Era il 17 marzo 1971, un ragazzo che non aveva compiuto 14 anni assisteva per la prima volta a un concerto dal vivo. Al Palasport si esibivano i Ten Years After. Aveva ascoltato religiosamente i loro vinili, aveva ripassato mentalmente quella “I'm going home” che aveva decretato il destino da “guitar hero” al chitarrista del gruppo: Alvin Lee. Quando venne il momento di quel pezzo, gli cadde la mascella. Non era certo una reazione singolare; anzi era con ogni probabilità simile a quella che molti avevano avuto assistendo dal vivo alla trascinante performance di Woodstock o vedendola ripresa, da tutti gli angoli possibili, nel film che documentava, insieme alla kermesse di tre giorni di musica, la pietra miliare di una generazione. Alvin Lee era andato via dal palco con un cocomero in spalla.
Aveva fondato il gruppo nel 1967, anche se i quattro componenti (insieme a lui erano Leo Lyons al basso, Chick Churchill alle tastiere e Ric Lee alla batteria) avevano iniziato a suonare qualche anno prima come Jaybirds. Blues con venature jazz, ma anche sfrenato rock'n'roll e un più misurato rock/blues, fino a un rock psichedelico: i Ten Years After potevano dire la loro in un panorama già molto ricco di talenti e di novità. Essersi misurati con il jazz e il blues faceva dei quattro un gruppo solido, il loro chitarrista spiccava per duttilità e rapidità, la loro produzione era particolarmente fertile.
In quel periodo d'oro, tra il 1967 e il 1973, i Ten Years After incisero pezzi molto diversi tra loro: il loro “Undead”, un live in cui presentavano pezzi inediti e brani tratti dalla tradizione blues e jazz, oltre a far risaltare il virtuosismo di Alvin Lee, rappresentò chiaramente la capacità di spaziare dal blues classico di “Spider in my web” alla prima versione di “I'm going home”. Ancora in “Stonedhenge”, album in studio successivo, spiccavano pezzi in cui si mescolavano jazz, con una presenza spiccata delle tastiere di Chick Churchill (“Going to try” e “I can't live without Lydia”) e blues in cui la struttura dei motivi era soprattutto affidata alla chitarra (“Woman trouble”). Era anche il primo lavoro in cui Alvin Lee metteva al servizio del gruppo una certa capacità vocale: in “Skoobly-Oobly Doobob” voce e motivo solista della chitarra si confondevano in modo impressionante, mentre la tecnica strumentale era al servizio di “Hear me calling” (Una versione recente del pezzo eseguito da Alvin Lee con i Nine Below Zero; una versione degli altri tre componenti con Joe Gooch alla chitarra). Decisamente più rock, anche se ancora con forte matrice blues, fu il lavoro successivo: “Ssssh”, venuto dopo Woodstock e che avrebbe segnato il sound dei Ten Years After con pezzi come “Good morning little schoolgirl” (un rifacimento dalle fondamenta del pezzo di Sonny Boy Williamson) e “I woke up this morning”). In “Cricklewood Green”, edito nello stesso anno, il 1970, spiccava quella che sarebbe divenuta quasi la loro sigla: “Love like a man” (per la versione dal vivo al Fillmore East, risalente al 1970, ma solo audio (e foto): http://www.youtube.com/watch?v=3qIQE-hYAok, per una versione aggiornata ed eseguita da Alvin Lee con altri musicisti: http://www.youtube.com/watch?v=m6W9WKuMj5c), un pezzo orecchiabile di base con un riff facile e una costruzione che, nel corso dell'esecuzione, diveniva più complessa. Un timbro sempre più rock caratterizzava quel lavoro (“Sugar the road” o la “crescente” “50.000 miles beneath my brain”), pur non tralasciando pezzi decisamente blues come “Me and my Baby” e le prime apparizioni di una insolita chitarra acustica (“Circles”). Apertura mozzafiato per il successivo “Watt”, sempre del 1970, con una “I'm coming on" (solo audio) in cui oltre alla chitarra di Alvin Lee, spiccava l'ottimo basso di Leo Lyons. Nel disco, i TYA proponevano anche una reinterpretazione di “Sweet little sixteen” di Chuck Berry, eseguita al raduno dell'Isola di Wight proprio in quell'anno. Sia dalla copertina che da alcuni arrangiamenti si intuiva un'iniziale vena psichedelica, proseguita nel disco successivo, “A space in time” (1971). Pezzo guida di quell'album era “I'd love to change the world”: originale era l'idea di assegnare il compito di guida del pezzo alla chitarra acustica sovrincidendo la chitarra elettrica per il “commento” solista: (http://www.youtube.com/watch?v=elTfiw74Qm8 audio e foto significative dei movimenti pacifisti per un testo che era una chiara presa di posizione contro la guerra in Vietnam). Il lavoro dei quattro si chiudeva di fatto con un album minore “Rock & Roll music to the world” (1972), anche se sarebbe uscito un ultimo cd registrato, “Positive vibrations” (1974) quando già il gruppo era stato sciolto.
La carriera di Alvin Lee sarebbe proseguita collaborando con ottimi musicisti. La reunion del gruppo, nel 1989, produsse un album così così (“About Time”), ma dal vivo la grinta non era venuta meno (per un intero concerto del 1991: http://www.youtube.com/watch?v=mid4L6WU-ro). Si ripresero poi strade diverse: mentre i tre, insieme al più giovane Joe Gooch, si sono attardati riproponendo i pezzi già conosciuti del gruppo, Alvin Lee ha continuato a produrre lavori nuovi (nel 2007 editò un ottimo cd, “Saguitar”), oltre che rivisitare, talvolta, pezzi “classici”: si veda una sua reinterpretazione di “Hey Joe”, in cui la capacità di cambiare improvvisamente marcia, ne fa una delle versioni migliori. È rimasto in attività fino allo scorso anno, quando è uscito il suo ultimo “Still on the road to freedom”. Se ne è andato all'inizio di marzo.
Con qualche anno in più, quel ragazzino di neanche 14 anni sente il dovere di ricordarlo, grato per avergli spalancato le porte a un mondo nuovo.