capolino su tutte le testate mondiali, ha ulteriormente chiarito le priorità degli Stati Uniti in fatto di politica estera dopo il ritiro dall’Afghanistan. L’Asia-Pacifico è la destinazione e Pechino è il principale avversario strategico. Un obiettivo così rilevante da mettere a repentaglio un’alleanza tanto importante quanto storica.

I rapporti tra Stati Uniti e Francia sono ai minimi storici, dopo che l’inserimento di Washington ha fatto saltare una commessa milionaria tra Parigi e Canberra. Infatti, con una dichiarazione congiunta rilasciata dai leader dei tre Paesi, assieme alla nascita dell’AUKUS viene annunciato che l’Australia verrà dotata di una flotta sottomarina a propulsione nucleare, di fatto annullando il precedente accordo stipulato con la Francia, che prevedeva la consegna di 12 sottomarini. In tutta risposta, l’Eliseo ha richiamato i propri ambasciatori in Australia e Stati Uniti e il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha definito l’accaduto come una pugnalata alle spalle.

La creazione dell’AUKUS, oltre alla prospettiva di mettere a repentaglio un rapporto importante come quello con la Francia, dovrebbe chiarire in maniera cristallina quanto l’amministrazione Biden intenda essere protagonista nel quadrante estremorientale: infatti l’AUKUS si va a sommare al Quadrilateral Security Dialogue (QUAD) formato da Stati Uniti, Australia, Giappone e India, con il chiaro obiettivo di controbilanciare la presenza cinese e mettere in discussione l’egemonia di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Il comune denominatore tra i due gruppi è, infatti, proprio l’Australia, identificata da Washington come ideale strumento di deterrenza regionale.

Come facilmente immaginabile, la reazione dell’establishment politico cinese è stata di condanna. Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri, ha convocato una conferenza stampa in cui ha ribadito: «La Cina continua a sostenere che qualsiasi meccanismo di cooperazione regionale non dovrebbe nascere in funzione di un altro Paese, o minacciare i suoi interessi. La creazione di cricche chiuse ed esclusive va contro la cultura di quest’epoca e le aspirazioni degli altri Paesi della regione. Non troverà nessun sostegno ed è destinata a fallire». Zhao ha anche commentato la prospettiva cinese per quanto riguarda il contenzioso marittimo nel Mar Cinese Meridionale: «La Cina è uno dei costruttori della pace mondiale, contribuisce allo sviluppo globale ed è garante dell’ordine mondiale [...] Questo accordo mette a repentaglio la pace e la stabilità, oltre ad esacerbare una nuova corsa agli armamenti». Un’elaborata formulazione per confermare che Pechino non intende retrocedere di un centimetro nelle acque contese.

D’altronde, appare abbastanza prevedibile come l’Australia, in futuro, svolgerà la sua parte nel pattugliare le acque del Mar Cinese Meridionale. I sottomarini australiani saranno particolarmente preziosi nel fornire supporto alle attività americane, soprattutto nel tracciare e monitorare i corrispettivi mezzi cinesi stanziati nella base di Yulin, nell’isola di Hainan. A riguardo, si è già esposto Peter Dutton, ministro della Difesa australiano, dichiarando che l’accordo ha lo scopo di migliorare ed ampliare le capacità dell’Australia di proteggere i suoi territori, così come quelli dei partner nella regione.

Questo scenario non rappresenta di certo una novità per la Marina militare cinese, ma è altresì innegabile che l’Australia sia automaticamente diventata una minaccia per gli obiettivi strategici di Pechino. Il Mar Cinese Meridionale non rappresenta solo un vessillo patriottico, le sacre acque territoriali, ma anche un naturale scudo difensivo, oltre che il punto di dislocamento ideale per i sottomarini nucleari adibiti al contrattacco nel caso di un’offensiva nemica. Per questo motivo, la rinnovata capacità militare di Canberra sarà fonte di numerosi grattacapi per i generali cinesi. Per esempio, il venire meno della zona cuscinetto marittima rappresentata dal Mar Cinese Meridionale, esporrebbe in maniera significativa il territorio cinese a un attacco da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La possibilità di raggiungere, velocemente e silenziosamente, lo Stretto di Taiwan o la base di Yulin non rappresenta solo uno svantaggio strategico, ma viene vista come una vera e propria minaccia alla stabilità del Paese.

La Repubblica Popolare Cinese, però, non è l’unico attore interessato da questa escalation. Liu Jinsong, direttore generale del dipartimento degli Affari asiatici del ministero degli Esteri, ha convocato e intrattenuto dei meeting con i rappresentati diplomatici di Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia, in modo da condividere con loro le preoccupazioni cinesi per il futuro della regione. Se Filippine e Singapore hanno accolto con sostanziale favore l’annuncio dell’AUKUS, visto come uno strumento adatto a controbilanciare il protagonismo cinese, non si può dire altrettanto per altri membri del gruppo ASEAN. Il Vietnam, principale antagonista di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, ha mantenuto una posizione di equidistanza e ha ribadito la necessità di garantire pace, stabilità, cooperazione e sviluppo nella regione.

Malaysia e Indonesia, invece, si sono dichiarati particolarmente preoccupati per i possibili sviluppi derivanti dalla nascita di questa alleanza. Kuala Lumpur teme che l’AUKUS non porterà altro che un’escalation di conflittualità nell’area, e per questo motivo Hishammuddin Hussein, ministro degli Esteri, ha lasciato intendere che si recherà al più presto a Pechino per un confronto con il suo omologo. La posizione dell’Indonesia è ancora più avversa, particolare che potrebbe complicare i piani dell’Australia e dei suoi alleati. Infatti, la rotta più veloce per raggiungere il Mar Cinese Meridionale prevede un passaggio tra gli stretti e gli arcipelaghi indonesiani, e una concessione di questo tipo potrebbe seriamente mettere a repentaglio l’equilibrio dinamico, la strategia di politica estera pazientemente costruita dal governo di Joko Widodo. Non stupiscono quindi le parole di sostanziale condanna da parte di Jakarta ‒ con l’AUKUS visto come l’ennesimo catalizzatore della corsa agli armamenti ‒ che ha addirittura richiamato l’Australia al rispetto della Convenzione ONU sul diritto del mare, di cui sono entrambi firmatari, riguardo la non proliferazione nucleare.

Ciò non significa che Malaysia e Indonesia si siano schierate con la Cina, ma è altrettanto chiaro che la questione più rilevante per il prossimo futuro riguarderà proprio la capacità di Pechino di capitalizzare questi timori e l’atavica divisione del gruppo ASEAN, soprattutto riguardo il ruolo degli Stati Uniti nella regione, in modo da creare un blocco in grado di contrapporsi all’AUKUS.

 

Immagine: Vista del Mar Cinese Meridionale da Hong Kong. Crediti: Marisa Estivill / Shutterstock.com

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Pechino, mercato e videogiochi: il caso Devotion

 

Red Candle Games è una piccola software house taiwanese, fondata a Taipei nel 2015 da sei amici con un obiettivo comune: rappresentare il burrascoso passato autoritario dell’isola attraverso lo strumento videoludico. Lo studio nasce, infatti, con una precisa idea in mente, che con il tempo prenderà la forma e il titolo di Detention. Il gioco è ambientato nei primi anni Sessanta, nel pieno dell’epoca del terrore bianco e della legge marziale, e vede come protagonisti due studenti che si trovano rinchiusi nel loro liceo, infestato da creature demoniache e custode di un antico segreto. Il titolo ha incassato un ottimo successo di critica e di pubblico, e non deve quindi stupire l’inizio dei lavori, pressoché immediati, su un nuovo titolo, che mantenesse le peculiarità narrative e l’atmosfera lugubre di Detention. Il 19 febbraio del 2019, più di due anni fa, è uscito Devotion, un’avventura in prima persona che si sviluppa in un grigio complesso residenziale della Taipei degli anni Ottanta. Red Candle Games ha cercato di mantenere il medesimo mix tra gameplay e rappresentazione culturale attraverso una sorta di epica familiare, in grado di descrivere le difficoltà dell’isola nell’uscire dalla spirale autoritaria. Come il suo predecessore, anche Devotion è stato accolto calorosamente dalla critica e dal pubblico.

Insomma, tutto sembrava andare per il meglio per lo studio taiwanese, ma le cose cambiarono molto rapidamente. Qualche giorno dopo la release del gioco, un utente trovò un cosiddetto easter egg, ossia un dettaglio segreto che ha spesso riferimenti ad altri titoli, eventi, persone reali o fittizie. Nello specifico, si trattava di un talismano appeso a una parete, che recitava al suo interno le parole «Xi Jinping Winnie the Pooh». A tal proposito, è probabilmente necessaria una rapida nota sulla questione: nel 2013 iniziò a circolare un meme che affiancava una foto di Xi Jinping e Barack Obama, scattata durante una visita ufficiale negli Stati Uniti, a un’immagine di Winnie the Pooh e Tigro. La presunta somiglianza tra il leader cinese e quello del Bosco dei 100 Acri contribuì enormemente alla viralità del meme. Torneremo sulla questione più avanti, ma questo è il contesto in cui si inserirebbe la stoccata del team taiwanese.

Nel momento in cui questo easter egg è diventato di pubblico dominio, l’ira dei giocatori e netizen cinesi si è riversata sul gioco, attraverso la sempre più diffusa pratica del review bombing. L’orda si è diretta sulla pagina Steam, la piattaforma dove il titolo era in vendita, per seppellirlo di commenti negativi, che ne hanno fatto letteralmente crollare la valutazione. Il 25 febbraio, il titolo viene rimosso dagli stessi sviluppatori, per un presunto controllo qualità e per lavorare su una patch che risolvesse alcuni problemi tecnici, come dichiarato poi dallo studio sui propri canali social.

Devotion non è mai tornato su Steam, e il team non ha più rilasciato aggiornamenti ufficiali sulla vicenda, alimentando così la curiosità e l’indignazione di buona parte della comunità videoludica e creando il mito fondante attorno al titolo: Devotion è diventato il videogioco che Xi Jinping ha fatto rimuovere da Steam. Una maledizione che sembrava essersi interrotta lo scorso 16 dicembre, quando Red Candle Games e il retailer GOG, di proprietà della software house polacca CD Projekt Red (CDPR), annunciarono che il gioco sarebbe stato presto disponibile. Ma, come nei migliori thriller, tutto venne rettificato solo poche ore dopo: GOG comunicò con un tweet il suo passo indietro, apparentemente a causa di generici messaggi ricevuti da altrettanto generici giocatori, facendo così ritornare Devotion nel suo purgatorio. La speranza di poter nuovamente mettere le mani sul titolo è durata poche ore, anche in questo caso schiacciata da Xi Jinping in persona.

Una delle più affascinanti questioni che attraversano il mondo videoludico è l’estrema facilità con cui vengono politicizzate determinate istanze. Questo è indubbiamente un aspetto significativo, e ci ricorda la crescente rilevanza del medium nella comunicazione e narrazione globale. Il caso di Devotion è per questo di grande interesse, poiché ci permette di ragionare sul rapporto tra politicizzazione e socializzazione delle community videoludiche.

Che il governo cinese non abbia apprezzato il riferimento presente in Devotion, è fuori discussione. Che Xi Jinping abbia deciso di obliterare il gioco e faccia di tutto per farlo restare fuori dal commercio è quantomeno opinabile, se non fantasioso. L’unica, ad ora, conseguenza diretta l’ha pagata Indievent, una compagnia cinese che aveva stretto un accordo di distribuzione con Red Candle Games, e che avrebbe dovuto pubblicare Devotion nella Repubblica Popolare Cinese. Sebbene abbia velocemente tagliato i ponti con la software house taiwanese, Indievent si è vista revocare la licenza commerciale.

A questo punto, è spontaneo chiedersi se veramente Devotion possa rappresentare una tale minaccia per la sicurezza nazionale cinese, o se determinati processi decisionali siano stati distorti da una lente analitica che vuole leggere tutto in chiave censoria. Questo non significa disconoscere la facilità con cui Pechino bandisce e censura determinati contenuti, ma la questione è più stratificata.

Per esempio, tornando alla questione Xi Jinping/Winnie the Pooh è forse affrettato dire che l’orsetto della Disney è diventato un nemico pubblico tale da influenzare così tante questioni. I vari meme sono diventati un “caso” solamente nel 2018, anno in cui si sostiene sia partita la stretta. Tra le principali prove a sostegno di questa tesi viene portato il film Disney Christopher Robin, mai uscito in Cina. In questo caso, trattandosi di un film non esattamente di primissima fascia, è plausibile che non abbia superato il “controllo qualità” che dà il via libera a solo 34 film stranieri ogni anno. Anche perché a Disneyland Shanghai è ancora ben presente il padiglione dedicato a Winnie, così come sono presenti diversi video su YouTube.

Riconcentrandoci allora sul contesto videoludico, la questione centrale non riguarda la capacità censoria di Pechino ma come la percezione di questa possa condizionare le strategie commerciali delle principali multinazionali del settore. Forse è opportuno ricordare che la Cina ha una platea di 600 milioni di giocatori e un mercato che vale 10,4 miliardi di dollari.

Proprio durante lo scoppio dell’affaire Devotion, Valve era in trattativa con Perfect World, uno studio cinese basato a Shanghai, per stringere una partnership e portare ufficialmente Steam in Cina. Che interesse avrebbe a lottare per far tornare Devotion sul proprio client? Stesso discorso per quanto riguarda GOG, che ha prima pensato di ripubblicarlo salvo poi desistere, così come tutti i distributori del pianeta, ma non per timore di ritorsioni folli da parte di Xi Jinping, o degli hacker cinesi. Semplicemente, non garantirebbe profitti tali da giustificare una decisione di questo tipo, oltre a creare potenziali danni in un mercato particolarmente profittevole. Un altro esempio molto calzante riguarda proprio CDPR e il suo famigerato nuovo titolo, Cyberpunk 2077. Sebbene non sia ancora uscito ufficialmente in Cina (e probabilmente non otterrà mai il via libera ufficiale), il gioco è stato un enorme successo: nel giorno della sua uscita circa 7.500 streamers lo giocavano in diretta, per un totale combinato di 19 milioni di visualizzazioni tra le varie piattaforme (Douyu, Huya e Bilibili). Semplicemente, CDPR non è assolutamente disposta a rinunciare alla sua fetta della torta.

Pechino non ha interesse a muoversi direttamente per far bandire un videogioco, tantomeno con un causus belli sottoforma di meme, che ha rilevanza sostanzialmente solo per noi. Non è il tiranno a bloccare il ritorno sul mercato di Devotion, ma è, ovviamente, il mercato globale, di cui la Cina è parte integrante. Strumentalizzare una particolare, e spesso parziale, visione che abbiamo della Cina significa perpetrare un ormai vetusto othering culturale e tecnologico.

Quella di Devotion è sempre stata una questione di principio, ma chi aveva realmente interesse a sostenerla? Valve, CD Projekt Red, e sostanzialmente qualsiasi multinazionale del settore videoludico, hanno chiaramente la massimizzazione dei profitti come obiettivo principale, particolare che spesso viene dimenticato da fanbase sempre più polarizzate. Di conseguenza, non deve stupire se, dopo ben due anni, il gioco è riapparso sul neonato store di Red Candle Games. Come è ovvio che sia, l’unica fonte di resistenza non può che innestarsi in chi ha dato alla luce il lavoro stesso, e la fanbase è l’unica che può prendersi in carico il rischio etico di sostenere il gioco. In questo senso, Devotion è più una vittima delle diverse storture del capitalismo che delle politiche repressive del governo cinese, che hanno ben altri scopi e obiettivi.

 

Immagine: I cinesi si rilassano negli internet café giocando on-line o navigando in Internet, Chongqing, Cina (21 luglio 2018). Crediti: xujun / Shutterstock.com

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Grazie al potere del K-pop si rafforza il legame tra Corea e Indonesia

 

Il Korean pop, per tutti K-pop, è progressivamente diventato uno dei più imponenti e affascinanti fenomeni globali del nostro tempo. La fama di band come BTS, BlackPink, EXO, BIGBANG, Twice ha velocemente oltrepassato i confini nazionali, prima, e regionali, poi, fino a raggiungere il mercato americano, dove il K-pop era sostanzialmente prerogativa delle varie Koreatown, e quello europeo, territorio pressoché sconosciuto per questa forma di intrattenimento.

Rimanendo nel continente asiatico, si potrebbe dire che il K-pop è stato un importante strumento per la giovane democrazia di Seoul, reduce da decenni di dittatura sanguinaria e repressiva. I due fenomeni, infatti, sono quasi coincidenti, e il sound del pop coreano ha iniziato a diffondersi nel resto del continente sin dalla metà degli anni Novanta, diventando un rassicurante biglietto da visita per la cultura coreana nella regione. I Paesi inizialmente più esposti furono quelli più vicini, quindi Giappone, Cina, Taiwan (e, sebbene indirettamente, la Corea del Nord), ma il fenomeno arrivò ben presto anche nei Paesi più meridionali, conquistandoli con la consueta velocità. Di conseguenza, fu ben presto chiaro come il K-pop potesse diventare un importante strumento di soft power regionale, prima in termini culturali e poi in termini economici, e come potesse trasformarsi nell’ideale grimaldello per le chaebol sudcoreane, permettendo loro di diventare dominanti negli emergenti mercati del Sud-Est asiatico.

L’Indonesia rappresenta un interessante caso studio di questa tendenza. L’industria dell’intrattenimento coreana ha iniziato la sua ascesa alla fine degli anni Dieci del Duemila, per consolidare la sua crescita nel decennio successivo, quando le produzioni televisive e musicali provenienti da Seoul divennero parte integrante della cultura pop indonesiana. Di conseguenza, oggi l’Indonesia è uno dei più floridi mercati per il K-pop, e l’adorazione frenetica per BTS e BlackPink (che non mancano mai di toccare Jakarta nei loro tour) ha raggiunto il suo apice. Di conseguenza, non c’è mai stato un terreno migliore per le grandi aziende coreane, che sostanzialmente devono solamente associarsi alle più famose idol band e raccogliere i frutti della loro fama catalizzatrice.

Le principali produttrici di elettronica ed elettrodomestici, come Samsung e LG Electronics, ma anche importanti aziende nel settore cosmetico e del beauty, come Nature Republic, LG Household & Health Care, Amore Pacific. Il comune denominatore delle strategie commerciali di tutte queste aziende è l’aver scelto dei componenti di una K-pop band come testimonial e brand ambassador globali, particolare che le ha velocemente portate a scalare la gerarchia delle preferenze dei consumatori indonesiani. Una strategia che è stata ben presto adottata, con ottimi risultati tra l’altro, da diverse aziende indonesiane: Tokopedia, principale e-commerce locale, ha recentemente messo sotto contratto sia i BTS che le BlackPink come brand ambassador. Questa campagna promozionale ha ben presto dato i propri frutti, permettendo a Tokopedia di diventare leader del settore a discapito del competitor singaporiano Sea Group’s Shopee.

La scelta vincente operata da Tokopedia è basata su dati e tendenze difficili da ignorare. Il fandom indonesiano è in costante crescita, così come il livello di engagement rilevato sulle varie piattaforme social. Un rappresentante stampa della JYP, uno dei principali colossi dell’industria dell’intrattenimento coreana, ha dichiarato che l’Indonesia è stabilmente ai primi posti nel computo del numero delle visualizzazioni dei video presenti sul canale YouTube della compagnia. La JYP produce le Twice e le Itzy, due delle idol band più famose nell’arcipelago. Questo trend è riscontrabile anche su Twitter: nel mese di marzo l’azienda ha annunciato che nel 2020 sono stati digitati ben 6,7 miliardi di tweet sul K-pop, ovviamente un record e un aumento di circa il 10% rispetto all’anno precedente. Secondo i dati rilasciati da Twitter, è probabile che questo aumento sia dato dal sempre maggiore engagement generato tra i fan in Indonesia e India. Son numeri impressionanti, ma non così stupefacenti se pensiamo che l’Indonesia è un Paese molto giovane, con circa 90 milioni di persone sotto i 30 anni, che sta vivendo un vero e proprio boom digitale. In sostanza, un match perfetto per le strategie di espansione regionale dei grandi conglomerati dell’intrattenimento, seguite poi dalle altre aziende produttrici di beni di consumo.

Negli ultimi anni, Corea del Sud e Indonesia hanno costantemente rafforzato i rapporti commerciali: Seoul è uno degli attori più coinvolti per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri nell’economia indonesiana, con circa 7,5 miliardi di dollari dal 2014. Nel 2017 l’azienda pubblica Korea Rail Network Authority ha firmato un accordo, da 500 milioni di dollari, con la JakPro per potenziare il servizio di metrotranvia nella capitale indonesiana. La cooperazione tecnologica si è estesa al settore militare, e nel 2019 la Marina militare indonesiana ha lanciato il suo nuovo sottomarino U-209 Chang Bogo-class (una classe di sottomarini caratterizzata da un ibrido diesel-elettrico), la cui progettazione e realizzazione sarebbe stata impossibile senza la partnership tra i due Paesi.

Il rapporto si è via via approfondito, sino alla firma di un importante accordo di partnership economica nel dicembre dello scorso anno, in virtù del quale la Corea del Sud eliminerà circa il 95% delle sue linee tariffarie, mentre l’Indonesia il 92%, oltre a garantire delle tariffe preferenziali per facilitare gli investimenti coreani. I principali settori interessati da questo accordo sono quello automobilistico, quello manifatturiero e quello tecnologico, soprattutto per quanto riguarda robotica e high-tech. Attualmente lo Stato arcipelagico è il 15° partner commerciale per la Corea del Sud, ma entrambi i governi sono molto fiduciosi e convinti che ci siano grandi opportunità per migliorare ulteriormente questo rapporto.

 

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Il Giappone di Suga alla ricerca del suo posto nella regione

 

Tempo di bilanci preliminari per il governo di Yoshihide Suga, primo ministro giapponese dal settembre 2020. Una nomina arrivata in un momento estremamente delicato per il Paese, e che ha portato in dote una serie di complessità che non sono sempre state affrontate nella maniera ideale.

Da un punto di vista interno, i temi che hanno caratterizzato l’agenda di Suga sono stati indubbiamente due: la gestione della pandemia e l’incombere dei Giochi olimpici. Nel primo caso, il governo Suga è stato capace di gestire la situazione e controllare, non senza qualche affanno, il picco di contagi toccato all’inizio di maggio, quando il numero giornaliero dei casi è tornato sopra i 7.000, e lo shock causato dalle 227 morti registrate il 19 maggio, record dall’inizio della pandemia. A questa situazione, però, va a sommarsi la deficitaria organizzazione della campagna vaccinale, che procede decisamente a rilento e per la quale non si vede all’orizzonte nessuna accelerazione. Di conseguenza, la prospettiva di essere effettivamente in grado di ospitare le Olimpiadi è sempre più messa in discussione.

I dati di un recente sondaggio dicono che circa il 60% della popolazione è contraria, chiedendo a gran voce al governo di fare un passo indietro e mettere la salute e la sicurezza dei cittadini al primo posto. Anche i rappresentanti di due importanti aziende giapponesi, nonché sponsor, si sono schierati contro l’organizzazione dei Giochi. Masayoshi Son, direttore degli investimenti tecnologici di SoftBank, ha dichiarato che le chiusure e le misure restrittive conseguenti a una nuova ondata di contagi potrebbero causare più danni economici rispetto alla cancellazione delle Olimpiadi. Della stessa opinione Hiroshi Mikitani, dirigente del colosso dell’e-commerce Rakuten, che ha definito la prosecuzione dei preparativi olimpici come una «missione suicida».

Le sfide non mancano di certo anche per quanto riguarda la politica estera, frangente in cui Suga è stato spesso visto in difficoltà e meno incisivo rispetto all’arena interna. La visita ufficiale a Washington di metà aprile era ritenuta necessaria anche in questo senso, oltre ad essere molto importante per gli Stati Uniti. Questo era infatti il primo meeting ospitato alla Casa Bianca dalla presidenza Biden, particolare inteso a dare ancora più risalto all’importanza della storica alleanza con il Giappone, finita in secondo piano durante il quadriennio di Trump.

Il focus principale dell’incontro riguardava la necessità di fare fronte comune contro la Cina, in modo da poter contrastare efficientemente qualsiasi possibile mira egemonica di Pechino sulla regione dell’Asia Pacifico. I due partner hanno rilasciato una dichiarazione congiunta, la US-Japan Global Partnership for a New Era, nella quale viene ribadito il pieno supporto delle parti verso lo storico trattato di sicurezza bilaterale, oltre a chiarire alcuni obiettivi e preoccupazioni comuni come «le operazioni cinesi che sono in aperto contrasto con l’ordine internazionale e le sue regole». Biden e Suga hanno anche sottolineato l’importanza di preservare la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan, incoraggiando e auspicando una risoluzione pacifica per qualsiasi tipo di disputa. Un particolare della dichiarazione che è velocemente saltato all’occhio, soprattutto ai dirigenti del Partito comunista cinese (PCC), è la menzione diretta di Taiwan in una dichiarazione ufficiale, cosa che non accadeva addirittura dal 1969. La risposta di Pechino non si è fatta attendere, e il governo cinese ha subito espresso la propria insoddisfazione per le parole scelte e il tono della dichiarazione congiunta.

Il Giappone ha deciso di ribadire fortemente la propria vicinanza agli Stati Uniti, ma che conseguenze potrebbero esserci nel delicato rapporto con la Cina? Alcuni osservatori hanno criticato Suga per essersi eccessivamente allineato alla posizione americana, suggerendo un linguaggio più ambiguo soprattutto per quanto riguarda Taiwan. Yukio Takeuchi, ex viceministro degli Esteri, ha addirittura alluso a un punto di non ritorno, dichiarando che il Giappone aveva attraversato il Rubicone e che doveva prepararsi per la ritorsione cinese. Incalzato da stampa e opposizione parlamentare, Suga ha affrontato la questione in Parlamento, specificando che il famigerato riferimento su Taiwan non presuppone nessun tipo di coinvolgimento militare giapponese. Ma è altresì solare che Tokyo e Taipei non siano mai stati così vicini, come dimostra la cooperazione sui vaccini. Taiwan è molto indietro nella sua campagna vaccinale e sta avendo difficoltà negli approvvigionamenti, cosa che ha costretto il governo di Tsai Ing-wen a chiedere aiuto alla comunità internazionale. Il Giappone, che non può di certo vantare una perfetta organizzazione ma che non ha avuto nessun problema ad ordinare le dosi di vaccino, ha aperto la possibilità di condividere le sue 400 milioni di dosi del siero AstraZeneca. Per Masahisa Sato, presidente del comitato per le relazioni con Taiwan, la richiesta dovrebbe essere una formalità, ricordando come Taiwan abbia inviato 2 milioni di mascherine quando il Giappone ne aveva bisogno.

Ma la Cina rimane un interlocutore imprescindibile per il Giappone, e il governo Suga dovrà bilanciare al millimetro le sue successive mosse nella regione. Sebbene Tokyo abbia introdotto un pacchetto di misure atte a sollevare Huawei e ZTE dalla fornitura di hardware e software alle agenzie ed enti governativi, per poi stringere una collaborazione tecnologica con gli Stati Uniti (dal valore di 4,5 miliardi di dollari) per garantire un 5G “aperto e sicuro” e portare avanti la ricerca e lo sviluppo della tecnologia 6G, la sua interdipendenza economica con Pechino è sempre più marcata: nell’anno fiscale appena concluso, il 22,9% delle esportazioni giapponesi sono andate verso la Cina, superando per la prima volta la soglia dei venti punti percentuali.

Yoshihide Suga dovrà essere particolarmente abile nel destreggiarsi in queste delicate questioni, anche perché è in gioco il futuro della sua carriera politica: a settembre sarà in corsa per essere confermato come presidente del Partito liberal-democratico, per poi puntare alla rielezione alle elezioni generali previste per il mese successivo.

 

Immagine: Il primo ministro giapponese Yoshihide Suga pronuncia le sue osservazioni in un incontro con il segretario di Stato Antony J. Blinken, il segretario della Difesa Lloyd J. Austin III, il ministro degli Affari esteri giapponese Toshimitsu Motegi e il ministro della Difesa Nobuo Kishi, Tokyo, Giappone (16 marzo 2021). Crediti: DoD photo by Lisa Ferdinando [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso flickr.com

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Una nuova ondata di contagi mette in ginocchio l’India

 

In un momento in cui la lotta globale alla pandemia da Covid-19 sembra sempre più vicina a una conclusione, principalmente grazie all’entrata a regime delle campagne vaccinali e una progressiva conoscenza del virus e dei rimedi per affrontarlo, la tremenda escalation in India ci ha ricordato come, in realtà, una nuova situazione d’emergenza possa esplodere da un momento all’altro.

