C'è chi vede in lei l'erede diretta di Janis Joplin, chi apprezza il suo rifacimento di “Whole lotta love” dei Led Zeppelin, chi rintraccia le sue radici nel gospel, chi la ritiene una grande interprete blues, chi sospetta sia una parente musicale di Alanis Morissette e chi, semplicemente, la ascolta come evasione pop.

Se si leggono oggi le recensioni uscite in occasione di ogni suo singolo lavoro (poche quelle italiane), dalla lettura complessiva si immaginerebbe che alcuni critici stessero parlando di artiste diverse. In realtà non c'è da dubitare del loro rigore: quell'impressione è il risultato di una sfida vocale che ha portato Beth Hart a misurarsi con più generi e con più mostri sacri del passato. Già agli esordi aveva inserito nel suo carniere una “Lucy in the Sky with Diamonds” dei Beatles; aveva poi interpretato (e, ovviamente, cantato) Janis Joplin in un musical; ha poi proposto (anche nella sua finora unica apparizione televisiva italiana) “Whole lotta love” dei Led Zeppelin. Ha potuto permettersi di incrociare quei mostri sacri grazie a una duttilità e a un'estensione vocale di rara intensità. Certo, per chi è abbonato alla catalogazione, Beth Hart rimane una sorta di pallottola impazzita nello scenario musicale di questi anni. Ma chi ha frequentato i vari generi che propone in modo così personale, può apprezzare il dominio con cui piega i diversi registri grazie a una voce notevole.

Californiana di Los Angeles, Beth Hart ha avuto una travagliata vita personale ed artistica. Nel 1993 emerse allo “Star Search” (per la sua esibizione con una trasfigurata Lucy in the Sky with Diamonds). Nel suo primo compiuto lavoro, “Immortal” (Full album), inciso nel 1996 con il suo gruppo “Ocean of soul”, si può cogliere più di un accostamento allo stile di Janis Joplin, che si sarebbe ritrovato spesso successivamente. Uno dei pezzi che l'ha portata al centro dell'attenzione è l'autobiografica “LA Song (out of this town)”, contenuta nel successivo “Screamin' for my supper” (1999) (Full album). Si tratta della storia di una ragazza convinta di ritrovarsi abbandonando la città piena di insidie ma che, una volta approdata in un piccolo centro, non trova uomini migliori né una storia nuova e torna a Los Angeles (per il video della canzone).

Dopo quattro anni di silenzio, passati tra depressione e psicofarmaci, Beth Hart è rinata ed è tornata a lavorare seriamente, compiendo un salto di qualità. “Leave the light on” (2003), è un disco in cui i testi accompagnano la sua rinascita (non a caso spiccano i testi di “Lifts you up” e l'ancor più significativa “Learning to live” ) e nel quale la sua duttilità vocale si presta a interpretare in modo più estensivo e senza timori una maggiore varietà di registri. Nella canzone che dà il titolo all'album si può rintracciare la sintesi della crescita nei testi e nella musica, nonché della raggiunta maturità musicale.

Consolidatasi sotto tutti i punti di vista, era il momento di dare alla sua capacità di tenere la scena uno sbocco. Nel 2005 usciva così un grintoso album dal vivo: “Live at Paradiso” (Full concert), in cui si aveva la precisa impressione che il palco sia il suo posto più naturale.

Nel 2007 una copertina-ritratto eseguita da un importante pop-artist, Ron English, era la premessa del suo successivo lavoro, “37 Days”. La nuova “natural woman” ampliava ulteriormente il registro delle sue possibilità (per i filmati di ogni pezzo), dalla ritmata apertura di “Good as it gets” alla più intima “Jealousy”, dalla ballata di “One eyed chicken” alla scatenata “Sick”, dal rock classico di “Face forward” a “Soul Shine”.

Altri tre anni di silenzio, poi un altro ottimo lavoro: “My California”, in cui il riferimento non era solamente al luogo amato, ma anche alla popolazione dei suoi sentimenti. Nell'album spiccano infatti pezzi dedicati alla sorella (“Sister Heroine”, che si avvale, nella registrazione, della chitarra di Slash), al marito, Scott Guetzkow, (“My California”) e ai genitori (“Weight of the world”). La produzione di Rune Westberg induceva la cantante ad “addomesticare” la sua voce, passando da un registro che Westberg definiva selvaggio a uno in grado di restituire più intensamente il potere delle emozioni.

Oltre a circondarsi sempre di ottimi musicisti, Beth Hart aveva collaborato e avrebbe continuato a collaborare con personalità musicali già note e affermate, come Slash e Jeff Beck, per arrivare a Joe Bonamassa, con cui avrebbe firmato, nel 2011, “Don't explain”, un album di cover soul e blues, che scomodano positivamente i nomi di Etta James, Aretha Franklin, Tom Waits e di altri, alcune rilette in chiave rock-blues, spesso con fraseggi molto “Led Zeppelin”. Si alternano, nell'album, una incisiva “For My Friends”, in cui Bonamassa mostra le sue grandi capacità, alla più struggente “Don't explain”, per passare attraverso pezzi che riportano ad atmosfere tipiche degli anni Settanta, come “Ain't No Way”.

Nel 2012 è uscito “Bang bang boom boom” (Full album), che ha un'apertura già importante: “Baddest blues”, un grintoso pezzo a cui fa da riscontro, immediatamente dopo, il pezzo che dà il titolo all'album. Nel 2013 è tornata al lavoro con Bonamassa, una coppia di artisti da cui si aspetta ancora molto.

Beth Hart è capace di ripercorrere una strada che parte da radici lontane per offrire, in chiave rinnovata e personale, parte della musica migliore degli ultimi decenni. La sua voce dà espressione a diversi stati d'animo. È aggressiva o malinconica, grintosa o struggente: in poche parole, possiede quei timbri e quel carattere proprio delle migliori signore del rock.