Giacomo Leopardi, un classico. Oggi protagonista, con il volto di Elio Germano, del film di Mario Martone Il giovane favoloso, presentato con successo di critica e di pubblico al Festival di Venezia e dal 16 ottobre proiettato nelle sale cinematografiche di tutt'Italia. Protagonista ed esempio di geniale ricchezza di lingua in un recente saggio di Giuseppe Antonelli, nel quale è citato esplicitamente a partire dal titolo
( Comunque anche Leopardi diceva le parolacce ) e dal ritratto in copertina. Alberto Asor Rosa ha ricordato che il classico – quando nasce - erompe irto di aculei che perforano la crosta dell'abituale: è uno specialista del caos originario, agisce divellendo le radici della pianta culturale, ideologica e formale in cui pure s'innesta. In superficie, continua; in profondità, interrompe. Destruttura i materiali della tradizione e li ricompone in altro modo. Giacomo Leopardi è questo. Riletto con occhi moderni, Leopardi può essere oggi beneficamente recuperato nella sua idiotipica, radicale, “pasoliniana” libertà intellettuale e nel desiderio di rottura delle gabbie istituzionali ed esistenziali: il Leopardi di Martone, mentre mormora dallo schermo le liriche “immortali” covate in petto («e lunga doglia il sen mi ricercava...»), diventa fratello “mortale”, cioè concreto, di tutti i giovani d'oggi, favolosi nella loro libera ansia creatrice. Anche il Leopardi di Giuseppe Antonelli è un fratello maggiore dei nostri millennial, ragazze e ragazzi del nuovo millennio. Intanto, egli è già “nostro” in effigie: la copertina del libro riprende un noto, “classico” ritratto e lo rielabora à la Roy Lichtestein, trasformandolo in un'icona pop. Il passaggio attraverso la porta ampia della simbologia di massa permette ad Antonelli di aprire la sua colta, agile, godibile conversazione sulla lingua italiana d'oggi, con un autobiografico “ritratto del linguista da giovane”, un sé stesso liceale pieno di buoni scolastici studi che, imbattutosi in un articolo di giornale intitolato Quel bilioso ranocchietto, scopre, esterrefatto, un altro Leopardi: un Giacomo ventiquattrenne che, nelle lettere ad amici e familiari, usa parolacce (coglione, coglionesco), si esprime senza peli sulla lingua («queste bestie femminine […] non la danno»), si scioglie disperato («Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita»). Per il giovane Antonelli studente si tratta di una rivelazione di tale potenza da indurre il suo doppio attuale, il linguista, a consegnare a sua volta ai giovani d'oggi – in una sorta di staffetta temporale – un Leopardi anti-scolastico, un favoloso giovane artista vitale in tutte le sue dimensioni, anche espressive, dal verso alla parolaccia, e, viceversa, dall'emozione verbale alla rima meditata, con tutto ciò che, di esperienza e di pensiero, sta in mezzo. Questo Leopardi, per Antonelli, è lo stesso che, in un passo dello Zibaldone,citato a p. 15 del suo saggio, interpreta la lingua italiana come un organismo vivo, impossibile da imbalsamare in «norme e precetti considerati astrattamente eterni» (Antonelli) e si oppone a «Quelli [...] che essendo gelosissimi della purità e conservazione della lingua italiana, si scontorcono [...] ad ogni maniera di dire che non sia stampata sulla forma della grammatica universale» e pertanto «non sanno che cosa sia né la natura della lingua italiana che presumono di proteggere, né quella di tutte le lingue possibili». Forte di tali premesse, Antonelli prende a conversare con i lettori, spiegando «l'italiano come non ve l'hanno mai raccontato» – così recita il sottotitolo –, una lingua che, essendo come mai in passato patrimonio vivo della maggioranza dei parlanti, «gode di ottima salute». Per dimostrarlo, però, Antonelli deve combattere radicati pregiudizi puristici di massa e profezie di sventura sulle sorti dell'idioma nazionale, affrontando i fenomeni che destano maggiore preoccupazione. Per aiutare a comprendere che il congiuntivo non sta morendo, che le parole inglesi non scempieranno l'italiano, che l'espansione dell'italiano digitato via rete, tablet, phablet o smartphone (e-taliano, p. 152) non è in sé un fatto negativo, in ogni capitolo l'autore dà profondità storica ai fenomeni esaminati, invitando a ricordare sempre che «la lingua è in continua evoluzione. Quello che un tempo era corretto oggi può essere sbagliato. Ma anche il contrario» (p. 20). Non esistono corruzione e degenerazione: ogni assetto attuale e ogni mutamento retrostante hanno una loro motivazione, che l'autore puntualmente indaga. La ricostruzione, l'analisi e il giudizio riguardano il tramonto di egli, ella, eglino, elleno e la corrispettiva avanzata di lui, lei, loro, la fortuna alterna di esso, gli svarioni ma anche le problematiche oscillazioni nell'accentazione grafica e nell'uso dei segni interpuntivi, «il ticchettio dei tic che segna da secoli il tempo della nostra lingua» (p. 70) – ovvero l'esistenza di tormentoni (un attimino, quant'altro, nella misura in cui, geniale, assolutamente sì/no,ecc.) –, la «detabuizzazione del turpiloquio» (p. 110), la tenuta del congiuntivo (ove d'obbligo – ci rassicura l'autore – cede soltanto nella scrittura in rete), la monta dell'italglese (in buona parte destinata a sgonfiarsi), la nuova e diversa vita dei dialetti. E il futuro che Leopardi non poteva prevedere? La presunta barbarie dell'e-taliano per Antonelli non sta nel fuoco d'artificio di abbreviazioni, sigle, faccine, scritture espressive (note da secoli); mentre la considerazione positiva per cui mai come oggi si adopera quotidianamente per iscritto l'italiano è mitigata da una problematizzante riflessione sul valore di una scrittura frammentaria che, se gestita da scriventi colti, è una scelta di registro in più, una ciliegina sulla torta, «ma per tutti quelli che scrivono solamente in queste occasioni potrebbe finire col diventare l’unico modo di scrivere: l’unica scelta possibile, ghettizzante e socialmente deficitaria» (pp. 152-53). D'altro canto, un certo ottimismo non è fuori luogo, poiché lo sviluppo di un italiano scritto informale può essere di «stimolo alla crescita, alla diffusione e all’evoluzione della nostra lingua. Uno strumento per rendere l’italiano ancora più ricco, variegato, dinamico» (p. 154).