Nel momento in cui scriviamo, l’India viene da quasi due settimane scandite da almeno 300.000 casi giornalieri, con il picco di 402.110 raggiunto il 30 aprile, e una settimana da più di 3.000 morti al giorno, con il conteggio totale dei decessi che ha ormai abbondantemente superato quota 200.000. Eppure, solamente lo scorso autunno, l’India di Modi cercava di presentarsi come un Paese in prima linea nella lotta alla pandemia e si proponeva come la principale fabbrica globale per i diversi vaccini contro il Coronavirus. Cosa è cambiato da allora? Come è stato possibile arrivare a una situazione così disperata, con il cielo di Nuova Delhi costantemente coperto dal fumo delle pire funerarie, dove i cadaveri bruciano senza soluzione di continuità?

Una delle principali motivazioni è la diffusione di una nuova variante autoctona, apparentemente molto più contagiosa rispetto alle versioni precedenti del virus. La cosiddetta variante indiana, che sta sollevando preoccupazioni anche a livello globale, ha dato il colpo di grazia a un sistema che, apparentemente, sembrava potersi reggere sulle proprie gambe ma che era, in realtà, in ginocchio da tempo. La curva pandemica segna una crescita esponenziale e apparentemente incontrollabile, e il sistema sanitario è collassato. La situazione a Nuova Delhi è catastrofica: un tampone ogni tre risulta positivo, gli ospedali sono, da giorni, costretti a negare l’ingresso a nuovi pazienti per la mancanza di posti letto, ossigeno e dispositivi di protezione individuale, come mascherine e guanti. Nella capitale si sta registrando una media di un decesso ogni quattro minuti, dato che rappresenta fin troppo chiaramente la gravità della crisi.

Questo disastro sanitario non può che essere imputato alla miopia del governo Modi, talmente convinto che il peggio fosse passato e che il virus fosse sostanzialmente sconfitto, da non aver fatto nulla per impedirne la diffusione. Mentre il Paese sprofondava nell’oblio del virus i suoi leader politici, tra cui Modi e il suo braccio destro Amit Shah, erano sempre più concentrati sulla campagna elettorale nello Stato del Bengala Occidentale. Senza curarsi dell’aggravarsi della situazione, il primo ministro ha chiamato a raccolta i sostenitori del suo partito, permettendo assembramenti di migliaia e migliaia di persone. Le ovvie conseguenze non hanno tardato ad arrivare: il 30 aprile si sono contati 17.403 casi e un tasso di positività del 7,81%. La situazione a Calcutta, capitale dello Stato ed epicentro del contagio, non è di certo migliore: il virus è talmente diffuso che circa il 50% dei tamponi effettuati segna un risultato positivo, e il numero dei casi giornalieri è sempre più vicino alla soglia dei 4.000.

Per avere un riscontro circa l’inferenza dei comizi organizzati sia dal Bharatiya Janata Party (BJP) sia dal Trinamool sui contagi basti pensare che il 27 marzo, primo giorno di votazioni, nello Stato sono stati rilevati 812 casi e solo due morti. In un mese, i casi sono pressoché decuplicati, e le morti sono in costante aumento. Un altro caso particolarmente eclatante riguarda l’organizzazione del Maha Kumbh Mela, un’importante festività religiosa Hindu che consiste in un pellegrinaggio di massa per poi immergersi nelle acque dei fiumi sacri, principalmente il Gange. Il giorno prima dell’inizio delle celebrazioni, Tirath Singh Rawat, governatore dello Stato dell’Uttarakhand, ha esortato i fedeli alla partecipazione dichiarando che «la fede in Dio avrebbe sopravanzato la paura del virus». Ovviamente la fede non è stata sufficiente a contenere la diffusione del virus, e i casi nello Stato sono passati dai 1.863 del 1° aprile ai 35.864 del 26 aprile.

A fronte di questo disastro e delle pressanti accuse rivoltegli dalla società civile, la strategia del BJP consiste ora nel costante tentativo di ridimensionamento del problema, oltre che nella censura preventiva verso i commenti di accusa sui social network, principalmente Twitter, provenienti da esponenti dei partiti di opposizione ma anche da rappresentanti dell’élite indiana come celebrità, attori e cantanti.

La comunità internazionale, anche per il timore che la variante indiana possa diffondersi a livello globale, si è mobilitata per fornire assistenza: la Gran Bretagna ha inviato un centinaio di ventilatori e altrettanti concentratori di ossigeno; allo stesso modo la Francia si è impegnata a fornire riserve di ossigeno per circa 250 posti letto. Germania, Israele e Pakistan hanno già annunciato il loro impegno verso Nuova Delhi, con l’invio di ossigeno, test diagnostici, medicinali, camici e mascherine.

Anche la campagna vaccinale è in una fase di crisi. Nonostante il Serum Institute of India (SII) sia il principale produttore di vaccini al mondo e sia stato introdotto il blocco delle esportazioni del vaccino Oxford-AstraZeneca nel mese di marzo, la produzione non è assolutamente riuscita a soddisfare la domanda interna. Solamente il 10% della popolazione ha ricevuto almeno una dose, e alcune zone del Paese lamentano ormai una carenza cronica di vaccini. Joe Biden si è recentemente esposto per aiutare l’India, dichiarando che gli Stati Uniti si trovano ormai in una posizione privilegiata e hanno la responsabilità di aiutare chi si trova in difficoltà, sia con l’invio di materiali che con la condivisione di know-how. Per esempio, circa 60 milioni di dosi del vaccino AstraZeneca, che non ha ricevuto il via libera dalla Food and Drug Administration (FDA), sono a disposizione e l’India potrebbe esserne uno dei principali beneficiari. Con il picco dei contagi previsto per metà maggio e una classe politica che si è dimostrata incapace di arginare la diffusione del virus, gli aiuti internazionali saranno fondamentali per permettere all’India di superare questa tragica situazione.

 

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Immagine: Un lavoratore riempie bombole di ossigeno per i pazienti affetti da infezione da Covid-19 presso una stazione di rifornimento, Nuova Delhi, India (21 aprile 2021). Crediti:  Exposure Visuals /Shutterstock.com

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Il precario equilibrio del rapporto tra Cina e UE

Il rapporto tra Cina e Unione Europea (UE) è storicamente altalenante, caratterizzato da strappi repentini e successivi riavvicinamenti che non hanno permesso il consolidamento di un legame importante per entrambi. Nel mese di marzo, all’approfondirsi del dibattito sul più grande accordo economico tra le parti, si è assistito a uno dei più violenti strappi degli ultimi 30 anni.

Seguendo l’esempio tracciato da Stati Uniti, Canada e Regno Unito, l’UE ha deciso di estendere le sanzioni nei confronti di quattro individui e un’entità cinesi, accusati di violazione dei diritti umani nei confronti della minoranza uigura, in riferimento specifico ai loro interessi e partecipazioni nei centri di detenzione forzata nello Xinjiang. Gli interessati sono Zhu Hailun, ex segretario della Commissione affari legali e politici dello Xinjiang; Wang Junzheng, capo della Commissione affari politici e legali dello Xinjiang ed ex segretario del PCC a Changchun; Wang Mingshan, membro del comitato permanente del PCC nello Xinjiang; Chen Mingguo, direttore dell’ufficio di sicurezza pubblica dello Xinjiang. L’entità sanzionata dall’Unione è, invece, l’ufficio di sicurezza pubblica della Xinjiang Production and Construction Corps. Le precedenti sanzioni imposte dall’Unione Europea risalgono al 1989, anno del massacro di piazza Tienanmen.

Pechino ha prontamente richiesto chiarimenti, ricordando come il ricorso ad azioni di questo tipo verso ufficiali e aziende di Stato potrebbe peggiorare notevolmente i rapporti bilaterali. Inoltre Qin Gang, viceministro degli Esteri cinese, ha convocato in rapida successione Nicolas Chapuis e Caroline Wilson, rispettivamente ambasciatore dell’UE e ambasciatrice britannica.

La risposta cinese è stata tanto attesa quanto prevedibile, con la decisione di sanzionare dieci individui e quattro enti istituzionali europei, accusati di aver messo a repentaglio la sovranità e gli interessi della Cina e di aver diffuso false informazioni alla stampa. Tra gli accusati, troviamo cinque parlamentari europei (Reinhard Butikofer, Michael Gahler, Raphael Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk e Miriam Lexmann), il parlamentare olandese Sjoerd Wiemer Sjoerdsma, il parlamentare belga Samuel Cogolati, il parlamentare lituano Dovile Šakaliene, e gli accademici Adrian Zenz e Björn Jerdén. Le istituzioni colpite sono invece la commissione politica del Consiglio europeo, la sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo, il Mercator Institute for China Studies (MERICS) di Berlino e l’Alliance of Democracies Foundation (AoD) di Copenaghen. Le persone sopracitate, così come le loro famiglie, non potranno più entrare in Cina, incluse Hong Kong e Macao, sino a nuovo ordine, così come enti ed aziende a loro affiliati non potranno operare nel territorio cinese.

Di conseguenza, molti osservatori pensavano che il Comprehensive Agreement on Investment (CAI), il più grande accordo economico bilaterale tra Cina e Unione Europea, sarebbe stato velocemente messo in discussione, se non addirittura annullato. Ma questa non era di certo l’intenzione di Pechino, e le parole di Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri, l’hanno confermato. Hua ha infatti risposto che intaccare gli accordi economici racchiusi nel CAI sarebbe irragionevole e immotivato. Ha poi dichiarato che l’Unione «non può parlare di cooperazione da un lato, e dall’altro imporre delle sanzioni che danneggiano gravemente gli interessi cinesi. Dovrebbe bensì riflettere con attenzione sul suo operato e concludere il confronto, in modo da contribuire allo stabile sviluppo dei rapporti bilaterali».

La Cina cercherà di lasciare separate le due situazioni, e non intende permettere che la questione dei diritti umani intacchi la cooperazione economica. Il CAI è un accordo troppo importante per Pechino, che è ormai il primo partner commerciale dell’Unione, e non intende restituire lo scettro agli Stati Uniti. Le sanzioni al momento, per quanto gravi, riguardano principalmente rappresentanti politici e istituzioni ad essi collegate, ma non è assolutamente da escludere un’escalation che possa includere azioni di tipo economico. In questo senso, è bene ricordare che il CAI deve ancora passare il vaglio del Consiglio e del Parlamento europeo, dove il fronte dei contrari si è progressivamente ampliato dopo le ritorsioni cinesi.

Il Partito popolare europeo (PPE), il più grande raggruppamento continentale, è segnato da una profonda divisione interna, e una parte consistente del partito chiede di riconsiderare l’accordo. Manfred Weber, presidente del PPE, ha apertamente accusato la Cina di intimidire e cercare di zittire i parlamentari europei che denunciano gli abusi e le violazioni dei diritti umani perpetrate dal Partito comunista ai danni degli Uiguri. Nel mentre, l’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, Renew Europe e Verdi/Alleanza libera per l’Europa, hanno espresso la volontà di votare contro la ratifica dell’accordo, che dovrebbe essere discusso al Parlamento europeo il prossimo anno. In termini più pragmatici, tanto cari alla Cina, circa 500 dei 705 deputati europei voterebbero contro il CAI, salvo una retromarcia cinese sulle recenti sanzioni, soprattutto per quanto riguarda gli europarlamentari accusati di diffondere fake news.

La disputa ha causato un forte malcontento in Cina, incanalato nella consueta pratica del boicottaggio. Tra i principali obiettivi della campagna, partita il giorno dopo l’annuncio delle sanzioni europee, la multinazionale svedese H&M, un colosso del retail con oltre 500 punti vendita nel Paese, colpevole di aver bloccato l’acquisto di cotone prodotto nello Xinjiang. I prodotti dell’azienda son spariti dalle principali piattaforme di e-commerce (Taobao e Pinduoduo), hanno iniziato a circolare in rete le foto dei punti vendita completamente deserti e le testimonianze di alcuni dipendenti che hanno deciso di dimettersi. Alla lista delle aziende boicottate si sono poi aggiunte Nike, Adidas, Burberry, Converse, Calvin Klein, tutte colpevoli dello stesso peccato.

L’estrema conflittualità della situazione suggerisce uno stop alle negoziazioni, oltre a richiedere un delicato momento di riflessione strategica. L’Unione Europea si trova in una situazione molto delicata, potenzialmente schiacciata tra Stati Uniti e Cina e in bilico tra ragioni etiche e necessità economiche. Le trattative per la ratifica del CAI sono appena iniziate, ma l’Unione dovrà presto decidere quali sono le sue priorità e prepararsi ad affrontarne le conseguenze.

 

Immagine: La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (14 settembre 2020). Crediti: Alexandros Michailidis / Shutterstock.com

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Myanmar, un pericoloso ritorno al passato

Il Myanmar sta vivendo un pericoloso ritorno al passato. La mattina del 1° febbraio, infatti, le forze armate hanno arrestato diverse personalità politiche, tra cui spiccano il presidente Win Myint e il consigliere di Stato, nonché il premio Nobel per la pace e attivista per i diritti umani Aung San Suu Kyi. Diversi altri parlamentari e membri della Lega nazionale per la democrazia (NLD, National League for Democracy) si trovano tutt’ora in stato di fermo. Questa non è di certo una novità per il Paese del Sud-Est asiatico, che ha sofferto il giogo dell’autoritarismo militare per la maggior parte della sua storia indipendente, riuscendo ad affrancarsene solo a partire dalle aperture del 2010 e dalle elezioni del 2012.

La principale motivazione dietro la mobilitazione del Tatmadaw, le forze armate birmane, sono i presunti brogli che si sarebbero verificati durante la tornata elettorale dello scorso novembre e che hanno visto una larga vittoria dell’NLD. Accuse che sia la Commissione elettorale che Aung San Suu Kyi hanno prontamente rispedito al mittente, rifiutando però anche l’apertura di una normale indagine. A questo proposito, è opportuno ricordare come il Tatmadaw detenga un quarto dei seggi in Parlamento, occupati da ufficiali scelti e nominati dal comando militare.

Questo è il contesto entro cui l’esercito si è sentito in dovere di agire, oltre a ritenere le proprie azioni costituzionalmente legittime: infatti, il Consiglio di sicurezza nazionale, che deve essere convocato dal presidente, può dichiarare lo stato d’emergenza in caso di gravi problemi amministrativi. All’arresto di Win Myint è seguita l’autoproclamazione del generale Myint Swe, che da presidente ha convocato il Consiglio e proclamato lo stato d’emergenza per un anno. Secondo la narrazione del Tatmandaw, l’utilizzo di queste clausole d’emergenza avrebbe come unico fine la difesa della Costituzione e dello Stato di diritto. Infatti, i militari temevano che il Parlamento eletto a novembre non avrebbe autorizzato un’indagine sulle elezioni, sentendosi così direttamente chiamati in causa: gli artt. 417 e 418 della Costituzione indicano gli scenari entro cui è possibile invocare lo stato d’emergenza, tra cui l’attentato alla solidarietà nazionale e alla sovranità. Inoltre, l’art. 40 sintetizza un’ulteriore casistica d’intervento, ossia quando viene riscontrata «l’incapacità del governo di svolgere le sue funzioni esecutive e amministrative». Queste sono chiaramente dei pericolosi pretesti, sollevati per requisire una libertà faticosamente conquistata. Al netto dei numerosi errori di giudizio perpetrati dal partito e dalla sua leader, uno dei più sfacciati interessi del Tatmandaw, in realtà, era quello di incriminare Aung San Suu Kyi e gli altri dirigenti dell’NLD, così da impedire loro di candidarsi nuovamente.

Il rapporto tra Aung San Suu Kyi e i miliari è complesso e stratificato. Sin dalle elezioni del 2015, la Lady si è personalmente adoperata nel creare un ponte tra società civile, Parlamento ed esercito. Tale cooperazione, oltre alla riluttanza nel denunciare e criticare l’operato del Tatmadaw, soprattutto nei confronti della minoranza Rohingya e nello Stato del Rakhine, le è costata buona parte del prestigio internazionale che aveva accumulato nel corso dei decenni, la maggior parte dei quali passati da prigioniera politica. Inoltre, è altresì probabile che le forze armate non si siano sentite abbastanza lodate per aver concesso la svolta democratica del 2012-15 e non abbastanza coinvolte nel dibattito politico del Paese. Alcuni esponenti dell’esercito temevano una possibile riforma costituzionale che limitasse ulteriormente il loro ruolo.

Il mondo occidentale, in primis Stati Uniti e Unione Europea, ha prontamente condannato l’accaduto. Anthony Blinken, neosegretario di Stato americano, ha chiesto il rilascio di tutti i parlamentari e gli attivisti arrestati dalle forze armate, oltre al rispetto del risultato elettorale, che rispecchia la volontà del popolo birmano. Il pericolo è che Washington possa velocemente far seguire i fatti alle parole, poiché ha subito aperto all’ipotesi di misure più drastiche, come il ritorno delle sanzioni economiche.

La Cina, invece, non ha apertamente condannato l’accaduto, ma ha espresso la speranza che tutte le parti coinvolte possano collaborare pacificamente per portare stabilità al Paese. La Birmania controllata dai militari è stata una storica alleata di Pechino, ma le cose sono cambiate nell’ultimo decennio: diversi analisti hanno infatti sottolineato l’insoddisfazione del Partito comunista per l’accaduto, che ha investito tempo e lavoro nel costruire un rapporto con Aung San Suu Kyi.

La reazione della popolazione non si è fatta attendere, e manifestazioni di protesta sono velocemente, e spontaneamente, emerse a Yangon, Mandalay e Naypyidaw. In risposta, i militari hanno intimato alle varie compagnie telefoniche di bloccare la trasmissione del segnale, di fatto lasciando il Paese senza Internet. La motivazione ufficiale sarebbe quella di impedire la veicolazione di fake news, garantire la stabilità nazionale e la sicurezza dei cittadini. Questa è in realtà una decisione squisitamente di necessità pratica, poiché una buona parte della partecipazione civica viene organizzata e coordinata sui social network, in particolare Facebook e Twitter. Certamente un duro colpo, ma che non è riuscito a bloccare la mobilitazione delle masse, che hanno dimostrato il loro attaccamento alla figura di Aung San Suu Kyi, la cui liberazione è stata richiesta a gran voce, e il totale rifiuto verso un possibile ritorno alla dittatura dell’esercito.

Per il Myanmar si prospetta un futuro particolarmente incerto, e proprio per questo motivo l’atteggiamento e il sostegno della comunità internazionale potrebbero rivelarsi dirimenti. Al momento, però, al cordoglio per l’accaduto si sono affiancate le minacce di nuove sanzioni, che probabilmente si rivelerebbero più dannose per la popolazione che per gli interessi economici dei generali.

 

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Leva e K-pop, la Corea del Sud mitiga la legge sul servizio militare

 

Meglio idol che soldati. Questa è la conclusione a cui è giunto il governo sudcoreano quando ha deciso di modificare la sua annosa legge sul servizio militare, che è ancora obbligatorio nel Paese.

Il 1° dicembre 2020, l’Assemblea nazionale ha approvato un emendamento che consente un ulteriore rinvio per quelle personalità che rappresentano la Corea del Sud a livello internazionale. La revisione, infatti, specifica chiaramente come il ministero dello Sport, Cultura e Turismo possa raccomandare degli artisti particolarmente rappresentativi della pop culture e permettere loro così di rinviare la chiamata dell’esercito. Questa modifica, sia per la stampa di Seoul che per quella internazionale, è diventata velocemente la BTS Law, poiché la più famosa idol band al mondo sarebbe stata altrimenti costretta a dividersi, se non addirittura fermarsi, per qualche anno. Infatti, Kim Seok-jin, universalmente conosciuto come Jin, avrebbe dovuto rispondere alla chiamata dell’esercito entro la fine dell’anno. Il membro più anziano della band ha infatti compiuto i 28 anni di età, termine entro il quale non sarebbe stato più possibile rinviare. La nuova legge prevede il ritorno a una precedente regola, dato che è stato reintegrato il vecchio limite dei 30 anni.

Il dibattito sull’obbligatorietà del servizio militare in Corea del Sud non è esattamente una novità, rappresentando un’istituzione tanto arcaica quanto elastica e selettiva. La querelle principale degli ultimi anni riguardava l’inserimento degli idol nel novero delle categorie che possano essere premiate con l’esenzione. Questo onore veniva solitamente accordato agli sportivi, ma solo a fronte di importanti vittorie internazionali, e saltuariamente a qualche musicista, ma quasi esclusivamente concertisti e virtuosi della musica classica. Il K-pop non veniva riconosciuto come rilevante e rappresentativo del carattere nazionale, qualcosa che potesse dare lustro al Paese nell’arena internazionale. Finché non è diventato il principale prodotto d’esportazione, nonché il principale strumento di soft power, della Corea del Sud. Non era più possibile ignorare l’impatto globale del K-pop e si è giunti alla conclusione che dividere i BTS avrebbe potuto rappresentare un significativo danno d’immagine, oltre che economico, per il Paese.

Una buona notizia per gli ARMY (nome con cui vengono identificati i fan della band) di tutto il mondo, ma soprattutto per i componenti della band, che son riusciti a battere ogni sorta di record anche in un anno profondamente segnato dalla pandemia. Una nuova revisione della legge venne infatti proposta all’inizio del mese di agosto 2020, dopo che Dynamite, il nuovo singolo della band che è poi stato la colonna sonora della campagna pubblicitaria globale di Samsung, è diventato il primo brano di un artista coreano a debuttare al 1° posto della Top 100 dei singoli di Billboard. Oltre alla dimensione strettamente artistica, la forza dei BTS è anche quella di aver, inequivocabilmente, messo sotto i riflettori la potenza economica della propria industria d’appartenenza. Nel 2019 i BTS hanno incassato 170 milioni di dollari, piazzandosi al 5° posto degli artisti più pagati, un’ascesa fermata solamente dalla pandemia in atto. Ciò nonostante, nel mese di giugno 2020 sono stati capaci di frantumare anche il record per la più alta affluenza a una performance on-line, attirando più di 750.000 spettatori paganti per un concerto in streaming.

Inoltre, un’altra importante spinta nell’accelerare tale processo di revisione legislativa è stata la clamorosa Initial Public Offering (IPO, la nostra offerta pubblica iniziale) di Big Hit, la compagnia che ha creato e che produce i BTS. Quando la Big Hit ha deciso di entrare nel mercato azionario, nel mese di ottobre 2020, è stata valutata ben 8,5 miliardi di dollari. Una cifra eccezionale, che sostanzialmente rappresenta il valore di questo fenomeno globale. Grazie a questo incredibile lancio i sette membri della band sono tutti diventati multimilionari, dopo aver ricevuto da Bang Si-hyuk, CEO della compagnia, quasi 69.000 azioni a testa. Non deve quindi stupire che diversi economisti abbiano considerato le attività, presenti e future, dei BTS per calcolare le fluttuazioni del PIL sudcoreano, che avrebbe rischiato di vedere un calo non solo per la recessione causata dalla pandemia, ma anche per la possibile pausa del gruppo.

Come era lecito aspettarsi, la BTS Law ha provocato anche diverse critiche per la disparità di trattamento che verrà estesa agli artisti e rappresentati della pop culture. Se questa modifica è stata pensata per tutelare carriere spesso effimere, che vedono il loro picco prima dei 30 anni, allora perché non estendere lo stesso ragionamento ai tanti giovani che devono rinunciare a buone opportunità lavorative, per poi entrare nel precariato cronicizzato una volta passati i 18/20 mesi di ferma obbligatoria? Ampliare la platea dell’esenzione, in questo caso, è indubbiamente una buona notizia per il mercato, ma non necessariamente per il Paese. Potrebbe diventarlo, però, se la BTS Law si trasformasse nel catalizzatore di un più ampio dibattito sull’opportunità di mantenere una coscrizione obbligatoria così lunga e logorante per il futuro dei giovani coreani.

 

Immagine: I BTS. Da sinistra, V, Suga, Jin, Jungkook, RM, Jimin, J-Hope ai Billboard Music Awards alla MGM Grand Garden Arena 2018 di Las Vegas, Stati Uniti (20 maggio 2018). Crediti: Kathy Hutchins / shutterstock.com

/magazine/atlante/geopolitica/Il_futuro_dell_Asia_Pacifico.html

Il futuro dell’Asia-Pacifico nel ‘nuovo’ scacchiere americano

 

Joe Biden sarà, con buona probabilità, il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Non è ancora ufficiale, nonostante la sostanziale proclamazione dei principali mass media globali, e potrebbe non esserlo sino al 14 dicembre, giorno in cui i 538 grandi elettori si riuniranno ed esprimeranno nel collegio elettorale. Il condizionale è comunque d’obbligo, perché il presidente “uscente” Donald Trump non ha nessuna intenzione di concedere la vittoria, ma è anzi riuscito a convincere la maggioranza del Partito repubblicano a fare quadrato attorno alla sua figura, e ai suoi ricorsi.

La priorità politica sarà certamente rivolta all’arena interna, con la pandemia da Coronavirus che ha sconquassato il Paese e una società che, probabilmente, non è mai stata così polarizzata e conflittuale. In politica estera, così come suggerito da tanti osservatori, la principale cesura di Biden rispetto all’amministrazione Trump sarebbe il “rientro” degli Stati Uniti nel mondo, e nel consesso mondiale delle organizzazioni internazionali. Nel corso di quest’ultimo tumultuoso quadriennio, Trump è uscito dall’Accordo di Parigi sul clima, dall’UNESCO, dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha fatto saltare l’accordo sul nucleare iraniano, ha definitivamente accantonato il progetto Trans-Pacific Partnership (TPP), oltre ad aver più volte criticato la NATO, la WTO, e tante altre organizzazioni dove gli Stati Uniti hanno storicamente svolto un ruolo di leadership.

Una delle principali sfide per la futura amministrazione Biden sarà proprio quella di reinserirsi nel concerto internazionale e rinnovare il rapporto con diversi partner internazionali, soprattutto in Asia. Durante il suo mandato da vicepresidente (2009-17), ma anche nei periodi in cui è stato presidente della Commissione Esteri al Senato (2001-03 e 2007-09), ha creato una rete di risorse e legami diplomatici che dovrebbero facilitare il percorso di internazionalizzazione e ripristinare il rapporto di fiducia con alcuni storici alleati e partner asiatici. Quindi è lecito attendere un rinsaldamento del rapporto con Giappone, Corea del Sud, Australia, ma nessun cambiamento radicale all’orizzonte; è infatti decisamente più plausibile una linea di continuità, ma con un deciso cambio di tono e atteggiamento.

La questione più rilevante, ovviamente, rimarrà il confronto con la Cina, Paese con cui Biden può vantare una solida tradizione di rapporti e legami, tra cui quello con Xi Jinping. A prescindere dall’inquilino della Casa Bianca, la Cina è inequivocabilmente un competitor strategico e il principale rivale geopolitico. Ma se Trump ha impostato una strategia estremamente conflittuale, spesso tendente addirittura al China bashing, soprattutto in campo economico e commerciale, la prospettiva del governo Biden potrebbe essere più tendente a una coesistenza competitiva. Sia chiaro, la strategia del contenimento e del decoupling economico non verranno probabilmente abbandonate ma, come detto prima, incanalate in un più canonico binario diplomatico.

Il candidato democratico, infatti, ha, sì, fortemente criticato Pechino su determinate tematiche (tutela dei diritti umani in primis), ma si è anche detto disponibile a cooperare su tematiche care ad entrambi i Paesi, come la lotta al cambiamento climatico e la sicurezza sanitaria su scala globale. Decadendo l’intrinseca imprevedibilità con cui Trump ha gestito la politica estera nel continente asiatico, e con essa l’approccio frontale alle questioni riguardanti la Cina, è probabile che il rapporto sino-americano tornerà su binari più familiari, rientrando in un contesto multilaterale in cui Washington possa demandare determinate questioni ai suoi alleati. In questo senso, la rinnovata presenza statunitense nell’Asia-Pacifico verrà difficilmente rivista da Biden, ma potrebbe bensì diventare un trampolino per espandere partnership e network sulla cooperazione regionale, specialmente contro la mai sopita assertività cinese. Il contenzioso nel Mar Cinese Meridionale, sebbene mantenendosi a bassa intensità, è più vivo che mai, con la Cina che porta avanti la sua strategia di controllo e gli Stati Uniti che provano a creare un concerto del Sud-Est asiatico, soprattutto tra i Paesi ASEAN, per contrapporsi in maniera più efficace all’espansionismo marittimo di Pechino.

Un altro importante banco di prova è rappresentato dalla Corea del Nord, su cui Trump ha puntato in maniera talmente sconsiderata da rischiare di compromettere il rapporto con Seoul e Tokyo. Di fronte alle rimostranze degli alleati, giustamente scontenti per le decisioni di petto prese dal tycoon, Trump ha minacciato un ridimensionamento della presenza militare statunitense nei due Paesi. I meeting con Kim Jong-un si sono sostanzialmente conclusi con un nulla di fatto, di cui ricordiamo più il buzz mediatico che altro. Biden, quindi, erediterà la solita situazione di stallo, e il suo insediamento verrà molto probabilmente salutato dall’immancabile test missilistico.

