L’industria del videogioco sembra avere assorbito l’impatto della pandemia, beneficiando di una diffusa crescita economica e di un’apparente espansione del suo pubblico, invogliato dal distanziamento sociale a sperimentare il medium.
Al livello ‘globale’ i videogiocatori avrebbero raggiunto nel 2020 circa 2.3 miliardi, per un mercato di circa 159 milioni di dollari, in crescita rispetto agli anni prepandemici, come sostiene un report di Newzoo (Wijman 2020). Più precisamente, negli Stati Uniti, l’NPD Group registra vendite per 6,6 miliardi di dollari a metà 2020. Anche in Italia, produttori e rappresentanti di categoria hanno esultato: IIDEA (Italian Interactive Digital Entertainment Association) parla di un giro di affari di 1,7 miliardi di euro, con una crescita del 24,8%, ma anche di una svolta nella percezione sociale del medium, presentato finalmente come un’arte che ha saputo arricchire le vite dei giocatori durante il lockdown.
Da altre prospettive, questa narrazione si è rovesciata. L’entusiasmo degli operatori del settore è stato, per esempio, inquadrato in un’analisi delle ineguaglianze strutturali di un mercato in cui grossi conglomerati stritolano i piccoli sviluppatori (Takahashi 2020). Il consumo di videogiochi è stato anche correlato a presunti rischi di dipendenza dai media, e dunque ancora una volta iscritto (seppure con attenzione al contraddittorio e alle evidenze – Ipsico 2021) in un paradigma attento ai potenziali rischi psicologici e sociali della sovraesposizione ai media (Fineberg et al. 2018).
Queste tesi e i loro discorsi circondano il videogioco come oggetto complesso e spesso conteso. In senso ampio, il rapporto tra gioco e pandemia ripropone la questione del riconoscimento sociale dei videogiochi e della loro dignità estetica, che può ancora incontrare forti resistenze culturali. La pandemia ha anche rinfocolato il vecchio dibattito sui presunti effetti del medium, che già per decenni ha polarizzato frange della comunità scientifica, dei giornalisti e del pubblico. La pandemia ci offre infine un’occasione per comprendere come il gioco digitale sia parte integrante di un più ampio sistema delle industrie creative, dei media e dell’information capitalism, prefigurandosi sempre più spesso come vere e proprie piattaforme di socializzazione.
La crescita del videogioco durante la pandemia è parte di un più ampio aumento di consumo mediale, ma fa anche storia a sé. Sul versante del consumo, il modello del digital download ha assorbito la domanda e facilitato una familiarizzazione con il medium da parte di nuove fasce di consumatori. Secondo un report dell’NPD Group, negli Stati Uniti in quattro su cinque sarebbero videogiocatrici, con una crescita del 60% nella fascia tra i 35 e i 54 anni. Registrano una forte crescita le piattaforme dedicate: Nintendo Switch raggiunge una base di 70 milioni di unità; la nuova Sony Playstation 5 va sold out in due settimane. Animal Crossing di Nintendo (un gioco in cui i giocatori arredano e personalizzano la propria abitazione sulla propria isoletta, invitando amici a visitarla e condividendo immagini e video) ha avuto successo presso un pubblico molto ampio grazie alle sue funzioni social. È cresciuto il free-to-play, modello di monetizzazione sostenuto dalle pubblicità su smartphone e tablet, indicati come il medium ludico del futuro (Oxford Business Group 2020). Nel frattempo, muovono i primi passi i servizi cloud di Google Stadia e Amazon Luna, che funzionano in streaming, un po’ come Netflix, svincolando gli utenti dall’acquisto di device specifici. Se il consumo sale, la produzione si adatta con relativa malleabilità al distanced working rispetto ad altre industrie (seppure non senza intoppi – cfr. Schreirer 2021), specialmente sul mercato mobile, che richiede meno investimenti. Eppure, se conseguenze economiche sul lungo termine sono ancora da valutare, è chiaro che la crescita interessi perlopiù la big industry: a fatturare sembrano essere soprattutto Nintendo, non la piccola azienda italiana; Amazon e Netflix.
È anche una narrazione semplificata quella del presunto aumento ‘del tempo libero’ colmato dai videogiochi: per esempio, le fasce sociali impiegate nello smart working hanno visto il proprio tempo libero diminuire, invaso dallo straripare del lavoro (Green 2020).
Alcune narrazioni trionfali vanno dunque problematizzate: l’idea del gioco come ‘filler’ del ‘tempo sprecato’; l’idea della crescita economica come benessere generalizzato secondo il mito trickle down liberista; e infine la visione del gioco come attività interamente delocalizzata: non solo i piccoli sviluppatori, ma anche pratiche come quelle degli eSport, che possono avere luogo in arene e stadi, hanno in alcuni casi risentito della pandemia.
