«Il bello delle crisi è che fanno pensare» diceva Joseph Schumpeter: una frase molto intelligente e provocatoria ma, forse, troppo ottimistica. Spesso, infatti, alle crisi si reagisce in modo opposto: si nasconde (per ricorrere a un’immagine molto usata ma efficace) la testa sotto la sabbia, aspettando che la tempesta passi e sperando che il mondo, dopo, torni esattamente com’era prima; o ci si affida rimedi affrettati per superare il momento. A volte si fanno l’una e l’altra cosa insieme, ci si rifugia in pratiche provvisorie e che si riconoscono scarsamente efficaci, in attesa di tornare il più presto possibile alla tradizione. In questo modo si commettono due errori insieme.

Il primo è non tenere conto del fatto che ripristinare realmente gli usi, le pratiche, le consuetudini precedenti può essere semplicemente impossibile: e questo è tanto più vero quando si tratta di una crisi, come l’attuale, che non è momentanea ma dura anni, e che toccando in profondità le relazioni tra le persone, la loro coesistenza e le comunicazioni che si scambiano, impone inevitabilmente nuovi costumi e nuovi modi di agire a individui, gruppi, istituzioni. Esseri umani e società sono per definizione (e per fortuna) adattabili e adattivi: quando sono costretti a vivere in condizioni nuove assumono comportamenti diversi dal passato, che con il tempo si radicano.

Il secondo errore è non cogliere l’occasione per ripensare criticamente un mondo fatto di norme e abitudini, quindi anche di regole non scritte, che ci era apparso fino a quel momento “naturale” e scontato. L’osservazione di Schumpeter sottolinea proprio questo: le crisi fanno, o meglio dovrebbero fare, pensare perché interrompono la presunta normalità, perché possono stimolare per “ricominciare a vivere” uno sforzo anche progettuale. Purtroppo però spesso i grandi intellettuali come l’economista austriaco sopravvalutano la capacità di pensare dei propri simili, e soprattutto la loro disponibilità a farlo.

La didattica, scolastica e universitaria, è un caso particolarmente significativo, per quello che è stato fatto e insieme per il tanto che non è stato fatto: è stata ed è (non solo nel nostro Paese) un esempio, sia dell’uso di rimedi frettolosi e mal congegnati, sia delle pressioni eccessive per tornare al più presto al “tutto come prima”; sia dell’occasione che si sta perdendo per rimettere in discussione regole e abitudini che pure avrebbero fortemente bisogno di un ripensamento, sia dell’illusione che si possa ripristinare lo status quo ante senza tenere conto delle esperienze che docenti, strutture scolastiche, intere generazioni di studenti hanno comunque vissuto. Il che è tanto più grave perché pochi aspetti del vivere avrebbero bisogno di riflessione e di ripensamento come la formazione.

La scuola e l’università sono il più grande investimento che una società fa sul suo futuro. Il più grande per risorse impiegate, per personale coinvolto, per presenza sul territorio, e anche per il tempo che l’educazione occupa nella vita delle persone, da un minimo di otto anni per chi si ferma alla scuola dell’obbligo a una ventina d’anni per chi segue un percorso formativo completo. Senza dimenticare quella formazione successiva, l’“educazione permanente”, che in verità è più un’espressione spesso ripetuta che un’azione concreta. D’altra parte se c’è un campo dove troppo si trascina da tempo senza ripensamenti è proprio questo. Per fermarci alla sola didattica universitaria, i modelli di insegnamento e di valutazione, la lezione e l’interrogazione o il “compito”, sono gli stessi da secoli, e se la lezione può apparire invecchiata, l’esame tradizionale lo è se possibile ancora di più.