Infine, Taiwan è una delle poche realtà, assieme al Vietnam, a salutare Trump con più di un rimpianto. Taipei ha infatti beneficiato enormemente dell’acceso confronto tra Washington e Pechino, e il governo di Tsai Ing-wen è stato in grado di sfruttarlo per accrescere il proprio status internazionale. Basti pensare all’attuale gestione della pandemia, per cui Taiwan si è distinta come una delle più virtuose realtà del panorama internazionale ed è stata apertamente lodata dal governo americano. Le recentissime visite di due importanti figure istituzionali come Alex Azar, segretario alla Salute, e Keith Krach, sottosegretario di Stato, non possono che confermare la vicinanza tra i due governi, o la visita dei Raiders, le forze speciali dei marines, alla base navale di Kaohsiung per un corso di formazione. Le cose probabilmente cambieranno con Biden, ma non necessariamente in peggio per l’isola. La passionale vicinanza trumpista dev’essere interpretata più in chiave anti-Pechino che altro, e un ritorno al più classico dei rapporti bilaterali potrebbe essere la soluzione migliore per Taipei.

Insomma, si prospettano tanti fronti aperti e tante situazioni spinose per il presidente eletto, che ha dalla sua una grande esperienza e un grande network, professionale e personale, da cui attingere. Probabilmente non vedremo più una politica estera “urlata” al megafono, ma sarebbe altresì errato attendersi un netto cambio di rotta da uno dei principali artefici del Pivot to Asia.

 

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Immagine: La bandiera degli Stati Uniti esibita durante una manifestazione che invita i politici statunitensi ad approvare l’Hong Kong human rights and democracy act, Hong Kong (14 ottobre 2019). Crediti: Isaac C.P. Wong / Shutterstock.com

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La multimedialità della sfida per “una sola Cina”

 

Assieme alle reiterate accuse di aver scatenato la pandemia che tutt’ora ci troviamo a fronteggiare, negli ultimi mesi la Cina ha dovuto gestire altre questioni particolarmente complesse, che ciclicamente la mettono quasi in contrapposizione con il mondo Occidentale. Le proteste di Hong Kong durano ormai da oltre un anno, e l’emergenza Covid-19 ha per lo più rallentato un movimento che non ha nessuna intenzione di arrendersi. L’entrata in vigore della nuova legge sulla sicurezza nazionale e il rinvio di un anno delle elezioni legislative, previste ora il 5 settembre 2021, non hanno fatto che aumentare il malcontento verso la progressiva ingerenza del Partito comunista cinese (PCC) negli affari dell’ex colonia. Per quanto riguarda Taiwan, la riconferma di Tsai Ing-wen alla guida del governo, che rappresenta una sostanziale sfida al principio dell’unica Cina, ha riacutizzato le tensioni nello Stretto, con un susseguirsi di voci e report che vedevano Pechino preparare un’azione militare.

Le proteste contro la sempre più capillare ingerenza del PCC, la richiesta di rappresentanza e la più generale lotta per il particolarismo di Hong Kong, così come per la democrazia taiwanese, sono state ampiamente sposate da una crescente porzione della società civile occidentale, che esprime la propria solidarietà su una moltitudine di piattaforme, soprattutto on-line. Negli ultimi mesi, è stato organizzato un gran numero di conferenze, seminari, tavole rotonde, ma il dibattito è uscito velocemente dai circuiti accademici ed è arrivato in comunità molto più ampie, come le board on-line. Andando oltre la gargantuesca realtà che è Reddit, uno dei casi più interessanti è quello fornito da ResetEra, probabilmente il più rilevante forum videoludico mondiale e presto diventato luogo di aggregazione e discussione non solo sulla vicenda, ma su come la comunità videoludica potesse far sentire la propria voce.

La fuoriuscita di questo crescente sentimento di solidarietà dagli ambienti accademici, per raggiungere le potenzialmente sconfinate e incontrollabili community on-line, ha probabilmente fatto suonare più di un campanello d’allarme. Il governo cinese è ben consapevole della forza organizzativa della rete e della crescente rilevanza sociale e culturale delle comunità che si sono create attorno al panorama videoludico. I dati comunicati nel 2019 da Feng Shixin, vice direttore dell’ufficio editoriale del Dipartimento centrale della propaganda, non fanno che confermarlo, così come è innegabile che il mercato videoludico sia diventato estremamente importante per la filiera tecnologica cinese: parliamo di un introito annuo di 30 miliardi di dollari, 200 aziende pubbliche e 6.000 aziende private che sviluppano videogiochi, con una platea stimata in circa 600 milioni di giocatori.

Un contesto in cui è estremamente complicato monitorare le reazioni, controllare la narrazione e ridurre al minimo il dissenso. Soprattutto se guardiamo oltre il panorama interno, in cui esiste un’apposita commissione che valuta quali contenuti possano entrare o meno nel mercato. Ovviamente questo controllo non è applicabile alla fruizione del media fuori dalla Cina, ma come vedremo il governo cinese ha trovato metodi alternativi efficaci per far sentire la propria voce e al contempo intaccare i movimenti di solidarietà verso Hong Kong e Taiwan, con due casi particolarmente eclatanti.

Il primo riguarda Animal Crossing. New Horizons, un life simulator sviluppato da Nintendo e uscito sulla sua console, Nintendo Switch, il 20 marzo 2020. La struttura del gioco è molto semplice: il giocatore viene catapultato in un’isola deserta che potrà plasmare a suo piacimento, in cui costruire e decorare la propria casa, decidere che piante e fiori piantare, che attrazioni costruire e chi invitare. Complice il sostanziale lockdown globale, il titolo è divenuto velocemente un successo planetario, monopolizzando la quasi totalità delle piattaforme video e streaming, da YouTube a Twitch. Proprio la componente inclusiva, sostenuta dall’enorme community che si è creata, ha permesso a Joshua Wong, il più riconoscibile volto della protesta di Hong Kong, di diffondere il suo messaggio attraverso il gioco. Durante un live streaming su YouTube Wong ha mostrato la sua isola, sulla quale capeggiava la scritta “Free Hong Kong – Revolution Now” e due caricature sottostanti, che raffiguravano Xi Jinping e Carrie Lam. Il video di Wong è diventato ben presto virale, e moltissimi altri utenti hanno deciso di addobbare allo stesso modo la propria isola, esternando così la propria posizione. La risposta del governo cinese non si è fatta attendere: il gioco è sparito dai due principali e-store cinesi, Pinduoduo e Taobao, e la sua approvazione per entrare nel mercato interno è stata ovviamente accantonata. Questa è una prova di quanto i meccanismi di solidarietà che possono svilupparsi grazie ai videogiochi siano ormai capillari, e una potenziale minaccia per la retorica del PCC.

Un caso ancora più recente, e per certi versi più significativo, è quello di Genshin Impact, gioco d’avventura free-to-play (scaricabile e giocabile gratuitamente) uscito lo scorso 28 settembre su pressoché tutte le piattaforme, tra cui anche il mercato mobile, particolarmente florido in Cina. Un altro elemento estremamente rilevante è che il titolo in questione è stato sviluppato dalla software house di Shanghai miHoYo. I giocatori vengono catapultati in un enorme mondo condiviso, dove è possibile comunicare attraverso una chat che però non riconosce determinati termini: se infatti proveremo a digitare Hong Kong, Taiwan, Tibet, avremo in ritorno una serie di asterischi. Questa autocensura non è sorprendente, ma è al contrario una prassi a cui devono sottostare tutti gli sviluppatori cinesi. La motivazione ufficiale è racchiusa nella legge che regola lo sviluppo del software, che impedisce la creazione di contenuti che “minaccino l’unità nazionale della Cina”.

Nonostante le ovvie critiche e la campagna di boicottaggio, miHoYo ha già annunciato che il titolo ha incassato 100 milioni di dollari, ripagando completamente i costi di sviluppo e marketing. Questo ci fa presente anche uno dei principali problemi di queste istanze, ovvero l’intrinseca effimerità, e l’incapacità di strutturare la solidarietà, soprattutto quando deve scontrarsi con il capitale. Questi due casi ci ricordano che il governo cinese ha, nel tempo, messo in piedi un complesso sistema di controllo che le permette di lottare per mantenere il monopolio sulla propria narrazione, specialmente all’interno del mercato nazionale, e sfruttare le leve economiche che ha sapientemente creato negli anni, come ad esempio partecipazioni in grossi conglomerati tecnologici, per rendere sempre più difficoltosa la creazione di una vera solidarietà all’interno delle community on-line.

 

Immagine: Lennon Wall alla stazione di Taichung. Traduzione: “Sostieni Hong Kong”, Taichung, Taiwan (28 novembre 2019). Crediti: TimeDepot.Twn / Shutterstock.com

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I giovani thailandesi sfidano la monarchia

Dopo una pausa forzata, causa pandemia da Covid-19, sono ripartite le proteste in Thailandia. Domenica 16 agosto, infatti, è stata indetta una manifestazione pacifica, organizzata dal neonato Movimento di liberazione popolare (Free People Movement), con ritrovo presso l’evocativo monumento alla democrazia, nel pieno centro di Bangkok. La motivazione scatenante, nonostante questo sentimento sia covato ormai da diversi anni, è stata la visita di un gruppo di soldati egiziani a cui è stato permesso di attraversare il Paese e fare shopping in totale violazione di tutte le regole vigenti per il contenimento del Coronavirus. Quando si è poi scoperto che alcuni di questi soldati sono risultati positivi e l’episodio è andato a sommarsi all’estensione di misure restrittive nonostante un sostanziale stallo di nuovi contagi tra la popolazione, il malcontento è riemerso con forza.

Le principali richieste del movimento prevedono la fine delle intimidazioni e della violenza verso coloro che criticano la monarchia e il governo di Prayut, l’inizio dei lavori per una nuova Carta costituzionale che sostituisca quella imposta dai militari nel 2017 e lo scioglimento della Camera dei rappresentanti. Il fine ultimo di questo percorso sarebbe quello di arrivare a una vera monarchia costituzionale, che abbia un ruolo di garante apolitico delle istituzioni, mantenuta sotto una stretta briglia costituzionale, rispettosa delle leggi e dove gli organismi che servono la monarchia siano subordinati a quelli del governo.

Secondo le stime ufficiose degli organizzatori, il 16 agosto si sarebbero riunite circa 20.000 persone, in quella che diverrebbe così la più partecipata manifestazione politica dal colpo di Stato del 2014. La portata delle proteste, però, non va circoscritta alla sola popolazione urbana, in questo caso i giovani studenti universitari di Bangkok, ma è in realtà espressione di un sentimento condiviso in tutto il Paese. L’ONG iLaw ha diffuso un report secondo il quale, nel 2020, le forze dell’ordine avrebbero bloccato delle manifestazioni, minacciando gli organizzatori, a Chiang Mai, Kanchanburi, Khon Kaen, Lamphun, Loei, Nonthaburi, Udon Thani e tante altre località. Si stima che si siano tenute manifestazioni contro la monarchia in più di 40 province. Tra le persone minacciate, e spesso denunciate e incarcerate, sono in forte aumento i giovani alla prima esperienza di attivismo politico, segno che il malcontento è in costante aumento. Inoltre, il coinvolgimento della gioventù rurale è un deciso campanello d’allarme per l’establishment thailandese, soprattutto considerando il grande sforzo del compianto sovrano Bhumibol per creare un senso di fedeltà verso la monarchia. L’ascesa al trono del figlio, Vajiralongkorn, ha contribuito a pregiudicare questo già precario equilibrio, e i numerosi scandali che l’hanno visto coinvolto hanno fatto decadere quell’aura di sacralità e carisma che caratterizzava l’ordine monarchico. Non deve quindi stupire che moltissimi giovani siano disposti a rischiare l’arresto per chiedere un cambiamento e un vero costituzionalismo di Stato.

Idealmente, le proteste sono ripartite esattamente da dove le aveva bloccate il virus, che sostanzialmente ha aggiunto ulteriori motivi di malcontento. Lo scioglimento del Future Forward all’inizio dell’anno, partito messo al bando dopo il notevole successo riscontrato alle elezioni del 2019, con ben 80 seggi conquistati. La crisi economica, che il governo di Prayut non è riuscito a fronteggiare e che, dopo lo scoppio della pandemia, rischia di collassare. Il blocco dei due principali vettori economici, turismo ed export, che ha fatto piombare il Paese in recessione, con una contrazione prevista tra il 5-8%. L’intolleranza verso l’inettitudine del governo e della monarchia, considerati entrambi fuori dal tempo e lontano dal comprendere le necessità primarie della società, sono così tornati al centro del dibattito politico, portando in dote ansia e insicurezza nell’establishment militare e tra gli elementi più reazionari della società thailandese.

La conseguente reazione è stata tanto clamorosa quanto bizzarra. Il governo thailandese, nel tentativo di fermare la macchina organizzativa della protesta, ha bloccato l’accesso alla pagina Facebook Royalist Marketplace. L’amministratore della stessa, fortemente critica verso la monarchia e che conta più di un milione di iscritti, è Pavin Chachavalpongpun, professore di Relazioni internazionali all’Università di Kyoto, che dopo aver lavorato per 13 anni al ministero degli Esteri è stato costretto all’esilio dopo il colpo di Stato del 2014. Molto critico verso il governo thailandese e grande oppositore del reato di lesa maestà, Pavin ha aperto la pagina con l’obiettivo di creare una piattaforma dove venisse rispettata la libertà di parola, dove le persone potessero esprimere la propria opinione e raccontare la loro realtà. In un comunicato, il social network ha prima dichiarato di essere stato “costretto” a bloccare l’accesso a contenuti ritenuti illegali dal governo di Bangkok, salvo poi rilanciare, minacciando una causa legale nei confronti del governo thailandese e sottolineando la gravità di simili richieste, in contrasto con i diritti umani e che provocano un pericoloso ostacolo per la libertà di espressione individuale. Al momento è difficile immaginare come questo confronto possa svilupparsi, ma è chiaramente un’ulteriore espressione del forte malcontento verso l’istituzione monarchica.

La ripresa delle proteste e gli studenti in piazza non possono più essere ignorati dalle autorità. Il pericolo di subire una condanna, sino a 15 anni, per lesa maestà, di venire additati come sediziosi, di essere arrestati o di diventare vittima di una vera e propria repressione rappresentano probabilmente la nuova normalità per una generazione che ha deciso di rompere un tabù e non inginocchiarsi supinamente a un’istituzione che ritengono li abbia ha traditi. I prossimi mesi saranno importanti per capire quanto sarà percorribile la strada delle riforme o se le proteste si trasformeranno in scontri aperti.

 

Immagine: I manifestanti fanno il gesto simbolico del saluto a tre dita di fronte al Monumento alla democrazia per protestare contro il governo, richiedere una nuova Costituzione e la riforma della monarchia, Bangkok, Thailandia (16 agosto 2020). Crediti: Adirach Toumlamoon / Shutterstock.com

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L’agrodolce vittoria elettorale del PAP a Singapore

 

Per alcuni potrebbe essere una sorpresa, considerato che spesso si dimentica sia una repubblica parlamentare, ma ogni cinque anni la popolazione di Singapore è chiamata alle urne. L’emergenza Coronavirus non ha bloccato i preparativi, e il 10 luglio si è regolarmente svolta una tornata elettorale che ha regalato alcune sorprese. Il People’s Action Party (PAP), fondato dal padre della patria Lee Kwan Yew e che ha ininterrottamente governato la città-Stato dal 1959, ha ottenuto il secondo peggior risultato della sua storia, con il 61,3% dei consensi. Questo è un risultato disastroso, che supera solo di uno scarso 1% il tracollo del 2011 e segna un calo di nove punti percentuali rispetto al 2015. Ma ciò nonostante, soprattutto grazie a un sistema elettorale pensato per garantire costantemente una forte maggioranza parlamentare al PAP, il partito al governo tiene saldamente il controllo del Parlamento, con 83 seggi sui 93 disponibili.

Da questo punto di vista, le elezioni sono più un appuntamento per dare un feedback, una valutazione, che una vera opportunità per cambiare leader o partito al governo. Le opposizioni sono divise, spesso in conflitto tra loro, e sostanzialmente ostracizzate dai media locali. Il Worker’s Party, principale partito d’opposizione, ha ottenuto un ottimo risultato e ha così consolidato la sua posizione di principale antagonista, vincendo 4 nuovi seggi e portando così il suo totale a 10. Il Progress Singapore Party, fondato dall’ex PAP Tan Cheng Bock, non ha conquistato nessun seggio, però è riuscito a tenere testa ai candidati del PAP in alcuni distretti. Sebbene sia cambiato ben poco in termini di rappresentanza, le elezioni rimangono estremamente rilevanti come barometro dell’opinione pubblica, e i risultati sono importanti poiché influenzeranno inequivocabilmente l’ambiente politico entro cui andrà ad operare il governo.

Ma quali sono le principali motivazioni dietro la debacle del PAP? Una delle possibili chiavi di lettura di questo crollo, potrebbe essere rappresentata dal sostanziale rifiuto popolare nei confronti di Heng Swee Keat, delfino di Lee Hsien Loong e già investito come futuro primo ministro. Heng, che era anche il coordinatore nazionale della campagna del PAP, è riuscito a malapena a mantenere il suo collegio, vincendo con un margine molto risicato (circa il 3,4%) e perdendo quasi il 7% rispetto al 2015. Sebbene Heng possa apparire come il perfetto capro espiatorio, le principali responsabilità rimangono comunque a capo dell’attuale primo ministro, Lee Hsien Loong.

Negli ultimi anni, il suo principale obiettivo è stato quello di formare una nuova generazione di politici e amministratori, in grado di prendere le redini del Paese una volta giunto il momento. Questo gruppo è conosciuto come 4G (poiché sarebbe, appunto, la quarta generazione) ed è formato essenzialmente da dieci politici, che hanno assunto ruoli ministeriali estremamente rilevanti dal rimpasto di inizio 2018. Al suo interno troviamo esponenti centrali dello Stato, come il ministro delle Finanze (ossia Heng), quello del Commercio e dell’Industria, quello dello Sviluppo nazionale, quello dell’Istruzione e quello della Cultura. Il gruppo rappresenta la cerchia più vicina a Lee, quella che gli succederà, ma anche quella che ha gestito l’emergenza Covid-19. In questo senso, sebbene Singapore venga spesso presentata come un modello di efficienza, essi vengono ritenuti tra i principali responsabili delle questioni più eclatanti: dalle indecisioni sulle restrizioni, passando per una fuga di dati che ha reso pubbliche diverse cartelle cliniche, all’ingiustificato aumento dei costi sanitari e del trasporto pubblico, alla stagnazione economica.

Come accennato in precedenza, buona parte della responsabilità della disfatta è imputabile a Lee. D’altronde è lui che nell’ultimo anno ha sostanzialmente messo il Paese nelle mani della 4G, e le elezioni sono più un feedback sull’operato di governo che altro. Il giudizio dei singaporiani ha il sapore di una bocciatura senza appello, ma questo non significa che il PAP sia disposto a fare un passo indietro, soprattutto per quanto riguarda la leadership.

Lee Hsien Loong aveva pianificato nel dettaglio la successione, ossia cedere la scrivania a Heng nel 2021-22. La pandemia e il risultato elettorale hanno messo i piani in stand by, e Lee ha espressamente chiarito che il primato di Heng non è in discussione, anche se gli altri esponenti del 4G hanno avuto risultati elettorali migliori del suo. Ciò, però, potrebbe anche indicare la volontà di posticipare tutto al 2025, in modo da avere più tempo per preparare il suo protetto e, allo stesso tempo, difenderlo dalle possibili ambizioni di altri membri del gruppo.

Ecco perchè alle opposizioni si presenta una grande opportunità per crescere e consolidarsi, soprattutto verso le fasce più giovani e meno avvezze alla comunicazione tradizionale ed elitista del PAP. Il Worker’s Party di Pritam Singh si conferma come una forza in ascesa, grazie a una nuova generazione di giovani attivisti, soprattutto indiani e malesi, che hanno ottenuto un buonissimo riscontro di preferenze. Questo stile di politica dal basso sta raccogliendo sempre più consensi, e tra cinque anni potrebbero ulteriormente rimpolpare la propria presenza in Parlamento. Tan Cheng Bock ha già annunciato che si ripresenterà alle prossime elezioni e di voler rafforzare il suo Progress Singapore Party, che ha quasi sconfitto due ministri del PAP.

Il risultato elettorale rappresenta uno spaccato di sostanziale insoddisfazione e mancata rappresentanza, dato che 4 singaporiani su 10 hanno deciso di votare altre forze, e la situazione interna al PAP appare quantomeno precaria. Il partito di governo è sempre stato considerato come garante dello status quo e della stabilità del Paese, ma se non fosse più visto in questi termini? Cosa significherebbe un ulteriore calo dei consensi, se non una diretta sfida alla struttura governativa e all’apparato politico-amministrativo? La richiesta per una vera rappresentanza, riflessa anche nella redistribuzione dei seggi in Parlamento, appare quasi inesorabile.

 

Immagine: Elettori di Singapore che indossano mascherine protettive e rispettano il distanziamento sociale mentre fanno la fila per votare durante le elezioni generali di Singapore del 2020, Singapore (10 luglio 2020). Crediti: Heng Lim / Shutterstock.com

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È arrivato il momento di Taiwan?

 

Taiwan è stato indubbiamente uno dei principali attori della politica internazionale negli ultimi mesi. Trovandosi in un contesto regionale estremamente complesso, e reso ancora più imprevedibile dallo scoppio dell’epidemia Covid-19, il governo guidato da Tsai Ing-wen si è dimostrato all’altezza della situazione, e non ha sprecato le occasioni in cui è riuscito a far sentire la propria voce.

La principale motivazione dietro questa ascesa, e alle relative speranze di affrancarsi una volta per tutte dall’ombra di Pechino, risiede nella eccezionale risposta di Taipei all’emergenza Coronavirus, che potrebbe anche diventare un rinnovato punto di partenza per ampliare il proprio raggio d’azione all’interno della cooperazione internazionale. I dati riguardanti la diffusione del virus nel Paese sono incredibilmente positivi, e per questo Tsai ha ricevuto applausi e consensi da ogni angolo del panorama politico. Al momento della stesura di questo articolo, le autorità sanitarie taiwanesi hanno diagnosticato 447 casi positivi, dei quali più della metà è già stata dichiarata guarita, con appena 7 decessi. La creazione di un sistema particolarmente efficace, e concentrato sostanzialmente sul veloce riconoscimento ed isolamento dei casi positivi, ha portato il Paese ad essere una delle avanguardie nella lotta alla malattia, e gli ha anche permesso di spostare il focus verso l’esterno ed aiutare chi si trovasse in difficoltà. Taiwan si è adattato al nuovo contesto così velocemente da diventare il secondo produttore mondiale di mascherine, riuscendo in tal modo a soddisfare in pochissimo tempo la domanda interna. Inoltre, è stato creato un team appositamente per facilitare la cooperazione medica e farmaceutica con gli altri Stati: dalla ricerca sul vaccino ai test rapidi, passando per il grande know how tecnologico e farmacologico.

Nel mese di aprile, probabilmente il più difficile per il Vecchio Continente, Taiwan ha fatto un’ingente donazione di mascherine: circa un milione è stato donato direttamente all’Unione Europea, mentre altri sei milioni sono partiti attraverso i diversi canali bilaterali con i singoli Stati. Azione che è stata pubblicamente riconosciuta dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che ha espresso tutta la sua gratitudine verso Taipei. Il primo ministro canadese Trudeau ha fatto altrettanto, dopo aver ricevuto circa mezzo milione di mascherine. Per quanto riguarda il suo vicinato, il Paese che più ha goduto del sostegno taiwanese è stato il Giappone: Taipei ha, infatti, fornito assistenza ad ospedali pubblici e scuole di specializzazione medica, oltre ad aver inviato diverse migliaia di mascherine. Infine, non è mai saltato il canale preferenziale con gli Stati Uniti, nonostante la tragica gestione della pandemia da parte dell’amministrazione Trump. Il Dipartimento di Stato americano ha rilasciato un comunicato ufficiale nel quale la risposta taiwanese all’emergenza Covid-19 viene definita come un modello da seguire (sebbene Washington non l’abbia mai fatto) e Taiwan un prezioso amico in un momento difficile. Poco dopo, esattamente il 3 aprile, il presidente Trump ha trasformato in legge il cosiddetto TAIPEI (Taiwan Allies International Protection and Enhancement Initiative) Act, dopo essere passato all’unanimità sia al Senato che alla Camera. Scopo principale di questo documento sono il rafforzamento e l’espansione del rapporto di cooperazione tra gli Stati Uniti e Taiwan, così come il facilitare la creazione di nuovi legami diplomatici tra Taipei e altri Stati, senza tralasciare le organizzazioni internazionali. In questo senso, alla questione si aggiunge un ulteriore livello di complessità: sebbene abbia ricevuto un plauso pressoché globale per il suo operato, ad oggi Taiwan è fuori sia dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che dall’Organizzazione internazionale dell’Aviazione civile, due delle principali agenzie delle Nazioni Unite (ONU).

La promulgazione del TAIPEI Act deve essere letta anche in questi termini, poiché gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse di vedere una rinnovata presenza taiwanese nelle sedi istituzionali. Per circa trent’anni ormai, la One China Policy (la politica di una sola Cina) ha progressivamente escluso Taiwan dalla comunità internazionale. La maggior parte del concerto mondiale non riconosce la Repubblica di Cina come Stato sovrano, per cui le è stata negata la membership in sempre più organizzazioni (partendo dalla perdita del seggio all’ONU nel 1971), oltre ad esserle precluso di prendere parte ai principali meeting internazionali. Per esempio, stare ai margini dell’OMS le ha impedito di attingere a numerose informazioni preliminari, oltre a rendere difficoltosa la condivisione delle scoperte effettuate e dei metodi di risposta implementati.

Ma, come accennato in precedenza, la prontezza e il senso di responsabilità dimostrato durante la crisi potrebbero aprire nuove e inattese porte a Tsai Ing-wen, sempre più decisa ad allontanarsi da Pechino dopo la roboante conferma elettorale di inizio anno. Di conseguenza, uno dei campi principali dove Taiwan potrebbe ampliare il suo raggio d’azione globale è quello della cosiddetta human security. Dei tanti modelli emersi durante la pandemia, quello taiwanese è probabilmente il più consistente per le organizzazioni che si concentrano sulla gestione e risoluzione delle crisi, oltre ad essere facilmente replicabile in altre situazioni d’emergenza. Un riconoscimento di valore che permetterebbe all’isola di avviare un embrionale soft power, e cercare così di controbilanciare un minimo la forte influenza di Pechino sugli organismi multilaterali. Un possibile primo risultato di questa rinnovata considerazione potrebbe essere il sostegno decisivo per entrare nell’Assemblea mondiale della sanità. A prescindere dall’esito di questa iniziativa, il grande successo nell’affrontare la pandemia ha fornito a Taiwan una piattaforma dove provare a sviluppare una vera identità internazionale, oltre a ridimensionare i costanti tentativi di delegittimazione da parte della Repubblica Popolare. La firma del TAIPEI Act, inoltre, potrebbe portare il rapporto con gli Stati Uniti al livello successivo, e convincere sempre più Paesi che, forse, è giunto il momento di includere Taiwan nella grande famiglia globale.

 

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Cina, i tanti contenziosi territoriali con i vicini

 

Le schermaglie tra Cina e India nella regione del Ladakh orientale, più precisamente nella valle di Galwan, hanno monopolizzato, a buon titolo, le pagine della cronaca internazionale negli scorsi giorni. Lo scontro si è verificato all’interno della cosiddetta Linea di controllo effettiva, controverso termine adottato dopo la guerra del 1962 e che indica il contestato confine indo-cinese. I territori contesi da Pechino e Nuova Delhi sono l’Aksai Chin, regione himalayana sostanzialmente divisa tra il Ladakh indiano e lo Xinjian cinese, e l’Arunachal Pradesh.

Le prime, e confuse, ricostruzioni sembravano meno realistiche di un qualsiasi film di Wu Jing. Durante lo scontro, che si sarebbe concretizzato senza l’ausilio di armi da fuoco per entrambi gli schieramenti, circa venti soldati indiani avrebbero perso la vita, mentre dodici si trovano in condizioni gravi. Alcuni soldati indiani sarebbero stati letteralmente picchiati a morte, mentre per altri il decesso sarebbe sopraggiunto per ipotermia. Da parte cinese non è ancora arrivato nessun comunicato ufficiale circa il conto di morti e feriti, ed è anzi possibile che non ne venga mai rilasciato uno. Il faccia a faccia della valle di Galwan presenta il più alto conto in vite umane dall’incidente di Nathu La del 1967, ed è la prima volta dal 1975 che si contano vittime nella Linea di controllo effettiva.

