28 novembre 2022

Chi ha tradito Anne Frank?, di Rosemary Sullivan

 

Nel 1959, quando in Germania, caso più unico che raro in Europa (per non parlare del Giappone o di altri Stati che avevano in qualche modo avuto a che fare con il Reich hitleriano) si iniziava a riflettere seriamente a livello di discorso pubblico su quanto era accaduto nei due decenni precedenti e si faceva strada il concetto, tristemente ancora oggi tutto interno alla società tedesca, di colpa collettiva, un anonimo si prese la briga e a giudicare dal tono, di certo il gusto, di scrivere quanto segue a Otto Frank: «Sono scioccato che lei, in quanto padre, abbia pubblicato una cosa del genere. Ma è tipico degli Ebrei. Cerca ancora di riempirsi le tasche con il cadavere maleodorante di sua figlia. È una benedizione per l’umanità che tali creature siano state sterminate da Hitler».

Il Diario della figlia minore di Otto Frank, morta assieme alla sorella Margot di tifo a Bergen Belsen, meno di un anno prima della resa incondizionata della Germania nazista, è uno dei libri più celebri del mondo (e come dimostra la lettera di cui sopra, fu – in certi ambienti resta – uno dei più controversi). Della storia delle otto persone che risiedettero, volendo dir così, per oltre due anni nell’annesso del numero 263 di Prinsengracht, ad Amsterdam, è noto quasi ogni dettaglio, non da ultimo grazie alle osservazioni, allo stesso tempo candide e spietatamente acute, di una ragazzina appena adolescente che sognava di diventare scrittrice in un mondo che esplorava pressoché quotidianamente nuovi abissi della depravazione umana. Dopo Stalingrado, dopo lo sbarco in Normandia, mentre ormai era evidente a tutti (Goebbels lo aveva temuto e confidato, profeticamente, al suo diario fin dall’inizio dell’operazione Barbarossa) che la guerra si sarebbe conclusa con la disfatta dei nazisti, quando ormai sembrava fatta, un alto ufficiale del servizio di sicurezza tedesco di stanza in Olanda, Julius Dettmann, ricevette una telefonata che lo informava della presenza, in quello che dalla pubblicazione del Diario sarebbe divenuto noto come l’alloggio segreto – la stessa Anne Frank aveva pensato di intitolare così la versione rielaborata di quanto aveva annotato durante la sua clandestinità – di alcuni Ebrei.

Il resto, come si dice, è storia. Assieme ad alcuni tirapiedi, Karl Josef Silberbauer, un inquirente di seconda tacca che si sarebbe brillantemente riciclato nel dopoguerra tra i ranghi della polizia viennese, fece irruzione nell’azienda che era stata di Otto Frank e dopo una accurata perquisizione uscì con il bottino della soffiata, non prima di avere strigliato a dovere, «piegato in due dall’ira», una degli impiegati di Frank, l’oriunda austriaca Miep Gies, domandandole se non si vergognasse di aver nascosto per tutto quel tempo «la feccia ebraica».

Della storia di Anne Frank, così si dice, si è detto e scritto tutto, tutto è noto. Tutto tranne la risposta ad una domanda cruciale: chi telefonò a Dettmann, non l’ultimo scribacchino di un commissariato di polizia, e perché? Sull’onda montante di un clima politico, anche nella autocompiaciuta Olanda liberale e libertaria (nella quale, per altro, durante l’occupazione nazista in rapporto alla popolazione furono deportati più Ebrei che in ogni altro Paese dell’Europa occidentale: Amsterdam perse un decimo dei propri abitanti), sempre più tollerante, quando non apertamente apologetico, di xenofobia e razzismo, mettere di nuovo le mani in una vicenda così emblematica della coscienza, e dell’inconscio, di un intero continente, non è tempo perso. Nel corso di cinque anni, una squadra investigativa che sarebbe arrivata a contare duecento persone e messa insieme da Thijs Bayens, Pieter van Twisk e Luc Gerrits ha riesaminato da cima a fondo la documentazione del caso, facendo uso dei più sofisticati mezzi dell’analisi forense e della cara vecchia ricerca d’archivio, nel tentativo di far luce sulle – molte, verrebbe da dire decisamente troppe – zone d’ombra di un evento che è possibile definire banale solo in tempi eccezionali.