Nei mesi della crisi si è assistito in molti Paesi a una continua oscillazione, tra una “didattica a distanza” che cerca di simulare (per mezzo di piattaforme di partecipazione collettiva come Zoom, Microsoft Teams o altre) le situazioni della tradizionale didattica in presenza, e la fretta di tornare alle forme d’insegnamento classiche, perché quella sarebbe la sola vera scuola, la sola vera università. Gli studenti, le famiglie, le istituzioni scolastiche sono stati così sottoposti a un fuoco di fila di messaggi contraddittori: invitati ad affidarsi a strumenti didattici che le stesse autorità sconfessavano, definendoli inefficaci se non proprio inutili; spinti a restaurare al più presto una “normalità” che poi si doveva comunque inevitabilmente ritardare. Ma è proprio vero che la didattica a distanza è inutile? E siamo sicuri che questa crisi non possa insegnare qualcosa di utile anche per dopo? Al primo interrogativo si dovrebbe rispondere con un’altra domanda: quale didattica a distanza? Davvero la sola possibilità sta nel ricreare le classi tradizionali facendo finta di essere in presenza?

È stato osservato che se uno guarda le più antiche automobili, nota che hanno la forma di carrozze a cui sono stati tolti i cavalli per mettere al loro posto il motore. L’avvento di una nuova tecnologia non corrispondeva, o almeno non subito, a un adattamento complessivo della mentalità: era nuovo il motore a scoppio, era vecchio il modo di pensarlo. Successivamente sarebbero nate le vere automobili, strutturate diversamente da una carrozza non solo nella forma ma anche nelle modalità d’uso: frutto non solo dello sviluppo tecnologico ma anche e soprattutto del formarsi di una diversa mentalità. Le tecnologie di didattica (e spesso di lavoro) on-line che hanno largamente prevalso nella crisi sanitaria sono l’equivalente di quelle carrozze senza cavalli: strumenti nuovi per continuare come prima. In questo caso però un uso così povero dell’informatica e della rete non è per niente giustificabile, perché la didattica a distanza non è nata ora, viene sperimentata, e con successo, da diversi decenni. Del resto c’è qualcosa di sorprendente nelle diffuse dichiarazioni sull’inferiorità della didattica a distanza in quanto tale in un Paese nel quale esiste un numero smisurato di università telematiche che rilasciano titoli in tutto equipollenti a quelli delle altre università.

Il fatto è che le forme di insegnamento sostitutivo e simulato adottate hanno avuto la funzione più di dimostrare che la scuola andava avanti come prima che non di sfruttare al meglio le tecnologie a disposizione. E proprio la fretta di provare che tutto continua uguale smente se stessa, perché è evidente che una simile didattica non può totalmente sostituire quella in presenza: non tanto per la mancanza della fin troppo mitizzata interazione tra gli studenti, quanto perché è tutto il quadro delle relazioni a essere diverso. Pretendere di sostituire puramente e semplicemente una classe reale con una classe Zoom dà risultati deludenti perché la simulazione si svela ben presto come una maschera, oltre alla fatica che quel tipo di insegnamento comporta, per il docente come per gli allievi. Pochissimo è stato fatto invece per rafforzare la didattica on-line quella vera, che ha (o meglio può avere, perché tanto c’è ancora da sperimentare) propri linguaggi, proprie tecniche di verifica e valutazione; che può essere per la didattica in presenza non una povera alternativa ma un potente e importante completamento. Questi mesi di scuola e università oscillanti tra il cercare di tornare il prima possibile “in classe” (salvo il farlo a singhiozzo, per l’andamento imprevedibile del morbo) e un uso inadeguato delle tecnologie rischiano di essere un’occasione sprecata. A meno di investire seriamente, istituzioni e persone, in una didattica che non sarà comunque la stessa di prima, e che può trovare nell’informatica e nella rete non un povero sostituto ma uno degli strumenti per un rinnovamento non più rinviabile. Un banco di prova per una didattica che ha più che mai bisogno di essere ripensata.

Immagine: Uno studente durante una lezione di letteratura dopo la chiusura della scuola a causa di Covid-19 a Milano (marzo 2020). Crediti: MikeDotta / Shutterstock.com

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

Argomenti

#Università#scuola#didattica a distanza