Il rock ha espresso a lungo la rabbia giovanile e ha risposto ad altre funzioni che sono andate al di là di ogni singolo contributo: ha fuso, insieme ad altri generi musicali, anche il bianco e il nero della pelle, ha mescolato classi sociali, ha contrapposto generazioni, ha fornito colonne sonore a movimenti di protesta per decenni. Certo, anche molti di quei gruppi rock nati per raccontare e per cantare il proprio punto di vista critico, hanno poi fatto il loro ingresso trionfale nel grande business delle major discografiche. Per qualche anno, il punk, nato per criticare le derive del rock come star-system, si fece avanti come alternativa. Ma non c'erano solo i giovani ribelli e protestatari ad affollare i concerti, a rimbalzare e a sballottarsi nelle grandi arene. Una parte della gioventù appariva sensibile ai problemi più urgenti e drammatici di comunità lontane: il rock, come il pop, e poi, progressivamente anche altri generi, che nel frattempo si erano imposti come filoni importanti della musica giovanile, dal funky all'hip hop, si prestarono via via a sostenere le battaglie contro la fame in Africa, contro l'apartheid, per la ricerca scientifica per sconfiggere l'Aids, per i diritti civili, contro il debito dei Paesi più poveri. Nel 1985 una canzoncina cantata dai più noti cantanti di lingua inglese, “We are the world”, scritta da Michael Jackson e da Lionel Richie e prodotta da Quincy Jones (http://www.youtube.com/watch?v=k2W4-0qUdHY), servì a finanziare una campagna contro la fame in Africa. Nello stesso anno lo stadio di Wembley a Londra fu la centrale di un concerto tenuto in contemporanea anche a New York, a Mosca e a Sidney per raccogliere fondi contro la carestia in Etiopia. Vennero raccolti 150 milioni di sterline, uno sterminato pubblico visibile negli stadi e un esercito di spettatori invisibile ma piantato davanti ai televisori di cento Paesi. Gli organizzatori, Bob Geldof e Midge Ure, avevano già inciso a scopo benefico “Do they know it's Christmas?”, poi cantata dai partecipanti al concerto di Londra http://www.youtube.com/watch?v=stNGHiscETo. Reunion storiche, come quella di Crosby, Stills, Nash & Young, nuovi pezzi o reinterpretazioni proposte in video, come “Dancing in the street” con David Bowie e Mick Jagger per la prima volta insieme (http://www.youtube.com/watch?v=9G4jnaznUoQ), diedero all'evento un significato particolare anche in senso musicale, senza dover citare la partecipazione degli U2 e i trascinanti pezzi proposti dai Queen, da “Radio Ga-ga” a “We will rock you” (la prima in http://www.youtube.com/watch?v=lDckgX3oU_w; per la seconda http://www.youtube.com/watch?v=E5d9fP6ASGo). 
“Biko” di Peter Gabriel (http://www.youtube.com/watch?v=iLg-8Jxi5aE) rappresentò un inno contro l'Apartheid. Nella sua avventura solitaria, peraltro non priva di spunti interessanti, il chitarrista della E Street Band di Bruce Springsteen, Little Steven, dopo aver fondato un gruppo di “Artisti uniti contro l'Apartheid”, compose il significativo brano “Sun City”   (http://www.youtube.com/watch?v=aopKk56jM-I), un trascinante inno contro gli spettacoli nella Las Vegas sudafricana e una denuncia contro il regime razzista.
Si potrebbero citare numerosi altri momenti collettivi o altri pezzi che hanno accompagnato cause e proteste. Insomma, il rock, inteso nella sua accezione più larga, ha accompagnato per decenni cause e proteste. Ora sembra scomparso dalle piazze che pure continuano ad affollarsi di indignati e di occupanti (di Wall Street come di altri luoghi simbolo della crisi finanziaria).
Gino Castaldo, uno dei critici musicali più acuti, e comunque il mio preferito, ha lanciato qualche mese fa il sasso nello stagno: “Questa volta è finita davvero”, scriveva su “Repubblica.it” del 6 gennaio di quest'anno. Il rock latitava, sia nelle classifiche che nelle piazze, sostituito da un pop incapace di esprimere qualcosa di più di un intrattenimento, di un divertimento. Naturalmente la scintilla accesa da Castaldo ha trovato anche oppositori alla sua osservazione. Forse si potrà ancora affermare “Long live rock” o cantare “Rock'n'roll will never die” di Neil Young, ma sul fatto che esso non sia più un riferimento della cultura giovanile di oggi, appare un'indiscutibile realtà.
Al di là del successo commerciale, dello stato di salute del rock deciso dalle vendite di cd, e tenendo pur presente che alcuni gruppi, come i Coldplay o alcuni artisti come Springsteen reggano la scena, è pur vero che nelle dimostrazioni degli indignati europei e degli “Occupy” statunitensi non c'è un inno né qualche canzone simbolo che pure ha sempre caratterizzato i movimenti giovanili. Tra l'altro, lo stesso Springsteen, nel suo ultimo “Wrecking ball” (http://www.youtube.com/watch?v=lqASHIMbkcg per il pezzo singolo), non appare decollato per un altro mondo. Come al solito è dentro la vita, il dolore e i sentimenti dell'età che vive e non mancano certo riferimenti alle difficoltà sociali di questo periodo.
Nella rete si trovano buffi rifacimenti di canzoni già note, con testi a volte decisamente esilaranti e fortemente critici nei confronti dei responsabili della crisi che, dal 2007, attanaglia mezzo pianeta e impedisce ai giovani di avere prospettive migliori dei loro padri. Tuttavia, anche prendendo come esempio Williambanzai, un blogger di “Occupy”, il rifacimento ironico, e relativo alla crisi finanziaria, di pezzi noti non dà nuova musica. Così come in Italia, un divertente Sas Brunori, con “Come stai?” (https://dl.dropbox.com/u/15465557/BRUNORI%20SAS%20Come%20Stai%20Videoclip%20ufficiale.mp4), non può evitare di parlare di mutui e di Euribor. Non sono colonne sonore.
Ma può esistere ancora una colonna sonora di un movimento? C'è ancora un ascolto di musica o la musica, grazie anche al prevalente uso dell'Ipod, alla mescolanza da frullatore di pezzi singoli è solo un sottofondo che ci accompagna e che rende poco importante l'autore di una canzone, che pure magari è capace di farci cambiare umore? Siamo tornati, mi pare, a un'era pre-45 giri. Nella maggioranza dei casi un buon pezzo si presta per trovarselo in uno spot pubblicitario per qualche decina di secondi, nei primi squilli di un cellulare o in un rapido scambio da qualche programma di download. Se c'è ancora qualche ostacolo alla musica come solo sottofondo, evidenziato dal ritorno dei vinili negli scaffali di molti negozi di dischi e dall'afflusso ai concerti, ascoltare un intero cd non è più una attività così diffusa.
E se non si conosce un lavoro compiuto di un artista è difficile sceglierne un frammento che diventi un pezzo-simbolo. La scomposizione dell'ascolto e il suo soffuso accompagnarci fa da contraltare a uno dei verbi più diffusi nel linguaggio digitale: condividere. Sembra quasi grottesco che si condivida tanta musica singolarmente e non si abbia un pezzo da socializzare nelle piazze d'Europa e degli Stati Uniti.

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