 

La cronaca di questo progetto, recentemente pubblicata con il titolo Chi ha tradito Anne Frank a cura della celebrata Rosemary Sullivan, già autrice di una portentosa biografia di Svetlana Stalina, è assai più della ricostruzione delle dinamiche di un’indagine intorno a un cosiddetto cold case. Diviso in due parti (L’antefatto, pp. 17-120 e L’indagine 123-339) incorniciate da un’introduzione e un epilogo, il volume si configura prima di tutto come un affresco, degno del miglior Goya, di una società in stato d’assedio e delle dinamiche scatenate – o esacerbate – dalle politiche naziste. A margine, varrà la pena notarlo, il saggio di Sullivan offre anche uno spaccato, francamente pietoso, degli interessi ‒ soprattutto economici – che ruotano intorno alla cronaca quotidiana della vita di una ragazzina assurta, suo malgrado, al ruolo di testimonianza iconica di uno degli eventi più traumatici della storia mondiale, interessi che hanno contribuito in misura non trascurabile ad ostacolare le indagini della squadra casi irrisolti messa insieme da Bayens e soci.

La relazione tra Olocausto, denaro e compromesso morale, chiamiamolo così, è stata emblematicamente riassunta in una micidiale battuta pronunciata da uno dei protagonisti di Inside Man (2006), il banchiere Arthur Case, alle prese con uno spinoso caso di ritorno del rimosso. «E inoltre c’era l’anello. Un anello di Cartier che apparteneva alla moglie di un banchiere parigino, una ricca famiglia di Ebrei francesi. Quando arrivò la guerra confiscarono tutto quello che avevano e vennero spediti nei campi. Nessuno di loro fece ritorno. Erano amici. Avrei potuto aiutarli. Ma i nazisti pagavano: troppo bene». Nell’antefatto di Sullivan, questa dialettica è indagata a sufficienza per mostrare con quale sinistra sottigliezza il regime hitleriano si sia servito di alcuni tra i più comuni e meschini sentimenti umani, non da ultimo l’avidità, per trasformarli in un’arma di potenza inaudita. Nel caso dei residenti dell’alloggio segreto, le conclusioni alle quali è giunta la squadra investigativa (conclusioni, per altro, tutt’altro che pacificamente accettate dalla comunità scientifica) sono allo stesso tempo più e meno disturbanti. Con ogni probabilità, i Frank e i loro coinquilini, se ha senso chiamarli così, vennero traditi da un affluente notaio, Arnold van den Bergh, tra i membri più eminenti della comunità ebraica di Amsterdam, il quale, sullo sfondo dell’esautorazione ai vertici della gerarchia nazista di Göring – i buoni uffici presso il quale in qualità, tra l’altro, di procacciatore di opere d’arte, gli avevano permesso di tutelare se stesso e la propria famiglia in un clima sempre più irrespirabile ‒ ad opera di Himmler, a corto di merce di scambio per impedire l’imminente deportazione, diede fondo al proprio repertorio di informazioni sullo stato della comunità che aveva contribuito a gestire in qualità di membro del locale Judenrat.

Visto lo stato della documentazione, quella presentata nel saggio di Sullivan, alla fine, non è che una tra le tante ipotesi formulate in merito alla vicenda – tra gli altri – di Anne Frank, e sarà compito della ricerca negli anni a venire ponderarne il valore. Quel che è certo, se non altro, è che cinque anni di indagine, dopo due precedenti, assai più rudimentali, portati avanti nell’immediato dopoguerra e negli anni Sessanta, hanno permesso di accumulare nuovo materiale ed approfondire la conoscenza delle microstrutture dell’operato nazista in Germania e nei territori occupati, le quali sole permisero, al netto dello zelo di quanti si dedicarono alla causa, di portare avanti con la nota efficienza un progetto omicida su scala industriale come mai se ne erano visti prima.

Se comprendere a fondo le dinamiche di questi eventi possa impedire che si verifichino ancora può essere legittimamente dubitato, né è probabile, nell’era dell’intelligenza artificiale, che aiuti particolarmente a capire in che modo un simile disegno potrebbe essere rimesso in pratica. Tuttavia, ammesso che avesse ragione Tucidide nel sostenere che la natura umana non cambi mai, il mondo sociale che fece da sfondo alla vicenda degli abitanti del 263 di Prinsengracht potrebbe rivelare qualcosa degli atteggiamenti mentali che un certo tipo di ideologia produce. In altri termini, potrebbe rivelare in anticipo alcuni sintomi di una cancrena in corso. Come poi si decida di intervenire a diagnosi effettuata è qualcosa che può essere verificato, come fu nel caso di van den Bergh, solo nella concretezza degli eventi, e c’è dunque di che sperare che le inevitabili speculazioni dei lettori di questo volume siano destinate a rimanere tali.

 

Rosemary Sullivan, Chi ha tradito Anne Frank? Indagine su un caso mai risolto, traduzione di Daniela Liucci, Milano, HarperCollins, 2022, pp. 460

 

Immagine: Immagine di Anne Frank nell’Holocaust Memorial Museum, Washington D.C., Stati Uniti (19 dicembre 2015). Crediti: GiuseppeCrimeni / Shutterstock.com

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