Nel suo libro più recente, La lettera uccide (Adelphi, 2021), Carlo Ginzburg si sofferma a più riprese sulla dicotomia etic/emic che Kenneth L. Pike ha proposto, in alcune opere importanti, come modello gnoseologico del comportamento umano: laddove il primo termine andrà a identificare il punto di vista dell’osservatore, di chi muove i primi passi nell’analisi di un fenomeno (nel caso di Pike, eminentemente antropologico) rimanendo ancorato al proprio contesto e ambiente culturale, il secondo indicherà invece il lato su cui si muovono gli attori, il quale, secondo l’autore, nel corso della ricerca andrà inevitabilmente a influenzare il primo e a mescolarsi con esso. In questo modo, il modello sarà capace di spiegare le oscillazioni che scuotono senza tregua qualsiasi ricerca tenti, secondo le parole di Malinowski, di proporre il “punto di vista dell’indigeno”: sebbene l’osservatore si protenda incessantemente verso l’oggetto della sua ricerca, tentando di superare lo iato che da questo lo divide, e spesso riesca ad assumere un atteggiamento che si potrebbe definire a tutti gli effetti emic (perciò più vicino alla fonte studiata), tuttavia non potrà mai cancellare da sé quel residuo etic che, in buona sostanza, e forse fortunatamente, gli impedirà atti sconsiderati e nocivi, quali ad esempio il ventriloquio e l’empatia acritica. «Se ipotizziamo la trasparenza degli attori siamo indotti ad attribuirgli il nostro linguaggio e le nostre categorie», chiosa giustamente Ginzburg, portando così il discorso di Pike in ambito storiografico e facendolo dialogare fecondamente non solo con Bloch, ma anche con Augusto Campana e Paul Oskar Kristeller; l’autore individua nel suo utilizzo una pratica virtuosa ed efficace contro ogni etnocentrismo, sebbene, anche in questo caso, metta in guardia tutti quegli studiosi che volessero di questo modello fare un uso meccanico e unilaterale – così come non si dovrà mai dimenticare che categorie come Rinascimento e Barocco sono solamente etichette, allo stesso modo, ci suggerisce Ginzburg riprendendo proprio una riflessione di Campana, lo storico non potrà illudersi di calarsi in un flusso vivo e palpitante, in perfetto accordo con quegli attori che lo hanno vissuto.
Di questa tensione si può cogliere vivissima rappresentazione nell’ultimo romanzo di Georgi Gospodinov, Cronorifugio (pubblicato da Voland nella traduzione di Giuseppe Dell’Agata); vincitrice del Premio Strega Europeo 2021, l’opera dello scrittore bulgaro crea un mondo nel quale il bizzarro Gaustìn, convinto di vivere, come racconta al narratore, in una sfasatura temporale che lo colloca negli anni Trenta del XX secolo anziché primo ventennio del XXI, inaugura in tutta Europa cliniche che ripropongono ambienti esattamente plasmati dallo stile e dall’atmosfera dei decenni dello scorso secolo; il personaggio mette così in atto una cura per chi è malato di Alzheimer, nel tentativo di aiutare i pazienti a riappropriarsi della propria memoria, ma provoca anche una profonda scossa nella cultura europea, afflitta ormai da tempo da ciò che Simon Reynolds ha definito, con neologismo assai felice, Retromania: la certezza che l’ablazione dell’esperienza, causata dai processi innestati dalla modernità coincida anche con l’eclissi di qualsiasi futuro, espone l’uomo contemporaneo a una hauntology inquietante ma inevitabile, che come un’epidemia si diffonde in tutti i Paesi europei, dove verranno istituiti referendum per decidere in quale decennio del XX secolo il Paese dovrà ricominciare a vivere. È una forma parodica di distopia, questa, capace di additare con precisa ferocia un movimento già in atto nel nostro presente, un movimento innestato e costretto a confrontarsi con forze disumane.
Il romanzo mette in atto la fine della cultura classica europea attraverso il tramonto della concezione storica e lineare del tempo: il ritorno spettrale del passato, organizzato grazie a ricostruzioni fasulle, degne dei peggiori fondali teatrali, si mescola al presente contaminandolo e costringendolo a vita larvale, di automa obbligato e ripetere gesti già avvenuti, una vita un tempo vissuta e oggi riproposta nella sua semplice e morta meccanica. Non a caso, a seguito del referendum, la Bulgaria sceglie di vivere in un tempo che sia un accordo fra il suo passato più tradizionale e quello comunista, inaugurando così una dittatura del passato e non più del futuro che comprenderà la chiusura delle frontiere e la riapertura dei luoghi di tortura per i dissidenti. La mescolanza dei tempi porta naturalmente a una confusione profonda fra verità e apparenza, conducendo il narratore, nell’ultima parte dell’opera, a interrogarsi sul modo in cui la falsificazione messa in atto dai “demoni della polvere” fuoriusciti dal vaso di Pandora che Gaustìn ha scoperchiato sia riuscita a fare crollare la distinzione fra piani della realtà che sarebbero dovuti rimanere separati. In modo affine, China Miéville ne Gli ultimi giorni della nuova Parigi, attraverso la deflagrazione del Tempo, mostra il crollo del muro che divide la realtà tridimensionale, dall’uomo creduta essere il solo mondo esistente, da quella dove le creature surrealiste si aggirano; nelle sue pagine, gli scontri violenti fra le strade di Parigi dovranno fare i conti con le inquietanti apparizioni delle figure che il surrealismo lasciò emergere dal proprio inconscio.
Gospodinov scrive un libro importante, capace di interrogare il nostro presente attraverso un confronto col passato paradossale e proprio per questo stimolante, ove la tensione fra etic e emic sia davvero in grado di delineare un’immagine che possa costituire motivo di meditazione per il lettore. Non a caso, l’ultima parte raffigura uno sviluppo conturbante della vicenda, che sfocia in una serie di riflessioni che il narratore elabora nel solco di un mondo, quello che conosceva, ormai svanito. E la fine del mondo, coerentemente, coinciderà con la fine del tempo.
Georgi Gospodinov, Cronorifugio, traduzione di Giuseppe Dell’Agata, Voland, 2021, pp. 320
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