Quando ai nostri giorni si parla di contenziosi nel campo delle scoperte, il pensiero corre immediatamente all’ambito scientifico o geografico: è sufficiente citare le controversie relative all’invenzione del telefono che vide contrapposti l’italiano Antonio Meucci e l’americano Alexander Graham Bell, oppure quelle sull’individuazione delle sorgenti del Nilo in cui furono coinvolti esploratori tedeschi e inglesi.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento una polemica di pari livello divampò anche nel mondo delle lettere, ed ebbe come oggetto il manoscritto originale dei Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, ovvero il codice 3195 del fondo Vaticano latino della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il codice del Canzoniere, ritenuto autografo per secoli, non era stato più considerato come tale per una serie di fraintendimenti, quando nei primi mesi del 1886 due studiosi non italiani iniziarono a contendersi il primato della sua “riscoperta”. I protagonisti di questa vicenda furono il francese Pierre de Nolhac e il tedesco Arthur Pakscher. L’eco di questa polemica non si limitò ad articoli apparsi in quotidiani e riviste non solo italiani, ma investì anche l’Accademia dei Lincei, dove il 20 giugno si tenne una seduta per stabilire a chi attribuire il merito di questo riconoscimento, anche se alla fine la Commissione preposta evitò di sceglierne uno, limitandosi a «esprimere l’avviso che questi due giovani stranieri meritino da noi ugual gratitudine per aver richiamata l’attenzione degl’Italiani su cosa che non avrebbe dovuto cadere mai in dimenticanza, massime fra coloro che si occupano specialmente di studi sul Petrarca». A favore di de Nolhac si schierò invece Giosue Carducci nel Fanfulla della Domenica del 22 agosto: «Ella ha (…) restituito all’Italia e al mondo civile la più preziosa reliquia personale di un gran poeta; tutto ciò con argomenti e prove che a me paiono inconfutabili. Di che penso che l’Italia e il mondo civile Le debbano essere grati».

Il contenzioso tra i due studiosi si risolse poco dopo con una sorta di compromesso: il 18 agosto Pakscher riconosceva che de Nolhac aveva identificato prima di lui il manoscritto originale del Petrarca, e a sua volta de Nolhac affermava che le ricerche di Pakscher erano state autonome dalle sue, rinunciando a occuparsi del testo contenuto nel codice in modo da lasciare spazio allo studioso tedesco. Se fossimo in una favola, concluderei con «e vissero tutti felici e contenti…», ma in realtà la polemica ebbe ulteriori strascichi negli anni a venire. Nel 1888 uscì infatti ne La Cultura di Ruggero Bonghi un articolo di Giuseppe Salvo Cozzo (Il sonetto del Petrarca La gola e ’l somno et l’otiose piume secondo il codice vaticano 3195), indirizzato guarda caso al Carducci, in cui si attaccava pesantemente non solo il lavoro di de Nolhac, ma anche la superficialità con cui esso era stato esaltato da tanti studiosi di vaglia: «E qui le confesso francamente ch’io non comprendo come le diverse pubblicazioni fatte da Pietro de Nolhac sul Canzoniere autografo del Petrarca, siano state accolte con sì grande favore da uomini egregi per ingegno e dottrina [N.d.A.: leggi tra le righe, lo stesso Carducci]. Eppure la leggerezza della sua critica e la mania ch’egli ha sempre avuto di credere che gli studiosi vogliano rubargli il passo nelle sue ricerche, avrebbero dovuto disporre a tutt’altro che a bene ed a fiducia; se non ci fosse un po’ tra noi la poca buona abitudine di lodare spesso e volentieri tutto ciò che ci vien detto o scritto in lingua non nostra». Non si può escludere che dietro a questo articolo di Salvo Cozzo, all’epoca “scrittore aggiunto” nella Biblioteca Vaticana, ci fosse l’interesse di segnalare che la consapevolezza dell’importanza di quel codice non era mai venuta meno nella Biblioteca dove esso è custodito, diversamente da quanto era avvenuto altrove. Certo è che nella Prefazione all’edizione de Le rime di Francesco Petrarca (Firenze, Sansoni, 1899), Carducci, coadiuvato da Severino Ferrari, ribadirà la riscoperta del codice grazie ai «dotti stranieri che vengono a rimetterci in possesso di ciò che noi avevamo abbandonato all’oblio». E chissà se in questa presa di posizione non si nasconda da un lato una sorta di risentimento nei confronti di Salvo Cozzo, ma dall’altro anche una polemica più “nazionalista” nei confronti della Santa Sede, dopo la rottura dei rapporti diplomatici con il Regno d’Italia a seguito della presa di Roma.

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