Secondo le fonti indiane questa violenza arriva come un fulmine a ciel sereno, poiché le due parti erano attivamente impegnate in un processo di ridimensionamento delle attività nella valle di Galwan. Un’ulteriore conferma di ciò è arrivata dal ministero degli Affari esteri indiano, che in un comunicato ha sì confermato che le trattative con Pechino andavano avanti dall’inizio di maggio, ma ha anche accusato la Cina di aver violato lo status quo raggiunto e provocato così lo scoppio delle ostilità. Accuse che sono state completamente rigettate dalla controparte cinese, che anzi accusa Nuova Delhi di aver violato gli accordi, ossia di aver superato illegalmente la Linea di controllo effettiva e aver deliberatamente provocato una reazione violenta da parte dei soldati cinesi.

Sebbene lo scontro del 17 giugno sia certamente il più rilevante, non è l’unico episodio recente in cui la Cina ribadisce la propria assertività in un contenzioso territoriale.

Nel mese di maggio la situazione nel Mar Cinese Meridionale è ritornata di grande attualità, dopo che la Repubblica Popolare ha annunciato la creazione di due nuovi distretti amministrativi: il Distretto di Xisha, che include le Isole Paracel e il Macclesfield Bank, e il Distretto di Nansha, concentrato sulle Isole Spratly. Le due nuove unità cadranno sotto l’autorità dell’amministrazione locale di Sansha, città sorta su Woody Island e parte della provincia di Hainan. Una mossa che è parte integrante della strategia marittima cinese e permetterà a Pechino di avere una presa sempre più salda sulla prima catena di isole, e si tradurrà nella creazione di infrastrutture e nel tentativo di popolare alcune isole. Oltre alle abitazioni, alle scuole e agli uffici amministrativi, Pechino sta cercando di dare un forte connotato turistico al Mar Cinese Meridionale. Con la creazione di resort turistici e le conseguenti rotte civili per trasportarvi i turisti, sarà molto più complicato mantenere la libertà di navigazione tanto cara agli Stati Uniti.

L’annuncio cinese ha causato l’animata risposta vietnamita, principale rivale della Cina per la sovranità sulla maggior parte delle isole sopracitate, che ha ribadito il proprio diritto storico, ed esclusivo, sulle stesse. La Marina Militare cinese, inoltre, ha già lasciato intendere che a breve dovrebbe partire la fase estiva delle esercitazioni marittime, solitamente molto fitta.

Sempre nel mese di maggio, è tornato alla ribalta anche il contenzioso con il Giappone sulle isole Diaoyu/Senkaku, nel Mar Cinese Orientale. Due imbarcazioni della guardia costiera cinese si sono lanciate alla rincorsa di un peschereccio giapponese, entrando così nelle acque territoriali nipponiche. A difesa dei civili, sono arrivate diverse vedette della guardia costiera giapponese, che hanno intimato alla controparte cinese di tornare indietro e consentire le regolari operazioni di pesca. Nessuna delle due parti si è dimostrata disposta a retrocedere, creando così uno stallo che si è protratto per due giorni. Alla scontata protesta giapponese, che accusa Pechino di aver violato le proprie acque territoriali, è seguita l’altrettanto prevedibile risposta cinese, la cui giustificazione è riconducibile al disconoscimento della sovranità di Tokyo, per cui l’approccio all’imbarcazione nipponica era un legittimo atto di tutela dei propri interessi. Cina e Giappone non sono nuovi a valzer di questo tipo, si potrebbe anzi dire che è ormai una prassi standardizzata nel contenzioso del Mar Cinese Orientale. Ogni anno la Cina impone un blocco unilaterale alle attività di pesca, che il Giappone ovviamente non riconosce e, anzi, sfrutta per denunciare l’ingerenza cinese. Come è probabilmente intuibile dal contesto, il vero ago della bilancia non è tanto la sovranità su una manciata di isolotti e scogli, ma conquistare il primato per quanto riguarda i diritti di pesca.

India, Giappone e Vietnam sono indubbiamente i principali ostacoli per le velleità territoriali della Repubblica Popolare. Sebbene di diverse, e interscambiabili, intensità, questi contenziosi sono spesso usati da Pechino per lanciare un messaggio nell’arena regionale. Quello che abbiamo cercato di illustrare è un tipico modus operandi cinese, che sovente ribadisce la propria forte presenza in sede di contenzioso quando la comunità internazionale è concentrata altrove. Stavolta ha approfittato di un’apparente tregua dal Coronavirus, e degli occhi puntati sulle violente proteste negli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd. Non deve essere tralasciata anche la complessa situazione interna del Paese, con ancora vivi gli strascichi della pandemia e il timore di una seconda ondata, che va a sommarsi al difficile momento economico. Il risultato è una delle equazioni più care alla leadership cinese: quando la crescita rallenta, il nazionalismo accelera.

 

Immagine: Base dell’esercito indiano sulla strada da Hunder alla valle della Nubra, Hunder, Leh, Ladakh (3 settembre 2018). Crediti: RUCHUDA BOONPLIEN / Shutterstock.com

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Nepal, l’incerta risposta all’emergenza Coronavirus

 

Dopo un primo momento di parziale ottimismo, l’epidemia da Covid-19 è arrivata in maniera prorompente anche in Asia meridionale. Nelle ultime settimane, l’India ha scalato l’infausta graduatoria dei contagi, con una media di circa 8.000 nuovi casi al giorno e un picco di 10.864 contagi, fatto registrare il 7 giugno. Ciò è accaduto nonostante il governo Modi abbia imposto uno dei lockdown più restrittivi a livello globale.

Una strada che ha deciso di seguire anche il Nepal, che nonostante la scarsità di mezzi e risorse, ha cercato di contenere nel migliore dei modi il dilagare del virus. In questo senso, il lockdown imposto dalle autorità di Kathmandu non è stato certamente meno severo di quello indiano, ma ha portato in dote risultati inizialmente incoraggianti. Sino alla fine di maggio, il numero di contagi è stato modesto e pochi elementi lasciavano presagire un’inversione di tendenza: la chiusura sembrava funzionare, nonostante il basso numero di tamponi effettuati lasciasse presagire un certo numero di positivi non diagnosticati. Del resto, il basso numero di ricoveri e l’invariato tasso di mortalità sembravano confermare la bontà della macchina di prevenzione nepalese.

In realtà, il governo guidato dal discusso primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli non aveva pronta una strategia per il post-lockdown e le conseguenti riaperture. In questo lasso di tempo, durato circa cinquanta giorni, non è stato messo in atto un sistema di tracciamento dei contatti per isolare meglio i positivi quarantenizzati, tutelare i medici e gli operatori sanitari, istituire un circolo virtuoso che educasse la popolazione circa le principali contromisure da adottare. A questo si aggiunge la rilevante mole di lavoratori nepalesi all’estero, ansiosi (spesso costretti) di poter rientrare nel Paese, e le cui condizioni sono state motivo di grande preoccupazione.

I dati recenti non hanno potuto che confermare questi timori, dato che il Nepal ha visto un’impennata nel numero di contagi. Dal 27 maggio viene diagnosticata una media di circa 200 positivi al giorno e il totale, nel momento in cui scriviamo, è di 6.211 casi. Il primo ministro Oli, durante un intervento di fronte al Parlamento, ha respinto ogni responsabilità nei confronti dell’esecutivo, accusando i cittadini risultati positivi e gli amministratori locali per la propagazione del virus nonostante il lockdown. Ha anzi lodato le misure intraprese dal governo, oltre ad aver dichiarato che il conto dei decessi sarebbe da rivedere al ribasso, poiché le prime morti sarebbero riconducibili al Covid-19 solo a causa dei protocolli dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Per quanto riguarda Oli, dunque, è possibile puntare il dito su chiunque, ma non sul suo operato. Questo pericoloso mix di disinformazione, nazionalismo e quasi negazionismo, non è di certo una novità e si pone in continuità con la strategia perseguita da leader “carismatici” come Modi, Bolsonaro e Trump. Non a caso, tre dei Paesi che stanno pagando il conto più salato in termini di vite umane, oltre ad essere assurti ad esempio su come non si gestisca una pandemia.

La situazione che desta più preoccupazioni è quella relativa ai tamponi, di cui il Nepal ha incessantemente bisogno sin dall’inizio dell’emergenza. Secondo i dati raccolti da Worldometer, nel Paese sono stati effettuati 283.624 tamponi, solamente 9.745 ogni milione di abitanti. Inoltre, le disposizioni a riguardo non sono per nulla chiare, contribuendo così all’ulteriore diffusione della malattia. In un primo momento, il Dipartimento epidemiologico per il controllo delle malattie ha annunciato che i test erano riservati solamente a chi presentasse evidenti sintomi influenzali, febbre e dispnea. Le stesse linee guida proibivano un secondo tampone ai positivi che, dopo 14 giorni, non presentassero più sintomi. In questo modo, non solo era particolarmente complicato stabilire se il paziente fosse effettivamente guarito, ma ci si discostava dal protocollo adottato a livello internazionale, che prevede due tamponi negativi prima di dichiarare la guarigione. Senza tralasciare la totale negligenza nei confronti degli asintomatici, poiché al momento non è previsto nessun investimento sui test sierologici. Un altro grave problema è la gestione dei quarantenizzati, stipati in strutture affollatissime in cui è letteralmente impossibile isolare gli ambienti, dove le forniture di acqua e cibo scarseggiano costantemente, in cui il personale sanitario è sprovvisto dei presidi necessari per la propria sicurezza. Inoltre, il governo federale ha demandato la gestione di queste strutture alle municipalità locali, senza però riservare loro un budget dedicato o fornire il benché minimo sostegno.

A complicare ulteriormente la questione, l’imminente rientro dei nepalesi bloccati all’estero. Infatti, le sopracitate strutture dovranno accogliere anche il prossimo flusso di rientro, che il governo ha deciso di sbloccare dopo tre mesi di chiusura totale. Moltissimi di questi erano lavoratori a cottimo nella penisola arabica (più di 17.000 negli Emirati Arabi Uniti, 8.000 in Qatar, e altrettanti in Kuwait e Arabia Saudita), che hanno perso l’impiego e hanno dovuto attendere il rimpatrio.

Non deve quindi sorprendere che i più giovani siano scesi in strada a Kathmandu per manifestare contro un governo che ha gestito male l’epidemia e rischia di peggiorare ulteriormente la situazione nei prossimi, fondamentali, mesi.

 

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Immagine: Una passante indossa la mascherina durante la pandemia di Coronavirus e il lockdown, Kathmandu, Nepal (10 maggio 2020). Crediti: gorkhe1980 / Shutterstock.com

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Riflettere sul modello Singapore

 

Sin dall’inizio dell’emergenza causata dal Coronavirus abbiamo potuto assistere alla ricerca, quasi spasmodica, di un modello da lodare e replicare. Soprattutto la stampa internazionale, senza dimenticare le élite politiche, ha scandagliato il globo alla ricerca di esempi virtuosi, ma anche non esattamente convenzionali: c’è stato il tanto discusso modello coreano, con la sua app di tracciamento; il modello svedese e la sua risposta alternativa al lockdown; il modello neozelandese e la sua proposta di ripresa economica.

Tra i tanti casi presi in considerazione, Singapore rappresenta una peculiarità che vale la pena approfondire. La piccola città-stato è stata universalmente applaudita per la sua pronta risposta alla crisi, tra cui il blocco delle tratte aeree verso le zone inizialmente più colpite dal virus, e per lo sfruttamento di nuove risorse tecnologiche. Il governo singaporiano, infatti, è stato uno dei primi ad adottare un sistema di tracciamento sociale, per rintracciare ancora più celermente i possibili nuovi casi e, in caso di necessità, metterli in quarantena. La bontà di questo approccio veniva corroborata da una bassa percentuale di contagi, convincendo il primo ministro Lee Hsien Loong a dichiarare che la propagazione del virus fosse sotto controllo, e che Singapore sarebbe potuta diventare un modello da imitare per altre nazioni attanagliate dal Covid-19.

Poco dopo l’inizio dell’emergenza, il governo ha lanciato TraceTogether, un’applicazione sviluppata da un ente governativo per potenziare ulteriormente il tracciamento dei contatti. Questa applicazione si basa su una tecnologia che sfrutta la connettività del bluetooth, per tracciare la prossimità tra gli utenti e registrare la durata di possibili incontri. Lo sviluppatore dell’app, GovTech, ha ribadito che questa non era intrusiva e che usava una sorta di riconoscimento criptato tra dispositivi, rendendo il tutto estremamente trasparente. I dati venivano memorizzati nel dispositivo dell’utente, a cui poi veniva chiesto il consenso per trasferirli al Ministero della salute. Attraverso l’utilizzo della tecnologia bluetooth, il governo di Singapore mirava anche a dribblare le critiche ricevute dagli omologhi sudcoreani. Infatti, l’app utilizzata in Corea del Sud si basa su dati forniti dal GPS, in modo da localizzare gli individui che avessero violato la quarantena o che fossero vicini a potenziali zone rosse. TraceTogether è stata un enorme successo, registrando più di 600.000 download nei primi tre giorni, e divenendo presto oggetto di studio per governi e multinazionali della tecnologia.

Una prima crepa in questo apparente idillio si è verificata alla fine del mese di marzo, quando il numero di contagi ha avuto un’impennata improvvisa e costretto il governo a promulgare un lockdown particolarmente restrittivo. Questa battuta d’arresto ha fatto sorgere dubbi anche sull’applicazione, che non è sembrata più così infallibile. Il mondo della tecnologia ha accolto TraceTogether con commenti contrastanti: alcuni hanno applaudito la sua essenzialità e il rispetto della privacy, mentre altri hanno espresso preoccupazione circa la possibilità di sfruttare delle funzioni dell’app per creare dei backdoor e ottenere così i dati personali degli utenti. Inoltre, non è mai stato chiarito quali dati arrivino poi al governo. Nonostante quest’ultimo abbia ripetutamente garantito che non sarebbero stati raccolti dati sulla localizzazione, al momento ci sono promesse e poco più. Così come non è stata fatta chiarezza sui possibili usi futuri dell’app, quali ad esempio il tracciamento degli spostamenti di attivisti politici e altri “agitatori sociali”.

Oltre alla sicurezza digitale, anche l’effettiva efficacia dell’applicazione è stata messa in discussione. Il tracciamento dei contatti individuali, infatti, si attiva solamente dopo la conferma della positività. TraceTogether non è di nessun aiuto a una persona che cerca di isolarsi dal virus, aspetto che invece è centrale nel corrispettivo sudcoreano, poiché pensata per gestire un’infezione piuttosto che per evitarla. Ciò nonostante, il governo di Singapore continua a incoraggiare la popolazione a scaricare l’applicazione, sebbene sia consapevole dei possibili pericoli dati dal suo abuso, come ad esempio l’effimero senso di sicurezza e immunità che potrebbe trasmettere. In questo senso, potrebbe essere più efficace continuare con l’incisiva comunicazione di massa e la lodevole gestione della salute pubblica, che hanno permesso di avere ben pochi decessi in relazione ai casi diagnosticati.

Inoltre, il recente picco di contagi è più figlio di logiche del capitale che di un effettivo deficit sanitario. Il focolaio si è venuto a creare, infatti, tra le fasce più deboli dei residenti, ossia i lavoratori a cottimo della cantieristica e della logistica, principalmente indiani, pakistani e bangladeshi. Una volta diagnosticati i primi casi, questi sono stati costretti alla quarantena nei fatiscenti dormitori in cui vivono anche 25 persone, dove è pressoché impossibile mantenere il giusto distanziamento sociale, tantomeno creare degli spazi isolati per gli infetti. In questo senso, il rispetto delle regole e una risposta sanitaria che non faccia distinzioni sulla pelle dei cittadini sono sicuramente più efficaci di qualsiasi applicazione.

Dovremmo quindi riflettere meglio sia sull’utilizzo di tecnologie di tracciamento simili, la cui efficacia è alquanto discutibile, sia sul potere che potremmo incautamente concedere ai governi, in nome di un pedissequo voto d’ubbidienza. Se si vuole sfruttare lo strumento tecnologico è bene sottoscrivere un accordo il più trasparente possibile: i governi dovranno chiarire qualsiasi tipo di questione legata a privacy, utilizzo dei dati raccolti, efficacia e prevenzione del contagio, sorveglianza. I cittadini devono essere assolutamente consapevoli di ciò che stanno cedendo in nome della ipotetica salvaguardia della loro salute: potrebbe non valerne la pena.

La pandemia ha sostanzialmente messo tutto in secondo piano, anche il rispetto di alcuni dei diritti fondamentali di cui godiamo. Ma questo non deve essere un pretesto per porre i cittadini di fronte a una scelta tra la prevenzione della malattia e il rispetto dei diritti. Compito dello stato è trovare il modo di farli coesistere.

 

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Immagine: Singapore, marzo 2020. Regole di distanziamento sociale messe in pratica; posti a sedere alternati in locali pubblici (ristoranti, negozi di alimentari) per ridurre il rischio di ulteriore trasmissione. Crediti: kandl / Shutterstock.com

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Le diverse risposte al Coronavirus in Asia Sud-Orientale

 

Da un certo punto di vista, la pandemia che stiamo vivendo si è dimostrata estremamente democratica. Infatti, a prescindere da dichiarazioni di sorta e maldestri negazionismi, il Covid-19 ha colpito praticamente chiunque a livello globale, senza distinguere in base al sistema politico e al livello di sviluppo. Di conseguenza, la risposta alla sfida posta dal virus è stata estremamente varia, sotto tutti i punti di vista: abbiamo visto grandissime disparità nel numero di casi e relativi decessi, nel tasso di mortalità e nell’indice R0 (il cosiddetto numero di riproduzione di base, ossia il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto).

Per quanto concerne il Sud-Est asiatico, le contromisure prese dagli Stati son state altrettanto varie. Alcuni governi hanno agito in maniera particolarmente proattiva, ponendo tempestivamente in moto un efficiente circolo di controllo: test, tracciamento dei contatti, imposizione di misure di quarantena. Altri, invece, hanno sostanzialmente minimizzato la situazione, sia per cercare di consolidare il proprio potere politico e sia per il timore di conseguenze nefaste sull’economia. Da questo punto di vista, il principale parametro per giudicare l’operato dei governi dovrebbe proprio essere la velocità nel rispondere alle sfide poste dalla pandemia.

 

Sebbene economicamente dannoso nel breve periodo, alcuni Paesi hanno deciso di implementare delle stringenti misure di controllo individuale, ponendo così il contenimento del virus e la salute dei cittadini al primo posto. I leader di Singapore e Vietnam, due Stati ritenuti in vario modo autoritari, hanno deciso di basare la loro risposta all’emergenza su evidenze scientifiche e mediche, e non è un caso che siano tra i Paesi con il percorso più solido e trasparente: Singapore, pur essendo coinvolta sin dalla primissima ondata di contagi, conta circa 25.000 casi e appena 21 decessi, mentre Hanoi dichiara solamente 288 casi e nessun decesso. Un altro importante elemento di questa strategia è stata l’estrema trasparenza con cui le leadership dei due Paesi si son approcciate al problema. Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore, è presto diventato modello di una comunicazione efficace, basata sia su mezzi tradizionali che sui cosiddetti new media, parlando alla nazione anche attraverso delle dirette su YouTube. Lee ha velocemente riconosciuto la pericolosità della situazione e delineato una chiara strategia per affrontarla e superarla. In questo senso, anche il Partito comunista vietnamita si è distinto per aver posto la salute pubblica al primo posto, comunicando efficacemente e chiaramente alla popolazione le misure da seguire. Entrambi i governi hanno utilizzato anche canali non convenzionali per arrivare alle fasce più giovani. Fioccano così i video su TikTok, social popolarissimo in Vietnam, su come mantenere la distanza sociale, su come lavarsi correttamente le mani e su come contribuire efficacemente al superamento della crisi.

 

Anche la Malaysia ha implementato una risposta efficace, nonostante lo stallo politico-istituzionale che attanaglia il Paese dai primi mesi dell’anno. Il nuovo primo ministro Muhyiddin non si è ancora presentato in Parlamento per ottenere il voto di fiducia, mettendo sostanzialmente in stand-by la vita politica malese. Ciò non ha, però, impedito al governo di adottare le giuste misure di contenimento, affidandosi al parere di medici ed esperti sanitari. La Malaysia è stato uno dei primi Paesi a promulgare una stringente quarantena e il primo attore regionale ad appiattire la curva dei contagi.

 

Altri leader, invece, hanno imboccato una rotta basata su calcoli economici e politici a breve termine, sottovalutando apertamente la portata del problema e la pericolosità del virus, ponendosi in una posizione più attendista e perdendo così tempo prezioso per mettere in sicurezza i propri cittadini. Uno dei casi più eclatanti è quello indonesiano, dove infatti i contagi sono in costante aumento. Il primo ministro Joko Widodo ha invitato la popolazione ad utilizzare rimedi tradizionali, come ad esempio bere il Jamu (un miscuglio di zenzero rosso, citronella e curcuma). Il ministro della Salute, invece, ha sottolineato l’importanza della preghiera nell’arginare la diffusione del virus. Una situazione simile è riscontrabile anche in Thailandia, Paese che sta attraversando una grave crisi politica e che si trova sull’orlo della dittatura militare. Nelle prime settimane di emergenza, il ministro della Salute thailandese ha accusato, in maniera abbastanza colorita, gli occidentali di aver portato il virus nel Paese con la loro scarsa igiene personale, oltre a rifiutarsi di indossare le mascherine.

 

Ma ci sono anche i governi che hanno deciso di approfittare della situazione, sfruttando l’emergenza per accentrare ancora di più il potere, attaccare avversari politici e i mezzi d’informazione. Leader autoritari come Rodrigo Duterte e Hun Sen hanno visto la pandemia come un’opportunità politica. In Cambogia, il Parlamento ha approvato una legge che attribuisce ad Hun Sen dei poteri straordinari, tra cui la possibilità di intercettare comunicazioni telefoniche e telematiche, e limitare la libertà di parola e di assembramento. In questo contesto, Duterte ha potuto trovare un’ulteriore giustificazione per le esecuzioni extragiudiziali e il controllo squadrista delle strade, dove la lotta alla droga, prima, e la pandemia, poi, son diventate il pretesto per far sparire elementi sgraditi. Ha promulgato il lockdown su Manila, per poi ritirarlo dopo pochi giorni. Ha accusato i medici di tramare contro di lui, invece che curare i pazienti. La sua incapacità e il sostanziale disinteresse verso la diffusione del virus hanno portato le Filippine ad avere il terzo dato più alto nella regione per quanto riguarda i contagi (11.618 casi) e porsi al secondo posto per quando riguarda il tasso di mortalità (772 decessi). L’unica speranza, secondo Duterte, è che la Cina abbia il buon cuore di condividere la cura, una volta trovata.

 

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Immagine: Disinfezione e decontaminazione come prevenzione del contagio da Coronavirus, Yogyakarta, Indonesia. Crediti: IkbarNKC / Shutterstock.com

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Il Giappone dal sogno olimpico all’incubo della pandemia

 

Il Giappone si è reso protagonista di una gestione quantomeno peculiare dell’emergenza Coronavirus. Data la prossimità alla Cina, epicentro del contagio mondiale, i primi casi giapponesi non hanno tardato ad essere diagnosticati, ed è emerso il timore di una rapidissima diffusione in tutto l’arcipelago. Ciononostante, all’apparenza il governo Abe sembrava essere riuscito a circoscrivere il contagio, e l’unica regione del Paese interessata da misure speciali è stata l’Hokkaido. Una delle pochissime, se non l’unica, disposizione nazionale è stata promulgata all’inizio del mese di marzo e ha riguardato la chiusura delle scuole, con una ripresa della didattica prevista dopo la fine della pausa primaverile.

Ma i dati forniti dalle autorità giapponesi lasciavano presagire una situazione ben diversa: il ridotto numero di contagiati era probabilmente riconducibile all’ancora più ridotto numero di tamponi effettuati, così come il numero dei decessi è apparso da subito decisamente sottostimato. Inoltre, non sono state adottate delle vere e proprie misure restrittive, ma solamente delle raccomandazioni precauzionali, e la parola lockdown è sembrata essere un vero e proprio tabù, a differenza di quanto accadeva nel resto del mondo. La volontà politica dietro queste decisioni appariva abbastanza chiara: una prosecuzione dell’attività produttiva e della regolare quotidianità avrebbe contribuito a minimizzare la situazione, presentando un Paese in salute, in grado di gestire l’emergenza sanitaria senza pregiudicare il proprio tessuto economico.

Questa strategia aveva un obiettivo dichiarato, ossia mantenere vivo il sogno olimpico di Tokyo 2020. Il governo Abe avrebbe sacrificato qualsiasi cosa per mantenere in moto la macchina organizzativa, anche perché la cancellazione, o il rinvio, dei Giochi olimpici avrebbe generato un danno economico da circa 10 miliardi di dollari. Ma la realtà dei fatti era sempre più difficile da ignorare, e dopo alcune settimane di incertezza, il 24 marzo il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha annunciato ufficialmente lo spostamento dei giochi al 2021. Si potrebbe affermare che questo sia stato un vero e proprio momento di svolta, sollevando numerosi interrogativi circa la gestione (o non-gestione) dell’emergenza da parte del governo giapponese.

In primo luogo, dal 24 marzo è possibile riscontrare un significativo aumento del numero di contagi e decessi. Infatti, sino alla fatidica data che ha spezzato il sogno olimpico, il massimo giornaliero di contagi era di 70 casi e mai più di 5 decessi. L’aumento è diventato costante in entrambe le categorie, con picchi di 743 casi e 32 morti nello stesso giorno. Fino ad alcuni giorni fa il Giappone registrava una media di 502 contagi e 17 morti. Un dato quasi irrisorio rispetto ai numeri registrati dai Paesi più colpiti, ma che rappresenta un’impennata considerevole per l’arcipelago. La gestione e comunicazione di questi dati è ancora, però, deficitaria. Questi vengono comunicati in maniera discontinua e con forte ritardo, mentre il dato relativo ai tamponi effettuati non viene aggiornato da tempo. La task force sanitaria istituita dal governo ha, per l’ennesima volta, ribadito di uscire di casa solo in caso di necessità e di evitare contatti interpersonali. Il ministero della Salute ha ricordato che il mancato rispetto di queste misure potrebbe causare 850.000 contagi gravi e sino a 420.000 decessi.

Di conseguenza, sono cambiate anche le misure di contenimento. O meglio, hanno iniziato ad essere adottate delle misure d’emergenza sulla falsariga di quelle prese dalla maggior parte della comunità internazionale. Lo stesso giorno dell’annuncio del CIO, il ministro degli Esteri Motegi Toshimitsu ha dichiarato il blocco degli ingressi nel Paese per chi proviene da 18 Stati europei (tra cui ovviamente l’Italia) e l’Iran, oltre a rinnovare la sospensione dei visti per i cittadini di Cina e Corea del Sud.

La settimana successiva, il primo ministro Abe ha annunciato le prime misure che il suo governo avrebbe intrapreso per sostenere la popolazione. Sebbene molti si aspettassero delle manovre di sostegno economico (arrivate in un secondo momento sotto forma di una tantum da 100.000 yen, al cambio attuale circa 855 euro), Abe si è concentrato sulla fornitura di mascherine. Lo stimolo alla produzione interna si sarebbe tradotto in 600 milioni di pezzi, di cui 15 milioni di mascherine chirurgiche destinate ai diversi ospedali del Paese. Per quanto riguarda la popolazione, Abe ha annunciato che il governo avrebbe fornito due mascherine di tessuto ad ogni nucleo familiare. Le reazioni non hanno tardato ad arrivare: le forti critiche verso il primo ministro si sono trasformate velocemente in una memeficazione della misura, con l’hashtag #Abenomask in cima ai trend su Twitter.

Non è stato promulgato un vero e proprio lockdown, a cui si sono opposti diversi partiti e buona parte della società civile per la sua incostituzionalità, ma si è continuato sulla strada delle raccomandazioni e con la chiusura di diverse attività commerciali durante il fine settimana. Solo recentemente, il 16 aprile, sono state introdotte delle restrizioni più drastiche, con la dichiarazione dello stato d’emergenza nazionale. I governatori delle 7 prefetture sono stati investiti di poteri straordinari, principalmente riguardo la possibile estensione della chiusura di scuole ed attività commerciali oltre il 6 maggio, ossia la fine della Golden Week. È stato inoltre approvato il sopra citato contributo individuale da 100.000 yen, mentre è ancora in discussione una possibile seconda rata, da 300.000 yen, per i nuclei familiari più colpiti dalla recessione causata dalla pandemia.

