L’11 settembre 1973 continua a essere una data che divide i cileni. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, a mezzo secolo di distanza le ferite prodotte dalla rottura della democrazia, la morte del presidente Salvador Allende, la fine del sogno utopico dell’Unità popolare e l’instaurazione di una dittatura militare assassina e corrotta continuano a generare una forte divisione nella società cilena. Un sondaggio della società di consulenza MORI, realizzato lo scorso maggio, ha mostrato che il 36% delle persone oggi giustifica il colpo di Stato guidato da Augusto Pinochet. D’altra parte, più del 60% degli intervistati lo descrive come un dittatore e un corrotto a causa dei milioni di dollari che ha accumulato in conti bancari esteri. I partiti politici di destra continuano a difendere l’intervento militare iniziale, ma hanno gradualmente preso le distanze dalle violazioni dei diritti umani commesse dalla dittatura nei 17 anni successivi. La sinistra ha rivendicato la figura di Allende, la sua eredità e i sogni di un progetto che proponeva di andare verso il socialismo in un modo senza precedenti nella storia, attraverso le elezioni, con la democrazia e in un sistema politico multipartitico, con «empanadas e vino rosso», come amava sottolineare il presidente Allende.
Era possibile un tale progetto senza una solida maggioranza? I fatti hanno dimostrato che non lo era. L’Unità popolare trionfò nel 1970 con il 36,62% dei voti. Nelle elezioni municipali del 1971 ottenne il 50,3% e nelle ultime elezioni del marzo 1973 il 44,23%. Per ottenere la maggioranza elettorale erano necessari i voti della Democrazia cristiana, che sfiorava il 30%. Tuttavia, ciò non fu possibile a causa della polarizzazione della società che divideva il Paese, prodotto dell’estrema sinistra massimalista, da un lato, e dell’estrema destra fascista che aveva il pieno sostegno del governo statunitense, guidato dal presidente Richard Nixon.
Sono stati declassificati nuovi documenti della CIA che mostrano il pieno coinvolgimento del governo statunitense nel rovesciamento del governo Allende. Washington non solo finanziò la destra cilena prima e durante la campagna presidenziale del 1970, ma complottò anche con i generali dell’esercito cileno e contrabbandò, attraverso la valigia diplomatica dell’ambasciata statunitense a Santiago, le armi utilizzate per assassinare il comandante in capo dell’esercito, il generale Rene Schneider, il 25 ottobre 1970. Tutto questo avvenne poche settimane prima dell’insediamento del presidente Salvador Allende, il 4 novembre dello stesso anno. A ciò si aggiungono le recenti rivelazioni di documenti declassificati, tra cui l’agenda di lavoro giornaliera del presidente Nixon del 15 settembre 1970 ‒ pochi giorni dopo le elezioni ‒ che mostra che egli ricevette nella Sala Ovale della Casa Bianca Agustín Edwards, proprietario del quotidiano cileno El Mercurio, l’organo di stampa che guidava l’opposizione al governo popolare. Il documento afferma anche che lo stesso giorno Nixon decise di ordinare alla CIA di iniziare le operazioni per impedire al Congresso cileno di ratificare la vittoria di Allende alle urne. Indica inoltre che Edwards si incontrò con il direttore della CIA Richard Helms e altri agenti, ai quali comunicò la determinazione di alcuni generali dell’esercito cileno a rompere il vincolo di fiducia e obbedienza alla Costituzione per negare la volontà popolare espressa nelle elezioni del 4 settembre. Gli Stati Uniti misero quindi a disposizione dei generali golpisti e degli estremisti di destra armi, denaro e influenza per impedire innanzitutto che il presidente eletto Allende entrasse in carica. Poi, affinché il governo fallisse e fosse rovesciato dalle forze armate cilene.
