Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un forte sisma devastò la valle del Belice, una zona molto depressa della Sicilia occidentale, causando ingentissimi danni a Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa, Montevago, Partanna, Poggioreale e Santa Margherita Belice, località comprese tra le province di Trapani e Agrigento, e provocando 90.000 sfollati e tra le 300 e le 400 vittime, che sarebbero potute essere molte di più se una scossa premonitrice avvertita nel pomeriggio non avesse indotto molti abitanti a dormire quella notte all’aperto. Il 25 gennaio una nuova, inattesa e potente scossa causò crolli anche a Palermo e Sciacca e ancora altre vittime.

Poco si sapeva allora della valle del Belice, e ciò che colpì innanzitutto l’opinione pubblica fu l’estrema arretratezza di quella parte di Mezzogiorno: un’area ancora dominata dal latifondo, priva quasi del tutto di infrastrutture e in cui già alto era stato il prezzo demografico – che il terremoto avrebbe tragicamente accresciuto – pagato all’emigrazione. L’opinione condivisa fu che le maggiori responsabilità non andassero attribuite al cataclisma, ma alla negligenza della politica, che lasciava morire le persone sotto macerie di povero tufo. Inoltre, si manifestò subito la consapevolezza che non ci si potesse limitare soltanto alla riedificazione dell’esistente, ma che fosse necessario un piano di trasformazione economica e sociale dell’intera area: cosa per cui in realtà le popolazioni locali, benché ritratte forse paternalisticamente come silenziose e rassegnate da buona parte della stampa, si battevano da diversi anni, organizzate in comitati di cittadini che si erano concentrati soprattutto sul progetto di costruzione di una diga sul Belice, anche sollecitate e indirizzate dall’attivista e sociologo Danilo Dolci.

Al principio vi fu una tale apparente concordanza d’intenti da creare l’illusione, nonostante le enormi ed evidenti difficoltà, di una rapida ricostruzione e un pieno sviluppo economico di tutto il territorio. Invece, a partire dai conflitti di competenza tra Regione autonoma siciliana e governo centrale emersi già nel gennaio-febbraio, una serie di cause concomitanti rese quella del Belice una delle più disfunzionali e sofferte ricostruzioni a cui l’Italia abbia mai assistito, segnata da interessi contrastanti, mancanza di coordinamento e di inclusione della cittadinanza, nonché da drammatici episodi di mafia, tra cui nel 1979 l’omicidio del giornalista Mario Francese, che aveva denunciato il coinvolgimento del clan dei Corleonesi nell’edificazione della diga: il Belice divenne il simbolo di tutte le più evidenti contraddizioni del Paese e del Sud, dell’impotenza della popolazione, dello spreco di risorse, del fallimento della Cassa del Mezzogiorno e anche del velleitarismo e dell’utopismo di un certo tipo di politica. Nel 1976, secondo i dati riportati da un’inchiesta della Commissione dei lavori pubblici della Camera, 47.000 persone vivevano ancora in condizioni intollerabili nelle baraccopoli, e fu solo nel 2006 che vennero smantellate definitivamente le ultime baracche, ormai abitate da figli e nipoti dei terremotati, che le avevano ereditate, vendute, affittate come fossero abitazioni qualsiasi. La ricostruzione fu inoltre tanto lenta quanto costosa: secondo uno studio del 2014, il costo complessivo in valore attualizzato è stato di oltre 9 miliardi di euro.

Oggi la valle del Belice è un territorio completamente trasformato, in cui non si possono più cogliere quei segni di ‘arcaicità’ che avevano scosso l’opinione pubblica nel 1968. La diga Francese, la più importante delle opere pubbliche realizzate, rifornisce di sufficiente acqua tutta la zona, e vigne e oliveti hanno sostituito le antiche colture di cereali; moderni paesi sono sorti in luogo di quelli distrutti e in altri luoghi; nuove strade, tra cui l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, innervano l’area. Tuttavia le tracce del terremoto sono tuttora presenti: a Montevago, Salaparuta e Poggioreale, i tre paesi ricostruiti altrove, località fantasma i cui ruderi ricordano ancora la vita come era fino al 1968. E sono rimasti i simboli della travagliata storia della ricostruzione, tra progetti architettonici e artistici grandiosi ispirati a un’idea di riscatto e il degrado totale: nel Cretto di Alberto Burri, in particolare, l’enorme e splendida opera di land art che ricopre la vecchia Gibellina, costruito tra il 1984 e il 1989, quindi abbandonato tra polemiche feroci, e finalmente completato nel 2015. Ma manifesta è anche l’intenzione da parte dei cittadini e delle amministrazioni di riappropriarsi di una storia che li ha visti per certi versi spettatori privi di voce in capitolo: a Santa Margherita, per esempio, ricostruita solo in parte fuori dal sito originario, i cui antichi edifici, come il Palazzo Filangeri-Cutò, sono stati per quanto possibile progressivamente recuperati, le vecchie costruzioni danneggiate si alternano alle nuove, e dove al terremoto è stato dedicato un museo della memoria, con l’intento di non disperdere il significato di quella drammatica esperienza.

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