L’implementazione delle contromisure citate in questo articolo potrebbe però non essere sufficiente, lasciando il fianco a critiche sia dal punto di vista sanitario che da quello economico. La mancanza di trasparenza e i continui cambi di direzione hanno ulteriormente acuito i dubbi circa l’effettiva capacità del governo Abe di portare il Paese fuori dalla crisi. Le prossime settimane saranno quindi decisive per capire a quale stadio del contagio si trovi il Giappone, ora che il sogno olimpico è sfumato.

 

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Immagine: Effetto Coronavirus, meno persone del solito in una strada del quartiere di Shibuya, Tokyo, Giappone (16 aprile 2020). Crediti: image_vulture / Shutterstock.com

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L’impatto del Coronavirus in Corea del Sud

L’allerta per l’epidemia di Coronavirus (2019-nCoV) è l’argomento più discusso e dibattuto dell’ultimo mese, soprattutto per la sua progressiva trasformazione da problema nazionale a emergenza globale. Il nostro Paese è salito agli onori della cronaca per essere quello più colpito a livello continentale, ma, pressappoco nello stesso arco temporale, non è stato l’unico a dover fronteggiare un’emergenza sanitaria. Dopo un primo periodo di apparente tranquillità e di presunto contenimento del virus, l’Asia orientale è tornata ad essere il fronte principale della questione con un nuovo protagonista: la Corea del Sud.

Nel momento in cui scriviamo, Seoul ha visto un’ulteriore impennata nei contagi arrivando a un totale di 5.621 casi (ma con un aumento di 600-800 casi al giorno), mentre il numero delle vittime è arrivato a 28. La Corea del Sud è seconda solo alla Cina per numero di contagi, ma il tasso di mortalità (circa lo 0,6%) è uno tra i più bassi a livello globale. Il primo caso accertato di Coronavirus è datato 20 gennaio, quando una cittadina cinese proveniente da Wuhan venne intercettata e isolata all’aeroporto internazionale di Incheon. Nel mese successivo non si è venuta a creare nessuna emergenza, con un numero di casi estremamente ridotto (circa 30) e una discreta sicurezza di essere riusciti a circoscrivere la propagazione del virus. La situazione ha iniziato a peggiorare nella seconda metà del mese di febbraio, e il vertiginoso aumento dei casi è stato pressoché inesorabile negli ultimi dieci giorni. Di conseguenza, il governo di Moon Jae-in ha progressivamente alzato il livello d’allerta sino a raggiungere il suo massimo, con la proclamazione del codice rosso del 23 febbraio. Tra le principali conseguenze socioeconomiche segnaliamo le due chiusure dello stabilimento, e dell’annesso campus, Samsung nel complesso di Gumi, focalizzato principalmente su produzione e ricerca & sviluppo in campo smartphone; il rinvio, a data da destinarsi, dell’inizio della stagione calcistica; la cancellazione della conferenza stampa di presentazione del nuovo album dei BTS, Map of the Soul: 7, dopo un trionfale lancio negli Stati Uniti.

 

Il numero di contagiati continua ad aumentare sebbene siano stati individuati due principali focolai: il primo a Daegu, quarta città del Paese con quasi due milioni e mezzo di abitanti, e il secondo nella vicina Cheongdo. Quello che viene ormai ritenuto il punto di partenza dell’epidemia sudcoreana è una delle tante sette cristiane presenti nel Paese, nello specifico la Shincheonji, Chiesa di Gesù, Tempio del Tabernacolo del Testimone. La congregazione, il cui nome sta ad indicare la prospettiva di un nuovo paradiso in terra, è stata fondata da Lee Man-hee nel 1984 e ha da allora accolto, secondo il suo leader, più di duecentomila adepti in tutto il mondo. Una dei fedeli di Daegu, una donna di 65 anni, è ritenuta il principale veicolo del virus nel Paese ed è comunemente indicata come “paziente 31”, come a voler indicare un prima e un dopo il suo contagio. Non è ancora chiaro come la donna abbia contratto il Coronavirus, ma è certo che ha preso parte ad eventi sociali particolarmente affollati sia a Daegu che a Seoul, tra cui due funzioni presso la sede locale della Shincheonji.

 

Secondo un comunicato ufficiale del governo sudcoreano, la donna sarebbe stata ricoverata il 7 febbraio in seguito a un incidente stradale, avrebbe sviluppato uno stato febbrile durante il ricovero e preso parte ad alcune funzioni religiose il 9 e il 16 dello stesso mese. Già il 15 febbraio i dottori hanno suggerito alla donna di sottoporsi al tampone di controllo, ma questa ha acconsentito solo il 18, risultando positiva. Nel mentre ha accompagnato un’amica ad un pranzo in hotel, entrando così in contatto con ancora più persone. Pochi giorni dopo il numero dei contagiati è iniziato ad aumentare in maniera esponenziale. Secondo il Korea Center for Desease Control and Prevention (KCDC) alle due funzioni incriminate avrebbero partecipato circa 9.000 persone, di cui più di 1.000 hanno mostrato sintomi influenzali e sono risultate positive al test. Conseguentemente, la Shincheonji di Daegu ha chiuso le porte e l’amministrazione cittadina ha preso tutte le misure necessarie per cercare di isolare il fenomeno. Purtroppo i dati non sono particolarmente incoraggianti e iniziano a presentarsi alcune criticità importanti, tra cui la scarsità di posti letto per i nuovi pazienti.

Dei circa 2.800 casi diagnosticati a Daegu, ne sono stati ospedalizzati poco più di 900. Gli altri sono stati posti in regime di quarantena domestica in attesa che si liberino dei posti negli ospedali cittadini. Le autorità sanitarie hanno deciso di dare priorità ai pazienti con il quadro clinico più serio, ma il costante aumento dei contagi non permette di fornire assistenza a tutti. In parziale risposta all’emergenza, il ministro della Salute Park Neung-hoo ha dichiarato che il governo avrebbe sistemato i pazienti con sintomi non gravi presso un edificio messo a disposizione dal ministero dell’Istruzione. Contemporaneamente è scoppiato anche il caso Shincheonji, accusata di non aver fornito dei registri completi e aver così rallentato le operazioni di controllo sui suoi adepti. Sarebbe inoltre emersa una significativa discrepanza – circa 540 individui – tra il numero di fedeli indicato dai registri e quello ottenuto attraverso le indagini e le visite mediche. Anche per questo motivo Kim Kyoung-soo, governatore del Gyeongsang Meridionale, ha reso noto che la regione ha intrapreso delle azioni legali contro la setta per violazione della legge sulla prevenzione delle malattie infettive. Nella giornata di lunedì Lee Man-hee si è presentato di fronte alle telecamere, inginocchiandosi e chiedendo ufficialmente perdono per non aver contribuito in maniera più decisa e per i problemi causati al Paese.

In conclusione, sebbene il repentino aumento di contagi sia da ricondurre principalmente al massiccio screening sui fedeli del Shincheonji e il tasso di mortalità rimanga molto basso, il governo sudcoreano si trova a fronteggiare una situazione particolarmente seria, che potrebbe portare in dote ulteriori problematiche extra sanitarie in caso di nuovi stop alla produzione industriale.

 

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L’impatto del Coronavirus in Asia sud-orientale

L’inizio del 2020 in Asia è stato inequivocabilmente caratterizzato dell’epidemia di Coronavirus (2019-nCoV), scoppiata nel capoluogo della provincia di Hubei, Wuhan, per poi diffondersi, con diverse gradazioni di velocità e pericolosità, nel resto del Paese e della regione. Il problema del Coronavirus è velocemente diventato di portata globale, non soltanto da una prospettiva medica, ma anche da un punto di vista economico e politico. La centralità cinese nel mondo globalizzato e l’infausta tempistica, oltre alle difficoltà che hanno ritardato l’avvio delle contromisure contro la dilagante epidemia, hanno contribuito all’insorgere di diverse problematiche in tutta la regione del Sud-Est asiatico.

La questione è diventata estremamente problematica proprio a cavallo del capodanno lunare, festività importantissima per la popolazione cinese ed enorme opportunità commerciale. Si stima, infatti, che il capodanno riesca a catalizzare lo spostamento di quasi 3 miliardi di cinesi in grado di spendere una cifra vicina al trilione di yuan (ben oltre i 130 miliardi di euro). Tra i Paesi più influenzati dalla situazione di incertezza emergono le Filippine e Singapore, principalmente per i loro profondi legami con Pechino.

Il primo caso di Coronavirus accertato nelle Filippine risale al 30 gennaio – una trentottenne di ritorno da Wuhan –, mentre il 1° febbraio è stato registrato il primo decesso – una donna cinese di 44 anni – al di fuori dei confini cinesi. In totale sono stati riscontrati tre casi. Considerando la prossimità a Pechino e la notevole presenza di lavoratori e turisti cinesi, da un punto di vista medico le Filippine stanno affrontando il pericolo del contagio nel migliore dei modi. Il governo Duterte ha messo in campo diverse misure preventive, tra cui la limitazione degli spostamenti, la chiusura delle tratte verso la Cina e la sospensione dei visti per i cittadini cinesi, la chiusura di scuole e università.

La situazione è sicuramente più rischiosa da una prospettiva economica, e secondo la Banca centrale delle Filippine l’impatto del Coronavirus potrebbe tradursi in un rallentamento per l’economia filippina nel 2020. L’economista Ruben Carlo Asuncion ha stimato che l’epidemia potrebbe causare perdite per 600 milioni di dollari, lasciando sul tavolo uno 0,8% di crescita attesa. Tale ipotesi non rappresenta certo una sorpresa dato che la Repubblica Popolare Cinese è il principale partner del Paese, incidendo per il 18,8% della bilancia commerciale filippina. Inoltre, circa il 23% delle esportazioni filippine si muove in direzione di Pechino e il 20% delle importazioni arrivano dalla Cina.

Uno dei settori maggiormente colpiti è sicuramente quello del turismo e dell’hospitality, tra i principali volani dell’economia filippina. Nel 2019 circa 1,5 milioni di turisti cinesi ha visitato l’arcipelago e il ministero del Turismo ha espresso la volontà di raggiungere i 4 milioni entro il 2022. Ovviamente il Coronavirus ha cambiato prospettive e aspettative, bruciando gli ingenti introiti generati dal capodanno e mettendo in stand-by ulteriori arrivi. È ancora presto per avere un quadro definitivo dell’impatto economico dell’epidemia, ma questi primi dati non sono incoraggianti e il governo filippino è chiamato a rispondere. Principali misure adottate dalla Banca centrale sono il taglio di 25 punti dei tassi d’interesse standard e una diminuzione del tasso chiave del 3,75%. Un ulteriore taglio potrebbe verificarsi nel mese di marzo, se la situazione del Coronavirus dovesse rivelarsi ancora lontana da una soluzione.

Per quanto riguarda Singapore, i casi accertati sono 45, senza però alcun decesso. La città-Stato ha recentemente alzato il livello d’allerta al codice arancione, il che significa che la malattia è facilmente contagiosa e pericolosa, sebbene non fatale. Il considerevole numero di contagiati, inferiore solo a quello di Cina e Giappone, ha creato un certo allarmismo tra la popolazione locale e ha avuto un impatto significativo sull’economia singaporiana. Alla stregua del sopra citato caso filippino, anche qui l’industria turistica è il settore che più ha sofferto la situazione. I turisti cinesi rappresentano il 20% del totale dei visitatori internazionali e sono tendenzialmente soggetti con medio-alto potere d’acquisto. Poco dopo lo scoppio dell’epidemia la maggior parte dei tour operator cinesi ha iniziato a bloccare la vendita di pacchetti viaggio, cui è seguito il blocco di diverse rotte aeree. Anche le autorità di Singapore hanno iniziato a rifiutare i visti turistici ai cittadini cinesi, sino a bloccare addirittura i transiti nel caso i passeggeri fossero stati in Cina durante le due settimane precedenti. Ogni giorno che passa rappresenta un grave danno economico e sociale per l’isola, basti pensare che, in termini di spesa al dettaglio, i cinesi contribuiscono per un terzo delle vendite totali dell’aeroporto internazionale Changi, che impiega tra le 7.000 e 8.000 persone. Anche le principali compagnie di bandiera (Singapore Airlines, SilkAir e Scoot) hanno sofferto perdite significative. I voli da e verso la Cina sono stati tagliati del 70-80% e il volume del traffico è calato del 70%. Anche le tratte mantenute in vigore hanno subito un forte contraccolpo, riuscendo a riempire solamente il 20-30% dei posti a disposizione. Molte attività commerciali stanno quindi attraversando una forte crisi, che il governo ha deciso di fronteggiare con un piano di sostegno straordinario verso il settore del trasporto aereo e quello turistico, il cui ammontare e le cui misure attuative verranno annunciati alla fine di febbraio.

Filippine e Singapore, seppure in modo differente, sono le due realtà regionali più colpite dall’esplosione del Coronavirus. In entrambi i casi, i governi hanno cercato di fronteggiare la situazione applicando delle misure ad hoc, con la speranza di tutelare il tessuto economico e la stabilità sociale, ma con la consapevolezza che potranno arrivare momenti ancora più complessi, soprattutto se la scoperta di una cura dovesse ancora ritardare.

 

Immagine: Persone che indossano mascherine a causa del Coronavirus per le strade di Singapore (28 gennaio 2020). Crediti: Rajaraman Photography / Shutterstock.com

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Il trionfo di Tsai Ing-wen nel confronto tra Taiwan e Pechino

Le elezioni tenutesi a Taiwan lo scorso 11 gennaio rappresentano non solo il primo appuntamento elettorale del 2020, ma anche il termometro dell’equilibrio regionale e delle future relazioni tra Repubblica popolare cinese (RPC), Taiwan e Stati Uniti. La schiacciante conferma di Tsai Ing-wen e del suo Democratic Progressive Party (DPP) ai danni del quotato candidato del Kuomintang (KMT), il sindaco di Kaohsiung Han Kuo-yu, ha ulteriormente inasprito i rapporti tra le due sponde dello stretto e posto diversi interrogativi sulla possibile reazione cinese. Le ben 8 milioni di preferenze, record assoluto nella storia elettorale taiwanese, per Tsai sono un chiaro segnale nei confronti di Pechino, oltre che un totale rifiuto per il programma politico del KMT. Nonostante i 5,5 milioni di preferenze, Han Kuo-yu è stato probabilmente troppo spregiudicato nell’incentrare la sua campagna elettorale sulla futura integrazione con il continente, recandosi a Hong Kong, Macao e Shenzhen per firmare degli accordi commerciali con alcuni quadri del Partito comunista cinese. Inoltre, il grande successo alle elezioni locali del 2018, che portarono proprio Han a diventare sindaco in una roccaforte del DPP, ha illuso i vertici del KMT. Senza dimenticare che i disordini di Hong Kong hanno avuto un forte impatto sulla società taiwanese, e Taipei non ha nessuna intenzione di affrontare un simile destino.

Da questo punto di vista il rapporto tra Xi Jinping e Tsai è sempre stato complicato, sin dall’elezione di quest’ultima nel 2016 con un’agenda fortemente autonomista e semi-indipendentista. Tsai ha sempre rifiutato di accettare il cosiddetto Consenso del 1992, sostanzialmente il principio di un Paese e due sistemi e di un’unica Cina, per ragionare invece su un consenso che ponesse Taiwan e RPC sullo stesso piano. La leader del DPP ha inoltre criticato la repressione delle manifestazioni a Hong Kong, e lo scorso anno ha apertamente sfidato Xi Jinping. Nel tradizionale discorso di inizio anno il leader cinese si è rivolto ai compatrioti taiwanesi per unire gli sforzi in funzione del comune obiettivo della riunificazione. La risposta di Tsai, arrivata il giorno dopo, non ha fatto che confermare il totale rifiuto della proposta cinese e la necessità di aprire un tavolo di trattative dove Taiwan non venga considerata come il gioiello mancante della corona, ma come un’entità autonoma desiderosa di essere padrona del proprio destino nell’arena internazionale.

Ciò non significa che Taiwan punti apertamente al confronto con la Cina, non ne avrebbe motivo e possibilità, mira bensì a ridiscutere i termini del rapporto bilaterale, e le prime parole di Tsai dopo la vittoria non fanno che andare in tale direzione. Nonostante i vertici cinesi non sembrino particolarmente propensi a venire incontro alle sue richieste, la neo-rieletta presidente ha prontamente ribadito come Pechino debba affrontare la realtà e iniziare a prospettare una Taiwan indipendente. Ha però anche auspicato una ripresa dei negoziati fondata sulla rinuncia alla minaccia, al riconoscimento della reciproca esistenza e al diritto all’autodeterminazione per i cittadini taiwanesi.

Il vigore mostrato nei confronti di Pechino, oltre all’eclatante vittoria, potrebbero indurre a pensare che Tsai e il DPP abbiano avuto un costante gradimento e riscontro popolare. In realtà il 2019 si era aperto con degli indici di gradimento talmente bassi che addirittura fecero ipotizzare un forfait da parte della presidente. La sua rimonta è stata certamente incoraggiata da alcuni fattori esterni come le proteste di Hong Kong, il rilancio dell’obiettivo della riunificazione da parte di Xi e il silenzioso ma costante sostegno statunitense. Più che altro in maniera indiretta e informale, l’amministrazione Trump è stata uno dei principali alleati per la rielezione di Tsai. La guerra dei dazi lanciata da Washington ha infatti convinto alcune imprese taiwanesi ad abbandonare il continente per tornare sull’isola, aiutando così la disastrata economia del Paese. Come accennato in precedenza, anche i disordini di Hong Kong hanno avuto un deciso impatto sulla campagna elettorale: Tsai ha incanalato il malcontento contro la posizione cinese e l’ha inquadrato come esempio paradigmatico del fallimento del principio di un Paese e due sistemi. Questo approccio ha fatto recuperare parecchi consensi al DPP tra i giovani, sempre più disillusi e preoccupati da un ipotetico avvicinamento a Pechino.

La vittoria di Tsai deve quindi essere interpretata come un chiaro messaggio politico verso la Cina: i soldi e il benessere non sono più una valida moneta di scambio per il confronto democratico e la libertà. Stando così la situazione, il rapporto tra i due Paesi non potrà che concentrarsi su annose questioni: Pechino continuerà a spingere verso la riunificazione e cercherà di affossare il governo taiwanese sia economicamente che diplomaticamente, non mancando di usare la minaccia in caso di rapporti troppo stretti con gli Stati Uniti o per un’ipotetica dichiarazione d’indipendenza. Il DPP invece continuerà a portare avanti la sua agenda politica, focalizzata sul raggiungimento dell’indipendenza e la promozione di un sentimento identitario e delle radici culturali autoctone. L’esplosione dell’emergenza Coronavirus in Cina e l’approssimarsi delle elezioni negli Stati Uniti potrebbero dare un maggiore margine di manovra a Tsai, che dovrà comunque essere abile a destreggiarsi tra le ambizioni dei due giganti.

 

Immagine: Tsai Ing-wen dopo la vittoria per il secondo mandato presidenziale, Taipei, Taiwan (11 gennaio 2020). Crediti: O.O / Shutterstock.com

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La spirale autoritaria dello Sri Lanka

Il 2019 in Asia è stato caratterizzato da una lunga sequenza di tornate elettorali, che hanno tendenzialmente confermato le élites in carica o riportato in auge le vecchie dinastie politiche. Un percorso quindi comune a molti Stati e lo Sri Lanka – dove si è svolto l’ultimo appuntamento elettorale dell’anno – non è stato da meno. Le elezioni, che si sono tenute il 16 novembre, hanno visto la vittoria di Gotabaya Rajapaksa, il fratello dell’ex presidente Mahinda Rajapaksa. In un contesto ancora segnato dagli attentati della scorsa Pasqua, Gotabaya ha ottenuto il 52,3% delle preferenze ponendo proprio l’accento sulla sicurezza nazionale.

Gotabaya non è certamente nuovo agli incarichi governativi. Ha ricoperto il ruolo di segretario presso il ministero della Difesa e dello Sviluppo urbano sotto il governo Mahinda (2005-15). Il suo impegno nella lotta al terrorismo e alla minaccia separatista portata dalle Tigri Tamil l’ha spesso messo sotto i riflettori della comunità internazionale: ha avuto un ruolo preminente nella gestione della crisi del 2009 e, nello stesso periodo, ha presieduto le agenzie di sicurezza nazionale accusate di violazione dei diritti umani, tortura ed esecuzioni extragiudiziali. In questo senso, è altamente probabile che la vittoria di Gotabaya non farà che rafforzare il potere e l’influenza degli apparati di sicurezza e la loro pervasività nella vita civile, soprattutto grazie ai poteri straordinari garantiti dalla Costituzione.

Alcuni analisti hanno paragonato il neoeletto presidente all’omologo indiano Narendra Modi, principalmente per le sue istanze nazional-populiste. Infatti, un timore abbastanza comune è quello di vedere il Paese sprofondare verso un autoritarismo populista fondato sul nazionalismo etno-religioso.

Il precedente governo, presieduto da Maithripala Sirisena, era stato accolto con ottimismo per le promesse di apertura e democrazia. In realtà quest’esperienza si è rivelata molto problematica, principalmente a causa dei conflitti personali tra il presidente e il primo ministro, e la situazione di estrema incertezza ha comportato una crescente sfiducia verso le istituzioni e l’apparato statale, permettendo ad altre forze di emergere e di esprimersi. La storia recente dello Sri Lanka è costellata di scontri e guerre fratricide, che hanno portato spesso il Paese agli onori della cronaca per gli attentati terroristici. La guerra civile nel Nord dell’isola contro i separatisti delle Tigri Tamil, conclusa solo nel 2009, ha lasciato in eredità delle profonde conseguenze nella percezione e gestione della istituzioni statali, principalmente riguardo l’adozione di misure d’emergenza e l’utilizzo di poteri straordinari che permettessero al governo di scavalcare il regolare percorso costituzionale.

La conseguenza più lampante – e una delle principali cause che hanno portato alla vittoria di Gotabaya – è la progressiva normalizzazione di pratiche altresì d’emergenza, come la concessione di una maggiore autorità a militari e forze di polizia. Queste misure, pensate per contenere l’insorgenza nel Nord del Paese, hanno invece giustificato il crescente potere dell’apparato repressivo dello Stato e sdoganato la progressiva criminalizzazione del dissenso politico. Date le connessioni pregresse appare probabile che la presidenza Gotabaya non farà che consolidare questa tendenza, o addirittura portarla verso nuovi estremi grazie all’alleanza stretta tra il suo nuovo partito (Sri Lanka People’s Front) e i gruppi etno-nazionalisti di estrema destra. Basti pensare al rapporto con il Bodu Bala Sena (BBS), un gruppo buddista fortemente legato a una setta di monaci di estrema destra che è stata più volte accusata di attentati contro la comunità musulmana. Ricorrere a soluzioni simili in modo programmatico rappresenta la prova più tangibile dei network informali parastatali creati dalla famiglia Gotabaya, che verranno probabilmente regolamentati una volta ripreso il potere.

Queste formazioni sono contrarie a qualsiasi forma di pluralismo o di apertura liberale, e sono diventate sempre più influenti presso la piccola e media borghesia singalese, che ha infatti giocato un ruolo chiave nella vittoria di Gotabaya. In questo senso, nell’ultimo decennio è emersa una nuova classe borghese, particolarmente assertiva, che ha beneficiato delle politiche autoritarie descritte in precedenza.

La borghesia cingalese è nata sull’onda dell’esperimento politico che ha visto lo Sri Lanka passare da una struttura economica terzomondista e assistenzialista alla piena apertura al neoliberismo. Il completo sostegno verso politiche di apertura al mercato è stato ripagato con l’accesso a risorse statali e la concessione di grandi appalti, tra cui quello per il porto di Colombo. Progetti infrastrutturali di questa portata vengono sempre più spesso visti in termini meramente strategici, a maggior ragione in virtù della Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino, tralasciando i benefici economici di cui ha giovato la nuova borghesia reazionaria e fedele al network di Gotabaya. Posta in questi termini la vita politica del Paese appare cannibalizzata da questi gruppi, ma in realtà esistono ancora sacche di resistenza che vorranno fronteggiare il regime su una moltitudine di temi. Problemi come l’inflazione galoppante, il debito pubblico in costante aumento, il taglio dei salari e l’aumento di affitti e generi di prima necessità, non fanno che ampliare la forbice tra ricchi e poveri e rilanciare un conflitto di classe che appare pronto ad esplodere.

 

Immagine: Strada affollata del mercato di Pettah, Colombo, Sri Lanka (16 febbraio 2018). Crediti: San Luigi / Shutterstock.com

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Hong Kong, l’eco delle proteste e la centralità globale di Pechino

Le proteste che hanno avuto luogo a Hong Kong in questi mesi rientrano tra gli avvenimenti più dibattuti dell’anno. Le manifestazioni, guidate da diverse anime e rivendicazioni e che portano in dote vecchi e nuovi strumenti d’analisi, sono inizialmente partite come movimento di resistenza contro la famigerata proposta di introdurre una legge di estradizione che avrebbe permesso al governo di Hong Kong di estradare sospettati anche verso Paesi con cui non vigono accordi in materia, in primis la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan.

La principale critica riguardava la possibile influenza di Pechino dietro la proposta di legge, che avrebbe consentito la richiesta di estradizione verso dissidenti politici, giornalisti e altre voci non gradite al governo. La forza e persistenza delle manifestazioni, la cui eco è diventata velocemente globale e virale, ha portato la governatrice Carrie Lam a un dietrofront. La proposta di legge è stata prima messa in stand by e poi ufficialmente ritirata il 4 settembre. Ma le proteste sono proseguite, così come la costante globalizzazione del confronto tra Hong Kong e Cina, spesso identificato come una moderna rappresentazione dello scontro tra Davide e Golia.

Di conseguenza, si sono create numerose catene di solidarietà verso i manifestanti da parte di una moltitudine di realtà della società civile internazionale. Individui, associazioni, società quotate in borsa. Alcune di queste catene di solidarietà dimostrano non solo l’adesione e condivisione di determinati principi universali, ma, provando ad ampliare il nostro campo analitico e fornendo alcuni esempi, sottolineano anche la centralità di Pechino nel sistema mondiale. In questo senso, la Cina è ormai diventata attore protagonista, economico e culturale, in una vastità di settori che spesso non vengono in mente quando si parla di Pechino.

Uno dei casi più eclatanti riguarda il mercato videoludico e gli e-sports. Il 6 ottobre, durante un’intervista dopo un torneo di Hearthstone (famosissimo gioco di carte sviluppato dalla software house americana Activision Blizzard), il giocatore professionista Chung “Blitzchung” Ng Wai si è presentato indossando una maschera antigas e ha espresso il suo sostegno verso i manifestanti. In risposta, Activision Blizzard l’ha sospeso dalle competizioni ufficiali per un anno e ha congelato i premi in denaro vinti nei precedenti tornei. La medesima sorte è toccata ai due commentatori.

La risposta della comunità virtuale è stata veemente. Oltre al completo sdegno verso la decisione, è stato lanciato un boicottaggio verso il gioco e gli altri prodotti della compagnia. Neppure il parziale passo indietro dell’azienda californiana, che con uno scarno comunicato ha ridotto la squalifica a sei mesi e ha restituito al giocatore una parte dei premi in denaro, è servito a ridimensionare la questione, che anzi si è addirittura ingigantita. La querelle Blitzchung v. Activision Blizzard è infatti arrivata al Congresso degli Stati Uniti. Il senatore repubblicano Marco Rubio e il democratico Ron Wyden si sono scagliati contro l’azienda e contro il governo cinese.

Il senatore Wyden, con un tweet, ha dichiarato che «Activision Blizzard è disposta ad umiliarsi pubblicamente pur di compiacere il Partito Comunista Cinese». Allo stesso modo, il senatore Rubio ha accusato la Cina di «utilizzare l’accesso al libero mercato come strumento per distruggere la libertà di parola a livello globale». Ai due senatori si sono poi aggiunti altri colleghi, che hanno sottoscritto un messaggio diretto al CEO della software house, Bobby Kotick. Nella lettera si accusa la Cina di portare avanti una vera e propria campagna di intimidazione e si esorta la compagnia a non cedere alle richieste cinesi pur di salvaguardare la propria posizione sul mercato.

Nello stesso periodo si è aggiunto un nuovo caso, riguardante il mercato sportivo. Daryl Morey, general manager degli Houston Rockets, ha espresso su twitter la sua vicinanza ai manifestanti di Hong Kong. Il tweet è stato velocemente preso d’assalto dagli internauti cinesi, prima di essere rimosso. La NBA (National Basket-ball Association) ha deciso di non prendere le parti del dirigente, che è stato sostanzialmente costretto a ritrattare la sua posizione e professare la propria neutralità. Nel medesimo lasso di tempo tutte le partite della squadra, popolarissima in Cina, sono state rimosse dai palinsesti televisivi cinesi.

