Nel tentativo di sedare la rivolta del generale An Lushan, che alla metà dell’VIII secolo d.C. rischiò seriamente di annientarlo, l’Impero della dinastia Tang, drammaticamente a corto di legittimazione, si ritrovò costretto a ricorrere all’aiuto dell’ascendente khanato uiguro, con il quale aveva mantenuto fino a quel momento relazioni piuttosto complesse. La rivolta venne stroncata e An Lushan liquidato, ma da quell’esperienza la dinastia emerse legata a doppio filo, e in una posizione subordinata, al potere di cui aveva creduto potersi impunemente servire.

Il sistema economico e sociale contemporaneo, sostiene David Harvey nelle sue recenti Cronache anticapitaliste, non se la passa troppo diversamente, nonostante tutti gli indicatori di cui si dispone, a partire dalla sicumera mostrata dai suoi più eminenti rappresentanti, suggeriscano il contrario. Pressoché spogliato, per lo meno dalla crisi finanziaria del 2007-08, di qualsiasi legittimità (dominante ma non – più – egemone, come si sarebbe detto un tempo), il neoliberismo si è visto costretto a stringere alleanze con personaggi del calibro di Trump e Bolsonaro. Si tratta, prosegue Harvey, di un’accoppiata curiosa solo fino a un certo punto, se si pensa che la prima sistematica applicazione delle teorie neoliberiste data al colpo di Stato di Pinochet in Cile. Dio – o il mercato – insomma, prima li fa e poi li accoppia.

La pericolosità di questa china è sotto gli occhi di tutti: come reagire, ammesso che ciò sia possibile, è la questione cruciale del nostro tempo, e la tesi portante del saggio di Harvey in materia è piuttosto semplice. Il problema è il capitalismo – non nella sua forma neoliberista più sfrenata, ma in quanto tale –, ed è il momento, pena la barbarie, come diceva Luxemburg un secolo fa, di pensare e se possibile mettere in pratica forme diverse di società, di gestione dei beni e, non da ultimo, di uso del tempo.

Per far ciò, tuttavia, è indispensabile acquisire un punto di vista quanto più vasto possibile del mondo nel quale viviamo. Contrariamente al senso comune (figlio, nemmeno a dirlo, di una ben specifica visione del mondo) incentrato sul singolo e sui suoi desideri – o problemi, o presunti tali – Harvey sostiene con forza la necessità di comprendere che a questioni collettive non possono che essere fornite risposte collettive, il che presuppone una coscienza del sé altrettanto collettiva. Come la si possa acquisire è illustrato brillantemente nei diciannove capitoli che compongono le Cronache, opera dichiaratamente militante e che mira esplicitamente, dall’alto di oltre quarant’anni di ricerca mai troppo distante dall’impegno politico e sociale, a (ri)formare quella che Marx chiamava la coscienza di una classe per sé, che comprenda se stessa, e il mondo, onde poterlo un giorno, ammesso che ci sia ancora tempo, cambiare.

In un mondo nel quale il piano senza precedenti di sviluppo infrastrutturale lanciato in Cina ha giocato un ruolo determinante nel salvare l’economia estrattiva dell’America Latina, la formazione da geografo di Harvey si rivela particolarmente utile al fine di mappare le interconnessioni che regolano il flusso del capitale nell’epoca moderna e in questo modo, sottolinea l’autore, paradossalmente fornisce, o dovrebbe fornire, una piattaforma comune di pensiero e azione a chi da questi flussi viene minacciato quando non spietatamente colpito.

Le Cronache partono da una constatazione piuttosto banale: nell’epoca di massima ricchezza cumulativa (il famoso PIL) della storia umana, da Santiago a Sydney manifestazioni di protesta sempre più radicale non fanno che ripetersi da alcuni anni. Se ne deve dunque dedurre che qualcosa nel sistema non funziona. Cosa questo qualcosa sia, e se non si tratti forse del sistema in quanto tale, è discusso nel resto del volume, che in una prosa allo stesso tempo densissima e accessibile a tutti passa in rassegna il percorso che dagli anni Settanta ci ha portati ad oggi (cap. 2), le sue contraddizioni interne, superabili con sempre maggiore difficoltà al prezzo di scomodissime amicizie (cap. 3) passando attraverso una disamina, per non citare che qualche esempio, delle dinamiche di finanziarizzazione sempre più incontrollata (cap. 4), della geopolitica del capitalismo successivo allo smantellamento di Bretton Woods (cap. 8), le ragioni dell’ossessione da crescita (e la sua insostenibilità nel lungo e nel breve, sempre più breve periodo, cap. 9), la violenza insita nelle modalità di perpetrazione ed espansione del capitale (capp. 11 e 12), le conseguenze in termini individuali e collettivi di questi processi (capp. 10 e 14).

