L'estate è una stagione bastarda al cinema, soprattutto in Italia. Nessuno crede alle uscite in sala quando tutti vanno sotto l'ombrellone e così le distribuzioni tirano fuori dai magazzini ciò che prima non sono riusciti a proporre e imporre. Prendete Synecdoche, New York. Un film del 2008, di quel geniale sceneggiatore che è Charlie Kaufman, Oscar nel 2005 e penna al servizio dei migliori Gondry, Clooney e Jonze (da Eternal Sunshine of Spotless Mind, tradotto in Italia con il brutto e brutale Se mi lasci ti cancello, a Essere John Malkovich), ora al suo esordio dietro la macchina da presa.

Solo la morte del suo protagonista, Philip Seymour Hoffman, e un buco di programmazione nelle sale hanno consentito forse la più tardiva delle anteprime. Pirandelliana parabola su un regista pressato nella realtà dalla morte e nella finzione da uno spettacolo ambizioso e megalomane, di fatto, su sé stesso, quest'opera è una sorta di matrioska, un insieme di scatole cinesi dentro alle quali spettatore e autore stesso scoprono l'essenza della narrazione, con acrobazie visive e linguistiche (come quelle del titolo) e in fondo, forse, ritrovandosi nella sfida più alta che possono porsi un cineasta e un attore straordinario.
Esagera, forse, il buon Kaufman, ma se lo può permettere. Ci inchioda alle sue ossessioni, ci appassiona alle acrobazie della fantasia e alle tortuosità della creatività e viene “completato” dalla grande prova, mai gigiona né sopra le righe, di uno come Hoffman. Due titani a cui possiamo appunto perdonare anche alcuni eccessi di un'opera di enorme spessore.
E un viaggio nelle diverse possibilità del racconto cinematografico, un'originale riflessione sul ruolo dell'interprete, in questo caso, e non del regista, è The Congress. Ari Folman, che ci aveva portato a Sabra e Chatila in Valzer con Bashir, ora ci mette a fianco a una bravissima, verissima e bellissima Robin Wright. Che, come Hoffman, abbatte la parete che separa chi fa e chi guarda, e ci sbatte dentro al suo Sistema. Produttori avidi e infami, attori fragili, registi talentuosi e deboli, agenti che sanno essere padri e patrigni. The Congress va ben oltre l'esagerazione, nella seconda parte totalmente in animazione perde la bussola sia nella scrittura che nell'apparato visivo, ma ha coraggio da vendere. Lo ha nel presentarci questi cinici boss del cinema che salgono su poltrone poggiate su multinazionali sempre più mastodontiche e grottesche, come nel dipingerne la voglia di appropriarsi dell'immagine dell'attore per svuotarlo e sfruttarlo, confessando che, in fondo, non fanno altro da sempre.
Lo è, soprattutto, nella scena tra agente e attrice, tra Harvey Keitel e Robin Wright, nel momento in cui la seconda vende la sua anima al diavolo. Ovvero dà il suo corpo, i suoi occhi, le sue espressioni alla major, permettendole di utilizzarla come preferisce. Lei non vuole, ma deve: ha un figlio malato. Lui le ha dedicato la vita. Lui fa un monologo, lei solo piani di ascolto. Una lezione di cinema in cinque minuti, che non vale un solo film, ma dieci.
E a dimostrare, ancora, che un regista, se ha talento, audacia e voglia di giocare con la Settima Arte, può far tutto. Scordatevi però l'ossessione della psicanalisi e della destrutturazione della società dello spettacolo dei primi due, i diversi piani di lettura dei due oggetti narrativi complessi e originali dei due cineasti precedenti. Jersey Boys è un film semplice, classico fino al parossismo, soavemente anni '50 e con un piano solo, quello dell'intrattenimento. Anzi due, perché è evidente che il regista prima di divertire noi, vuole divertire sé stesso. Il (pre)testo è il biopic di Frankie Valli e dei mitici Four Seasons, gruppo che ha cambiato la storia della musica, forse quasi senza accorgersene. Con quel falsetto, con quel provincialismo all New Jersey, con una storia troppo americana per essere un sogno. E per non esserlo.
Clint Eastwood, che note e spartiti li ama da matti (il figlio è un musicista, lui ha “composto” un film bello e sottovalutato come Bird), qui si scatena. Come se tutto il film fosse un insieme di virtuosismi e assoli, un concerto perfetto che rompe le regole con gioia. Sguardi e chiacchierate in camera, “fegatelli” lasciati attaccati alla scena, perché Christopher Walken merita d'essere spiato pure dopo il ciak, un finale alla Bollywood e una battuta su Ringo Starr che solo il cowboy poteva fare. Uno di quei film che fanno storcere il naso ai critici. Ma che al pubblico accarezzano l'anima, gli occhi, le orecchie. Imperfetti e meravigliosi. Esagerati, perché chi racchiude un mondo in due ore è sempre eccessivo.

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