Ciò che appare interessante è il sostanziale silenzio da parte delle autorità cinesi. La Cina non ha dovuto rispondere direttamente a questi tentativi di attacco, perché le dinamiche del capitalismo si sono occupate di farlo al suo posto. Il solo timore di possibili ritorsioni da parte di Pechino, con conseguente danno economico, ha spinto due grandi realtà come NBA e Activision Blizzard ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

Nel comunicato stampa rilasciato da Activision Blizzard viene chiarito come le sanzioni siano diretta conseguenza di non specificate violazioni del regolamento, in questo caso probabilmente prendere posizione su una questione politica estremamente delicata e complessa, e che il rapporto tra la compagnia e la Cina non ha avuto nessun peso nella decisione. LeBron James, il più famoso cestista della NBA, ha pubblicamente accusato Morey di «parlare senza essere informato» oltre a sottolineare i potenziali danni economici delle sue dichiarazioni. James Harden, la principale stella della squadra di Houston, si è scusato e ha ribadito il suo amore per la Cina.

Un tratto comune a entrambi i casi è rappresentato da Tencent, enorme holding cinese con partecipazioni azionarie e investimenti in praticamente qualsiasi settore. Tencent infatti possiede il 5% di Activision Blizzard e detiene i diritti di trasmissione delle partite NBA in Cina. Che esista una influenza economica della Cina è innegabile, ma valutare quanto un’azienda sia disposta a modificare le sue posizioni per mantenere conservare questi legami è un calcolo complesso e ricco di variabili. Il governo cinese ha più volte mostrato il fianco ad accuse di vario genere, ma in questo caso l’imputato principale potrebbe essere proprio le dinamiche del libero mercato.

 

Immagine: La protesta contro la legge antimaschera, Kowloon, Hong Kong (20 ottobre 2019). Crediti: PaulWong / Shutterstock.com

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Corea del Sud e Giappone, vecchie e nuove turbolenze

I mesi estivi sono stati pressoché monopolizzati dalle montanti proteste di Hong Kong, che hanno per certi versi messo in secondo piano altre importanti questioni. In questo senso, l’ennesimo inasprimento dei rapporti tra Giappone e Corea del Sud è particolarmente rilevante sia a livello regionale che a livello globale. Le relazioni bilaterali tra i due Paesi non son mai state semplici; da un punto di vista diplomatico si dovette aspettare sino al 1965, principalmente a causa del passato imperialista del Giappone. La penisola coreana, che entrò nella sfera d’influenza nipponica dopo il trattato di Shimonoseki del 1895 e venne poi annessa nel 1910, fu infatti vittima di alcune tra le più cruente politiche coloniali, volte all’eliminazione di qualsiasi elemento autoctono nella società.

Uno dei problemi più discussi, se non il principale retaggio di quell’epoca, riguarda le cosiddette confort women, donne costrette a prostituirsi e concedersi completamente alla violenza dei soldati giapponesi. La questione ha inficiato i rapporti per i due Paesi per diversi anni, sino al raggiungimento di uno storico accordo nel 2015. L’accordo, firmato dall’allora presidente coreana Park Geun-hye e dal leader giapponese Shinzo Abe, indicava un riconoscimento dell’accaduto da parte di Tokyo e la volontà di lavorare per una piena riconciliazione. Questo periodo di distensione è stato però di breve durata. Lo scandalo che ha portato all’impeachment di Park Geun-hye e la successiva elezione di Moon Jae-in si sono tramutati in una battuta d’arresto nell’evoluzione del rapporto diplomatico tra i due Stati. Moon Jae-in, già in campagna elettorale, si è dimostrato particolarmente critico verso Abe, le cui posizioni revisioniste sono state nel tempo al massimo mitigate, ma lungi dall’essere riviste.

Una delle prime crisi si è verificata nel novembre 2018, quando Moon Jae-in ha deciso unilateralmente di terminare l’accordo sulle confort women. È stato inoltre chiuso l’annesso fondo di riconciliazione, istituito nel 2015 dai due governi come forma di risarcimento verso le donne vittime di abusi. Questa decisione è arrivata in coda alla sentenza della Corte suprema della Corea del Sud, che ha ordinato a diverse compagnie giapponesi (Mitsubishi, Nachi-Fujikoshi e Nippon Steel tra le altre) di risarcire le famiglie costrette ai lavori forzati durante la guerra. Il governo giapponese si è rifiutato di riconoscere la sentenza, vista come una violazione del trattato di normalizzazione del 1965, che avrebbe infatti risolto tutti i contenziosi accaduti sino al 1945 dietro un corrispettivo di 800 milioni di dollari.  

Il problema della storia ha riportato la questione al punto di partenza e creato un clima di gelo tra i due leader, che si sono reciprocamente ignorati durante il G20 di Osaka. Proprio durante il periodo immediatamente precedente al G20 si è consumata un’ulteriore crisi tra i due governi: il governo giapponese ha deciso di introdurre delle restrizioni nell’esportazione di tre specifici composti chimici (poliammidi fluorurati, acido fluoridrico e il fotoresist) verso Seoul. Questi materiali sono di fondamentale importanza nella produzione di due dei principali prodotti d’esportazione coreani, ossia i display degli smartphone e la maggior parte dei semiconduttori. Inoltre, il Giappone ha depennato la Corea del Sud dalla lista dei principali partner commerciali, e di conseguenza le aziende coreane non hanno goduto più del trattamento preferenziale che permetteva loro di ottenere grandi stock dei composti sopracitati. La reazione di Moon Jae-in è stata veemente, e a nulla sono servite le ragioni di sicurezza nazionale addotte dal gabinetto Abe per giustificare la decisione. Il presidente coreano, oltre ad aver ordinato delle simili contromisure, negli scorsi giorni ha sollevato la questione presso la WTO e ha sostanzialmente incoraggiato un boicottaggio verso i prodotti giapponesi. L’accusa implicita mossa dal gabinetto giapponese è che alcuni di questi materiali possano finire in Corea del Nord, a causa della negligenza sudcoreana. Shinzo Abe non ha mai digerito di essere stato completamente tagliato fuori dal tavolo nordcoreano, e queste restrizioni commerciali possono essere viste come una ripicca.

Per di più, lo scorso mese di agosto il governo di Seoul ha annunciato la volontà di non rinnovare l’Accordo di sicurezza generale sull’informazione militare (GSOMIA, General Security Of Military Information Agreement), un accordo bilaterale per la condivisione di intelligence e informazioni finalizzato ad intercettare potenziali minacce provenienti dalla Corea del Nord. In teoria, questa decisione rischierebbe di alienare l’accordo di cooperazione per la sicurezza regionale tra Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti. Ma, in realtà, questo triangolo geopolitico non è mai stato in pericolo come in questi anni, aprendo a diversi scenari per il futuro della regione.

Gli Stati Uniti sono, forse, il grande assente. Un tempo, la diplomazia americana non avrebbe perso tempo per cercare di mediare un confronto di questa portata tra due fondamentali alleati. Oggi le cose son ben diverse, e il realismo trumpiano sta contribuendo a un ribilanciamento dell’asse diplomatico. L’obiettivo del presidente degli Stati Uniti è inequivocabilmente l’accordo con la Corea del Nord, identificata come perfetta legacy e viatico per l’immortalità storica. Da questa prospettiva, per Trump praticamente qualsiasi cosa è sacrificabile sull’altare di Kim Jong-un. E il Giappone rappresenta un esempio in tal senso: Shinzo Abe è stato il primissimo leader a volare da Trump dopo la sua clamorosa elezione, un modo per consolidare e rafforzare una storica alleanza. Ma una volta aperto il tavolo coreano, l’alleato giapponese è stato progressivamente messo in secondo, se non addirittura in terzo piano. Agli occhi di Trump, la penisola coreana e la Cina rappresentano una sfida ben più impegnativa e, di conseguenza, Abe è diventato l’alleato onnipresente che non ha bisogno di grandi attenzioni.

In maniera abbastanza miope, è probabile che Washington continui a trascurare i problemi tra Tokyo e Seoul fino a che non toccheranno direttamente gli interessi dell’amministrazione Trump.

 

Immagine: Shinzo Abe a Kiev, Ucraina (6 giugno 2015). Crediti: Drop of Light / Shutterstock.com

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Il soft power di Pechino nel Mar Cinese Meridionale

La contesa nel Mar Cinese Meridionale rimane una delle principali minacce per la sicurezza regionale in Asia Sud-orientale. Il coinvolgimento di una grande potenza come la Cina, così come della quasi totalità dei vicini Stati rivieraschi, ha contribuito a dare una rilevanza internazionale alla questione, che viene però spesso presentata in termini puramente strategico-militari.

Questo è però un contenzioso molto sfaccettato, che non può e non deve essere ridotto a un mero conteggio e confronto di avamposti, armamenti e imbarcazioni dispiegate dalle realtà coinvolte. La profondità della questione va valutata anche in termini di propaganda politica e penetrazione nella cultura popolare. Da questo punto di vista Pechino rappresenta un caso particolarmente interessante da analizzare, poiché negli anni è riuscita a confezionare un’incisiva narrazione patriottica. Questa strategia appare ancora più necessaria se teniamo in considerazione la natura storica delle rivendicazioni territoriali cinesi, basate su una presunta presenza millenaria. Quali sono, quindi, gli strumenti scelti da Pechino per raccontare questa storia?

Il partito ha ben presto sottolineato l’importanza delle acque contese non solo in termini strategico-economici, ma soprattutto in termini di giustizia nazionale. Per corroborare il messaggio, si è cercato di sfruttare il passato per creare una sorta di identità nazionale marittima, rappresentando l’Impero Celeste come una benevola potenza dei mari. Perciò non deve sorprendere leggere dei riferimenti al Mar Cinese Meridionale come “sacre acque territoriali”. Secondo le fonti presentate (e probabilmente prodotte) dal partito, Yang Fu della dinastia degli Han Orientali (circa 23-220 d.C.) formulò il primo riferimento alle isole in un manoscritto intitolato Yiwu Zhi (‘Registro delle Rarità’). Da questo momento, si presuppone che l’impero cinese abbia mantenuto un costante controllo sulle acque circostanti, e che tale legame sia stato reciso solo dall’ascesa dell’imperialismo europeo in Asia.

La scelta di esaltare le grandi gesta del passato e la creazione ex novo di giornate commemorative non sono di certo delle novità nel panorama cinese, e l’11 luglio non è più un giorno come un altro per la popolazione cinese, ma è bensì diventata la data della Giornata marittima. Questa festa è stata istituita nel 2005 per celebrare le gesta del famosissimo ammiraglio cinese Zheng He, protagonista di sette spedizioni condotte tra il 1405 e il 1433. I suoi viaggi rappresentavano un importante strumento diplomatico per la dinastia Ming e lo condussero dalle vicine coste malesi e indonesiane sino alla Penisola Arabica e all’Africa Orientale. Secondo la prospettiva di Pechino, Zheng He diventa massimo portavoce dei valori confuciani e fondamentale veicolo di diffusione culturale nell’intera regione. Inoltre, le sue spedizioni divennero presto la base empirica su cui costruire una memoria marittima collettiva.

Come accennato in precedenza, nel 2005, in occasione del 600° anniversario della prima spedizione di Zheng He, Pechino ha deciso di ufficializzarne il culto. Nel mese di maggio, il Consiglio di Stato ha istituito l’11 luglio la Giornata marittima. Da allora ogni anno vengono organizzati diversi eventi in tutto il Paese, ma la celebrazione si estende anche a nazioni vicine come Indonesia e Malaysia, e la mitologia creata attorno a Zheng He è divenuta velocemente uno dei più importanti catalizzatori di soft power nella regione. Quest’anno si è svolta la 15a edizione e per celebrare la ricorrenza è stata organizzata una grande parata a Nanchino, dal cui porto sono partire le spedizioni e in cui si suppone sia seppellita la salma del marinaio.

La bravura di Pechino nel promuovere il mito dell’ammiraglio ha contribuito anche a rafforzare la sua pretesa nel Mar Cinese Meridionale agli occhi della popolazione. Il Partito comunista è riuscito a creare una narrazione storica in cui era facile identificarsi, e le sue spedizioni sono state presentate come un’incarnazione delle relazioni pacifiche che la Cina ha storicamente intrattenuto con il mondo esterno. Se il pacifico controllo sui mari circostanti era qualcosa di assodato nella tradizione cinese, reclamare il controllo e la sovranità su quelle stesse acque ne era semplicemente una logica conseguenza. La creazione di questa ricorrenza rappresenta solo una parte della strategia politica e culturale messa in atto da Pechino, che ha cercato di esaltare il presunto retaggio marittimo attraverso diversi canali.

Da questa prospettiva, Pechino ha dato prova in diverse occasioni di essere perfettamente in grado di sfruttare la cultura pop per legittimare le proprie campagne politiche. La fama di Zheng He ha reso la sua figura facilmente trasportabile sul piccolo schermo, grazie a numerose produzioni multimediali commissionate dal governo. Sono stati girati diversi film e serial sulla sua figura, ma anche animazioni per bambini.

I viaggi di Zheng He verso i Mari Occidentali è un programma d’animazione nel quale vengono narrate le vicissitudini della prima spedizione marittima dell’ammiraglio e della sua flotta. Nonostante sia un prodotto pensato per i più piccoli, adotta una certa solennità ogniqualvolta vengono citati la missione civilizzatrice della spedizione marittima, il ruolo di Zheng He come portavoce dell’impero e, in sostanza, la centralità della Cina nella creazione di un mondo armonioso. Un altro aspetto di grande interesse è la rappresentazione di Zheng e della sua spedizione: il famoso marinaio è stato vittima di un accurato processo di “Hanizzazione,” per cui il retaggio etnico Hui e la fede musulmana sono stati completamente marginalizzati e sacrificati per una maggiore immedesimazione da parte dei destinatari.

La figura di Zheng He ha una fortissima dimensione pop, e negli ultimi 15 anni la Cina è riuscita a creare una solida macchina propagandistica attorno alla sua figura. Dalle rappresentazioni in maschera ai cartoni animati, il celebre ammiraglio eunuco è sempre più centrale nella saga marittima di Pechino, che è così riuscita a creare un eroe confuciano in grado di unire la terra e il mare.

 

Immagine: Uno spettacolo di marionette che rappresenta l'ammiraglio Zheng He. Crediti: Wei Ming / Shutterstock.com

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Il nazionalismo hindu di Modi alla prova del secondo mandato

L’India è l’ultimo Paese ad aggiungersi al fittissimo calendario elettorale che caratterizza il 2019 asiatico. Le recenti elezioni hanno visto la clamorosa affermazione di Narendra Modi, uscito vincitore con un ampio margine e riconfermato alla guida del Paese per altri cinque anni. Modi sarà quindi in grado di concentrare ancora di più potere nelle sue mani e, con la grande maggioranza guadagnata, di guidare il Paese verso la strada che ritiene più opportuna. Da questo punto di vista si aprono diverse prospettive e possibilità su molte questioni che attanagliano l’India.

Uno dei principali risultati di questa vittoria plebiscitaria potrebbe essere un’ulteriore sterzata verso la creazione di una nazione a matrice induista. La dialettica portata avanti da Modi durante la campagna elettorale si è progressivamente, e inesorabilmente, indirizzata verso il nazionalismo hindu e la destra identitaria. Non si tratta di una novità e rimane comunque una sfida per il presidente, considerando che parliamo non solo della più grande, ma anche della più multietnica e multiconfessionale democrazia al mondo. Il partito di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP), è stato spesso accusato di pratiche esclusorie e intimidatorie verso le minoranze religiose e alcune caste, in particolar modo i 160 milioni di musulmani e i Dalit, storicamente i più oppressi da un punto di vista socioeconomico.

La comunità musulmana appare sempre più marginalizzata nell’India di Modi: sebbene durante la campagna elettorale non sia stata formulata alcuna accusa diretta (in certe zone sono stati accusati di macellare impropriamente le vacche), in alcune regioni è comunque partita la caccia all’uomo da parte dei seguaci del BJP. Non deve quindi stupire che nessuno dei 303 seggi conquistati dal BJP sarà occupato da un musulmano. A tal proposito, è bene ricordare anche l’inasprimento del confronto con il Pakistan proprio nei giorni immediatamente precedenti al voto. Durante la campagna elettorale Modi ha più volte minacciato di abrogare l’articolo della Costituzione che garantisce uno status speciale al Jammu e Kashmir, l’unico Stato indiano a maggioranza musulmana.

Problematiche di questo tipo dovrebbero essere centrali nel dibattito pubblico, ma una delle grandi vittorie di Modi è stata la progressiva “normalizzazione” della divisività. I media, e soprattutto i social media, ora minimizzano, se non addirittura giustificano, episodi di violenza come gli scontri tra i sostenitori del BJP e gruppi rivali nel Bengala Occidentale. Perfino gli avversari politici di Modi, nonostante denuncino la sua strategia divisiva e lo accusino di aver spaccato la società, hanno rinunciato a denunciare questi scontri. Il grave errore dell’opposizione è stato proprio quello di adattarsi allo stile e al ritmo di Modi, subendo così una cocente disfatta. Il principale sconfitto è ovviamente il Congresso nazionale Indiano, che ha visto addirittura ridurre la propria presenza nella Lok Sabha, la Camera bassa.

In termini di continuità politica, è altamente probabile che il BJP continuerà a portare avanti la propria agenda culturale e le annesse campagne sociali. La dimensione culturale include il rinnovamento dei programmi educativi con il fine ultimo di celebrare la storia induista dell’India e il ruolo del partito. In questo senso il BJP continuerà a nominare uomini di fiducia nelle posizioni chiave, dai presidi delle scuole e i rettori delle università sino alle più alte cariche di istituzioni giuridiche, finanziarie e amministrative.

Difficilmente Modi abbandonerà alcune delle campagne politiche che gli hanno permesso di creare e consolidare un così ampio consenso. Basti pensare al programma di pulizia e igienizzazione che ha permesso ad intere comunità di avere dei bagni (sia pubblici che privati) puliti e funzionanti, il sussidio di 2000 rupie (circa 25 euro) agli agricoltori in difficoltà, la progressiva elettrificazione dei villaggi nel Nord del Paese.

Oltre all’annosa questione sociale il presidente dovrà affrontare altre problematiche particolarmente spinose. La più complessa è probabilmente la crisi rurale. Nonostante solo il 15% del PIL nazionale provenga dal settore agricolo, circa il 65% della popolazione vive ancora nelle campagne. Un’intricata rete di leggi e regole ha reso la vita sempre più difficile alle piccole aziende, facendo sì che sia quasi impossibile per loro avere una rendita decente dalla terra. Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente peggiorata, con numerose proteste, immolazioni e suicidi. In quest’ultima tornata elettorale, il voto rurale ha decisamente sostenuto il BJP nella speranza di un futuro miglioramento delle condizioni.

Il secondo problema è di tipo finanziario, poiché diversi istituti bancari controllati dallo Stato sono subissati da debiti che gravano sul bilancio statale e sulla collettività. I bilanci sono appesantiti da manovre finanziarie ardite, come il rifinanziamento di mutui ad altissimo tasso d’interesse, rese possibili dai profondi legami politici dei richiedenti. La questione principale riguarda l’insolvenza di questi mutui e l’incapacità da parte dello Stato di far valere la sua posizione a causa di un sistema fin troppo facilmente aggirabile.

Infine, Modi ha promesso un rapido calo della disoccupazione, che ha toccato il 6,1% nonostante la crescita economica si sia mantenuta costantemente al 7% annuo per buona parte del suo mandato. L’India non attraversava una crisi del lavoro di questa portata dal 1973, quando era reduce dalla guerra col Pakistan e il suo settore produttivo venne colpito dall’aumento del prezzo del petrolio.

Queste sono le principali sfide che dovrà affrontare la rinfrancata presidenza Modi, forte di un massiccio sostegno popolare, ma ancora imprevedibile, spesso incapace di dare risposte alle istanze popolari e sostenere le ambizioni di un Paese che vuole giocare un ruolo internazionale di primo piano.

 

Immagine: Narendra Modi al Parlamento a Nuova Delhi, India (25 maggio 2019). Crediti: Madhuram Paliwal / Shutterstock.com

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Sono i militari gli unici vincitori delle elezioni thailandesi

In molti hanno sperato di poter vedere nelle elezioni del 24 marzo un vero e proprio crocevia per il futuro democratico della Thailandia; un momento sul quale di sono concentrati al contempo speranze e timori. Da un lato l’eccitazione per un ritorno al voto che rischiava di essere eternamente posticipato dalla giunta militare, dall’altro il pericolo che i militari strumentalizzassero (e indirizzassero) il confronto elettorale per diventare i “legittimi” governanti del Paese. L’attesa per i risultati definitivi, incredibilmente posticipati al 9 maggio, si è progressivamente trasformata in timore e poi rassegnazione, una volta constatata l’innegabile ingerenza dei militari.

I risultati preliminari, per quanto dibattuti e rigettati per presunti brogli, confermavano i pronostici della vigilia, con il Phalang Pracharat, il partito pro-giunta militare a capo del quale è stato posto proprio Prayuth Chan-ocha, in testa con 8,4 milioni di voti. A seguire i diversi partiti di opposizione, ossia il Pheu Thai con circa 7,9 milioni di voti, l’esordiente Future Forward (Phak Anakhot Mai) di Thanathorn Juangroongruangkit con più di 6 milioni di voti, il Partito democratico crollato a meno di 4 milioni di preferenze, e poco distanziato il Bhumjaithai. Questi dati sono stati poi definitivamente confermati, con il Pheu Thai che si è aggiudicato 136 seggi, seguito da Phalang Pracharat con 115, Future Forward con 80, Partito democratico con 52 e Bhumjaithai con 51.

Il Pheu Thai ha già ribadito, assieme ad altri sei partiti, di voler formare una coalizione di governo per ricondurre il Paese verso il concerto democratico. Ma questa ipotesi è stata già “scartata” dalla leadership militare, poichè il Phalang Pracharat ha conquistato il voto popolare e quindi ha diritto a governare. A questo si aggiunge la grande confusione nello scrutinio dei voti. La commissione elettorale ha progressivamente rallentato le operazioni e le comunicazioni ufficiali, per poi decidere di non diffondere i risultati definitivi durante la nottata. In seguito è stata invece comunicata la necessità di un riconteggio dei voti, con il conseguente rinvio dei risultati finali al mese di maggio; una decisione, secondo diversi osservatori, pilotata dalla giunta.

Nei giorni successivi al voto sono emersi diversi aspetti che non fanno che dare corpo a queste accuse: in primo luogo il dato sull’affluenza, che è inspiegabilmente passato dal 65% al 75% nell’arco di poche ore. La richiesta di delucidazioni da parte di Pheu Thai e Future Forward è tutt’ora senza risposta. In alcune regioni del Paese il numero dei voti scrutinati era superiore a quello degli aventi diritto, mentre in altre si è registrata un’affluenza del 200%. La maggior parte dei risultati comunicati dalla commissione non combaciava con quelli diffusi a livello locale, e un numero considerevole di voti è stato annullato. Un altro caso preoccupante riguarda i voti dei thailandesi residenti in Nuova Zelanda, che non sono stati presi in considerazione per il conteggio finale a causa del forte ritardo con cui sono stati comunicati. Questi esempi lasciano intendere quanto ancora stia regnando la confusione sulle operazioni di voto e scrutinio.

Un altro duro colpo alla legittimità delle operazioni di voto, che corrobora peraltro l’ipotesi di ingerenze dei militari, è arrivato con l’accusa di eversione nei confronti di Thanathorn Juangroongruangkit, leader di Future Forward. L’episodio incriminato risalirebbe al 2015, quando Thanathorn avrebbe preso parte ad una manifestazione di protesta per il recente colpo di Stato militare, dopo la quale si allontanò assieme a Rangsiman Rome, allora ricercato e poi arrestato dalla polizia. Nei giorni successivi si sono aggiunte altre accuse, tra cui quelle di complicità e radunata sediziosa. Ciò significa che Thanathorn verrà giudicato da una corte militare, poiché i reati di cui è accusato riguardano la sicurezza nazionale, e rischia sino a sette anni di detenzione. Il suo arrivo alla stazione di polizia è stato accolto da una folla di sostenitori e da diversi osservatori internazionali, e il suo interrogatorio è previsto per il 15 maggio.

Future Forward ha avuto un grandissimo successo elettorale, raccogliendo un forte consenso tra i più giovani soprattutto per le sue posizioni anti-establishment: l’obiettivo del partito è quello di cambiare l’attitudine e il modo di fare politica nel Paese; i militari sono quindi un nemico tanto quanto la vecchia élite politica thailandese. L’essenza stessa del partito rappresenta una minaccia per l’ordine costituito che ha governato negli ultimi anni, che sommata al consenso ottenuto alle elezioni ne fa un avversario molto temibile per Prayuth. Per questo motivo, il generale potrebbe aver preventivamente deciso di bloccare l’ascesa politica del rivale e il timore che il partito possa venire sciolto è concreto.

Non deve quindi stupire la forte delusione e disillusione che ha colpito buona parte della popolazione, soprattutto le fasce più giovani, nei giorni successivi alle votazioni. Erano elezioni particolarmente sentite, le prime per una generazione di thailandesi dopo ben otto anni di attesa. La prospettiva di un definitivo allontanamento dei militari dalla vita politica, come proposto da Thanathorn, era un obiettivo forse troppo ambizioso, ma un ridimensionamento del loro ruolo appariva invece plausibile oltre che auspicabile. La realtà invece si prospetta ben diversa, e la riconferma di Prayuth come primo ministro appare ormai certa. Grazie alla recente riforma costituzionale e al varo di nuove leggi elettorali, il primo ministro verrà nominato con una votazione della Camera (in cui Prayuth può già contare 115 seggi) e del Senato (i 250 senatori non verranno eletti, ma nominati dalla giunta militare). Prayuth ha bisogno di altri 11 voti alla Camera, ostacolo tutt’altro che insormontabile considerando la simpatia verso i militari di alcuni piccoli partiti.

Si prospettano quindi anni complicati per il popolo thailandese, pressoché soggiogato da un sistema politico in balia della sete di potere e di controllo dei militari.

 

Immagine: Prayuth Chan-ocha ha votato alle elezioni in un seggio elettorale di Bangkok, Thailandia (24 marzo 2019). Crediti: vichanpoti / Shutterstock.com

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L’Indonesia rinnova la fiducia al presidente Joko Widodo

Il 2019 è un anno di grande importanza per l’Asia Sudorientale e Meridionale: in questi primi quattro mesi si sono infatti tenute le tornate elettorali in Thailandia (ancora nessun risultato ufficiale), India (votazioni ancora in corso) e Indonesia. A differenza dei primi due casi, le elezioni nello stato arcipelagico, tenutesi mercoledì 17 aprile, sembrano aver già fornito dei risultati netti e il presidente uscente Joko Widodo appare destinato a governare il Paese per altri cinque anni.

Jokowi (così viene chiamato il presidente indonesiano) è il leader del Partito indonesiano della lotta democratica (PDI-P, Partai Demokrasi Indonesia-Perjuangan). Il suo background politico è solido, con un passato da sindaco di Solo e un biennio da governatore di Jakarta prima di diventare presidente. Le principali doti del leader indonesiano sono il pragmatismo nel riorientare le priorità del Paese e l’equilibrio con il quale ha affrontato l’estremismo religioso. Jokowi ha costruito la sua immagine da riformista liberale attorno al rifiuto del clientelismo e al distanziarsi dall’élite di Jakarta, che ha sempre governato il Paese. Per il suo focus sugli investimenti infrastrutturali – soprattutto in relazione alla costruzione della rete ferroviaria tra Jakarta e Bandung – è stato spesso considerato filocinese, ma in realtà ha affrontato Pechino con rinnovata asservità per quanto riguarda la diatriba nel Mar Cinese Meridionale. Sotto la guida di Jokowi, infatti, parte del Mar Cinese Meridionale è stato rinominato come Mare di Natuna Settentrionale e la guardia costiera indonesiana ha sequestrato e distrutto un gran numero di imbarcazioni (principalmente cinesi) che pescavano illegalmente nell’area.

Lo sfidante, l’ex generale Prabowo Subianto, è uno dei principali critici di questa strategia infrastrutturale e accusa il governo di concentrarsi su progetti che non portano benefici alla popolazione. Un’altra importante accusa riguarda l’incapacità di raggiungere la crescita economica promessa (il Paese registra un aumento del PIL del 5%, sebbene fosse stato promesso il 7%), oltre alla necessità di ridiscutere i termini degli accordi commerciali e infrastrutturali firmati con la Cina (cooptato da diversi altri leader nella regione, Mahathir Mohamad su tutti).

