È in una pagina di Au coeur du fantastique che Roger Caillois definisce il fantastico “rottura dell'ordine riconosciuto, irruzione dell'inammissibile in seno all'inalterabile legalità quotidiana”, trovando così equilibrio e armonia con quanto Solov'ëv afferma, chiarendo, di questo irrompere, la vera natura di “possibilità esteriore e formale di un spiegazione semplice dei fenomeni, ma che tuttavia è una spiegazione del tutto priva di probabilità interna”: esitazione che coinvolge non solo il protagonista del racconto fantastico, ma anche e soprattutto il lettore, il cui indugiare fra risoluzione naturale e soprannaturale si colloca, strutturandone la forma, sullo sfondo spaventoso e al contempo affascinante dell'evento inatteso, sconvolgente, che cala come un lampo divino nella banalità feriale.

In questo senso, un gioiello nascosto e finora del tutto inedito in Italia, Il richiamo del corno di Sarban (pubblicato da Adelphi nella traduzione di Roberto Colajanni), scioglie perfettamente la natura più pura del fantastico nell'ucronia più terrificante: la vittoria della Germania nazista.

Alan Querdilion, il protagonista del romanzo, in fuga da un campo di prigionia tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale, nella desolazione notturna di un bosco scivola, attraverso un fascio di luce, dall'altra parte, “nell'anno centoduesimo del primo millennio germanico”, in un'Europa dove i nazisti regnano incontrastati. Ricoverato (e recluso) in una clinica dove le ustioni che il fascio di luce ha provocato vengono curate, Querdilion ascolta ogni notte, dai boschi selvaggi circostanti, il suono del corno del Conte Hans von Hackelnberg, potente e terribile Gran Maestro delle Foreste del Reich, segnale funereo di una caccia selvaggia in cui l'essere umano è ridotto alla stregua di preda e che in breve tempo vedrà lo stesso Querdilion braccato.

A sorprendere, di questo breve romanzo apparso per la prima volta nel 1952, oltre alla scrittura plastica e di sapidità incredibilmente espressiva, affine a quella di un grande e misconosciuto capolavoro del fantastico, La nube purpurea di Shiel, è la capacità di sbriciolare la pietra dura del concetto ormai consolidato e indiscutibile per ritornare ad un mondo di pure immagini, nel quale l'abitudine medusea si dilegua per lasciare spazio ad un flusso nel quale l'antropocentrismo sfumi in una visione ambigua, inquietante: come in un ritorno alla condizione preistorica, l'uomo perde il proprio assodato ruolo di classificatore della realtà, vittima dell'arbitrio violento e oscuro del conte von Hackelnberg, la cui vera manifestazione, quella più terribile e spaventosa, avviene attraverso la spettrale apparizione del richiamo del suo corno, traccia fantasmatica fra le cui pieghe emerge il volto di un potere brutale e inconoscibile, celato dalla spessa cortina che il bosco, luogo del caotico e dell'indistinto, oppone all'ordine luminoso del giorno.

Così come, secondo Carl Einstein, i quadri di Georges Braque “dissimulano completamente l'intimità psicologica” grazie ad una pianificazione interiore tale da escludere l'interessante e lo spurio, per costruire una pittura che non si appoggi su niente che non sia la pittura, allo stesso modo Il richiamo del corno, nella struttura perfettamente autosufficiente che l'autore è riuscito a plasmare, elide la sua fisionomia spirituale, rendendola opaca e confusa. John William Wall, questo il vero nome di Sarban (che in parsi significa carovaniere), fu un diplomatico inglese di medio livello in Medio Oriente e in Nord Africa, che praticò la scrittura come diversivo per riempire i lunghi pomeriggi nei quali “the dust of Asia” gli faceva rimpiangere, sconsolato, lo splendore del natio Yorkshire, allontanandosi così dal carattere di un Maugham o di un Greene, entrambi inclini invece ad affrontare (anche col filtro dell'ironia) “l'altro” rappresentato dalle lontane province dell'impero britannico. Per Sarban nulla di tutto questo: al contrario, una vita priva di fatti eclatanti o significativi, al massimo un incontro con Vita Sackville-West o una telefonata da Churchill durante la guerra, ma tutto immerso nella mediocrità più quotidiana di ospiti definiti “sempre deliziosi” e menu troppo esotici per Sir Winston.

Niente altro, se non “dosi massicce”, come scrive giustamente Matteo Codignola nella sua bella nota in calce al volume, “di quello che in un'epoca remota si era deciso di chiamare il piacere del testo – più o meno allo stato puro”; una scrittura così autarchica da sciogliere qualsiasi interpretazione o approccio esterno (compreso il mio, naturalmente) alla temperatura ustionante della sua tensione.