13 aprile 2022

Andrea Ravo Mattoni. La scossa dell’arte classica nella giungla urbana

 

La sua è una formazione che non passa dal glam-pop della Marilyn di Andy Warhol, ma dalla austera canonicità delle opere del Guercino, Giotto e Caravaggio. Andrea Ravo Mattoni porta con sé l’esperienza del nonno Giovanni Italo Mattoni – che nei primi del Novecento è stato illustratore delle figurine Lavazza e Liebig – e quella del padre Carlo, artista di arte comportamentale-concettuale. Nel racconto del suo percorso evolutivo le immagini si susseguono senza sosta, una dopo l’altra, rapide come rivoli di vernice. Destinato all’arte senza alcuna forzatura, ne assorbe gli stimoli e le influenze, familiarizzando già in tenera età con gli strumenti del mestiere. Affascinato dai luoghi dove si fanno le cose e da chi le sa fare, come ogni adolescente cresciuto negli anni Novanta, desideroso di rispondere a un’urgenza emotiva, a quattordici anni comincia a muoversi a ruota libera nei cunicoli dei graffiti. Il suo estro ancora selvaggio si appropria delle fiancate dei vagoni ferroviari in sosta presso il deposito della stazione di Varese:

«Nonostante avessi creato la mia crew e la mia tag (Ravo, ndr), non mi sono mai considerato uno street artist, ma un pittore. Ho iniziato con il lettering, è vero, ma col tempo ho svoltato verso il figurativo, introducendo nel circuito tecniche e soggetti abbastanza insoliti per l’epoca. Il web non esisteva ancora, e i mezzi a disposizione erano davvero limitati. La palette di colori, per esempio – che oggi raggiunge una cifra di duecento tinte –, ne comprendeva al massimo venti. Vi era oggettivamente qualche difficoltà, ma la realtà era molto più affascinante». 

Andrea Ravo Mattoni, La cattura di Cristo, di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, 1602, Varese 2016 (foto per gentile concessione dell’artista)

Molta acqua è passata sotto i ponti… Oggi, non a caso, gli interventi di arte urbana non generano più echi di protesta e indignazione. L’agire illegale, ironico e rabbioso, è soltanto un lontano ricordo 

Il graffiti-writing si è espresso fin dalle origini nell’assoluta illegalità, come risposta al disagio socio-culturale dei quartieri periferici. Dipingere su un treno o su un muro era per ogni crew un’enorme conquista. Non ti nascondo, però, che ho sempre preferito lavorare con il permesso in mano per potermi esprimere al meglio, con calma, senza il timore di dovermi guardare le spalle. Provengo da una realtà di provincia che ha avuto la fortuna di avvalersi della presenza di due gruppi rap molto importanti: i Sottotono e gli OTR. La loro influenza sul territorio ha favorito numerosi scambi e svariati incontri, proiettando la mia provincialità verso una visione decisamente più globale. 

 

Hai creato un’estetica diversa e insolita, in un tempo in cui le cifre stilistiche erano ben definite. Per farlo hai scelto di innestare il classico nella giungla urbana

Sì, è stato un passaggio graduale. Con l’inizio degli studi presso l’Accademia di Brera, nei primi anni Duemila, ho abbandonato parzialmente l’uso delle bombolette per dedicarmi all’olio, all’acrilico e alla videoarte. Non mi interessava portare il lettering sulla tela, preferivo lasciarlo in strada.  Ero fortemente ispirato dagli aspetti della nuova pittura rappresentati da Lucian Freud, Francis Bacon e Jenny Saville. Con una presa di coscienza maggiore, dopo un po’, ho sentito l’esigenza di riprendere in mano la bomboletta e puntare al recupero del classicismo. Volevo provare a miscelare il post-graffitismo con la millenaria tradizione della copia, partita dall’antica Roma e arrivata nella bottega di Raffaello e nella scuola caravaggesca. Nella storia dell’arte, la copia è di fondamentale importanza. Mi interessava ribaltarla, in modo che non fosse più copia ma traduzione; proprio perché non realizzata con la stessa tecnica, non nella stessa dimensione, ma con un processo nuovo. 