Prabowo rappresenta il retaggio dell’élite della capitale, oltre ad essere una sorta di ponte tra il passato e il presente del Paese: ex generale delle forze speciali ed ex genero di Suharto, dittatore che ha tenuto in scacco l’Indonesia per più di trent’anni, rappresenta in pieno l’elettorato conservatore e un po’ nostalgico. Da un punto di vista religioso è in netta contrapposizione con Jokowi, considerato un moderato nonostante la scelta dell’ulama Ma’ruf Amin come vicepresidente, ed è molto vicino all’islam tradizionale e militante. La sua promessa di tutelare i leader religiosi e l’interpretazione tradizionale del Corano gli è valsa il sostegno di alcune fazioni radicali.

Il confronto per la massima carica dello Stato è stata una vera e propria rivincita, dato che i due candidati si erano già scontrati nel 2014: allora Jokowi sconfisse Prabowo con un margine significativo (il 6%, con 71 milioni di voti in più), distanza che dovrebbe essere confermata anche in queste elezioni. Nonostante si debba attendere il 22 maggio per avere il risultato ufficiale da parte della commissione elettorale, il sistema indonesiano prevede un conteggio preliminare (chiamato “quick count”) condotto da un consorzio di sei agenzie private e basato su un campione di seggi considerati affidabili. In base a questi primi dati Jokowi potrebbe aver vinto con un margine del 9%, ottenendo quindi il 54% delle preferenze. Tale indicatore viene ormai ritenuto quasi ufficiale grazie alla comprovata affidabilità del sistema.

Lo sfidante Prabowo si è però a sua volta dichiarato vincitore poche ore dopo la chiusura dei seggi, sostenendo di aver ricevuto una percentuale di preferenze del 62%. Una mossa azzardata e reiterata, poiché fece lo stesso già durante le elezioni del 2014, e rivelatasi poi priva di fondamento. Probabilmente questa rappresenta l’atto finale della strategia del caos portata avanti da Prabowo, che ha denunciato brogli e manipolazioni durante la campagna elettorale e ha chiamato i suoi sostenitori a scendere in piazza in caso di sconfitta.

La dialettica cavalcata dallo sfidante non è certamente casuale, dato che questa tornata elettorale ha rappresentato un grande sforzo logistico-amministrativo per la giovane democrazia indonesiana. Infatti, assieme alle elezioni presidenziali si sono tenute anche quelle per il rinnovo delle assemblee locali, provinciali e nazionale. Circa 193 milioni di persone erano attese alle urne, chiamate a scegliere tra più di 300.000 candidati.

Una volta annunciata la vittoria, la prima decisione di Jokowi è stata quella di cercare di distendere gli animi e creare un dialogo con lo sfidante sconfitto. Una delegazione del presidente è stata infatti inviata al quartier generale di Prabowo, con l’incarico di proporre un meeting pubblico tra le due parti. In questo modo, oltre a riconoscere pubblicamente il valore dell’avversario, si potrebbe mettere da parte l’acredine della campagna elettorale per il bene del Paese.

I prossimi mesi saranno particolarmente importanti per il presidente Widodo. Una volta ratificato il risultato elettorale inizieranno le lunghe contrattazioni per assegnare i posti ministeriali all’interno del nuovo governo. E molti dei finanziatori della sua campagna elettorale vorranno recuperare l’investimento effettuato, collocando i loro uomini di fiducia in posizioni di rilievo. Questo sistema di scambio è facilitato sia dalla possibilità di assegnare cariche ministeriali ad esterni sia dalla probabilità che nessun partito abbia una forte maggioranza nella prossima legislatura.

Sarà quindi necessario ricomporre questo intricato puzzle politico per rimettere in moto il Paese, aspetto che non rappresenta una novità assoluta per Jokowi, ma che porta sempre in dote difficoltà e imprevisti.

 

Immagine: Joko Widodo a Nusa Dua, Bali, Indonesia (12 ottobre 2018). Crediti: Simon Roughneen / Shutterstock.com

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La nuova era del Giappone, tra armonia e nazionalismo

Lo scorso 1° aprile, il governo giapponese ha ufficialmente annunciato che il nome della prossima era imperiale (indicata in giapponese col termine gengo) sarà Reiwa (令和). I due ideogrammi selezionati dalle autorità significano ordine (rei) e pace, armonia (wa), mentre il nome sarebbe traducibile come l’era della “ricerca dell’armonia”.

Nonostante l’incoronazione ufficiale del principe Naruhito sia attesa per ottobre, l’era Reiwa dovrebbe avere inizio il 1° maggio, ossia il giorno seguente alla formale abdicazione da parte dell’imperatore Akihito, che chiuderà così l’epoca Heisei. Se solitamente l’annuncio del nuovo gengo segue la salita al trono del nuovo imperatore, in questo caso si è deciso di operare diversamente per la peculiare natura della successione, e operare in anticipo permetterebbe di minimizzare i disagi causati dal cambio di calendario. Come da consuetudine nipponica, l’inizio di una nuova era comporta anche l’inizio di un nuovo calendario imperiale, che si affianca a quello gregoriano. Il Giappone è l’unico Paese al mondo che continua a mantenere entrambi, oltre ad essere l’unico a mantenere l’istituzione imperiale (nonostante si tratti in realtà di una monarchia parlamentare).

Di conseguenza, dal mese di maggio il 2019 sarà anche indicato come Reiwa 1: un cambiamento non in astratto, ma che inciderà anche sulla quotidianità della popolazione, andando a fissarsi su monete, banconote e documenti istituzionali. Vi è tuttora un forte dibattito all’interno della società giapponese riguardo l’opportunità di mantenere questo doppio sistema, che risulta particolarmente confusionario per alcune categorie professionali. Altri invece sostengono che sia giusto mantenerlo, poiché idealizzato come retaggio di un determinato periodo storico e segno tangibile dell’evoluzione del Paese.

La scelta dei due caratteri sopracitati indica anche una cesura rispetto al passato, poiché solitamente gli ideogrammi venivano selezionati dai grandi classici della calligrafia cinese. In questo caso, le autorità di Tokyo si sono ispirate all’opera classica Manyoshu, la più antica collezione di poemi della storia giapponese e descritta dal presidente Abe come il simbolo della grande cultura e tradizione del Paese. Il discostarsi dall’uso dei caratteri cinesi, utilizzati sin dal 645 d.C. con l’inizio dell’era Taika, non è passato inosservato ed è anzi stato interpretato come diretta conseguenza della matrice nazionalista del governo in carica.

Nel Giappone moderno, la titolatura delle ere serve ad indicare la durata dei regni. La pressoché conclusa era Heisei è iniziata nel 1989, anch’essa con la volontà di raggiungere la pace in un momento di grandi cambiamenti globali. Tornando indietro alle epoche precedenti, invece, non troviamo esattamente lo stesso spirito di accomodante benevolenza e ricerca della pace. Era un Giappone molto diverso rispetto a quello che conosciamo oggi, soprattutto nelle due ere che segnarono il passaggio alla modernità. Infatti, durante il lungo medioevo caratterizzato dall’istituzione dello shogunato (circa dal 1185 al 1868) l’imperatore aveva un ruolo prettamente simbolico, e il potere era pressoché totalmente concentrato nelle mani dello shogun. Le cose cambiarono nel 1868, con quella che viene comunemente indicata come Restaurazione Meiji. La scelta del termine restaurazione non è casuale, poichè proprio in nome del sovrano era stato possibile raggiungere quella inarrestabile modernizzazione che in pochissimo tempo condusse il Giappone al livello delle potenze occidentali. L’era Meiji (1868-1912) restaurava la figura imperiale, ripotava l’imperatore al centro della società, gli restituva il culto divino che deriva dalla natura del suo potere, lo riportava alla ribalta del dibattito politico e istituzionale. La restaurazione della centralità della figura imperiale venne affiancata dall’inesorabile ascesa del Paese. Alla morte dell’imperatore Meiji nel luglio del 1912, il Giappone era già diventato una potenza a livello internazionale e il suo recente passato feudale era ormai un ricordo.

L’epoca Showa, inaugurata dalla salita al trono di Hirohito nel dicembre 1926, fu un altro periodo fondamentale nella storia giapponese. Furono gli anni della grande espansione coloniale e imperialista in tutta l’Asia Sudorientale, culminati poi nel secondo conflitto mondiale e nella catastrofe atomica di Hiroshima e Nagasaki. Proprio questo momento, quello della resa, divenne un passaggio fondamentale nella storia imperiale del Giappone: il discorso di Hirohito, trasmesso via radio in tutto il Paese, non solo annunciava la resa, ma demistificava la propria figura. L’imperatore non aveva nessuna discendenza divina, non era l’incarnazione vivente della grande dea Amaterasu, ma semplicemente il simbolo della nazione e dell’unità del popolo.

Questa rivelazione fu un vero shock per la popolazione, ben più incisivo rispetto alla sconfitta patita. Infatti, per la stragrande maggioranza dei giapponesi fu la prima volta in cui sentirono la voce del loro imperatore; e stava dichiarando la resa e ammettendo di non avere nessun retaggio divino. Non deve quindi stupire l’ondata di suicidi che seguì il discorso di Hirohito, poichè l’imperatore non era solo il simbolo della nazione, ma le sue stesse fondamenta. L’imperatore era la nazione.

Questa scomoda eredità, nonostante i tentativi delle frange più nazionaliste, è stata messa da parte e ora l’alternanza imperiale e il passaggio da un’era all’altra rimangono sì un momento molto sentito dalla popolazione, ma con un simbolismo tendente all’unione e non alla divisione. Le Olimpiadi di Tokyo del prossimo anno sono sempre più vicine, quale migliore occasione per presentare al mondo l’inizio di una nuova era?

 

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Il K-pop alla sfida della tradizione militare

La Corea del Sud è uno dei pochi Paesi al mondo a mantenere un sistema di coscrizione obbligatoria per il servizio militare, nonostante i grandi cambiamenti economici e sociali che hanno investito il Paese sin dalla seconda metà degli anni Ottanta. Secondo la legge promulgata nel 1957, solamente pochi anni dopo la fine del conflitto che ha devastato e diviso la penisola, tutti i giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni dovranno necessariamente rispondere alla chiamata delle forze armate. A un periodo di addestramento e preparazione di circa cinque settimane segue il vero e proprio servizio di leva che, sebbene possa essere variabile, è quantificabile in circa due anni. L’entrata in vigore dell’obbligo militare non è quindi un termine fisso, ma posticipabile sino al compimento dei 28 anni (tale termine è stato recentemente modificato e anticipato, dato che il precedente limite arrivava ai 30 anni).

La Corea del Sud è anche uno dei Paesi con il più lungo periodo di coscrizione, superata solamente da realtà geopoliticamente particolari, se non uniche, come Israele, Singapore e Corea del Nord. Proprio la pace mai firmata con i fratelli settentrionali, oltre alla costante minaccia assertiva perpetrata dai Kim, ha messo in secondo piano la probabile obsolescenza di questa istituzione.

Per le nuove generazioni, il servizio militare è semplicemente un retaggio del passato che non aderisce più alle necessità del presente, caratterizzato da una forte instabilità economica e una disoccupazione giovanile in continua ascesa. Infatti, la leva obbligatoria ha storicamente due importanti obiettivi: rinforzare la sicurezza nazionale e portare avanti il processo di nation building. Sebbene possa agire da collante in momenti di forte emergenza nazionale, così come può fungere da strumento di livellamento sociale (spesso però tradito, come vedremo in seguito), questa istituzione non riesce più a soddisfare i due obiettivi sopracitati e fallisce anche nell’essere un ponte tra l’individuo e la nazione.

Come dicevamo, infatti, la legge non è esattamente uguale per tutti e nel tempo ci sono state diverse esenzioni, specialmente a vantaggio di importanti figure sportive. Oltre al tacito accordo che prevede l’esenzione per i medagliati olimpionici, esistono altrettanti contratti ad hoc: alla Nazionale di calcio che partecipò ai famigerati Mondiali del 2002 venne accordato un salvacondotto in caso di superamento degli ottavi di finale (partita che penso non sia necessario ricordare), stesso trattamento al tennista Hyeon Chung per il suo oro ai Giochi asiatici del 2014.

Nell’estate del 2018 si è presentato uno dei casi più eclatanti, poiché ha coinvolto l’atleta sudcoreano più conosciuto al mondo. Son Heung-min, attaccante del Tottenham Hotspur e capitano della Nazionale, ha potuto godere dello stesso privilegio in virtù della vittoria della selezione coreana ai Giochi asiatici. Il caso di Son, riportato dai media di tutto il mondo principalmente a causa dell’ipotetica differenza salariale (il Tottenham gli corrisponde circa 8 milioni di euro all’anno, nell’esercito avrebbe guadagnato poco più di 300 euro al mese), è velocemente diventato paradigmatico per quanto riguarda le disparità di trattamento, non solo verso la normale cittadinanza, ma anche verso altre personalità pubbliche.

Gli sportivi possono essere facilmente esentati, ma altrettanto non si può dire per artisti, attori e, soprattutto, idol. La loro penalizzazione appare ancora più evidente se confrontata con altri musicisti, dato che uno strumentista classico viene automaticamente esentato in caso di vittoria in grandi competizioni nazionali e internazionali.

In passato, quando il fenomeno del K-pop (Korean pop) non era così globale e globalizzante, il servizio militare veniva visto come una possibilità per “raddrizzare” personalità problematiche. In questo senso, uno dei casi più eclatanti è stato quello di Kim Hyun-joong, leader dei SS501, coinvolto in uno scandalo e accusato di violenza domestica ai danni della compagna. Nel 2015 rispose alla chiamata dell’esercito, decisione che venne interpretata come figlia della volontà di ripulire la propria immagine, dimostrare la propria maturità e rilanciare così la propria carriera.

Il caso Son ha contribuito a rilanciare la protesta delle fan delle idol band, che trovano ingiusta questa disparità di trattamento e non sono intenzionate ad accettare lo scioglimento delle loro band preferite per questo motivo. I BTS sono ovviamente i più discussi dai media di Seoul e difesi dalle fan (che per un incredibile scherzo del destino si chiamano ARMY). I due membri più anziani, Jin (Kim Seok-jin) e Suga (Min Yoon-gi), dovrebbero entrare in servizio nel biennio 2020-21 e hanno già dichiarato di non voler chiedere nessuna esenzione. Nonostante ciò, l’incredibile popolarità della band, la vibrante protesta social da parte delle fan e il consolidato ruolo di ambasciatori del Paese hanno dato nuova linfa al dibattito politico sul servizio di leva e sull’opportunità di rivedere la legge sulla coscrizione obbligatoria.

Alcune importanti figure politiche si sono espresse a riguardo quando i BTS hanno ricevuto l’Ordine al Merito culturale, venendo insigniti della medaglia Hwagwan, dal presidente Moon Jae-in. Il primo ministro Lee Nak-yon ha lasciato intravedere un’apertura, dichiarando che l’istituzione militare dovrebbe intraprendere delle ragionevoli misure per venire incontro alle richieste della società coreana. Queste parole vanno però bilanciate con il sostanziale rifiuto da parte del ministero della Difesa, che ha rilasciato un comunicato ufficiale nel quale si delinea la possibilità di abolire qualsiasi tipo di esenzione.

Quest’ultima misura appare estrema, oltre ad essere in totale controtendenza sia rispetto alla direttrice economico-sociale del Paese sia verso le crescenti richieste di buona parte della società civile. In questo caso la legge non rispecchia più la realtà della Corea del Sud, e l’attuale struttura del servizio militare è riflesso di un Paese in perenne pericolo e in stato di guerra, aspetto che è più aderente agli anni Sessanta che ai giorni nostri. I BTS hanno contribuito a riportare il dibattito nell’arena politica, mobilitando e portando ad informarsi tanti giovani coreani che dovranno necessariamente essere il motore del cambiamento.

 

Immagine: I BTS alla 61a edizione dei Grammy Awards, Staples Center, Los Angeles, CA  (10 febbraio 2019). Crediti: Kathy Hutchins / Shutterstock.com

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La Thailandia verso il voto, tra generali e principesse

La Thailandia ha una tristemente consolidata tradizione di colpi di Stato militari, l’ultimo dei quali ha interrotto il governo di Yingluck Shinawatra nel maggio 2014. Da allora, la giunta militare guidata dal generale Prayuth Chan-ocha ha ciclicamente promesso libere elezioni e un rapido ritorno alla democrazia.

Il 23 gennaio 2019, dopo quasi quattro anni d’attesa, la commissione elettorale thailandese ha stabilito la data delle prime elezioni generali nel Paese dopo il colpo di Stato. Subito dopo l’annuncio della commissione, un decreto pubblicato sulla gazzetta reale ha ufficialmente istituito la tornata elettorale per il 24 marzo.

Una notizia particolarmente attesa dalle forze politiche e dagli attivisti thailandesi, soprattutto alla luce delle ripetute promesse elettorali non mantenute e dei continui rinvii da parte della giunta militare. L’ufficio del primo ministro Prayuth ha rilasciato un comunicato stampa, nel quale si afferma che un governo politico dovrebbe entrare in carica entro l’estate.

Ciò nonostante, il ruolo dei militari nella futura vita politica del Paese è lontano dall’essere archiviato, e potrebbe semplicemente mutare invece che venire ridimensionato o addirittura azzerato. La giunta ha già operato in questo senso, promulgando una nuova costituzione che consolida la centralità dell’esercito in modo da limitare il potere dei futuri governi, che sarebbero peraltro vincolati a seguire un piano strategico ventennale gestito dai militari. Tutti i partiti, inoltre, dovranno anche fare i conti con la nuova legge elettorale che sostanzialmente non permette la formazione di una vera e propria maggioranza parlamentare senza il sostegno del Senato. Grazie alla nuova Costituzione i 250 senatori non verranno eletti ma nominati dalla giunta militare, di fatto prendendo il posto dell’attuale Assemblea nazionale. In questo modo, il ruolo dell’esercito rimarrà decisivo a prescindere dal risultato elettorale.  

Il generale Prayuth ha ben presto chiarito la sua volontà di mantenere la carica, sino ad affiliarsi ufficialmente al Phalang Pracharat Party, un partito ultraconservatore molto vicino ai militari, come candidato ufficiale alle elezioni di marzo.

Sin dall’ufficializzazione della data delle elezioni, il panorama politico thailandese è stato prontamente investito da un vortice di annunci e notizie al limite del surreale. L’apice è stato raggiunto l’8 febbraio, ultimo giorno utile per presentare ed ufficializzare le candidature. Sarebbe dovuto essere il giorno della candidatura ufficiale di Prayuth, ma la scena è stata inequivocabilmente rubata dal Thai Raksa Chart Party, rinnovata ramificazione del Pheu Thai Party (e prima ancora Thai Rak Thai) fondato dall’ex primo ministro Thaksin Shinawatra.

Il Thai Raksa Chart ha infatti annunciato la candidatura della principessa Ubolratana Mahidol, primogenita del defunto re Bhumibol e sorella maggiore dell’attuale sovrano Vajiralongkorn. Preechapol Pongpanich, leader del partito, ha lodato la volontà della principessa di mettersi al servizio del Paese e ha poi ribadito che sarà il volere del popolo a decretare il vincitore, in pieno spirito democratico. La principessa è una delle figure pubbliche più seguite e apprezzate del Paese. Nel 1972 rinunciò al suo titolo reale per sposare l’americano Peter Jensen. Una volta divorziato dal marito, ha deciso di ritornare in Thailandia e partecipare attivamente alla vita di corte.

La candidatura di Ubolratana ha causato un vero shock mediatico, con un susseguirsi di voci riguardo alla reazione della famiglia reale, della giunta militare, sino ad ipotizzare un clamoroso dietrofront da parte di Prayuth. Il generale, invece, non solo ha confermato la propria candidatura ma ha anche indirettamente iniziato a fronteggiare la rivale. Il leader del People’s Reform Party, partito vicino alla giunta militare, ha prontamente richiesto alla commissione elettorale l’annullamento della candidatura di Ubolratana, richiamandosi al principio di non ingerenza della famiglia reale nella vita politica del Paese. Anche il palazzo reale si è schierato contro la candidatura di Ubolratana. Il re Vajiralongkorn ha rilasciato una dichiarazione ufficiale nella quale viene ribadito come la sorella si identifichi come membro della dinastia Chakri, e che il coinvolgimento nella vita politica di un alto membro della famiglia reale è non solo contrario alla tradizione, ma anche estremamente inappropriato. Di conseguenza, nella serata di lunedì 11, la commissione elettorale si è dichiarata contraria alla candidatura di Ubolratana, appellandosi alle medesime ragioni poste in essere dal sovrano nel suo comunicato. La manovra successiva della commissione potrebbe disporre lo scioglimento immediato del Thai Raska Chart, per aver impunemente trascinato la monarchia nella competizione politica.

Il destino della candidatura della principessa, e conseguentemente del Thai Raksa Chart, è quantomeno precario e difficilmente Ubolratana riuscirà a ribaltare la decisione della commissione. Ovviamente il maggiore beneficiario di tale defezione è Prayuth, con gli altri partiti a fare quasi da comprimari.

Il Partito democratico ha confermato la fiducia ad Abhisit Vejjajiva, primo ministro dal 2008 al 2011. Nonostante le smentite e gli attacchi nei confronti di Payuth, alcuni osservatori vedono in Abhisit il candidato ideale per formare una coalizione con il Phalang Pracharat. Rimane il secondo partito del Paese, ruolo rispecchiato anche in Parlamento nel 2014, ma il rischio che venga fagocitato da Prayuth è concreto.

Per quanto riguarda i nuovi attori, la realtà più interessante è probabilmente rappresentata dal Phak Anakhot Mai, conosciuto anche come il Future Forward Party. Il partito è stato fondato nel marzo 2018 dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit, assumendone la carica nel successivo mese di maggio. Thanathorn si è presentato come la vera possibilità di cambiamento per il Paese, promettendo di contrastare efficacemente l’ingerenza militare con l’obiettivo di un autentico ritorno al concerto democratico.

Il prossimo mese sarà di fondamentale importanza per le forze politiche in campo, soprattutto alla luce del timore che Prayuth possa rimangiarsi la parola e dare il via a un nuovo colpo di Stato.

 

Crediti immagine: thanis / Shutterstock.com  

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Hallyu, la cultura pop globale della nuova Corea del Sud

Quando si parla di Corea del Sud, solitamente il dibattito è monopolizzato dall’annoso confronto con i fratelli settentrionali. Questa prospettiva è pressoché totalizzante, e la percezione che abbiamo della Corea del Sud è quasi definita dalle minacce nucleari che la dinastia Kim ha generosamente elargito nel corso dei decenni. Anche il rapporto con i principali vicini regionali, Repubblica popolare cinese e Giappone, è storicamente altalenante e incanalato in un sistema di dialogo-confronto che ha sì permesso un’imperiosa crescita nei rapporti economici, ma non ha portato in dote una vera e propria normalizzazione politica e diplomatica.

Ma non è questo il biglietto da visita che Seoul vuole presentare al mondo, e non deve essere identificata come il Paese che resiste sotto l’oppressione di un’atomica spada di Damocle. In questo senso, lo sforzo diplomatico ha spesso bisogno di una spinta dal basso per essere più incisivo e contribuire attivamente al benessere del Paese. La spinta che serviva al governo sudcoreano si è presentata sotto forma di Korean Wave (Hallyu), un fenomeno socio-culturale che ha permesso alla Corea del Sud di diventare uno degli epicentri della cultura pop a livello mondiale.

In che modo la Corea del Sud è riuscita a trasformare la sua cultura in un bene da esportazione? I grandi cambiamenti e sommovimenti portati in dote dagli anni Novanta, in primis l’apertura democratica e la crisi finanziaria del 1997, contribuirono in maniera decisiva a plasmare questa tendenza. In questi anni i principali prodotti d’esportazione erano due: le Korean Dramas (K-Drama) e il Korean pop (K-pop). Con il passare del tempo, complice anche la furiosa modernizzazione tecnologica e telematica, ai due apripista si sono aggiunti diversi altri settori, tra cui l’industria culinaria (la Corea del Sud è famosa per il suo street food), l’industria cosmetica e l’industria della moda e del fashion. In questo senso, e grazie all’esplosione di piattaforme come YouTube e Facebook, si può parlare di una progressiva internazionalizzazione dell’hallyu che ha permesso alla Corea del Sud di presentarsi al mondo in una veste completamente diversa rispetto al passato.

Ma in che modo l’industria culturale influisce sulle relazioni diplomatiche del Paese? Che ruolo e che potere ha la cultura pop al giorno d’oggi? Prendiamo ad esempio i BTS (acronimo di Bangtan Sonyeondan, ossia boyscout a prova di proiettile), la più popolare ed influente idol band odierna. Grazie alla loro produzione musicale, unita ad un’estrema attività sui social network, hanno raggiunto un livello di esposizione mediatica globale mai vista per una K-pop band, superando agevolmente PSY e la sua Gangam Style.

I BTS hanno infranto record su record: sono i primi artisti sudcoreani ad aver raggiunto la vetta della classifica degli album di Billboard, i primi musicisti sudcoreani ad essersi esibiti in uno stadio americano (il Citi Field di New York, ovviamente esaurito), hanno stabilito il record per il video musicale che ha raggiunto più velocemente la soglia di 10 milioni di visualizzazioni (Fake Love in 4 ore e 55 minuti), con 15 milioni di follower hanno l’account Twitter più seguito del Paese. Infine, prima idol band a vincere ai Billboard Music Awards e agli American Music Award. Tali esposizione e influenza mediatiche possono velocemente diventare un importante asset, e sulla scia di questi numerosi riconoscimenti l’Ente coreano per il turismo ha commissionato ai BTS una canzone per promuovere Seoul e il turismo nella capitale. L’attesa è stata tale che, il giorno dell’uscita del video, il sito dell’ente turistico è andato off-line per il numero di tentativi di accesso. A questo video è seguita una serie di brevi cortometraggi (My Seoul Playlist), indirizzati però verso il pubblico straniero.

Grazie anche all’onda lunga del successo dei BTS, la cultura pop sta diventando una sempre più importante fonte di potere. L’industria dell’intrattenimento è in costante ascesa, con sempre più film e produzioni televisive che raggiungono i lidi americani ed europei, trainando turismo, sport e attività culturali.

L’industria del K-pop è ormai talmente rilevante e globalizzante che, in alcuni casi, è stata coinvolta nelle relazioni regionali, soprattutto prendendo in considerazione il rapporto tra la Corea del Sud e la Cina. In questo contesto, la cultura pop coreana è stata sia pomo della discordia che oggetto di rappresaglia. Alla vigilia delle elezioni taiwanesi del 2016 scoppiò un piccolo caso diplomatico attorno a Chou Tzuyu, idol e membro della K-pop band Twice. Ospite a My Little Television, famoso format televisivo sudcoreano, la giovanissima idol sollevò una bandierina di Taiwan e si identificò come taiwanese, scatenando la reazione inferocita di fan e internauti cinesi. Di conseguenza le azioni della JYP, grande talent agency coreana che gestisce la band, crollarono inesorabilmente; la Huawei decise di interrompere il contratto di collaborazione con la LG poiché Tzuyu ne era la testimonial; tutti i concerti della band in Cina vennero annullati. Pochi giorni dopo l’incidente la idol, sotto pressioni della JYP, rilasciò un video di scuse per il suo comportamento e ribadì l’adesione al principio dell’unica Cina.

Un altro esempio si verificò sempre nel 2016, quando Corea del Sud e Stati Uniti si accordarono per l’implementazione del famigerato scudo antimissilistico THAAD. In risposta, il governo cinese bloccò l’accesso a tutte le K-Drama e agli album K-pop presenti nelle piattaforme on-line cinesi, impedì agli artisti coreani di esibirsi nel Paese e cancellò diversi eventi programmati nei mesi successivi. In entrambi i casi, colpire il potere culturale coreano significa essenzialmente colpire l’economia di Seoul, che ha nella Cina uno dei principali partner.

La cultura pop sudcoreana e la sua inarrestabile crescita globale non devono più essere viste semplicemente come una merce, ma come un grezzo strumento politico, che una volta affinato potrebbe dare enormi benefici alla causa di Seoul.

 

Crediti immagine: Korea.net / Korean Culture and Information Service (Photographer name) [CC BY-SA 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0)], attraverso Wikimedia Commons

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Il triangolo geopolitico di Duterte

L’elezione di Rodrigo Duterte, diventato presidente delle Filippine da ormai più di due anni, ha investito come un ciclone la già movimentata vita politica dell’arcipelago. In questo arco temporale, l’autoritario leader è salito alla ribalta internazionale per un approccio non esattamente convenzionale all’arte del governo: dalla lotta alla droga condotta attraverso esecuzioni sommarie ed extragiudiziali ai cinque mesi di assedio per liberare Marawi City dalla morsa del terrorismo islamico, senza dimenticare le continue e colorite esternazioni verso avversari politici, leader religiosi e il principale credo del Paese (ha insultato sia il papa che Dio), capi di Stato e istituzioni internazionali (memorabili gli insulti a Barack Obama e all’Unione Europea).