Il colpo di Stato fu una cospirazione ordita a Washington con la partecipazione del presidente Nixon, del suo segretario di Stato Henry Kissinger e del direttore della CIA. A questa troika si aggiunse il settore civile cileno guidato da Edwards, con le forze armate cilene e i carabineros come mano esecutrice. Non è difficile individuare gli interessi in gioco. Per il governo statunitense le questioni centrali erano due: l’effetto che un’esperienza di successo di un regime di ispirazione marxista al potere per via elettorale avrebbe potuto avere in America Latina. Questo avrebbe potuto avere effetti catastrofici anche per la NATO e gli Stati Uniti in Europa, in Paesi con forti partiti di sinistra come l’Italia e la Francia. D’altra parte, il programma di Allende prevedeva la nazionalizzazione del rame, sfruttato principalmente da aziende statunitensi, e avrebbe toccato gli interessi di altre imprese americane. Per il settore imprenditoriale cileno si trattava di difendere le banche, le aziende e le grandi proprietà, che avevano già iniziato a essere espropriate dalla riforma agraria avviata dal governo democristiano di Frei Montalva (1964-70). Ma quali interessi vedevano minacciati le forze armate cilene? Nessuno. Si trattava semplicemente del frutto dell’ideologia anticomunista impartita nella dottrina della sicurezza nazionale con cui gli ufficiali cileni erano stati educati a partire dagli anni Sessanta alla Scuola delle Americhe di Panamá, dopo il trionfo della rivoluzione cubana.
I 17 anni di dittatura di Pinochet sono ancora presenti nella politica contingente del Cile per almeno due ragioni: la prima riguarda la ricerca della verità per i 1.092 detenuti scomparsi e di cui le famiglie stanno cercando i resti, per chiarire se e come siano stati giustiziati e chi ne sia responsabile in modo che possa essere giudicato per le sue azioni. L’altra è relativa al fatto che le forze armate e i carabineros non si sono mai assunti, come istituzioni, la responsabilità della rottura della democrazia nel 1973 e del mancato giuramento alla Costituzione che avrebbero dovuto rispettare. Nessuno nega che il Cile stesse attraversando un momento di grave crisi politica ed economica, ma dovrebbe essere chiaro che i percorsi costituzionali che era possibile seguire non sono stati rispettati.
Gli aerei da guerra che bombardarono il palazzo della Moneda e la residenza ufficiale dove risiedeva la moglie del presidente Allende, le esecuzioni sommarie, gli assassinii e le sparizioni continuarono per 17 anni. Il «mai più», pronunciato dal comandante in capo dell’esercito nel 2003, il generale Emilio Cheyre, fu il primo parziale riconoscimento ‒ a distanza di 30 anni ‒ degli orrori commessi: «L’Esercito cileno ha preso la dura ma irreversibile decisione di assumersi le proprie responsabilità come istituzione per tutti gli atti punibili e moralmente inaccettabili del passato (...) violazioni che non giustifica e per le quali ha compiuto e continuerà a compiere sforzi concreti affinché non si ripetano mai più».
Dopo questo primo passo, solo nel 2022 ‒19 anni dopo ‒ un altro comandante in capo dell’esercito, il generale Ricardo Martínez, si è spinto oltre, ritenendo Pinochet direttamente responsabile delle violazioni dei diritti umani e in particolare dell’assassinio a Buenos Aires del suo predecessore, il generale Carlos Prats e di sua moglie. È la prima volta che ciò accade, causando disagio tra settori delle forze armate, che lo hanno immediatamente accusato di essere un traditore.
Così, la commemorazione del 50° anniversario del colpo di Stato e della dittatura di Pinochet dimostra che la società cilena rimane divisa, forse anche più di qualche anno fa, con i partiti di destra che continuano a giustificare il golpe militare e le forze armate e i carabineros che rimangono completamente in silenzio. Nulla cambierà nel panorama politico cileno finché questi ultimi non riconosceranno pienamente la responsabilità delle loro istituzioni nella rottura della democrazia, negli orrori commessi, collaboreranno alla ricerca degli scomparsi e screditeranno definitivamente la figura del dittatore Augusto Pinochet.