 

Sei stato l’artefice di un cortocircuito generazionale, diciamolo

Sì, perché ho permesso alle grandi opere di Michelangelo Merisi, Guido Reni, e del Maestro di Ozieri di fuoriuscire dai musei per invadere il territorio e farsi conoscere in maniera immediata. L’ho fatto principalmente per permettere alle nuove generazioni di riappropriarsi di qualcosa che in fondo era di loro proprietà. Negli ultimi anni, con l’avvento dei nuovi media, il classico è stato un po’ accantonato. Ho voluto dare una scossa elettrica per invogliare le persone ad abbattere un gap generazionale.

Andrea Ravo Mattoni, Giovane orfana al cimitero, di Eugène Delacroix, 1823, Le Mur Oberkampf, Parigi, Francia 2018 (foto per gentile concessione dell’artista)

Il classico, in fondo, ha il potere di non invecchiare mai

È proprio così. Se andiamo a vedere dei particolari della Cappella degli Scrovegni, troviamo una contemporaneità immensa. Giotto ha cambiato radicalmente la storia pittorica dell’arte mondiale. Dopo di lui arrivano la cinematografia, la fotografia, la modernità, e tutto il resto. Nonostante i secoli, la sua pittura rimane fresca. Possiamo dire lo stesso di Antonello da Messina. L’opera rimane moderna, e da qualche tempo i musei stanno cercando di esporre in maniera differente, dando una nuova cornice e illuminazione alle opere. È un po’ quello che faccio anche io: riproporre le opere classiche su un mobile degli anni Settanta, su un segnale stradale, su una porta, o su un muro per attualizzarla e mantenerla viva. 

 

 

Gli interventi d’arte urbana mutano la fisionomia delle città. Le ridefiniscono, contribuendo alla loro diversità. Una risposta schietta agli inquietanti interventi di globalizzazione, che le rendono tutte simili a degli shopping center 

Le urbanizzazioni selvagge hanno stravolto non soltanto l’aspetto urbano delle città, ma soprattutto la testa delle persone nel vivere un luogo. Non parliamo dei nonni, testimoni della violenza del paesaggio italiano, ma dei loro nipoti: abituati a vedere le facciate cieche di un palazzo, senza sapere che dietro quell’obbrobrio edilizio un tempo era possibile intravedere le colline. Attraverso gli interventi artistici su un muro, i bambini si ritrovano così a confrontarsi con l’arte classica per i prossimi anni. 

 

Nonostante sia urbana, la tua non è un’arte effimera 

No. Fuggo un po’ dal concetto di effimero. Se il muro non è solido o ben conservato non intervengo. Chiedo sempre ai committenti la rimessa a nuovo del supporto che andrà a ospitare le mie opere. Oltretutto preferisco lavorare con vernici resistenti agli agenti esterni, che non perdano nel corso del tempo brillantezza fino a svanire. Voglio che i ragazzini di oggi, fra quarant’anni, raccontino ai loro figli come hanno visto nascere l’opera sul muro. È questa la mia idea di arte pubblica.

Andrea Ravo Mattoni, Allegoria dell’arte e della letteratura, di William Bouguereau, 1867, Mulhouse, Francia 2020 (foto per gentile concessione dell’artista)

Uno sguardo al bello, dunque, avverso agli abominevoli pasticci fuori-contesto che spesso – come un terribile rumore di fondo – ridicolizzano i centri storici

La mia arte è un muro pubblico al servizio della collettività, spesso utilizzato come strumento di educazione e conoscenza. Oltretutto, credo che fare arte pubblica sia una grande responsabilità. E, fedele a questo concetto, realizzo opere che abbiano senso con la territorialità, con la storia e la tradizione. 

 

Quel che facciamo in vita è destinato a riecheggiare per l’eternità. Vale anche per gli interventi di arte urbana…

Chi produce qualcosa di consistente è destinato a restare. Chi, invece, non produce nulla di concreto svanirà. Confido nelle nuove generazioni, affinché siano capaci di introdurre evoluzioni che possano durare nel tempo.

 

Immagine di copertina: Andrea Ravo Mattoni, Annunciazione, di Leonardo da Vinci, 1472, Lonate Pozzolo (Varese) 2021 (foto per gentile concessione dell’artista)

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