Nonostante questa indefessa ricerca dello scontro Duterte ha sempre goduto di un’altissima percentuale di gradimento, superando in alcuni periodi la soglia dell’80%. Anche il 2018 si è aperto seguendo questa tendenza, salvo poi presentare un’inversione di marcia, non così inattesa ad essere sinceri, durante i mesi estivi. Infatti, l’indice di gradimento di Duterte ha toccato il suo punto più basso dall’inizio del mandato presidenziale, arrivando al 65% (percentuale che scende addirittura al 45% se consideriamo l’indicatore netto). Quali sono le ragioni dietro al crollo di una figura apparentemente inossidabile e inattaccabile? In primis, la flessione economica che sta colpendo il Paese. Il fortissimo aumento dell’inflazione, che non raggiungeva il 7% dal 2009, ha comportato un aumento nel prezzo dei generi di prima necessità. Inoltre, la promessa di debellare la piaga della droga entro i primi sei mesi del suo mandato si è rivelata impossibile da mantenere. Anzi, sebbene il numero di arresti, di operazioni antidroga e di sequestro di stupefacenti sia aumentato nel biennio 2016-2018, le strade della capitale Manila non sono automaticamente diventate più sicure. Infatti, nello stesso lasso di tempo il numero di omicidi e aggressioni è aumentato.

Oltre alle sopracitate questioni interne, Duterte ha operato un deciso cambio di rotta anche per quanto riguarda la politica estera. Pochi mesi dopo il trionfo elettorale, Duterte si è apparentemente rivoltato contro lo storico alleato statunitense, insultando il presidente uscente Obama, colpevole di aver criticato le poco ortodosse politiche antidroga del governo filippino. Il passo successivo è apparso come una logica conseguenza. Nell’ottobre 2016, infatti, Duterte si è recato in Cina per una visita di Stato, durante la quale ha sostanzialmente annunciato la separazione da Washington in favore di un forte riavvicinamento a Pechino. Nei due anni intercorsi dal meeting di Pechino, complice anche l’elezione di Donald Trump come nuovo presidente degli Stati Uniti, il clamoroso rovesciamento geopolitico delle Filippine appare quantomeno ridimensionato.

Nonostante le critiche e le accuse rivolte dalla leadership filippina, la presenza americana è lontana dall’essere messa realmente in discussione e le Filippine hanno bisogno dell’alleanza con gli Stati Uniti, soprattutto in funzione della disputa nel Mar Cinese Meridionale. Duterte è perfettamente consapevole dell’inferiorità delle forze armate filippine e dell’impossibilità di avvicinare la potenza militare cinese. A questo proposito, il Pentagono ha recentemente impostato un nuovo programma per riavvicinarsi agli storici partner regionali. Durante un tour effettuato nel mese di agosto, il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato un pacchetto da 300 milioni di dollari finalizzato al rafforzamento della sicurezza e della cooperazione marittima. Washington si è inoltre resa disponibile a fornire a Manila alcuni pezzi pregiati dal proprio parco armamenti, tra cui i Lockheed Martin F-16.

Una delle priorità di Manila rimane la salvaguardia delle proprie rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale, ma, al contempo, il rafforzamento della partnership economica con la Cina è diventato un vero proprio imperativo. Per il governo filippino è fondamentale riuscire ad attirare e mantenere gli investimenti e i capitali cinesi. Durante il meeting del 2016 richiamato in precedenza Duterte e Xi Jinping annunciarono la firma di un accordo bilaterale da 15 miliardi di dollari. Alcuni di questi progetti, però, non hanno ancora visto la luce a causa dei ripetuti ritardi, portando in dote delle forti critiche verso il presidente filippino. Ciò nonostante, gli investimenti cinesi nelle Filippine sono aumentati del 67% nell’ultimo biennio, con un flusso commerciale che ha toccato i 14 miliardi di dollari nella prima metà di quest’anno. Senza dimenticare i progetti andati a buon fine, come il nuovo tratto ferroviario che collega Manila al Sud del Paese, o la diga di Kaliwa.

I tempi sembrano maturi per riprendere le trattative, dato che Xi Jinping è atteso a Manila per il mese prossimo. In tale occasione è prevista la firma di altri cinque accordi, principalmente orientati al potenziamento del sistema logistico e infrastrutturale filippino e all’incentivazione del commercio tra i due Paesi. Inoltre, è probabile che venga discussa anche la situazione nel Mar Cinese Meridionale, soprattutto nella prospettiva di progetti congiunti in campo energetico ed estrattivo. Da questo punto di vista i due Paesi hanno già mostrato la propria volontà di mettere da parte il confronto territoriale in favore di un comune beneficio economico.

Il tira e molla diplomatico di Manila non deve essere interpretato come frutto del caso e dell’imprevedibilità di Duterte, ma potrebbe invece rappresentare il risultato di un attento calcolo strategico. Una strategia indipendente e pressoché equidistante tra i due principali attori geopolitici nella regione, sulla falsariga di quanto fatto dalla Malaysia nel recente passato, che potrebbe restituire a Duterte buona parte del consenso perduto.

 

Crediti immagine: da PCOO EDP [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

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La Malaysia al bivio tra passato e futuro

I rapporti tra Cina (RPC) e Malaysia, sin dall’inaugurazione delle relazioni diplomatiche bilaterali nel 1974, son stati caratterizzati da una buona dose di cordialità e rispetto reciproco, frutto di comuni retaggi culturali e della presenza di una folta comunità cinese. Ciò non significa che non ci siano stati momenti di frizione: per esempio, da parte malese non è mai venuto a mancare un pizzico di diffidenza verso la crescita scriteriata di Pechino. Ma neppure la disputa nel Mar Cinese Meridionale, che vede entrambe protagoniste e contendenti, ha intaccato un legame storicamente saldo, orientato al business e alla cooperazione. Nonostante ciò, però, la Malaysia non può essere considerata come un alleato cinese, e ha anzi spesso rivolto lo sguardo verso Washington in cerca di un bilanciamento perfetto tra le due superpotenze mondiali.

La clamorosa vittoria elettorale di Mahathir bin Mohamad, tornato alla guida del Paese alla veneranda età di 92 anni, si pone in sostanziale continuità con tale postura geopolitica, nonostante sia stato particolarmente critico verso Pechino durante la sua campagna elettorale. Infatti, una delle prime dichiarazioni di Mahathir riguardava l’opportunità di ridiscutere alcuni degli accordi economici e infrastrutturali siglati dal suo predecessore, Najib Razak, con Pechino. L’obiettivo designato della dichiarazione non può che essere la Belt and Road Initiative (BRI), il mega progetto promosso dalla Repubblica Popolare e finalizzato alla creazione di una rete infrastrutturale che ricalchi le antiche rotte commerciali della Via della Seta. La Malaysia, come la quasi totalità degli Stati rivieraschi del Sudest asiatico, è fortemente coinvolta nel progetto: Najib aveva firmato un contratto da 14 miliardi di dollari, finanziati principalmente da un prestito della China Exim Bank, per la costruzione di una massiccia rete ferroviaria, la East Coast Rail Link (ECRL). La struttura ferroviaria, lunga quasi 700 km, la cui costruzione era stata affidata alla China Communications Construction Co Ltd, avrebbe dovuto collegare Pelabuhan Klang, il principale porto del Paese, a Pengkalan Kubor, nei pressi del confine con la Thailandia.

La BRI è stata descritta numerose volte come un piano strategico finalizzato al consolidamento del potere cinese, attraverso la creazione e il controllo di capitali e asset, e che si sarebbe velocemente trasformata in trappola debitoria per i partner più scoperti finanziariamente. Evidentemente tale pensiero è condiviso da Mahathir, che ha subitamente congelato il progetto per ridiscuterne i termini. Il primo ministro ha poi dichiarato che il suo principale obiettivo è risanare le casse statali e che il progetto ECRL avrebbe appesantito il debito pubblico di ulteriori 50 miliardi di dollari. In questi termini appare effettivamente un rapporto sbilanciato a favore della Cina, ma il risparmio economico può giustificare il venire tagliati fuori da un progetto epocale come la BRI?

La Cina rimane il principale partner economico del Paese, con un volume di scambi commerciali che quest’anno potrebbe superare i 100 miliardi di dollari. Inoltre, la Repubblica Popolare è storicamente uno dei principali investitori nell’economia malese, e questo particolare non può essere (e probabilmente non sarà) ignorato dal nuovo governo.

Mahathir non è mai stato cristallino sull’argomento, nonostante la sua visita ufficiale a Pechino nel mese di agosto, paventando sì la possibilità di cancellare l’accordo ma rimandando sempre la questione a future negoziazioni con la Cina. Anche la presa di posizione di Mahathir sul Mar Cinese Meridionale, nella quale ha accusato la RPC di un’eccessiva militarizzazione e di una preoccupante assertività nella regione, non rappresenta una novità ma piuttosto il riconoscimento del ribaltamento geopolitico nell’Asia sudorientale. Se prima l’ascesa cinese veniva quasi auspicata per controbilanciare il monopolio statunitense, ora la Malaysia gradirebbe una maggiore attenzione e propensione all’intervento da parte di Washington. La prospettiva e l’approccio alla politica regionale non sono sostanzialmente cambiati, ma è cambiato il ruolo degli interpreti.

I rapporti tra Kuala Lumpur e Pechino si sono temporaneamente raffreddati, ma questa è probabilmente una pausa strategica necessaria al governo Mahathir per riorganizzare partnership e alleanze, oltre a creare una necessaria cesura con l’epoca Najib, ripetutamente accusato di aver svenduto il Paese. In questo senso può essere paradigmatica la visita di Stato di Mahathir in Giappone, che deve essere interpretata come un tentativo di riallacciare i rapporti con un potenziale partner economico piuttosto che come una deliberata provocazione nei confronti della Cina.

In sostanza, aspettarsi cambiamenti repentini nel gioco delle alleanze malesi è quantomeno azzardato, così come prevedere un netto allontanamento da Pechino. L’alternanza degli interpreti politici, più che un vero e proprio cambiamento, difficilmente scalfirà il programmatico pragmatismo del Paese, che non ha intenzione né convenienza a schierarsi apertamente contro un Paese. A maggior ragione nel momento in cui il rapporto tra i due principali attori extraregionali è divenuto fortemente conflittuale. In questo senso il futuro della Malaysia ricalca la sua tradizione strategica e diplomatica, con le consolidate oscillazioni tra le diverse fazioni e l’obiettivo di ricavare il massimo dalla conflittualità latente che caratterizza il contesto regionale. Difficilmente sarà un politico esperto come Mahathir, testimone di tutto il percorso politico recente del Paese, a rompere questa tradizione.

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Quale futuro per il Vietnam dopo Tran Dai Quang?

La morte del presidente vietnamita Tran Dai Quang, accertata e comunicata ai media il 21 settembre 2018, ha sorpreso ben pochi osservatori delle vicende del Paese. La malattia di Quang era diventata un argomento di grande dibattito, soprattutto a causa dei maldestri tentativi di occultazione da parte del partito e per le numerose assenze in eventi ufficiali. Nel mese di agosto aveva mancato diverse cerimonie, tra cui un’importante commemorazione della fine della guerra del Vietnam, e delegato a ministri e funzionari l’accoglienza dei diplomatici stranieri in visita nel Paese. Alla fine di agosto aveva però fatto il suo ritorno nell’arena pubblica, recandosi in visita ufficiale in Etiopia e in Egitto e accogliendo il presidente indonesiano Joko Widodo. La sua ultima apparizione pubblica è stata il 19 settembre, due giorni prima della sua morte, per un meeting con Zhou Qiang, capo della Corte suprema cinese.

Quang era una figura temuta e rispettata all’interno dell’élite politica di Hanoi: membro del Politburo dal 1997, a capo del ministero della Pubblica sicurezza dal 2011 sino al 2016, quando venne nominato presidente durante il congresso del Partito comunista del Vietnam, nomina poi confermata dall’Assemblea nazionale nel mese di aprile. Il suo biennio alla guida del Paese è stato caratterizzato da una decisa stretta censoria verso la parte più progressista della società civile e gli attivisti pro-democrazia. In questo senso è decisamente paradigmatica la promulgazione di una repressiva legge sul cybercrimine, caldeggiata proprio da Quang, che ha generato un numero record di arresti, tra cui quello della famosa blogger Nguyen Ngoc Nhu Quynh, e la chiusura di testate on-line.

Quang è stato criticato anche per l’incapacità di far fronte alle pressioni politiche ed economiche di Pechino. Nel mese di marzo Hanoi ha incassato una pericolosa débâcle nel Mar Cinese Meridionale, con lo stop a tempo indeterminato di un progetto d’estrazione petrolifera nel blocco Red Emperor a causa delle pressioni cinesi, nonostante il ricco contratto firmato con la multinazionale spagnola Repsol. Nel mese di giugno, invece, è scoppiata una furibonda protesta popolare a causa dell’incombente apertura di tre zone economiche speciali. Tale misura non rappresentava una novità assoluta nella storia politica vietnamita. Il primo tentativo venne fatto nel 1979 nell’isola di Con Dao, con l’obiettivo di promuovere la nascente industria petrolifera nazionale. L’esperimento si rivelò un fallimento, e l’operazione chiuse i battenti nel 1991. Da allora il Vietnam si è pienamente inserito nel contesto globale, sia politicamente che economicamente, per cui la leadership comunista ha optato per un secondo tentativo. Nel 2013 vennero identificate tre aree strategiche: Quang Ninh, una provincia costiera nel Golfo del Tonchino; Bac Van Phong, nella provincia di Khanh Hoa; l’isola turistica di Phu Quoc, nel Golfo del Siam. La furia dei manifestati venne scatenata dalla mancanza di tutele verso le imprese locali, che non avrebbero mai potuto competere con il flusso di capitali e investimenti cinesi. Di conseguenza, il governo venne accusato di svendere il Paese alla Repubblica Popolare, Hanoi e Ho Chi Minh City vennero invase dai manifestanti, con negozi e attività letteralmente distrutti e più di 1000 arresti.

La dipartita di Quang, sebbene lungi dall’essere un fulmine a ciel sereno, ha creato una situazione di grande incertezza, che va a sommarsi a un’eredità politica non proprio delle migliori. Probabilmente proprio per questo motivo il vuoto di potere è durato relativamente poco. Il testimone è stato infatti già raccolto dal suo più acerrimo rivale, il segretario del Partito comunista del Vietnam Nguyen Phu Trong. La nomina rappresenta un ulteriore rafforzamento della posizione di Trong, considerato già l’uomo più potente del Paese, e un accentramento di potere che non si verificava dalla morte di Le Duan nel 1986.

Nel sistema monopartitico di Hanoi esistono quattro cariche distinte, che dovrebbero operare in concerto e controllarsi reciprocamente. In questo senso, il segretario generale del partito è il reale depositario del potere poiché ne controlla il sistema decisionale e l’apparato politico. La figura presidenziale è la “seconda” carica del Paese, dato che alle funzioni pubbliche di rappresentanza si affiancano diverse prerogative politiche. Dal ruolo di comandante in capo delle forze armate al potere di nomina del primo ministro, con la possibilità di rigettare le leggi da lui proposte e addirittura emendare la carta costituzionale.

L’unificazione di queste due cariche nelle mani di Trong per certi versi ricalca la strada intrapresa dalla Cina dopo la morte di Deng Xiaoping, concretizzatasi con la riforma costituzionale che ha consegnato un potere quasi assoluto nelle mani di Xi Jinping. Sebbene sia troppo presto per definire la reale portata politica di tale decisione e la nomina di Trong debba ancora passare il consuetudinario vaglio dell’Assemblea nazionale, è possibile iniziare ad ipotizzare alcuni scenari. In un momento di grande incertezza politica, caratterizzata da un forte malcontento interno e dal costante rischio di venire marginalizzati dal confronto tra Cina e Stati Uniti nel Mar Cinese Meridionale, il partito, o la maggioranza fedele a Trong, potrebbe aver optato per una figura in grado di garantire forza e fermezza politica. Un plenipotenziario potrebbe essere più efficace nel gestire e indirizzare l’arena pubblica, oltre ad avere un diverso peso al tavolo negoziale con gli attori regionali ed extraregionali, ed evitare così il riproporsi dei sopracitati imbarazzi geopolitici.

Il secondo e ultimo mandato di Trong scadrà nel 2021, e la prospettiva d’analisi dovrà per forza orientarsi verso tale data. Infatti solo all’approssimarsi del passaggio di consegne potremo capire se tale accentramento di potere sia stata una misura temporanea o se, in caso di riforma costituzionale e annesso terzo mandato, il Vietnam seguirà la via tracciata da Pechino.

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L’assertività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale

La disputa nel Mar Cinese Meridionale è caratterizzata da lunghi mesi di impasse e da repentini momenti di tensione. Questi ultimi sono ormai parte integrante del vocabolario del contenzioso e l’escalation degli stessi sfocia molto raramente in un vero e proprio scontro armato. Il delicato equilibrio marittimo si posa anche su questi momenti, ma ciò non deve indurre l’osservatore a ridimensionarli eccessivamente, ma a ricordargli quali sono le forze in campo. In tal senso, questi ultimi mesi estivi hanno portato in dote sia novità che consuetudini ormai acclarate.

L’aggressività e l’assertività cinese nel ribadire il proprio primato nel Mar Cinese Meridionale, sommate alla progressiva militarizzazione di alcuni dei suoi avamposti, hanno indubbiamente influenzato l’equilibrio strategico nella regione, costringendo i vicini meridionali a prendere delle contromisure e risvegliando l’interesse di attori extraregionali come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Se il governo inglese ha finalmente deciso di rompere gli indugi all’inizio di questo mese, quando la HMS Albion ha costeggiato alcune isole dell’arcipelago delle Paracelso durante il suo tragitto verso Ho Chi Minh City, Washington ha deciso di tagliare i ponti con la strategia dell’amministrazione Obama per riproporsi in Asia Sudorientale con una diversa consapevolezza.

La ragione principale è data dalla preoccupante militarizzazione del Mar Cinese Meridionale, condotta in primis dalla Cina. Secondo l’ammiraglio Philip S. Davidson, a guida del neonato Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, la RPC sarebbe ormai in grado di controllare l’interezza del Mar Cinese Meridionale e di gestire qualsiasi scenario di guerra, ad esclusione di un ipotetico scontro armato con le forze statunitensi. Tale ipotesi è corroborata dalla crescente asimmetria di potere e capacità militare tra la Cina e gli altri contendenti, che non sarebbero in grado di contrastare Pechino contando solamente sulle proprie forze. Per questo motivo Washington, confermando il rinnovato attivismo nella regione che ha caratterizzato l’amministrazione Trump, potrebbe riproporsi con ritrovato vigore come partner affidabile e garante della pace regionale.

Seguendo questa prospettiva, il principale pericolo sarebbe rappresentato da un ipotetico scontro tra le due potenze globali, ipotesi comunque difficilmente realizzabile, o, più tradizionalmente, un confronto a bassa intensità tra i diversi contendenti. Come il passato ci insegna, Pechino è solita vedere come un’ingerenza e una provocazione qualsiasi manovra effettuata in quelle che considera le proprie acque territoriali. A riguardo, è opportuno citare il South China Sea FONOPs (Freedom of Navigation Operations), un programma militare organizzato dagli Stati Uniti, attraverso cui gli alleati regionali (tra cui Giappone, Australia, Corea del Sud e Filippine) vengono invitati a prendere parte alle esercitazioni marittime guidate da Washington.

Se gli Stati Uniti vedono questo strumento come legittima espressione della libertà di navigazione nelle acque internazionali, la Cina ha costantemente condannato le esercitazioni e ribadito il proprio primato giurisdizionale sulle acque. Inoltre, nell’aprile di quest’anno, Pechino ha alzato ulteriormente la posta in gioco, sorprendendo e spaventando gli attori coinvolti nella disputa. La marina militare (People’s Liberation Army Navy, PLAN) ha infatti installato dei sistemi missilistici antiaereo e antinave in tre diversi insediamenti (Mischief Reef, Subi Reef e Fiery Cross), per poi inviare un bombardiere a Woody Island, un’altra isola contesa nelle Paracelso, nel mese di maggio. Entrambi gli avvenimenti rappresentano una novità assoluta nella sempre incerta dinamica del contenzioso, ma altresì ribadiscono come la Cina non sia disposta a riconsiderare la propria posizione per nessuna ragione.

Nonostante il clima di tensione tra Cina e Stati Uniti, durante i mesi estivi si sono verificati anche dei leggeri progressi diplomatici. Uno dei principali interlocutori di Pechino è l’Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), un’associazione regionale che comprende la quasi totalità degli Stati del Sud-Est asiatico, che da ormai trent’anni cerca di incanalare Pechino in un dialogo diplomatico multilaterale, visto come unico strumento possibile per dirimere la disputa.

Le parti si sono incontrate nel mese di agosto, durante uno dei regolari meeting ministeriali, per discutere la stesura di un nuovo ed efficace codice di condotta per il Mar Cinese Meridionale. Le principali finalità del codice di condotta andrebbero ricollegate non tanto alla risoluzione della disputa, aspetto squisitamente politico, quanto alla virtuosa gestione della stessa in modo da evitare qualsiasi tipo di conflitto. In tal senso, lo strumento privilegiato sarebbero negoziazioni diplomatiche e il ricorso a un arbitrato internazionale.

Le parti si sono dichiarate estremamente soddisfatte per i progressi ottenuti durante il meeting, ma storicamente questo tipo di negoziati è sempre stato sbilanciato in favore di Pechino. In primo luogo perché i documenti e i memorandum d’intesa prodotti non sono quasi mai vincolanti, perciò la Cina è particolarmente incline a firmarli, e secondariamente perché l’ASEAN è sprovvisto di un meccanismo coercitivo in grado di apporre delle sanzioni nel caso di un mancato rispetto degli accordi.

La prospettiva ideale per l’ASEAN, e per gli altri contendenti, sarebbe proprio quella di introdurre questi elementi, oltre a chiarire definitivamente la portata spaziale del contenzioso. Ma è un processo lungo e tortuoso, per cui stabilire una precisa tabella di marcia sarebbe pressoché impossibile sia per la diversità di vedute e sia per la compassata tradizione diplomatica degli attori coinvolti. Restando così le cose, la Cina avrà la possibilità di concentrarsi sulle pressioni americane e mantenere il dibattito con l’ASEAN a un ritmo congeniale alle proprie necessità.

 

Crediti immagine: da U.S. Navy photo [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

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Di chi è il Mar Cinese Meridionale?

Il contenzioso nel Mar Cinese Meridionale è tra i fenomeni geopolitici più complessi e sfaccettati di quest’ultimo ventennio, con una rilevanza in costante ascesa sia a livello regionale sia a livello globale. Il Mar Cinese Meridionale è spesso definito come una porzione dell’Oceano Pacifico che si allunga dallo Stretto di Malacca sino allo Stretto di Taiwan, con un’area di circa 648.000 miglia quadrate, caratterizzato da centinaia di isole, scogliere, promontori, banchi di sabbia e rocce. Le principali isole, fulcro del contendere tra gli Stati rivieraschi dell’Asia sud-orientale, possono essere accorpate in quattro gruppi: le Pratas (Dongsha Qundao in cinese), le Paracelso (Xisha Qundao in cinese), le Spratly (Nansha Qundao in cinese) e Macclesfield Bank (Zongsha Qundao in cinese). In questo scenario si intersecano le strategie degli Stati rivieraschi dell’Asia sud-orientale, della Cina e degli Stati Uniti, e si presentano tutti i prerequisiti per un potenziale effetto domino in grado di generare un conflitto su larga scala.

Le motivazioni dietro il crescente interesse verso la disputa sono molteplici. In primis, il considerevole numero di attori coinvolti, direttamente e indirettamente, rende la situazione estremamente volatile: possiamo infatti contare ben sei governi (Brunei, Filippine, Malaysia, Repubblica Popolare Cinese, Taiwan e Vietnam) che hanno posto in essere delle rivendicazioni territoriali. La natura delle stesse non è omogenea, includendo sia elementi storici che interpretazioni giuridiche.

Il caso cinese è probabilmente il più conosciuto ed eclatante, poiché Pechino rivendica la quasi totalità del Mar Cinese Meridionale, che considera sue «sacre acque territoriali». La rivendicazione cinese è quindi di natura storica, basata sull’assunto che i marinai delle varie dinastie imperiali abbiano navigato e controllato quelle acque per secoli, sin dai tempi della dinastia Han (206-220 d.C.). Il coinvolgimento di Taiwan nella disputa è un aspetto peculiare della vicenda, dato che Taipei e Pechino rivendicano vicendevolmente l’autorità sull’intero territorio nazionale cinese.

La posizione vietnamita è simile a quella cinese, sebbene di portata diversa. Il governo di Hanoi ha prodotto una serie di documenti e resoconti che mirano a dimostrare la presenza storica nelle Paracelso e nelle Spratly, chiamate rispettivamente Troung Sa e Houng Sa. Le isole sarebbero state mappate come parte integrante del territorio vietnamita nel XVIII secolo, per poi cadere sotto mano francese e inglese.

Le Filippine rivendicano buona parte dell’arcipelago delle Spratly. Le rivendicazioni filippine sono più recenti di quelle cinesi e vietnamite e si basano principalmente su aspetti legali piuttosto che su una presunta eredità storica. La tesi di Manila si fonda sulla posizione delle isole, che essendo adiacenti alle principali isole filippine rappresentano un interesse vitale per la sicurezza e la sopravvivenza economica del Paese. La posizione della Malaysia è priva di alcun background storico e poggia su due principi legali: l’estensione della piattaforma continentale e il principio di scoperta e occupazione. Infine, il piccolo Sultanato del Brunei rivendica attualmente due isole e una zona marittima basata sul prolungamento della propria piattaforma continentale.

Ai sopracitati contendenti bisogna però sommare i Paesi che mantengono un forte interesse nei confronti dell’area, come Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud. Emerge così la dimensione economico-strategica del contenzioso, che si affianca a quella strettamente politica e irredentista. Le rotte marittime che attraversano il Mar Cinese Meridionale sono estremamente importanti per le economie di tutti i Paesi sopracitati. Basti pensare che il totale del petrolio che passa per lo Stretto di Malacca, attraversando poi il Mar Cinese Meridionale, è ormai il triplo di quello che passa per il Canale di Suez e quindici volte quello che passa per il Canale di Panama. Inoltre, più dell’80% delle importazioni petrolifere di Corea del Sud, Giappone e Taiwan passa per il Mar Cinese Meridionale, percentuale che sfiora il 90% quando parliamo della Cina.

Tenendo in considerazione il quadro appena delineato, propedeutico per comprendere appieno l’importanza dell’area presa in analisi, non deve stupire la rinnovata assertività di alcuni attori coinvolti e la progressiva militarizzazione della regione. In tal senso la Cina è probabilmente la vera protagonista della vicenda, accentrando su di sé le attenzioni degli osservatori internazionali per le ripetute azioni unilaterali che hanno contribuito a creare una situazione di conflitto dormiente.

Per salvaguardare i propri interessi strategici ed economici, nel 1988 Pechino costruì il primo avamposto permanente nelle Spratly, al quale si aggiunsero poi delle strutture semipermanenti in diverse isole degli arcipelaghi, tra cui Johnson Reef, Dongmen Reef e Subi Reef. L’esempio cinese venne rapidamente seguito da Filippine e Vietnam, che a loro volta iniziarono a fortificare alcuni dei loro insediamenti. Questa tendenza si è poi evoluta nell’odierna creazione di vere e proprie isole artificiali, dotate di strutture civili e militari, che hanno ulteriormente esacerbato il confronto.

Nonostante la reiterata volontà da parte dei governi coinvolti nel trovare una soluzione diplomatica, in realtà il Mar Cinese Meridionale è stato teatro di diversi scontri, più o meno armati: dal violento confronto navale tra Cina e Vietnam a Johnson South Reef nel 1988, durante il quale vennero affondate tre imbarcazioni e morirono 64 marinai vietnamiti, al caso diplomatico scoppiato con gli Stati Uniti nel marzo 2009 dopo l’intercettazione della USNS (United States Naval Ship) Impeccable, accusata di essersi ingiustificatamente avvicinata alle coste dell’isola di Hainan.

Per tutti i contendenti il Mar Cinese Meridionale è diventato qualcosa di irrinunciabile, uno spazio dove momenti di calma e di crisi si alternano in maniera ormai consuetudinaria, scandendo il ritmo di un confronto che pare non avere soluzione.