La pandemia ha messo in evidenza l’esigenza di inquadrare il gioco digitale in un quadro più ampio di interscambi tra forme e pratiche mediali continue, come i social network. Alcuni modi in cui i giochi hanno avuto un ruolo nella pandemia dimostrano come il loro ruolo sia difficile da scindere da una considerazione di una ecologia mediale ben più ampia. I giocatori hanno usato giochi come Animal Crossing e Minecraft (quest’ultimo è un sandbox, una specie di Lego digitale, in cui i giocatori possono costruire e personalizzare oggetti, edifici e vasti ambienti digitali) per festeggiare ricorrenze, festività e matrimoni, promuovere eventi e concerti, visitare mostre fotografiche e installazioni d’arte. Musei come l’Ashmolean hanno utilizzato questi ambienti social per consentire alle giocatrici di utilizzare dipinti e opere d’arte in esposizioni digitali. Il Monterey Bay Aquarium ha sfruttato le funzioni di Animal Crossing per dei progetti educativi. I contenuti prodotti e rielaborati dai giocatori sono poi stati condivisi e commentati sui social network, secondo il modello economico del prosumerism. I giochi sono stati utilizzati persino per forme di attivismo politico. Prodotti come Animal Crossing, Fortnite e Minecraft, ciascuno nelle sue specificità, rappresentano esempi di ambienti e piattaforme di socializzazione integrate con le economie dei social network, e in crescente misura anche in competizione commerciale.
Un’ipotesi diffusa è che la pandemia abbia facilitato la normalizzazione di un medium ancora soggetto a pregiudizi culturali o persino psicologici e sanitari.
Nel 2018, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva introdotto nella lista delle patologie mentali la dipendenza dai giochi digitali. Nel 2020, ha varato l’iniziativa #PlayApartTogether, che ha promosso i videogiochi a strumenti di socializzazione. In realtà le narrazioni sono rimaste polarizzate e contraddittorie, andando dai timori per la ‘epidemia di dipendenza da giochi’ alle speranze nei loro effetti benefici e antistress. Si torna dunque a inquadrare i giochi secondo visioni spesso semplificate delle teorie degli effetti, tanto da una prospettiva specifica sul medium che in linea con quelle sulla sovraesposizione tecnologica e le forme di dipendenza da ‘nuovi’ media e social network.
La tendenza (sin da Bandura) è spesso quella di isolare i partecipanti in situazioni socialmente artificiali e processi comportamentistici (che riducono gli utenti ai recipienti passivi di messaggi ‘ipodermici’). Oggi, questo discorso è parte di un più ampio insieme di preoccupazioni sui nessi tra dipendenza tecnologici e fenomeni depressivi – come discute uno studio sugli adolescenti italiani (Servidio, Bartolo, Palermiti, Costabile 2021). A questo paradigma si oppongono obiezioni di carattere metodologico e contestuale (Landsford 2012), o la semplice constatazione che i consumatori non sono passivi e privi di agentività, e che il gioco digitale è stato (come tutte le altre arti) occasione per socializzare, combattere la solitudine e la noia. Non c’era bisogno della pandemia per riconoscere che un gioco possa prefigurarsi come esperienza estetica; offrirsi come mezzo di elaborazione emotiva e di esplorazione delle identità; trasportarci in mondi possibili; mettere in gioco eventi storici e analisi sociali.
La pandemia ci pone dunque di fronte a vecchie polarizzazioni tra pregiudizi e forme di essenzialismo positivo del medium. I discorsi sviluppati intorno alle ecologie del gioco durante la pandemia (dai blockbuster milionari simil-cinematografici ai giochi per gli smartphone) amplificano l’esigenza di inquadrarle nelle logiche di mercato e dei processi sociali, politici e ideologici in cui queste si dispiegano, all’interno di cornici interpretative lontane da pregiudizi negativi o positivi (Carbone, Ruffino 2012). Se è difficile predire esattamente i futuri effetti sui mercati o sulla percezione sociale del medium, appare sempre più anacronistica l’idea di una marginalità o irrilevanza di quest’ultimo per ogni ambito di studio della società e dello spettacolo. Innestato profondamente nelle ecologie dei media e delle arti, il gioco digitale raccoglie un insieme di esperienze – a volte di grande spessore estetico ed emotivo, o dalla preziosa funzione di intrattenimento e svago – che è già parte integrante della vita quotidiana di milioni di persone. Queste forme e pratiche sono destinate a diventare ancora più accessibili e banalmente pervasive per via della diffusione di smartphone e servizi streaming e cloud. La pandemia ci riporta dunque alla necessità di guardare al gioco come un elemento imprescindibile per qualsiasi discorso sulle arti oggi, sul loro valore ricreativo e politico, sulle loro economie e forme di produzione, sulle diseguaglianze economiche e sociali su cui si innesta e che riproduce, sul rapporto tra industrie culturali e società e – non da ultimo – sulla funzione delle specialiste e dei ricercatori chiamati a esaminarlo e dibatterlo.
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