Avrebbe dovuto intervenire il 31 marzo a Venezia, al festival Incontri di Civiltà, per presentare il suo ultimo romanzo, Sogni di pietra, tradotto da Guerini e Associati. E invece lo scrittore azero Akram Aylisli, candidato al Nobel per la pace, non ha potuto esserci. Trattenuto per oltre 10 ore dalla polizia all’aeroporto di Baku, gli è stato impedito di partire insieme al figlio alla volta dell’Italia. Non solo, all’anziano scrittore, 79 anni, è stata mossa un’accusa di “teppismo”. Avrebbe colpito, secondo la versione delle autorità, una guardia di frontiera così forte da produrre un ematoma. Lo scrittore ha definito l’accusa assurda e pretestuosa.

Non è la prima volta che l’autore finisce nell’occhio del ciclone nel suo paese, l’Azerbaigian. Il suo impegno per la pace nella martoriata regione del Caucaso - e in particolare il romanzo da poco tradotto in italiano - sono stati al centro, nel 2013, di una campagna di odio senza precedenti. Il tutto, per aver osato raccontare la prospettiva dell’altra parte, del “nemico”, nel conflitto che vede opporsi Armenia e Azerbaigian sin dai primi anni novanta. Un conflitto a lungo dimenticato dai media, che è tornato alla ribalta negli ultimi giorni, con un’escalation che ha fatto più di cento morti. Ora più che mai, l’opera dello scrittore rappresenta un segno di di pace e di speranza indispensabile per la regione.

«È dai tempi di Solženicyn e Sacharov che non si assisteva ad una simile vicenda», ha commentato l’editore Guerini e Associati. «Stupore e rammarico» è stato espresso anche da Michele Bugliesi, rettore dell’università Ca’ Foscari, che ha ospitato il festival a cui Aylisli avrebbe dovuto partecipare. Ventuno degli scrittori partecipanti al festival, fra cui Paco Ignacio Taibo II, Alexandar Hemon e A Yi, hanno firmato una lettera a suo sostegno.

Da parte sua, lo scrittore – per quanto provato dall’accaduto – non ha esitato a far sentire subito la sua voce. Lo ha fatto con una lettera toccante, inviata agli organizzatori del festival e letta pubblicamente dal prof. Aldo Ferrari, accanto a una sedia lasciata vuota. Un messaggio di pace che arriva dritto al cuore, scritto da un uomo che non ha mai smesso di amare il suo paese – anche nei frangenti più tragici della sua vita – senza rinunciare a interrogarsi sulle ragioni dell’altro. Ecco un passaggio del testo:

«Mi sembra che con questa mia piccola opera, pubblicata adesso anche in lingua italiana, io sia riuscito a raggiungere il mio scopo principale: salvare molti armeni dall’odio verso il mio popolo. Ho compreso che in questo conflitto sanguinoso non siamo colpevoli noi né gli armeni; i popoli non si farebbero mai la guerra se la politica non si intromettesse nella loro vita. Mi sono convinto ancora una volta che i nostri popoli sono buoni presi in sé, ma insieme sono semplicemente stupendi. Ho sempre saputo che dall’invisibile al visibile si può giungere solo attraverso la sofferenza. Adesso io ho percorso questo cammino con i miei passi, cercando di non inciampare, di non cadere. Evidentemente la mia anima doveva essere nuovamente tormentata per prendere coscienza e comprendere se stessa tra una moltitudine di persone inclini a vendersi rapidamente e a tradire stagionalmente».