Come se non fosse sufficiente, Harvey rivendica con forza il potenziale ermeneutico – e la portata etica – di alcuni concetti chiave della teoria marxista, primo su tutti quello di alienazione (capp. 16 e 17), che una lunga tradizione critica, anche di sinistra, ha colpevolmente trascurato e che dovrebbero invece essere posti nuovamente al centro nella ricerca (cap. 19) di una risposta collettiva ai dilemmi collettivi del nostro tempo.

Il nodo gordiano della postmodernità (che già Zygmunt Bauman aveva identificato in termini di un profondo disagio), in definitiva, risiede in un patto faustiano stipulato con il capitale e che si avviluppa intorno al concetto, centrale, di libertà. In cambio della sfrenata, ma in fin dei conti apparente, come ben mostrato nel cap. 10, libertà individuale (di volere, di desiderare, di consumare), ci siamo giocati la giustizia sociale. Ma in mancanza di giustizia, come Marx aveva lucidamente riconosciuto, la libertà è solo quella dei ricchi. Nelle pagine più ispirate dell’intero saggio, significativamente dedicate a socialismo e libertà, Harvey sottolinea che, contrariamente a quanto spacciato da una lunga tradizione vulgata, una società comunista non ha mai previsto il sacrificio della libertà dei singoli, ma al contrario ha sempre puntato alla sua piena realizzazione, la quale però non è accessibile in vacuo.

Il regno della libertà – è ancora Marx che parla ‒ «in effetti comincia là dove cessa il lavoro determinato dal bisogno». Come sarcasticamente commentava Warren Buffett, «la lotta di classe esiste, la sta conducendo la mia classe e la stiamo vincendo». Questa guerra, nota Harvey, è prima di tutto una guerra contro (e per) il tempo. Il solo fatto che nello stadio tecnologicamente più avanzato della storia umana sempre più persone siano costrette a vivere per lavorare, anziché a lavorare per vivere (e fare altro una volta terminato di riprodurre il valore che in un determinato lavoratore è stato investito), la dice lunga sulla necessità di interventi radicali, che liberino ciascuno dalle proprie necessità e diano a tutti, come sempre Marx sosteneva, secondo i propri bisogni.

L’attuale contesto pandemico fornisce un punto di vista sorprendentemente vantaggioso dal quale guardare al mondo che abbiamo costruito e al contempo a partire dal quale pensarne uno nuovo. Perché mai, si domanda provocatoriamente Harvey, abbiamo tutti una voglia matta di ricominciare a vivere – male – come vivevamo prima? A chi giova, se non al capitale, e ai capitalisti, «tornare a vivere», il che significa in ultima analisi a produrre e a consumare, quanto più in fretta possibile, se possibile più di prima? Perché non fermarsi un attimo, se necessario di più, e provare a immaginare come costruire una nuova società? Non è possibile scegliere le circostanze in cui fare la storia, ma è possibile scegliere quale storia costruire a partire, per superarle, dalle circostanze date.

Un secolo e mezzo dopo, conclude Harvey, siamo ancora nella situazione della Comune parigina del 1871. Per realizzare la propria emancipazione, e raggiungere «quella forma superiore cui tende la società moderna con tutte le sue forze economiche», non è necessario realizzare l’ideale, bensì «sviluppare gli elementi di un nuovo mondo che la vecchia società in dissoluzione racchiude nel suo seno». Se, come appare piuttosto evidente, la società in cui viviamo si avvia ad ampie falcate verso la dissoluzione e se la lotta di classe ancora esiste, sarà allora opportuno avere una guida sicura con la quale affrontarla.

Come sogghignava Woody Allen, Marx, assieme a Dio, sarà anche morto, ma a leggere Harvey sembra difficile non concordare con Engels quando diceva che «la sua opera e il suo nome vivranno nei secoli». Se e quanto avesse ragione anche Lenin nel sostenere che «la sua teoria è infallibile perché è vera», con buona pace di molti, e per il terrore di altrettanti, è ancora una questione aperta.

David Harvey, Cronache anticapitaliste. Guida alla lotta di classe per il XXI secolo, Milano, Feltrinelli, 2021, pp. 236

Immagine: Personale al lavoro in una fabbrica di confezioni durante una pandemia da Coronavirus, Gazipur, Bangladesh (2 maggio 2021). Crediti: Salahuddin Ahmed Paulash / Shutterstock.com

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